“IL CANTORE FOLLE. Hölderlin e le Poesie della torre“ (Moretti & Vitali)
Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo nuovo saggio di Francesco Roat intitolato “Il cantore folle. Hölderlin e le Poesie della torre” (Moretti & Vitali). Il libro è incentrato sulla figura del poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843), sulla sua poesia e… sulla sua “follia”.
Ho avuto modo di discuterne con l’autore…
-Caro Francesco, come nasce il tuo interesse per le poesie di Friedrich Hölderlin? E come si è evoluto questo tuo interesse al punto da spingerti a dedicargli un saggio?
Hölderlin (1770-1843) a tutt’oggi è considerato unanimemente non solo uno tra i più grandi lirici/scrittori germanici, ma pure uno dei massimi poeti moderni occidentali. Ed io, che sono nato in una regione di confine tra il mondo italiano e quello tedesco (il Trentino-Alto Adige), ho sempre avuto un forte interesse per la letteratura e, in genere, per la cultura tedesca. Negli ultimi anni, non a caso, ho scritto saggi intorno a Goethe, su Rilke e Robert Walser. Era quindi fatale approvassi ad Hölderlin, la cui opera poetica è da senz’altro ritenersi anticipatrice di istanze, inquietudini e forme stilistiche innovative; per certi versi – oso affermare provocatoriamente − quasi novecentesche.
-Approfitterei di questa intervista per contribuire a far conoscere la figura di Hölderlin. Parliamo di lui: che tipo d’uomo è stato?
Direi innanzitutto un personaggio notevole sin dalla più giovane età. Sensibilissimo, appassionato di musica (fu un discreto pianista) e dell’arte in generale, si interessa dapprima dei poeti greci e latini, poi di quelli a lui contemporanei e inizia quindi a comporre egli stesso, andando contro i desiderata della madre che lo vorrebbe pastore protestante. Nello Stift di Tubinga ‒ celebre collegio di studi teologico-filosofici ‒ incontra Schelling ed Hegel, il quale diverrà suo amico fraterno. Ma le loro vie ben presto si divideranno: vocato alla filosofia quest’ultimo, alla poesia Hölderlin, che in seguito avrà la ventura di conoscere Schiller, von Humboldt, Novalis e persino di incontrarsi col vecchio Goethe. Il Nostro scriverà numerose opere: il romanzo Iperione e testi poetici eccelsi, come gli Inni, le Odi e le Elegie; tuttavia egli non verrà comunque mai apprezzato/riconosciuto appieno durante la sua vita. Solo nel secolo successivo infatti la produzione hölderliniana riceve finalmente la considerazione che merita. Ma veniamo al fatidico 1807, quando il poeta cade preda della pazzia, finendo relegato sino alla morte, per i successivi 36 anni, nella cosiddetta torre di Tubinga, dove egli scriverà i suoi ultimi testi, intitolati giusto: Poesie della torre.
-Approfondiamo un po’ di più l’aspetto relativo al disagio psichico di questo poeta. Del resto il titolo del saggio è molto indicativo: “Il cantore folle”. Da dove trae origine la sua “follia”?
Da una grave forma di psicosi, appunto, ovvero la schizofrenia, forse provocata o favorita dalla morte prematura e improvvisa della sua amatissima Diotima (così lui chiamava Susette Gontard), dopo la cui scomparsa Hölderlin precipita in breve tempo in una pazzia devastante, da cui non guarirà più. Rinchiuso nella “torre” a causa della sua ingestibilità, il poeta viene abbandonato da amici e conoscenti, che gli fanno visita via via sempre più di rado: “vuoi perché la loro pietà era talmente grande da lasciarli scossi fino alle radici alla vista di un crollo spirituale così compassionevole” – come scrive Wilhelm Waiblinger nella sua biografia sul poeta −, “vuoi perché se ne stancavano velocemente, ritenendo che non si potessero scambiare con lui nemmeno due parole di senso compiuto”. Eppure, e questo è un autentico miracolo, durante i lunghi e solitari decenni della sua reclusione Hölderlin continua a scrivere, componendo/distillando una cinquantina di poesie, che vari critici ritengono rappresentino l’apice creativo della sua pur vasta produzione. Va precisato, comunque, che probabilmente egli produsse altri testi poetici, finiti chissà dove o trafugati dopo il suo decesso.
-Che tipo di influenza ha avuto la schizofrenia nell’arte poetica di Hölderlin?
La ha profondamente mutata, questo è fuori dubbio. Se prendiamo gli inni tardi e le liriche scritte prima del ricovero nella clinica psichiatrica (1807) e li confrontiamo con le Poesie della torre, vi troveremo una differenza abissale: riguardo a temi, stile, linguaggio, ampiezza dei testi persino: molto più brevi sono in genere queste ultime ed assai più semplici. Ciò non vuol dire però poeticamente meno intense. Anzi, come ho accennato prima, l’ultima peculiarissima produzione creativa del Nostro ‒ così icastica, lineare, quasi naif direi, con un ritorno all’uso della rima ‒ è forse la più felice. Anche se la sintassi delle Turmgedichte si fa talvolta eccentrica e in alcuni casi la strofa è a rischio d’incoerenza grammaticale; così come l’ostinatezza reiterata di certe immagini può far pensare a una coazione ossessiva a ripetere. Ciò che in ogni caso colpisce in tali poesie d’estremo nitore è una grande levità, il respiro musicale e placido di una versificazione sobria ed essenziale ma ricca di echi, rimandi, suggestioni.
-È possibile scindere l’arte poetica dal sopravvenuto disagio psichico del suo autore (a cui abbiamo già fatto riferimento) o le due componenti finiscono con l’essere inevitabilmente (e ineluttabilmente) legate?
Questione difficile, a cui è difficile rispondere in poche parole, ma cercherò di farlo sottolineando come la tarda produzione poetica hölderliniana resta comunque contrassegnate dal marchio deturpante della psicosi, se non altro per quanto concerne la firma e la datazione. Molte di esse infatti sono firmate Scardanelli, che non è un vero e proprio pseudonimo, poiché, a mio avviso, esso indica l’abbandono dell’identità, l’abdicazione dell’io, il venir meno del soggetto raziocinante Hölderlin. Per non parlare delle date incongrue con cui sono siglate le poesie, una delle quali reca la data più assurda e inquietante: il 1943. Eppure, ad onta della schizofrenia e della reclusione alienante, il poeta continua ad essere tale, pervenendo infine ad una sorta di accettazione mistica della propria sofferenza e, spogliatosi di ogni egoità, raggiunge una purezza espressiva commovente/coinvolgente.
-Cosa puoi dirci in merito ai giudizi contrastanti sui testi di Hölderlin prodotti, appunto, nel periodo creativo segnato dalle problematiche psichiche?
Sulla tarda produzione hölderliniana e sulla sua pregnanza poetica permangono ancora dei giudizi contrastanti, anche se sempre più si sta affermando la consapevolezza del valore delle Poesie della torre. E, modestamente, con questo saggio io cerco di addurre argomenti a favore di quest’utima tesi. In estrema sintesi Hölderlin, a mio avviso, resta grande sino all’ultimo.
-Che tipo di riscontro hanno avuto le poesie di Hölderlin nel nostro Paese? Mi riferisco soprattutto al ruolo svolto da Ungaretti, Luzi, Montale, Zanzotto (ma anche da Guardini e Reitani)…
Qui tocchiamo un tasto dolente. La poesia, in Italia, non ha mai goduto dell’attenzione che meriterebbe presso i lettori. Oggi, purtroppo, meno che mai. Parliamoci con franchezza: la maggior parte della gente non sa nemmeno chi sia Hölderlin. Certo gli intellettuali, gli uomini di cultura che tu citi hanno invece fatto molto per far conoscere nel Belpaese il poeta tedesco. Soprattutto gli ultimi due. Romano Guardini ha scritto un testo critico fondamentale sulla sua opera (parlo di Hölderlin. Immagine del mondo e religiosità, edito dalla Casa Ed. Morcelliana) e Luigi Reitani ne ha tradotto tutte le poesie e sta inoltre allestendo un volume dei Meridiani Mondadori che raccoglierà tutti gli altri scritti del Nostro. Tuttavia, ripeto, resta che la poesia da noi si legge troppo poco.
-A proposito di poesia (che va letta!)… come epigrafe del libro hai scelto questi versi tratti dalla poesia “Brod und Wein” (Pane e vino) di Friedrich Hölderlin. Li ricopio di seguito…
Un fuoco divino pur ci sospinge, di giorno e di notte, / a metterci in marcia. Su, vieni! Guardiamo nell’Aperto, / cerchiamo qualcosa di nostro, per quanto sia ancora / lontano.
Perché hai scelto proprio questi versi come “anticamera testuale” del tuo saggio?
Perché possono davvero riassumere la poetica di Hölderlin. Il concepire ogni cosa, ogni singolo essere come parte del divino o del sacro che dir si voglia ‒ vedasi la famosa definizione, di provenienza eraclitea, ἓν ϰαὶ πᾶν (Uno e Tutto) ‒, qui visto quale fuoco, corrente energetica che urge in noi, stimolandoci ad agire e creare. È al contempo l’invito a guardare all’Aperto (das Offene): all’oltre, all’altrove e all’altro rispetto alla notra piccola monade egocentrica ed egocentrata. Un’apertura che corrisponde alla nostra autenticità di eterni viandanti senza stelle fisse all’orizzonte.
-In definitiva qual è, a tuo avviso, la principale eredità culturale (e poetica) che ci lascia Friedrich Hölderlin?
Invece di rischiare parole retoriche o di circostanza, preferirei lasciare che parli il poeta stesso, citando in conclusione di questa nostra chiacchierata giusto l’ultima poesia della torre, scritta forse il giorno prima di morire. Meditando su di essa, che accenna alla morte non come annichilimento definitivo ma come metamorfosi, i lettori si misureranno con la sua estrema, lucida e felice testimonianza. Si tratta della lirica dal titolo La veduta, che io ho cercato di tradurre, consapevole di come ogni tentativo di questo genere sia sempre operazione limitata e infedele, essendo sin troppo vero che tradurre equivale pur sempre a tradire.
Quando va lontano la vita che dimora negli umani,
dove lontano splende il tempo della vite,
v’è pure accanto il campo spoglio dell’estate,
e il bosco appare con la sua immagine scura.
Che la natura completi l’immagine delle stagioni,
che lei rimanga, esse trascorron via veloci,
è per sua perfezione; allor l’alto del cielo
all’uom riluce, come la fioritura gli alberi incorona.
-Grazie, caro Francesco. Invitiamo gli amici lettori a leggere le poesie di Friedrich Hölderlin e ad approfondire la conoscenza di questo poeta e delle sue opere attraverso la lettura di questo tuo saggio.
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Francesco Roat ha pubblicato i testi narrativi: Tra-guardo (Argo-1999), Una donna sbagliata (Avagliano-2002), Amor ch’a nullo amato (Manni-2005), Tre storie belle (Travenbooks-2007), I giocattoli di Auschwitz (Lindau-2013), Hitler mon amour (Avagliano-2014); e i saggi: L’ape di luglio che scotta. Anna Maria Farabbi poeta (LietoColle-2005), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha beta- 2009), La pienezza del vuoto. Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi-2012), Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali-2015).
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