Com’è facile intuire, il titolo di questa rubrica mutua il verbo “leggere” e il sostantivo “gerenza”, che indica l’assunzione di responsabilità da parte del direttore di un giornale: per dire che, trattandosi di libri (in questo caso di romanzi, dove l’opinione conta più del postulato), i giudizi espressi non saranno che miei, quindi del tutto discutibili. Il proposito è di leggerne alquanti (più esattamente si tratta di rileggere, riguardando sempre capolavori ben noti), scegliendoli – anche questo personalmente e dunque discrezionalmente – dalla mia libreria: dove non c’è stato mai verso di ordinarli secondo qualche criterio, districati in quella confusione che tuttavia procura il sottile piacere di ritrovare libri dimenticati. Per modo che sarà un po’ il caso a scegliere i libri tra quelli che ho amato, a formare così un mio canone. Ognuno ha il suo, s’intende, e nessuno è preferibile a un altro, ma dal momento che molti libri figurano in molti canoni, ne deriva che per somme linee condividiamo un’unica grande biblioteca. La nostra: di contemporanei, di occidentali e perché no di italiani.
Un romanzo che vale riaprire e dal quale vale certamente partire è I Malavoglia, magari dopo una visita ad Acitrezza e una capatina a Casa Verga, a Catania. Se ne avrebbe motivo per chiedersi lì perché Acitrezza e qui quali libri lo scrittore leggesse. Una duplice domanda intrecciata che sbriga la questione se I Malavoglia fu davvero il frutto di una geniale ispirazione che improvvisamente colse Verga. Non lo fu. Già Carmelo Musumarra, italianista catanese e autorevole verghiano, scriveva che «Verga non dev’essere considerato come un fenomeno, ma soltanto come il risultato di un lungo processo evolutivo». Il fenomeno riguarda ovviamente I Malavoglia. Che Natalino Sapegno definisce «la scoperta più intelligente e feconda della nuova letteratura italiana» mentre Pietro Citati parla di «scoperta intellettuale» e del paradosso che coglie Verga: «Non aveva mai conosciuto l’intelligenza e fu salvato dall’intelligenza». Un’intelligenza ben poco feconda, in verità, perché il capodopera verghiano rimase un episodio mentre il verismo infiammò le lettere il tempo che sulla scena nazionale, voltando lo sguardo dalla società ai salotti e su sé stessi, apparissero i modelli decadentistici di Pirandello, Svevo e D’Annunzio.
Ma certamente fu una scoperta sensazionale quella di Verga, l’intelligenza del quale riguardò il diverso modo in cui la questione sociale così di gran momento poteva essere affrontata, meglio ancora “studiata”. Semmai è da chiedersi perché giunse quando l’autore aveva già quarant’anni – dopo ben otto romanzi mondani e decine di novelle fra cui la raccolta di Vita dei campi – e cosa l’abbia favorita. Una risposta si trova proprio sugli scaffali di Casa Verga, nei libri che il giovane idealista unitario si passa fra le mani quando affida la propria educazione letteraria a scrittori della sua Catania, che in parte frequenta, come Antonino Abate, nella cui casa vive in pensionato, Domenico Castorina, Salvatore Brancaleone, Benedetto Guglielmini, quest’ultimi due forse i più vicini alla futura sensibilità verista. È da loro, ma anche dal profluvio di periodici catanesi, primo fra tutti il “Giornale gioenio”, che Verga matura la scelta a favore del gusto romantico e quindi delle lingue vive contro la retorica carducciana e le resistenze classiciste molto attive anche a Catania, nonché un’attenzione nuova, suggerita in tutta Italia dal positivismo e dalle spinte socialiste, verso le classi sociali svantaggiate alla ricerca di un modo per denunciarne le condizioni.
In Sicilia questo interesse non viene, almeno questo, dal continente, ma nasce per primo in Italia nel clima tutto siciliano della ricerca demopsicologica, lo studio del comportamento umano nei rapporti sociali di gomito, attraverso l’impegno di eruditi come Pitrè, Guastella, Salomone-Marino, Avolio, decisi tutti a ubbidire all’invocazione di Di Giovanni “Antiquam exquirite matrem” e seguire un’istanza che si precisa nelle forme di un originale regionalismo inteso a studiare la parola per capire la società e dunque indagare il vero. I demopsicologi cercarono le tradizioni popolari, l’antica madre, ne raccolsero in tutta l’isola proverbi, mottetti, ballate, leggende e nello stesso tempo si accorgevano di quali fossero le condizioni di vita di quel popolo che interrogavano e sul quale sciorinavano le loro redingotes – per usare un’espressione del Verga di Tigre reale. Il romanticismo unito al positivismo si completò in Sicilia nello scientismo intendendo rappresentare il vero sociale visto come fisico e materiale, cioè naturaliter. Sennonché tutta l’Italia letteraria fu invero percorsa da un fremito che la spinse a scoprire l’esistenza del popolo plebeo, quello stesso il cui “ventre” era Oltralpe già da tempo oggetto di notomizzazione da parte del naturalismo: con la differenza che nei bassifondi gli scrittori realisti andavano a viverci, mentre in Italia come pure in Sicilia scendevano per osservarli e farne materia di studio. Verga non fece cosa diversa.
Mentre egli scriveva romanzi intimi come Eva, Eros o manzoniani come Storia di una capinera, c’era già stato chi aveva da decenni avviato il verismo e scelto la prosa umile contro quella togata. Niccolò Tommaseo per esempio aveva descritto “gli infelici”, com’erano chiamati gli indigenti, in Fede e bellezza e si era pure occupato di pescatori in Cantici del mare, inaugurando nel romanzo italiano il tema del naufragio e del destino cui è sottomesso chi vive di stenti. Dirà di lui Luigi Capuana: «Quando si scriverà la storia del nostro romanzo contemporaneo si dovrà riconoscere che il primo verista in Italia è stato lui». Verga legge Tommaseo ma è di aristocratici che scrive, per giunta settentrionali, inseriti in grandi città come Firenze, Torino, Milano. Nondimeno è a Catania che fa capo o che ritorna. E a Catania c’è la rinomata Accademia di Scienze naturali, c’è l’Etna, c’è già dal Settecento una radicata vocazione agli studi scientifici grazie alle esplorazioni del vulcano e dei suoi minerali, c’è un grande fermento per la ricerca archeologica e la raccolta di fossili. Il giovane Verga, cugino dell’intemperante Antonino Abate, ne legge i romanzi storici e quelli che gli vengono da lui suggeriti del vate etneo del momento, il Castorina autore di I tre alla difesa di Torino, talché è a questa cifra che si attiene nella sua prima formazione. Scrive in un linguaggio ricercato e senza volerlo classicheggiante, lascia la narrazione a un io narrante nel quale alle volte è lui stesso da vedersi, ignora con noncuranza il popolo. E ritiene, secondo l’influsso invalente, che solo un’alternativa ci sia al canone del romanzo storico ed è quella del romanzo intimo. Nemmeno considera l’esistenza del romanzo sociale.
Poi nel ’66, otto anni prima di Nedda, arriva il fatto nuovo, costituito da Una peccatrice, romanzo anch’egli borghese, ma che pure segna un primo passo, sebbene inconscio, verso la “scoperta intelligente” di cui parla Sapegno in riferimento a I Malavoglia. La novità consiste in ciò, che il romanzo adotta la forma della narrazione non più testimoniale ma in terza persona, è in gran parte ambientato finalmente a Catania e vi appare per la prima volta Acicastello, stesso Comune di Acitrezza, dove la contessa di Prato si suicida in una villa. Giacomo Debenedetti è riuscito a dimostrare, con un acume che lascia sbalorditi, quanto autobiografico fosse il romanzo laddove il Pietro Brusio che, stanco della contessa, le chiede di farsi nuovamente desiderare e la lascia per poterla corteggiare di nuovo e quindi riamare non è che lo scrittore stesso che, stanco delle città e dei salotti, vagheggia un allontanamento da quel mondo per poi farsi nuovamente attrarre: allontanamento che significa vivere a Catania, quella Catania che trova tutta presa in questioni locali che prima neglettava e che ora gli sembrano un nuovo orizzonte: la polemica sul luogo dove costruire il porto tra la città e Capo dei Molini, la mitica ricerca del Porto d’Ulisse, immaginato a Ognina, la conoscenza soprattutto che fa del borgo di Trezza per via del forte interesse che la comunità scientifica rivolge al luogo marinaro.
Un fatto questo davvero sorprendente: gli scienziati e i letterati (uniti nell’originale sistema tutto catanese che amalgama anche nei suoi giornali e nei circoli scienza, filosofia, storia e letteratura), esplorando l’Etna, studiandone i minerali, si accorgono che i curiosi e mitici Faraglioni di Trezza sono fatti di basalto e si concentrano perciò su di essi, finché guardando e riguardando i Faraglioni, la flora e la fauna marina, non vedono i pescatori e i loro abituri, ma anche le loro usanze, i metodi di pesca, i costumi, passando così a studiare, con metodi altrettanto scientifici, pure loro e le famiglie, per scoprire infine che non esiste alcun paesino nelle stesse condizioni estreme di miseria e avvertire forte un impulso al soccorso mercé un atto di denuncia in un momento in cui la “deprecatio temporum” per la nuova Italia, riuscita poca cosa, impone che l’immutata condizione del Sud sia additata nei termini di una “questione”.
Acitrezza riempie così i giornali catanesi, Lionardo Vigo, che è di Acireale, riprende da Alfio Grassi, anch’egli acese, La storia delle quattro sultane di Acitrezza, ambientata nel borgo simbolo della povertà, “cuntu” di quattro fanciulle che trovano il riscatto solo al prezzo di un rapimento. Il principale centro di interesse del Catanese attrae anche Verga, che un anno prima dell’uscita de I Malavoglia, scrive Fantasticheria, una specie di cartone preparatorio del romanzo che, ambientato a Trezza e sinopia dei personaggi in fieri segna la presa di coscienza veristica e annuncia la scoperta intelligente, ovvero il risultato sul piano letterario di un teorema che coniuga tutte le temperie: lo scientismo come metodo di osservazione di un dato fisico, il positivismo come ricerca del malessere sociale nel determinismo storico, il romanticismo come adozione della lingua d’uso e attenzione alla vita degli umili. L’idea – ed ecco l’intelligenza – è di denunciare lo scandalo di Acitrezza attraverso il racconto esemplare dei suoi abitanti, regredendo con un artificio linguistico al loro stadio culturale e assumendo un metodo di osservazione di tipo impersonale, come per stendere un rapporto etnografico.
Verga racconta le pene dei Malavoglia per fare conoscere Acitrezza e non sceglie Acitrezza come luogo dove fare agire (“agitare” scrive in Una peccatrice) i Malavoglia e gli altri compaesani, tutti succubi di un destino che ne decreta la sventura collettiva. Non inventa una storia di mare per rendere più laceranti le tribolazioni dentro la casa del nespolo ma perché i pescatori di Trezza versano come i Malavoglia nelle condizioni più drammatiche. Vuole il romanzo reale, anzi vero, ma il romanzo fa fiasco, come scrive a Capuana, perché dà alla questione sociale e in particolare a quella meridionale il senso di una parabola nel momento in cui l’Inchiesta Sonnino-Franchetti e la concomitante indagine parlamentare sulle condizioni della Sicilia hanno appena rivelato al mondo, con i mezzi non della letteratura ma del documento storico, la cruda verità di una situazione che non riguarda solo un borgo ma tutta l’isola. Alla fine Verga racconta una storia saputa e una situazione molto più grave e diffusa, sennonché il tempo consacrerà il romanzo al di sopra di ogni trattato scientifico e di ogni relazione ministeriale assurgendo ad assoluto capo d’accusa, a manifesto contro l’ingiustizia sociale. Alla sua uscita non viene capito perché il senso di rassegnazione e di irredimibilità che lo pervade viene inteso come una condanna inestinguibile quando la Sicilia ha invece bisogno di sollevarsi, di ribellarsi, quantomeno di nutrire una speranza, che le inchieste nazionali pongono piuttosto come irrinunciabile e prefigurano come possibile.
Con I Malavoglia Verga realizza il progetto adombrato in Una peccatrice: lascia il romanzo intimo per quello sociale e poi torna, con ritrovato vigore, a quello mondano con Il marito di Elena al quale segue Mastro don Gesualdo che segna il definitivo abbandono del primo filone. Questo andirivieni dimostra che Verga, deluso da I Malavoglia, non ha chiaro il programma enunciato nella prefazione al suo capolavoro circa il ciclo dei vinti, anche perché il terzo romanzo, La duchessa di Leyra, sul quale tenta per anni di concentrarsi senza riuscire a portarlo avanti, così come gli altri due, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, non sarebbe che legato al Verga intimo anziché al verista. Non è dunque accoglibile la teoria secondo cui interrompe il ciclo perché non sa raccontare le classi elevate, giacché ha fatto più questo che occuparsi dei “vinti”. È vero invece che non possono essere considerati dei vinti quanti vivono nell’agio e vivono traversie e rovesci tutt’altro che assimilabili alle sventure proprie delle genti miserabili.
In verità Verga, dopo Mastro don Gesualdo, smette di scrivere e si dà alla novellistica, alla fotografia e al cinema, perché rimane in una impasse, intrappolato tra le sue due tensioni, quella che lo porta al Nord e quella che lo tiene come un’ostrica alla Sicilia. Tale ambivalenza, che involge una contrapposizione certamente divisiva, si ritrova proprio ne I Malavoglia, dove da un lato padron ‘Ntoni tiene il capo della corda che tira verso il paese e da un altro ‘Ntoni tiene l’altra cima che porta lontano da esso: salvo alla fine tornarci e capire che era quello il suo posto dal quale non doveva pretendere di andare via. Forse è quanto capisce anche Verga di sé quando aggiunge al testo già concluso una nuova breve parte solo per approfondire lo stato d’animo di ‘Ntoni, preda del rimpianto per quanto sta per lasciare, seduto su un muretto a guardare la sua Trezza, a ricordare e soprattutto aspettare che faccia giorno e che la vita riprenda pur senza di lui. Abbiamo un indizio decisivo di ciò. Verga scrive, anzi ripete nella conclusione aggiunta, un’espressione incomprensibile quando fa dire a ‘Ntoni che deve andare via perché ormai sa ogni cosa. Cosa sa ‘Ntoni da essere ineluttabilmente costretto a partire? O piuttosto, cosa sa Verga? Sa forse che deve rimanere a Catania e rinunciare alla tentazione di tornare al Nord per cedere di nuovo, come farà con Il marito di Elena, alla “contessa di Prato” e cioè alla sua vecchia maniera. Resisterà al richiamo, ma intanto fa partire ‘Ntoni (che probabilmente emigra in America), così disgiungendosi e riducendo i suoi “vinti” al silenzio. Vinto anche lui per primo.
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