Un manzoniano in odor di Scapigliatura, Emilio De Marchi (Milano, 1851 – 1901), ma ben ancorato ai dettami del romanticismo milanese, tanto da far scrivere a Cesare Cantù (uno della vecchia guardia romantica lombarda) una favorevole critica de ”Il cappello del prete” (1888), romanzo sul quale ci concentreremo in questo articolo. Eccellente il fondo. Interessante l’intreccio. Schietta la forma. Scacco ai romanzatori vecchi, così si espresse, telegraficamente e netto, appunto Cantù – l’autore di ”Margherita Pusterla”, il romanzo storico che gli diede il successo.
Poi di De Marchi parleranno in molti, Benedetto Croce in primis (egli ne ”La Letteratura della Nuova Italia” lo posiziona fra i manzoniani un po’, diremmo, scapigliati) ma anche critici come Titta Rosa, Luciano Nicastro (quest’ultimo allievo di Valgimigli e Guglielmino), più di recente Toni Iermano e Antonio Palermo, e in generale ogni buona Storia della Letteratura Italiana.
E se per Titta Rosa, De Marchi fu ”il Gogol’ della bassa”, forse un riuscito bilancio complessivo ci proviene da Luciano Nicastro. Vale la pena riportarlo per esteso:
Quando si è conosciuto il sentimento delle pagine più impegnate, rimane tuttavia nella mente, prima di ogni altra nota, la visione desolata e lo sconforto che la poesia del De Marchi esprime in prosa o in versi, consolata ora dal senso della natura ora da un concetto panteistico e romantico, confidente nell’opera redentrice della bontà operosa e nel sacrificio umano con cui l’anima sembra unirsi allo spirito divino. Emilio De Marchi ha pure qualche accento mistico e, nelle sue rappresentazioni angosciate e dolenti, l’esigenza spirituale di una concezione religiosa, che però si afferma in modo diverso da quello voluttuoso del Fogazzaro. (Dalla Presentazione ne ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Mursia, Milano 1967, p. XXI).
Ma cos’è ”Il cappello del prete”, romanzo d’esperimento e non sperimentale (parole dell’autore e soprattutto direi del suo desiderio di distanziarsi dal contemporaneo Émile Zola), uscito a puntate come racconto d’appendice nel Corriere di Napoli durante il 1888 (lo stesso anno di ”Mastro don Gesualdo” del Verga, oltretutto buon amico di De Marchi) e poi pubblicato in volume dall’editore Treves, oltre che all’epoca vendutissimo e ampiamente pubblicizzato come reazione italiana al romanzo naturalista francese?
Io direi che ”Il cappello del prete” sia un esemplare romanzo-sintesi della sensibilità letteraria generale agitante la fine dell’Ottocento italiano ed europeo, nel quale l’escavazione psicologica di Dostoevskij si unisce al naturalismo di Zola e al verismo verghiano, mentre si vedono emergere fra le righe le premesse di un Pirandello e uno Svevo. Il tutto a sprazzi, a tratti, a pennellate: un collage d’epoca non sottovalutabile, in quanto sintesi e premonizione.
L’opera, inoltre, non disprezza una coloritura ”gialla”, poiché dopotutto tratta e narra di un omicidio, quello del prete Cirillo, e dell’omicida, il barone Carlo Coriolano di Santafusca. Il tutto nel contesto di Napoli e dintorni.
Ma ora vediamone i protagonisti e rintracciamo lo svolgimento della trama, sempre grazie alla penna dell’autore stesso (ogni estratto dall’edizione Mursia, ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Milano 1967).
Dunque, prendiamo subito un ritrattino del barone Santafusca:
Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscì «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno. (…) Oggi l’uomo aveva quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria profonda. (…) Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac. (p. 5 e segg.)
Ed ecco il prete Cirillo:
Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco con l’usura, prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete» avesse i numeri e, coll’aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere. (p. 7 e segg.)
Ma veramente sconvolgente è il preludio dell’assassinio:
Come sul momento d’accostarsi a un intimo colloquio d’amore freme il sangue e par che gorgogli a fiotti nel corpo, e la vita si mesce già con un’altra vita, così man mano che la vittima si accostava al suo letto, il barone sentiva crescere la ferina voluttà. (p. 32)
Dopo il fattaccio, una prima reazione del barone:
Poi, sentendosi mancare le forze, usci (…) e venne in un prato pieno d’erbe folte e di sole, dove stavano pascolando le capre di Salvatore. Qui si fermò coi piedi sprofondati nella terra molle e cominciò a guardare stupidamente il muso delle capre, che guardavano lui stupidamente, ruminando. (p. 33)
Seguono lunghe serie di meditazioni rifiutate o sotterrate nell’anima come la seguente:
Era una brutta vita… Perché non s’ammazzava? (…) Se un uomo val l’altro, perché non aveva fin da principio accoppato sé in luogo del prete? (…) – Oh! i grandi imbecilli che siamo – mormorò a mezza voce, e si mosse per uscire. (p. 132)
Finché… davanti al giudice, in un confronto tremendo al palazzo di giustizia napoletano, inizia la conclusione del dramma vero e proprio, sia intimo che estetico, letterario, iniziato sin dal primo post-delitto con un incessante dialogo interiore filosofico a cui il barone non sa sfuggire:
La mente non connetteva più, si spezzavano le formule logiche, e la pazzia, la furia vendicatrice della superba ragione, scendeva a rompere la testa del barone di Santafusca, come egli aveva spezzata, con una sbarra di ferro, la piccola testa di prete Cirillo. Ciò che seguì da questo momento non fu più interrogatorio nelle forme, ma la lotta estrema di una ragione contro un rimorso. (p. 155)
Le ultime pagine sono terrificanti, per la resa realistica della scena (vi sono il giudice, i poliziotti, l’interrogato, tutti in un grigio ufficio del palazzaccio) e soprattutto per la descrizione della forza esplosiva che la verità della coscienza emette nel suo prorompere fuor dal dominio razional-istintivo del barone assassino, il quale infine non può più disgiungere da sé la figura del ”cacciatore”, personaggio prima fittizio da cui lui stesso si era veramente travestito per parlare con un presunto possessore del famoso ”cappello” (oggetto che infine cosituisce la sua condanna), al fine di riprendere il cappello in mano per farlo sparire. Il ”cacciatore” insomma fuoriesce dalla cinica finzione teatral-difensiva del barone per divenire platealmente l’anima nera di Santafusca (e qui, certamente, c’è in De Marchi il tocco vistoso di Gogol’):
Gli veniva meno la forza di tener separato nettamente il cacciatore da sé, di non attribuire all’uno pensieri ed atti che appartenevano, pur troppo! soltanto all’altro. Non sapeva più discernere il fatto da’ suoi particolari, e, per la foga di conciliare il prete col suo cappello e di voler credere troppo nel cacciatore, non si accorgeva che poco a poco andava esponendo e accusando se stesso. La sua testa era una fornace. I mille fantasmi cacciati, respinti, costretti, flagellati dalla sua scienza e dalla sua logica, uscivano sbucando ora tutt’insieme dai tenebrosi spechi della coscienza (…). (p. 155)
Ed avviene il crollo di un’anima da sempre scissa (allegoria, credo, della modernità) che, direi, si spacca tragicamente in due, come la sottile scienza delle dottrine positivistiche: il barone Santafusca vuole distruggere la religione annientando il cappello del prete, ossia confonde il simbolo con la fede vera e profonda del cristianesimo. Appunto in lui, fino alla crisi finale, convivono un frate, un libertino, un nichilista e… un accattone senza dignità, schiavo dei propri vizi. La vita di noi moderni, in fondo, in un solo personaggio, che dal 1888 ci raggiunge a mo’ di… ritratto collettivo. E qui, per adesso, mi fermerei.
Sergio Sozi
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Sergio Sozi collabora con il quotidiano L’Unità ed il settimanale Avvenimenti, con il mensile triestino Trieste Arte e Cultura, il mensile lubianese Nova revija, il quotidiano sloveno Dnevnik, la Radio Tre slovena e la casa editrice Studentska Zalozba – per la quale ha curato nel 2005 il volume antologico di racconti italiani (1989-2003) ”Carta e carne” (”Papir in meso”, SZ-Beletrina, Ljubljana 2005). Suoi pezzi culturali sono presenti su diversi siti letterari. Da ricordare la pubblicazione di colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.Ha pubblicato “Il maniaco e altri racconti” (Valter Casini Editore, 2007)
Molto bene! Ri-torniamo ai grandi classici e alla grande letteratura attraverso questo articolo che Sergio Sozi ha predisposto appositamente per noi. Come avete avuto modo di leggere il soggetto è Emilio De Marchi, grande autore della letteratura italiana dell’Ottocento.
Vi invito a leggere l’articolo e a lasciare un commento. Sarebbe bello aprire un dibattito su De Marchi e dimostrare, a molti, che in Internet è possibile avviare discussioni interessanti e partecipate anche se non si parla di Dan Brown.
Intanto mi basta sapere questo: chi di voi conosce De Marchi? (
siate sinceri!). 😉
Salve! Meritoria al “massimo” l’iniziativa di tornare ai tanto bistrattati classici…
Io non ho purtroppo ancora letto questo libro, ma avevo iniziato “Demetrio Pianelli”, che consiglio di leggere. Io stessa sono rimasta sorpresa dalla prosa dolente e tanto moderna di De Marchi, un autore che mi è sembrato messo ingiustamente da parte. Quanto realismo, quanta verità senza sentimentalismi, che scrittura sobria!
Grazie del suggerimento, vedrò di leggere anche “Il cappello del prete”…
Oltre “Demetrio Pianelli” non conoscevo. Fui fortunato, alcuni secoli fa, ad avere un professore di Lettere che si spinse fino ad autori meno “altisonanti”, proponendoci per l’appunto De Marchi.
Forse il suo non è “verismo” ma semmai “realismo”. E’ efficace, diretto e descrittivo.
Qua e là (non so se per autocompiacimento) affiora qualche ridondanza. Ma complessivamente De Marchi sa di strada, di carrozze, di uffici e cortili. Tutte cose che vediamo, tocchiamo e che ci girano intorno “realmente”.
A volte crudo e intimista come Tolstoj, a tratti lirico come Alfieri.
Per aver letto solo “Demetrio Pianelli” ho detto anche troppo. Ora aspetto altri commenti e imparo.
Saluto e ringrazio sia Maria Lucia che Enrico.
Interessanti anche i vostri commenti su “Demetrio Pianelli”, anche questo è un libro da riprendere in mano. In fondo è considerato come il capolavoro di De Marchi.
Un saluto speciale a Sergio, il quale mi aveva parlato di una “certa situazione”.
Piccola ”correctio”:
il romanzo venne pubblicato come appendice sul ”Corriere di Napoli” nel 1887 e non nell’88, quando apparve l’edizione in volume edita dai Treves.
Mi scuso con i lettori per l’inesattezza.
Al sig. Gregori:
Certo, certo: De Marchi sta, a modo proprio, all’incrocio fra Verga e Zola. Un ”real-verista”, dunque? In buona parte lo credo, ma con aggiuntivamente delle anticipazioni di quel che saranno poi Pirandello e Svevo. E con una carica di autentica fede cattolica che lo diversifica da questi e da quelli. Uno scrittore originale, direi, anche se magari solo per l’aver funto, senza volere, da ”ritratto di gruppo” per uno stuolo di tendenze e personalita’ appartenenti all’Italia risorgimentale.
Alla sig.ra Riccioli:
Gia’: ”sobrio, dolente e moderno”, ha definito Lei De Marchi. Concordo appieno, seppur ricordando che nell’Ottocento i nostri ”ego” avevano molte fortificazioni in piu’. Quel secolo e’ stato l’inizio della fine, credo personalmente… un secolo fa l’ ”io-legislatore” non era ancora un ”io-interprete”, direi ripetendo le parole di Marco Gatto, valente critico calabrese. E oggi, che ”io” avremmo ancora in mano? Magari solo un ”non-io”. Ebbene: De Marchi fu uno fra coloro che videro il principio del passaggio fra la sicurezza individuale della Storia precedente e la polverizzazione dell’individualita’ che notiamo nel 2007.
Grazie a tutti (in primis al nostro caro Massimo) e continuate ad esprimervi, se volete: io sto qui a disposizione!
Sergio Sozi
Ahi, ahi, ahi Sergio. 1887 anziché 1888 ?
Non so se i lettori di Letteratitudine te la perdoneranno, questa.
Però è onesto, il Sozi. Poteva chiedermi di correggere l’articolo. E invece…
Due domande veloci veloci. Per tutti.
1. “Il cappello del diavolo” è certamente un antesignano, almeno in Italia, del romanzo giallo/noir. È corretto dire che, in effetti, può essere considerato il primo vero romanzo italiano a “tinte gialle”?
2. È corretto sostenere che il romanzo “Redivivo” (1894) ispirò Pirandello per l’ideazione de “Il fu Mattia Pascal”?
–
Chi risponde?
Cari amici,
la ”certa situazione”, a cui allude con molta discrezione Massimo a proposito del sottoscritto, e’ che – dal 31 agosto 2007 – avete davanti uno scrittore-insegnante disoccupato e con famiglia.
Siccome so solo scrivere, quel che auspico e’ che qualche anima pia mi possa proporre un rapporto di collaborazione giornalistica remunerata o altro nel campo della cultura. Si accettano anche suggerimenti e nominativi utili. Teniate presente che vivo a Lubiana, in Slovenia, e che con qualche traduzione, qualche lezione privata di italiano e qualche postfazione critica non posso andare avanti.
Grazie
Sergio Sozi
Ok, Sergio. Era quello che volevo sapere.
Se tra gli amici di letteratitudine c’è qualcuno che può andare incontro alle tue esigenze (o meglio, necessità), che poi sono quelle della tua famiglia… be’, che si faccia avanti!
Purtroppo la figura dell’intellettuale (e dello scrittore, in particolare) che – per un motivo o per l’altro – ha difficoltà a sbarcare il lunario è molto più che una semplice nostalgica icona.
Dimenticavo di dire – ma è implicito – che hai tutta la mia solidarietà. E quella di tutti gli amici di letteratitudine.
Ma è altrettanto implicito che le mere dichiarazioni di solidarietà non sono utili per fare acquisti al supermercato.
Speriamo di ottenere qualcosa. Grazie Massimo e grazie a chi mi vorra’ contattare per darmi qualche speranzuccia tangibile in piu’.
Ma torniamo alle domande di Massimo:
1) A proposito del ”Cappello del prete”, T. Iermano e A. Palermo cosi’ si esprimono nella Storia della Letteratura Italiana della Salerno Editrice (diretta da E. Malato, 1999):
”(…) L’incontrollato evolversi degli avvenimenti, il procedimento investigativo, la diabolica vitalita’ del cappello, l’angoscia crescente del barone, aggredito dal fantasma del dubbio gia’ prima del delitto, la feroce lotta tra l’idea del bene e le azioni del male, forniscono gli elementi di un > moderno, un prezioso noir dal felice esito narrativo.” (vol. XV, p.509)
Penso dunque che le tue informazioni a proposito del De Marchi pilota del giallo italiano possano esser seriamente verosimili.
2) Sul ”Redivivo” di De Marchi e ”Il fu Mattia Pascal” del Pirandello. La maggior parte della critica afferma la veridicita’ anche di una ispirazione demarchiana di Pirandello. Certo, pero’, le forme pirandelliane sono distanti almeno ”mesi luce” da quelle del nostro milanese. Appureremo e preciseremo.
Sergio
Riguardo a “Redivivo” (del 1894, ma se non sbaglio fu pubblicato postumo) l’influenza su Pirandello è esercitata non nella forma (molto distante, ne convengo) quanto nell’idea forte, nella costruzione della trama. In poche parole, nel concetto di scambio di identità.
😉
Good night.
Pre-finalino con grottesco invito:
se qualcuno mi paghera’ per approfondire la questione De Marchi su un giornale o altra pubblicazione, tirero’ fuori ”vita morte e miracoli” dell’autore. Anche le pronipoti delle sue pulci, intervistero’!
Ma intanto rispondetemi, amici di Letteratitudine:
il giallo italiano di oggi e’ migliore, nonostante tutto, degli analoghi prodotti statunitensi? O almeno ci sta piu’ ”a cuore”?
Camilleri, De Cataldo, Attilio Del Giudice, Carofiglio… eh? Cosa ne pensate?
Sergio
Il romanzo di De Marchi è nella pila (sempre più grande) dei libri che attendono di essere letti. Ed è collocato proprio sopra IL MARCHESE DI ROCCAVERDINA e sotto IL BUIO OLTRE LA SIEPE.
Per restare all’ Italia dei secoli passati, segnalo due opere che praticamente nessuno legge e che io trovo formidabili (soprattutto la seconda): I VICERE’ di De Roberto e la STORIA DELLA MIA VITA di Casanova (uno dei dieci libri che mi porterei nell’isola deserta).
Sul giallo italiano: Montalbano è una specie di amico con cui vado a cena una volta all’anno e passo una piacevole serata, di De Cataldo m’ha entusiasmato solo ROMANZO CRIMINALE, il meraviglioso Pinketts degli esordi s’è perso, Carofiglio è bravo, Dazieri va a corrente alternata, Lucarelli non lo sopporto, Faletti è atroce, Fois non mi piace, Genna esagera e a volte è illegggibile, Altieri era esplosivo nei primi cinque/sei romanzi poi è diventato l’involontaria parodia di se stesso, Loriano Machiavelli lo amo da più di trent’anni.
Ma nell’insieme, rispetto a gente come Connelly, Lehane, Chattam, Ellroy, Pronzini, Block, Westlake, Lovesey, gli italiani hanno quasi tutti la sindrome del capolavoro. Nel senso che, volendo scrivere LETTERATURA col tutte le lettere MAIUSCOLE, eccedono in preziosismi da un lato e cadono in facilonerie dall’altro: gli manca il senso dellumile e orgoglioso artigianato. Perciò, se voglio passare un paio di ore avvincenti, di solito mi rivolgo con più fiducia agli anglosassoni o ai francesi (che hanno una grande tradizione di genere poliziesco e avventuroso).
Come al solito non mi resta che confessare la mia ignoranza. Mai letto De Marchi, ma spero di recuperare al più presto.
Smile.
Ho riflettuto a lungo prima di scrivere il seguente post. Ho riflettuto per pudore. Ma il messaggio di Luciano/il ringhio di Idefix è per me decisamente stimolante e sanamente provocatorio anche (non lo nego) perché è uscito da poco un mio thriller per Bietti (www.bietti.it).
Quindi, la tentazione di essere un po’ autoreferenziale è in agguato. Ma tenterò di sottrarmi al tranello.
Sui gusti, caro Luciano, concordiamo abbastanza sebbene potrebbero esser diversi i termni con i quali esprimiamo le nostre opinioni.
Il mio punto di vista è abbastanza semplice. Nel genere thriller-noir-giallo-poliziesco ci sono numerosi libri che sono solo inseguimenti, sparatorie e scazzottate. Romanzi “rapidi” e anche avvincenti che, però, non mi prendono.
Ho sempre rivolto la mia attenzione a libri che sono anche racconto di personaggi. Con le loro manie, i vizi, le psicosi, le gioie e le tristezze.
Potrei quindi (dimenticando senza dubbio qualcuno) citare Ed McBain, Rex Stout, George Simenon, James Ellroy o Cormac McCarthy.
Se prescindi dalla scazzotata e dalla revolverata, la tentazione di far “letteratura” è dietro l’angolo. Credo che sia importante che, se ciò avviene, (ma non parlo ovviamente di me), sia naturale e non una cosa studiata a tavolino, tipo “adesso vi scrivo un Nobel”.
Personalmente me ne infischio abbastanza se il lettore indovina subito l’intreccio. Non credo che il genere del quale parliamo si basi sull’effetto sorpresa. Anzi, forse, se il lettore afferra alcuni indizi e se li trascina fino alla fine, può essere coinvolto molto di più nella storia. Questo, nel mio minimo, è quello che ho tentato di fare. E questo, credo, continuerò a fare finché troverò qualche sconsiderato che mi pubblica.
ps: mi scuso con Sozi se sono andato fuori tema. Ma su De Marchi ho già dato, e il post di Luciano mi è parso meritevole di intervento.
Il tentativo è lodevole, ma è difficile dar luogo a un dibattito su un De Marchi, un Fogazzaro, ecc.
Molto più semplice e popolare parlare di Moccia, della Rowling, ecc.
comunque bravi.
Vero, ed è anche molto più semplice e popolare un dibattito su Alvaro Vitali piuttosto che su Alec Guinness. Non ci avevo mai pensato.
Ho dato un’occhiata alla schedina del romanzo di Gregori. Se gli piace Bruce Springsteen, la garanzia è ottima.
Adesso vado in libreria e vedo se lo trovo.
Intanto, un cordiale saluto
Unica aggiunta: tra i giallisti, sia italiani che stranieri, ho citato solo autori viventi. Se elencavo anche quelli defunti che amo (almeno almeno Simenon, Hammett, Chesterton, Sanantonio, McBain, Scerbanenco) non la finivo più.
Emilio De Marchi nacque a Milano nel 1851, in una modesta e numerosa famiglia. Pur essendo rimasto orfano di padre assai giovane, riuscì tuttavia a terminare gli studi, laureandosi in Lettere nel 1874. Fino al 1890 fu insegnante di liceo, poi ottenne la libera docenza in stilistica presso l’Accademia Scientifica e Letteraria di Milano. L’ambiente letterario milanese del secondo Ottocento era dominato dalle esperienze della Scapigliatura e De Marchi non ne fu immune; ben presto, però, la sua vena letteraria acquistò una coloritura più personale, volgendosi verso un meditato recupero della scrittura di stampo manzoniano, unito a un deciso intento naturalistico.
I suoi primi romanzi, “Tra gli stracci”, “Il signor dottorino” e “Due anime in un corpo” vennero pubblicati a puntate su periodici e quotidiani, tra il 1876 e il 1877: nell’ultimo dei tre, De Marchi comincia timidamente a sperimentare quel genere giallo, al quale si volgerà con maggior decisione nella sua opera successiva, “Il cappello del prete” (1887), vero e proprio noir di ambientazione partenopea, con sottili tratti di umorismo e un gusto assai vivace nella rappresentazione dei personaggi.
Il capolavoro di De Marchi rimane comunque “Demetrio Pianelli” (1890), romanzo che mette in scena un protagonista mediocre, la cui esistenza, tutta costruita sulla modestia e il buon senso, non può che risolversi in una sconfitta finale, sul piano sia sociale sia personale: solo la coscienza della propria integrità potrà addolcire una vicenda diversamente molto triste ed amara. Nella trasposizione televisiva del romanzo, il personaggio di Demetrio verrà magistralmente interpretato da Paolo Stoppa, che darà il suo volto di eterno sconfitto alla figura creata da De Marchi.
De Marchi scrisse altri quattro romanzi: “Redivivo” (1894), cui Pirandello si ispirò per la trama de Il fu Mattia Pascal, Arabella (1888), “Giacomo l’idealista” e “Col fuoco non si scherza” (1900); scrisse inoltre testi teatrali e poesie, nonché antologie ad uso didattico per la gioventù, segno della sua fede in una letteratura al servizio dell’educazione del popolo.
Morì a Milano, appena cinquantenne, nel 1901.
=
Fonte: Italialibri.net
http://www.italialibri.net/autori/demarchie.html
Grazie mille a tutti per i commenti.
Grazie a Cicerone 2 per la biografia.
Continuate a commentare, su. Vi è piaciuto il pezzo di Sergio?
–
@ Luciano Comida:
Il noir di Enrico Gregori si può acquistare solo da sito della Bietti: http://www.bietti.it
Ti posso dire che pare davvero intrigante. Lo inizierò a leggere stasera, ma l’ho già sfogliato. Considera che l’autore è il responsabile della “nera” del Messaggero, dunque (ritengo) ha avuto modo di attingere – oltre che dalla fantasia – dal proprio “vissuto”. Puntualizzazione non trascurabile.
In ogni caso ne parleremo qui nei prossimi giorni.
ho pensato a qualcosa di intelligente da scrivere su de marchi. ci ho pensato tanto, ma in mente non mi è venuto nulla.
ora mi sento un idiota. con chi me la devo prendere?
certo non con sergio sozi.
chi è che “comanda” in questo blog? ;D
Bravo Gennaro, hai fatto bene a commentare lo stesso.
Per la sensazione di “id-iozzia” mi assumo le mie responsabilità 😉
Faccio il lavoro che in genere fanno i nostri amici Ciceroni.
Vi riporto una recensione di “Il cappello del prete” della “nostra” Antonella Cilento pubblicata dalla rivista “L’Indice” nel 2000.
La gemelliamo a quella di Sergio. Poi, magari, ne parliamo.
Ne approfitto per invitare Antonella a intervenire, se può
–
recensioni di Cilento, A. L’Indice del 2000, n. 09
Strana storia la vicenda editoriale di “Il cappello del prete” del lombardo Emilio De Marchi: strana e misteriosa almeno quanto quella narrata nelle pagine del romanzo, rarissima ghost story italiana, giallo dai toni noir, indagine positiva sui danni del positivismo di moda nell’anno 1887, in cui questo piccolo capolavoro di De Marchi fu pubblicato a puntate su “L’Italia del Popolo”, quotidiano milanese con spazio per romanzi d’appendice. Strana storia perché di questo libro la critica italiana si è occupata pochissimo, fatto salvo un tardivo ricordo di Contini, e perché l’autore stesso, sia pur presente in ogni brava letteratura nostrana, non occupa affatto lo spazio dovuto all’importanza della sua opera, specie considerando che un romanzo postumo di De Marchi, Redivivo, fu il modello diretto e dichiarato di Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. Strana ma infine fortunata storia editoriale, perché grazie all’editore Avagliano e alla cura preziosissima di Toni Iermano questo piccolo gioiello d’indagine romanzesca torna oggi a essere rintracciabile in un’edizione che risponde a quella considerata filologicamente definitiva del 1891, ma che conserva in apertura la significativa prefazione dell’autore uscita nella prima edizione in volume del 1887.
In pieno dominio zoliano scrive De Marchi che Il cappello del prete è “romanzo d’esperimento” e non romanzo sperimentale, rivendicando l’autonomia del romanzo d’appendice italiano e la qualità dei lettori, che forse non si nutrono solo di “incongruenze e di sozzure”, ma sanno anche apprezzare la buona scrittura: “l’arte è cosa divina”, conclude l’autore, “ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori”. E la fortuna editoriale presso i contemporanei fu grande: centomila i lettori che De Marchi segnala e che gli danno giustamente modo di gettare frecciate verso una letteratura troppo elitaria, che non scrive storie che interessino il pubblico. Cominciava insomma in quegli anni una querelle che la nostra letteratura ha trascinato, variato, reso questione di mercato per tutto il secolo successivo, e che a tutt’oggi è motivo di non poca discussione: non è un caso che Raffaele Crovi, nel tracciare una storia del giallo in Italia, designi quale capostipite del genere proprio questo romanzo di De Marchi. Ma se De Marchi è in fondo il nonno (ma di che maggiore qualità!) di tanto nostro noir contemporaneo, non bisogna però trascurarne le qualità strettamente letterarie che a dispetto dell’occhio strizzato al pubblico pervadono Il cappello del prete: è Toni Iermano a sottolineare come i punti migliori del romanzo siano proprio nel tratteggio della psicologia del protagonista, ‘u barone Coriolano di Santafusca, barone darwiniano, come lo definisce l’autore, che da un positivismo al limite del nichilismo ricava un’arma che l’autorizza ad ammazzare per interesse un ricchissimo prete usuraio.
Attorno alla vicenda si scatenano i temi del lotto (e la scena della vincita di un gruppo di poveracci è forse tra le più napoletane e verisimili del milanese De Marchi), della superstizione, del soprannaturale: preti che compaiono come ombre minacciose, avvertimenti, segnali e, soprattutto, il nominato cappello del prete che assume valore di prova giuridica, di segno della coscienza e di oggetto fantasmatico e lugubre. Le qualità di De Marchi sono molte: l’intreccio, fittissimo e senza inciampi (inciampi frequenti nei narratori italiani intenti a scimmiottare un genere romanzesco che di solito non frequentano), la tensione morale, l’abilità descrittiva, che si esplica soprattutto nelle scene ambientate nella villa dei Santafusca, villa vesuviana carica di echi letterari e misteriosi, nelle marine azzurrissime ai cui margini spuntano teschi, negli improvvisi temporali, nelle strade polverose, nei ritratti di un’umanità povera ma dignitosa. E se è vero, come suggerisce Iermano, che la Serao e Fucini sono modelli noti e ravvicinati per l’autore, vero è anche che la capacità d’invenzione è tutta autonoma: non si può non guardare la scritta “il cappello del prete” comparire più volte in spazio grafico autonomo sulla pagina (tirata in ballo da giornali e da vari espedienti destinati ad acuire l’ossessione di ‘u barone) senza percepire un indizio tutto lombardo prefuturista e vagamente scapigliato. In definitiva, un romanzo d’ambiente, un giallo, un noir moderno e appassionante, ma soprattutto un romanzo godibile cui non pesa la definizione di classico.
Mi avete fatto venir voglia di leggere questo Cappello del diavolo. Ho visto che è disponibile in edizione economica. Vi saprò dire.
Caro Sergio ritorno a Letteratitudine dopo una forzata pausa: sto studiando le nuove leggi regionali per poi gestire i miei progetti di lavoro. La vita è durissima e ogni giorno c’è una nuova complicazione burocratica inventata/pensata da funzionari grigi, che da tempo hanno perso ogni Immaginazione. Non leggerò l’autore che proponi, perché non riesco a dimenticare il Demetrio Pianelli interpretato da Paolo Stoppa e l’impressione che mi fece ( ero una bimba). Interpretazione straordinaria, ma l’entusiasmo che suscitava in un’amica di mia zia, famosa per una certa tendenza iettatrice, ancora mi turba! Scherzo e ti propongo per una beneaugurante ventata di ironia , la lettura, e magari un tuo commento, alla Bambolona della Alda De Céspedes. L’ho riletto l’altro ieri e mi è venuto un dubbio: ne hanno tratto un film? Grande autrice e veramente brava.
Un abbraccio e cari saluti a tutti, Miriam
Cara Miriam,
ancora, oibo’, non ho letto niente delle Cespedes. Provvedero’ quanto prima! Grazie per il consiglio.
Saluti Cari
Sergio
P.S.
L’articolo di Antonella Cilento e’ molto migliore del mio: leggetelo per primo!
Sergio
Dài, sergio. Non fare il modesto. Sia il tuo articolo che quello di Antonella sono ottimi.
Secondo me la Cilento e’ una critica intessuta degli stessi ”fili” che resero immortali le opere di gente come Binni, Croce e Asor Rosa: una capacita’ innata (e fatta adeguatamente crescere) di evocare, presentare e selezionare. Complimenti, Antonella!
Sergio Sozi
Non per nulla, caro Sergio, Antonella appartiene al “dream literary team” di cui pure tu fai parte 😉