Il 9 settembre decorre il centenario della nascita di Cesare Pavese. Mi piace ricordarlo qui, sulle pagine di questo blog, proponendovi gli interventi di Raffaele Manica e Raffaele La Capria – pubblicati sulla pagina cultura del quotidiano Il Mattino del 7 settembre – e quello di Raffaele Liucci – pubblicato sul Domenicale de Il Sole 24Ore del 31 agosto.
(Questo post potrebbe anche intitolarsi: “un triplo Raffaele per Pavese”).
Vi invito a leggere i suddetti interventi e a dire la vostra per ricordare la figura di questo grande intellettuale: scrittore, poeta, traduttore, editore (per Einaudi).
E a proposito del rapporto di collaborazione di Pavese con la Einaudi, vi segnalo l’uscita di un’antologia delle sue «lettere editoriali» fra il 1940 e il 1950 (Officina Einaudi, a cura di Silvia Savioli, con introduzione di Franco Contorbia, pp. 433, euro 22). Il libro è stato presentato domenica a Santo Stefano Belbo in un convegno organizzato dal premio Grinzane Cavour. Su Tuttolibri di sabato, per gentile concessione di Einaudi e degli eredi, sono stati anticipati alcuni brani tratti dalle lettere.
Riporto qui questo stralcio di lettera (“Meno imprese sceme”) che Pavese scrisse a Giulio Einaudi, da Roma, il 28 febbraio 1946
Caro Giulio,
sono costretto a ricordarti che la repubblica sociale di Mussolini cominciò a perdere veramente il credito e a essere condannata da tutti i benpensanti il giorno che i suoi impiegati non ricevettero più regolarmente gli stipendi, e un po’ alla volta li si ridusse a contentarsi di acconti. Per una volta passi, ma quando di mese in mese lo stesso fatto tornò a ripetersi, allora fu finita. Devo dirti che dal mese di ottobre u.s. io non ho più ricevuto regolarmente tutto in una volta lo stipendio; e passi. Ora mi accorgo che la stessa cosa si minaccia agli altri impiegati, specialmente quelli d’ordine, e allora dico basta, per me e per tutti. (…)
Se i soldi non ci sono, si facciano meno imprese sceme – si spediscano meno lampi; si aboliscano sedi – ma insomma si provveda. E soprattutto smettetela coi giornali che in altri tempi servivano a mandarci in prigione, e adesso tutt’al più a mandarci in fallimento. Ho pazientato tutto l’inverno perché la situazione era tale che nessuno pareva averci colpa; ora le cose cambiano. Se come primo risultato della tua politica di risanamento e ripresa, gli impiegati romani – compreso io – devono rimandare a domani il pranzo e la cena, allora ti consiglio di cambiare mestiere e lasciare il campo a gente dalla testa sul collo.(…)
Pavese
E ora, vi invito a dire la vostra.
Massimo Maugeri
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da IL MATTINO del 7 settembre 2008
di Raffaele Manica
Scrittore dai molti volti, sorretti da uno stile unificante con poche eccezioni, Cesare Pavese sembra occupare un posto sicuro nella percezione che si ha del Novecento italiano. Legato a un solo editore, Einaudi, è sempre stato in catalogo, segno di un pubblico anch’esso sicuro, come dice anche il prestito agli Oscar mondadoriani: ha avuto un paio di edizioni complete (la prima, degli anni Settanta, in volumetti dalle copertine grigie; l’ultima, nella Pléiade, in due volumi) e ora una silloge intitolata I capolavori ( Tascabili Einaudi, a cura di Mariarosa Masoero e Giuseppe Zaccaria, pagg. 687, euro 17,80), aperta da Paesi tuoi, scritto nel 1939, e chiusa da La luna e i falò, scritto nel 1949, pubblicato nel 1950 e premiato a luglio allo Strega, qualche mese prima del suicidio: dieci anni nei quali l’attività in prosa si consumò tutta, con quel ritmo scandito come computando i ciottoli delle sue colline, che aveva trovato forma nei versi con Lavorare stanca, nel 1936. Era nato il 9 settembre 1908, e dunque tutta la sua opera si chiude nel decennio che va dai suoi 30 ai suoi 40 anni. Eccezioni a quel ritmo che era la sua sigla, i Dialoghi con Leucò e i versi postumi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (postuma apparve anche la raccolta di saggi sulla letteratura americana). Eppure, nonostante si tratti di uno scrittore morto giovane, nulla in Pavese ha l’aria della gioventù, e tutto sembra invece visto attraverso una maturità precoce – acquisita anche grazie al magistero culturale e morale, di Augusto Monti – ma mai sicura di sé, e perciò spesso scivolante all’indietro, verso le età senza tempo dell’adolescenza e dell’infanzia, momenti di fioritura del mito e di tutti i miti individuali. Di ciò, Il mestiere di vivere, il suo diario, dà tracce costanti; e lo shakespeariano «la maturità è tutto» fu l’esergo posto alla Luna e i falò come si trattasse di un desiderio; come se la sua, dai passi così incerti, non gli sembrasse maturità vera. I vari volti. A cominciare da quello politico, praticato controvoglia, assecondando le esigenze del tempo. Sotto, il volto vero: dell’etnografo, dell’antropologo della civiltà contadina e piccolo borghese delle Langhe, che agiva con gli strumenti del letterato (al quale non fu ininfluente l’ampia ricerca sul Mondo magico di Ernesto De Martino): benché in mezzo ai fatti, preferiva piuttosto leggerli e interpretarli che viverli. Sotto ancora, il terzo volto: di un lirico che reprimeva di se stesso gli esiti di visionarietà più sospetta, costringendo la propria poesia, pur così impigliata in zone buie, a farsi capire. Se si manteneva in penombra, ebbene, che la poesia parlasse di quell’essere in penombra, ma senza compiacersi della penombra. Intere generazioni di lettori si sono abituate a Pavese fin dagli anni scolastici. Ciò, nella fortuna di uno scrittore, non è mai dato trascurabile, perché aiuta ad andare in memoria: ogni figura di scuola è per sempre acquisita, anche quando ad essa ci si rivolti: una presenza che le antologie furono pronte ad accogliere, anche se ciò non basta a spiegare il motivo di una perduranza di giudizio con poche incrinature e sempre rispettosa. È che il percorso di una letteratura tutta svolta tra mito ed esistenza ha una sua presa ineludibile negli anni delle domande grandi, che per tutti sono gli anni dell’adolescenza, e dunque delle prime letture adulte. Non solo Pavese sembra sempre tramutare un dato favolistico in un mondo senza favole e già di dura realtà, ma l’effetto del suo scrivere è una specie di luogo dove Omero ed Hemingway si trovano a praticare lo stesso linguaggio: si incontrano e si parlano, con l’ausilio di quel sottofondo morale e anche schiettamente moralistico che in Pavese il mito sempre presuppone. Quanto poi a dire che si capiscano, è un altro discorso. E in quest’altro discorso sta non la difficoltà letteraria incontrata da Pavese, ma la sua difficoltà esistenziale. Una specie di blocco tra due mondi separati da un vetro, che disperatamente vorrebbero toccarsi e non ce la fanno. Di qua il vivere e il suo mestiere, di là il mondo dei morti e dei miti. Il vetro dà, di lontano, l’illusione che siano, quei due mondi, sullo stesso piano, come se il tempo non contasse. Ma, avvicinandosi, e non potendo frantumare il vetro la vita stessa si blocca, e non sa più dove andare. Così se ne dilegua il portato. Deve essere questo il motivo dell’apparenza stranita che Pavese ha sempre nelle foto che lo ritraggono. Su quei tratti che è indecidibile se siano di giovane o vecchio, si vede scontare un disagio, un essere e un voler essere sempre da un’altra parte, dove si intuisce salvezza. Solo una fede potrebbe intervenire. Ma Pavese, del mondo mitico, benché solo lì riponesse attesa, fu esploratore distaccato. Benché laboratorio del suo pensiero, il mondo dei miti non poteva essere materialmente raggiunto né poteva diventare una categoria o un esercizio per il mestiere di vivere, tra gli inciampi che la realtà procura ed esige. «Non fate pettegolezzi», lasciò scritto prima di togliersi dal mondo. Si riferiva ai suoi amori, e alle delusioni maturate fino ai suoi quarantadue anni. Ma «non fate pettegolezzi», forse, voleva dire anche di queste altre ragioni: un invito a guardare oltre l’accidente del momento. Lasciò da parte la ventina di libri da lui scritti, si mise di fronte alla nuda vita, e il disincanto su sé si trasformò nella fretta di consegnarsi pure lui al passato, diventando così, per tanti, un piccolo e intenso mito novecentesco da incontrare nell’età difficile.
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da IL MATTINO del 7 settembre 2008
di Raffaele La Capria
Riaprire i libri di Cesare Pavese in occasione del Premio Grinzane Cavour a lui intitolato e del seminario che si terrà domani al Teatro Gobetti di Torino, è stato per me una grande emozione, perché ho ritrovato intatto quel rapporto di pensieri e di sentimenti che a suo tempo la sua presenza aveva suscitato in me e in quelli della mia generazione, che vissero la loro gioventù negli ultimi anni del fascismo. E perciò quando parlo di lui non posso accostarmi a lui con lo sguardo distaccato del critico ma sempre interviene l’autobiografia, i ricordi, lo stato d’animo di quando per la prima volta mi arrivarono nelle mani i libri americani da lui tradotti, quelli attraverso i quali lui conduceva la sua battaglia culturale per rinnovare i contenuti e le forme della letteratura italiana aprendola a nuova orizzonti. Leggere allora Moby Dick di Melville o Winesburg Ohio di Sherwood Anderson non era come leggerli oggi, era un’avventura spirituale, era come scoprire il mondo mitico della libertà in un momento in cui la libertà da noi non era di casa. Oggi, in occasione del Premio Grinzane, riaprendo Il mestiere di vivere ho ritrovato quel «fratello maggiore», che pur così diverso per origini e cultura – lui del nord io del sud – ho sentito così vicino quando mi ha fatto intravedere la sua dolorosa e tragica intimità, la sua natura ipercritica ed autodistruttiva, la sua tensione spirituale e la sua speranza nella funzione salvifica della poesia e della letteratura. E poi un’altra considerazione, col senno di poi: se metto in rapporto la segreta profondità e l’austero senso morale di queste pagine e di questo modo di dialogare con sé stesso, con il rumore e l’enfasi di quegli anni (siamo all’inizio del ’35, fascismo trionfante, e Pavese al confine per aver tentato di proteggere una donna iscritta al partito comunista, ma in realtà perché l’ambiente torinese da lui frequentato era inviso al regime), se faccio questo confronto mi accorgo meglio oggi che accanto all’Italia fracassona e altisonante ce n’era un’altra, minoritaria e ancora nascosta, forte e tenace, ma negata all’azione violenta, che è appunto quella di Pavese. Lui, Pavese, non è mai tenero con sé stesso, e quando dice di contentarsi «dell’umiltà con cui mi sottopongo al mio destino» poi aggiunge dubbioso; «se non è pigrizia o vigliaccheria». Un dubbio che in un super-cosciente come lui affiora sempre e in un certo senso lo perseguitò anche negli anni che seguirono, quando suo malgrado fu costretto ad impegnarsi dall’incalzare degli avvenimenti che portarono alla Resistenza. Rileggere oggi Il mestiere di vivere è stato diverso che la prima volta, quando uscì postumo nel ’50. Adesso ho potuto meglio addentrarmi nella dolorosa vicenda umana e letteraria ivi narrata con scrupolosa e a volte perfino imbarazzante sincerità, c’è proprio il suo cuore e la sua anima messa a nudo in queste pagine, sono un libro ma anche un documento, uno zibaldone, con osservazioni che rimangono impresse e che in un certo senso hanno anche influito sul mio modo di scrivere. Per esempio quando Pavese dice che «lo stile non deve influire nella formazione della storia: ad essa preesiste un nucleo di realtà che sono accadute. Letteratura è quando lo stile preesiste al nucleo fantastico»: ecco, qui a «letteratura» si dà un senso limitativo che ha la sua importanza polemica in un periodo in cui la bella pagina e i fautori dello stile prevalevano. O quando insiste sull’importanza nella propria opera del legame col Piemonte, con Torino, con la propria terra e con la propria origine: «Il parallelo tra me e il Piemonte – lo scriveva già nel ’35 – nella mia poesia futura questo elemento non dovrà più mancare» e comunque «saprei bene come assorbirlo in un’immagine e dargli un significato». Un legame che diventa mitico ed entra anche nella scrittura narrativa utilizzando la lingua locale e le sue forme per inventarsi una lingua nazionale. Tutto questo era già presente nel lavoro che Pavese andava facendo sugli americani negli anni Trenta e Quaranta, quando spiegava quali erano gli interessi italiani che lo guidavano nelle sue ricerche: Twain, Lewis, Anderson erano partiti dall’autenticità della provincia americana e avevano fatto diventare America ognuna delle province da cui erano partiti. Essi avevano insomma creato il «volgare americano», cioè un linguaggio nazionale parlato, diverso dallo slang e dal dialetto, ma altrettanto efficace ed espressivo, e soprattutto adatto a scrivere romanzi che rispecchiavano una realtà oggettiva, dove fatti e personaggi parlavano da sé, senza la continua mediazione di un autore. E non era questa l’aspirazione di quanti in quegli anni, in modi diversi, desideravano uscire dalla perfezione della prosa d’arte per colmare il distacco tra letteratura e vita nazionale? E per liberarsi dalla tutela di quei letterati che «troppo francamente avevano confessato il loro rispetto per i carabinieri a cavallo?». Un’ultima considerazione, molto personale, visto che ricevo oggi il Premio Grinzane per il mio libro L’Amorosa inchiesta, un libro sull’immaturità, sull’infantile inadeguatezza che permane anche nell’età adulta e rende la vita una somma di errori, facendocene sognare un’altra possibile. Questa immaturità, questa inadeguatezza che non è intellettuale (anzi il contrario), ma esistenziale, appartiene a parer mio all’eterno problematico adolescente che fu Pavese, al Pavese che scrive: «Nove anni sono passati e io rispondo ancora tanto infantilmente alla vita? E quella virilità che pareva cosa mia duramente conquistata negli anni di lavoro, era tanto inconsistente?». Ecco, anche per questo ho sentito Pavese come un «fratello maggiore» oltre che come un maestro.
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Da “Domenica” de IL SOLE24ORE del 31 agosto 2008
La tentazione della «casa in collina». Cesare Pavese di fronte alla Storia
di Raffaele Liucci
«Brutta cosa esser nelle grinfie della storia», scrisse Cesare Pavese a un amico nel dicembre ’44, quando s’era imboscato nel Monferrato. Partigiani e fascisti si contendevano il territorio, i bombardieri alleati non davano tregua, ma lui aveva preferito scegliere di non scegliere. Come dirà l’io narrante della Casa in collina (1948): «Si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra così insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina». L’apatia e il disimpegno, del resto, erano sempre stati radicati in lui, a ogni latitudine. Qualche anno prima, il 3 luglio ’40, probabilmente turbato dalla propaganda bellica fascista, Pavese aveva bersagliato nel proprio diario l’imperante «saturazione di storicismo», cui si doveva «tutto questo parlare di rivoluzioni, questa smania di vedere accadere avvenimenti storici, questi atteggiamenti monumentali», dai quali discendeva la pretesa «di udire in ogni raglio d’asino lo squillo dell’avvenire».
Il Pavese «antistoricista» è stato a lungo rimosso. S’è preferito coltivare l’immagine d’un uomo fragile e schivo, certo, ma comunque allineato all’aura progressista di Casa Einaudi. Una vulgata zuccherosa che Norberto Bobbio, con il senno di poi, definirà «del tutto aberrante». In fondo, nel ’35 Pavese era stato condannato al confino soprattutto a causa del suo maldestro amore per Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca» già compagna di Altiero Spinelli (Cesare s’era offerto di far da tramite nella corrispondenza clandestina fra lei e l’antifascista Bruno Maffi). Mentre il romanzo Il Compagno (1947) e gl’impacciati articoli scritti per «l’Unità» nel dopoguerra avevano rappresentato soltanto un imbarazzante pedaggio pagato al clima culturale dominante. Più rivelatrice invece era stata, il 23 marzo ’38, una sua annotazione diaristica: «non c’innamoreremo mai di una di quelle idee per cui si accetta di morire». Quasi una filosofia perenne.
Qualcuno obietterà: e lo sconcertante «taccuino segreto» 1942-43, reso pubblico soltanto nell’estate del ’90, nutrito di lodi alla Germania di Hitler, aperto alle ragioni della RSI e così astioso verso gli antifascisti? Carlo Dionisotti intravide in quelle carte la silhouette «minuscola e grottesca di un Céline italiano». Ma Lorenzo Mondo, che svelò per primo il taccuino sulla «Stampa», ha poi giudicato quei pensieri delle «schegge impazzite, di breve durata e nessuna esposizione pubblica». Zampilli umorali che, fra l’altro, non tradiscono una particolare consuetudine col linguaggio della politica. Forse influì la vicinanza a Giaime Pintor, all’epoca ancora ammaliato dalla cultura tedesca più «tenebrosa». E forse giocò anche l’insofferenza di Pavese per un certo antifascismo borioso e inconcludente. Una critica del resto condivisa pure dagli esuli della prima ora. Scriverà per esempio Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi nel ’49: «Ti confesso che è il disgusto, non per i fascisti, ma per molti antifascisti, che mi rende sempre più restìo a tornare in Italia».
Oggi Pavese ci appare come la voce più cristallina della «zona grigia», di quel mondo per lo più contadino che subì le guerre, il fascismo, l’antifascismo, senza mai aderirvi. Dopo l’8 settembre ’43, quest’area s’allarga e si dilata oltre misura, plasmando l’identità d’un paese ormai sfibrato, disamorato del duce e tuttavia diffidente verso i partigiani e desideroso soltanto che la guerra finisca al più presto: per ricominciare a vivere, ma senza quel «lavacro morale» che sognavano i più intransigenti nemici di Mussolini.
I personaggi di Pavese tendono sempre a sfuggire ogni complicazione ideologica, a difendere il loro modesto benessere, al riparo dal rullo compressore della Storia. Lo scrittore piemontese sembra trovarsi a proprio agio soltanto nelle alture rarefatte del mito, dove «non esiste il prima e il dopo perché non esiste il tempo» e «l’attimo equivale all’eterno, all’assoluto». Quando viceversa la Storia irrompe brutale nella vita degli uomini comuni, scatta immediata la ricerca d’un rifugio, in attesa che passi la tempesta e il cielo torni a schiarirsi. La collina, scrive ancora Pavese, «non è un luogo fra gli altri, ma un modo di vivere». Perché soltanto se restiamo in disparte possiamo osservare le cose lontane come se fossero vicine, percepirne l’essenza metafisica. In questo quadro, i «repubblichini» smarriscono ogni sfumatura moralistica, per essere elevati a paradigma della guerra, di ogni guerra, dove nessuno potrà mai dirsi innocente: «anche vinto il nemico è qualcuno, dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante».
Il suo ultimo romanzo, La luna e i falò (1950), è un groppo di nodi tuttora irrisolti. Ad esempio, nel cap. XXIX, le poche righe dedicate a un aborto clandestino finito in tragedia valgono più d’un trattato sulla condizione della donna prima della legge 194. Ma questo volume, soprattutto, anticipa l’odierno dibattito sul «sangue dei vinti». Il protagonista è anch’egli un fuggiasco. Trovatello cresciuto sulle Langhe, poi antifascista in un gruppo clandestino di Genova, è infine emigrato in California per sottrarsi a un ordine d’arresto. Quando però nel dopoguerra fa ritorno al suo paese natale ha ormai rimosso la trascorsa militanza. Il vento della Storia, del resto, ha smesso di soffiare, lasciando ovunque case bruciate, atroci vendette e cadaveri frettolosamente seppelliti che la terra restituisce alla luce. Commenta acido un mezzadro: «se tutti quegli uomini se ne fossero invece tornati a casa – i tedeschi a casa loro, i partigiani sui beni –, sarebbe stato un guadagno. Che facce, che gente – tanta gente forestiera non s’era mai vista». L’elegia della Casa in collina è dunque rimasta lettera morta. Il sangue delle vittime non è stato placato. L’odio e il rancore, anzi, persistono anche dopo la fine della guerra, che ancor di più appare come un evento insensato, incapace di riscattare quel sangue chiesto in sacrificio.
Uno dei primi, entusiasti lettori della Luna e i falò sarà Piero Calamandrei. Figura di spicco dell’Italia antifascista, il giurista fiorentino aveva nondimeno scansato la Resistenza, restando nascosto a Colcello Umbro, in un «larvato esilio», ove riempirà il suo diario di meditazioni sconsolate sulle illusioni della Storia. Forse proprio per questo, scrivendo a Pavese, Calamandrei potrà cogliere il carattere impolitico eppure universale della sua ultima opera: «Di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo, toccano sempre le ferite della loro società» (14 agosto 1950).
Da questo momento, per i post particolarmente lunghi, ho deciso di adottare l’opzione “more” (Leggi il resto del post » – la trovate accanto alla mia firma)
Come avrete visto si “accorcia” il post.
Credo sia meglio, da un punto di vista grafico.
Il post è un tributo a Cesare Pavese, ovviamente, in occasione del centenario della nascita.
Altrettanto ovviamente vi invito tutti a scrivere qualcosa per ricordarlo in uno (o più) dei suoi “aspetti letterari”: scrittore, poeta, traduttore, editore.
Come vedrete (o come qualcuno ha già letto sul Domenicale del 31 agosto) l’articolo di Raffaele Liucci ha un taglio più “critico” (qualche ripercussione la trovate sul “Domenicale” di ieri: 7 settembre).
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Ringrazio Raffaele Liucci per avermi inviato il pezzo.
Buon pomeriggio a tutti.
—
A stasera (o a domani).
Last blues, to be read some day
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‘T was only a flirt
you sure did know –
some one was hurt
long time ago.
.
All is the same
time has gone by –
some day you came
some day you’ll die.
.
Some one has died
long time ago –
some one who tried
but didn’t know.
.
(11 Aprile 1950 Cesare Pavese)
io non sono una persona seria, né un’intellettuale.
quindi più emozione che critica:
pavese per me sarà sempre questo.
lo lessi tutto durante una turbolenta adolescenza, e il mestiere di vivere in particolare mi accompagnò a lungo, tra letture e riletture.
la poesia che ho postato sopra la ricopiai per anni nella prima pagina dei miei diari.
amatissimo.
e deleterio.
🙂
Nel mondo che (come ogni scrittore) si era costruito su misura,in una giustizia assolutamente laica,il valore,la solitudine,la tenerezza che non trovao un oggetto su cui fermarsi non poterono che diventare follia del sangue,passione omicida,istinto di distuggere quel che non si può avere.Per punire un un rifiuto che non è giusto,perchè nessun altro (sicurmente più indegno) possa possedere l’oggetto d’amore.Purtroppo questa violenza venne solo rivolta verso se stesso e Pavese ne fu freddamente e lucidamente consapevole.E così che da solo si aprì le propre ferite e perdere quel poco di vita che gli restava:”Ora so qual’è il mio più grande trionfo e a questo tripudio manca la carne,manca il sangue,la vita…” Anticipazione di un gesto ponderato,minacciato tante volte e ormai inevitabile come il sorgere del sole.Non più parole…ma fatti.Reale quanto furono le sue contraddizioni compresa la disperazione che per tutta la vita lo nutrì!.Carola
di pavese ho letto solo “la bella estate”.
fu un libro imposto a livello scolastico.
non l’approfondii, per partito preso.
rimedierò al più presto.
ho letto di lui qualche poesia e non mi entusiasma. al di là, conoscendo un po’ la sua storia, è però vero che la sua statura di intellettuale (mai arroccato sull’eremo dell’intellighenzia elitaria) ha contribuito alla diffusione della cultura come pensiero quotidiano. o almeno questo fu il suo tentativo.
sicuramente aveva la forza della semplicità e della comprensibilità. e non è esattamente poco, anzi.
Il mestiere di vivere è un libro in cui ritrovo molti miei pensieri. E’ un libro scritto non per impressionare, non per dimostrare, è un libro vero in cui si ritrova l’uomo. E’ un libro da avere accanto e da spulciare e sottolineare, un libro da vivere. E poi c’è quella bellissima raccolta “verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Anche se si fermasse tutto a questa frase varrebbe già tutti i miei pensieri. Ma lui non si è fermato lì.
E poi c’è il Pavese al confino politico, il Pavese che ama tanto le donne ma non è da loro così riamato… insomma, c’è l’uomo vero, mai disgiunto dal poeta scrittore che è. Tanto basta. Da amare.
..E poi c’è il Pavese dei libri. Quello che sin da adolescente sovrappone la pagina alla vita. La vita alla pagina.
Quello che scopre tra i banchi di scuola l’affinità tra la scrittura e l’impossibilità di essere. E che a questa impossibilità – all’assillo del verso, dello slang di Walt Whitman, all’inganno della quotidianità – risponde con la mano che trema sulla carta.
Scrive Pavese al proprio insegnante del liceo,Augusto Monti:
“Io penso che a dischiudermi alla vita siano stati i libri.
Non le grammatiche o i vocabolari ma tutte le opere in cui vive qualche sentimento.Dapprima, abbagliato dai grandi nomi , mi fermai sui poemi omerici, sulla Commedia, su Shakespeare, su Hugo. Quattro anni fa io cominciavo ad avere le loro opere tra le mani e mi esaltavo confusamente senza capire il perchè.
Ora, credo di essere giunto a capire la loro magia.
La poesia non fa che dare un’esistenza immortale alla vita”.
Simona cita un Pavese liceale al suo Professore: “La poesia non fa che dare un’esistenza immortale alla vita”. E mi tornano in mente i discorsi fatti qui solo pochi giorni fa in merito all’anima e alla sua presunta immortalità.
Io dicevo che l’anima è in estrema sintesi “la percezione di sè”.
Ora potrei aggiungere che la lettura è in qualche modo uno scrutare l’anima dell’autore e in quello scrutare c’è il riconoscere quella percezione e vederla un pò anche in se stessi: quasi un opera di fusione fra due percezioni in origine distinte che ora si sovrappongono; se il gioco riesce sì, in qualche modo si conosce l’immortalità, o almeno la si intuisce.
Pavese l’ha percepita e conosciuta prima da lettore e poi l’ha conseguita come autore. Forse è per questo che in qualche modo ha rinunciato alla sua vita quotidiana e mortale (“benché in mezzo ai fatti, preferiva piuttosto leggerli e interpretarli che viverli” scrive Manica): una scelta di campo a favore di quell’immortalità raggiungibile attraverso le sue letture e scritture.
Cesare Pavese ha accompagnato la mia adolescenza e gli anni successivi. Per un periodo, soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta, la sua opera sembrava essere stata un po’ dimenticata. Ho riletto, intorno al Duemila forse, a distanza di vent’anni dalla prima lettura, “La luna e i falò”: volevo sapere se la prova del tempo avesse incrinato la scrittura di Pavese. E a distanza di vent’anni ho ritrovato un libro splendido, e dalla quella scrittura, come succede per i capolavori, ho scoperto nuove meraviglie, e certamente, ad un’altra lettura, scoprirei nuova bellezza, così, all’infinito. Inoltre, le sue traduzioni dei grandi autori americani mi hanno spalancato (insieme a Vittorini) le porte d’un mondo (o meglio, di molti mondi).
«non c’innamoreremo mai di una di quelle idee per cui si accetta di morire». Questa è invece l’annotazione diaristica di Pavese riportata dall’articolo di Liucci che più mi ha colpito in questo momento.
Sarà perchè mi ci riconosco in pieno.
Sarà perchè in quest’epoca di rilancio dei fanatismi religiosi (ieri erano quelli politici, ma la valenza è identica) mi pare tanto attuale.
Correggo: e in quella scrittura (e non: e dalla quella scrittura)
Un ricordo di Pavese, ascoltato dalla voce di Fernanda Pivano nel 1995, in un teatro, a Conegliano Veneto.
La Pivano propose a Pavese, suo docente universitario nel dopoguerra, come tesi di laurea la traduzione d’un qualche autore inglese. Pavese invece le consigliò un autore americano sconosciuto in Italia, e le fece vedere “L’antologia di Spoon River”. Fernanda Pivano aprì a caso il libro e lesse una poesia (quella sull’uomo ammalato d’asma): si innamorò subito di quella poesia. La prima traduzione di Spoon River, un anno dopo, fu la sua.
Non l’ho mai amato, Pavese, piu’ per una questione di diversita’, anzi di vera e propria contrapposizione caratteriale e spirituale, che per dei criteri oggettivamente critico-letterari. E’ questione di pelle, un’incomprensione irrazionale e viscerale. Inspiegabile.
Pero’ ne omaggio il centenario della nascita con questo frammento di poesia, facendo tanto di cappello ad uno fra i piu’ amati, capaci e colti scrittori italiani della seconda meta’ del Novecento. I versi sono tratti da ”Paesaggio” (dalla raccolta ”Lavorare stanca”, 1936-’43).
–
Le colline insensibili che riempiono il cielo
sono vive nell’alba, poi restano immobili
come fossero secoli, e il sole le guarda.
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Ho letto diverse cose sue ma non sono mai riuscita ad entrare in sintonia. Mai. Leggevo e restavo lì con il libro in mano a guardarmi attorno. Eppure, Pavese era parte del grande bagaglio 68ino. Forse dovrei fare come Gaetano rilleggerlo ora, dopo tanto tempo.
in generale, ma per Pavese in particolare. essere in sintonia con un autore aiuta a comprenderlo. ci sono poi valutazioni (diciamo) oggettive. per questo penso che il Novecento sia stato nella letteratura di Pavese vissuto con grande partecipazione. ovviamente soprattutto negli eventi più drammatici. mi viene in mente un’antitesi (non so quanto plausibile) con Moravia che, invece, sembra sempre distaccato da ciò che lo circondava. Due aspetti di un secolo, in fondo. Anche se nessuno dei due a me personalmente coinvolgeva
Sul Secolo XIX è uscito un articolo di Giorgio Bertone. Lo incollo nel post successivo
Buongiorno a tutti e ben ritrovati, Mauger in particolare che altrimenti mi sgrida (metterò il sorriso anche se vorrei la faccina coi Ray ban).
🙂
Orbene, Pavese capisco che ad alcuni possa magari non entusiasmare: in verità una certa sua cupezza (presente anche nei romanzi più, come dire … solari) deve essere la ragione per cui molti uomini lo sopportano poco. Che dire, si può azzardare l’ipotesi che si tratti di un autore dalla femminile inclinazione introspettiva?
Non so, le sue atmosfere quasi slavate, i pallidi soli estivi che descrive a me arrivano sotto forma di poesia malinconica e profonda. Insomma lo “sento” o meglio lo capisco, in due parole mi piace.
Grego non so quanto Moravia fosse più rimosso dalla società circostante, forse usava più metafore. A me sembra che i suoi drammi borghesi raccontassero la realtà in senso allargato.
Può esse che me sbajo eh, magari me so’ fatta un film che non è.
Baci
Ah, volevo di’ che l’anonimo sarebbe fausta rigo, boh, adesso me da anonimo, vabbé è uguale.
RIEVOCARE Cesare Pavese vuol dire andare subito al di là delle ricorrenze (nacque a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908) e persino al di là delle collocazioni storiche. Significa misurarsi immediatamente con il “mito” e la sua trasformazione moderna, seguendolo fino al punto in cui il mito implode. Mito di una vita e di una morte.
Giugno 1950: premio Strega, ricevuto con aria svagata, accompagnato dall’attrice americana Doris Dowling. 24 agosto seguente: suicidio nell’albergo “Roma” di Torino. Ne nacque, piuttosto, una leggenda, o più leggende. L’imbarazzo dei comunisti era grande: un compagno non si toglie la vita. Fu Calvino, impegnatissimo, a trovare sulle pagine dell’ “Unità” la formula: “Si è ucciso perché tutti noi potessimo vivere meglio”. E costruì su di lui il mito del lavoratore, dell’intellettuale, narratore, editore indefettibile e instancabile. Nei suoi molteplici ritratti Natalia Ginzburg lanciò uno sguardo tutto diverso, tagliente fino alla carne: Pavese prevedeva tutto, programmava tutto, anche la sua morte e i suoi effetti sugli altri. Il mito maggiore resta però quello intrinseco alla sua pagina e al suo lavoro, anche di etnologo. Il primo grande impatto, quasi una sorta di rivelazione, fu il “Moby-Dick” di Hermann Melville, tradotto nel ‘32. Non a caso Pavese inclina a una interpretazione di “Moby-Dick” come “fosca tragedia morale”, piuttosto che come epopea romanzesca moderna di marinai avventurieri.Insomma, fissa “Moby-Dick” in un quadro tragico-mitico. E nel saggio su “Benito Cereno” spiegherà splendidamente il significato del mare: “Come già nell’enorme “Moby Dick”, anche in questo breve e perfetto “Benito Cereno” il mare è assai più che un ambiente: è il volto visibile, infinitamente ricco d’analogie, dell’arcana realtà delle cose.
E ciò è vero non soltanto nel noto senso che, facendosi poesia, qualunque ambiente perde la sua limpidezza documentaria e diventa creazione fantastica, ma nel senso, più raro, che il mare è qui la sola forma sensibile che agli occhi di Melville possa degnamente incarnare il cupo e ironico nòcciolo demoniaco dell’universo”. Questo è il “suo” mare. Il suo paesaggio. D’ora in poi Pavese intesserà una fitta rete, dentro i racconti e fuori, nella riflessione teorica, intorno al mito. Una rete che piano piano lo avvolgerà.
Intanto già nelle straordinarie poesie di “Lavorare stanca” parte dai Mari del Sud per tornare alle native Langhe nell’inseguimento del mito di traslazione e oscillazione Langhe-Torino nella vana ricerca di una formazione. In due famose lettere a Fernanda Pivano da Santo Stefano Belbo del 25 e 27 giugno 1942 chiude con una nota secca e importante: “Descrivere paesaggi è cretino. Bisogna che i paesaggi – meglio, i luoghi, cioè l’albero, le case, la vite, il sentiero, il burrone, eccetera – vivano come persone, come contadini, e cioè siano mitici (…). Non certo rifare quelli greci, ma seguire la loro importanza fantastica. (Inutile dire che è impossibile, dati i tempi di “lumi” – per questo digrigno i denti e mi mangio le unghie)”. Consapevole, dunque, e lucidamente, dell’impossibilità di riproposizione mitica nei nuovi tempi. Nei tempi di Freud e del simbolo. Il simbolo sessuale (per lui il fiume, la collina), legato alla fissazione infantile e alla memoria traumatica del singolo individuo. “Moby Dick” poteva bene riproporre un’epica sulle basi di un mito collettivo riconosciuto: la Bibbia e il lavoro partecipato dei balenieri. Ma un intellettuale italiano? Un intellettuale sabaudo intriso di esistenzialismo? Quando allora ascoltiamo la sua formula “il mito è sempre un simbolo” ne cogliamo l’eco crudelemente ossimorica. Il dramma dell’uomo moderno che coltivò il “mito del mito”. Oppure vi scorgiamo l’unico mito che un uomo intriso e soggiogato dalla modernità poteva realizzare: il mito del destino. Del proprio. Così rileggo oggi il capolavoro della “Luna e i falò”. Con quel famoso e magnifico finale. Santa, la ragazza che ha fatto il doppio gioco tra fascisti e partigiani è stata giustiziata a raffiche di mitra, racconta a cose fatte a Nuto, l’amico di Anguilla: “Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto d’un falò”. Un finale perfetto, più memorabile dell’incipit (”C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli…”). Perfetto non solo perché nel “letto del falò” giacciono e si compongono insieme la mitologia rurale (il falò) e le vicende storiche (la guerra), ambedue pareggiate in un simbolo di rinascita ciclica, di rito sacrificale, ma senza redenzione, senza però ricominciamento.
Insomma, il mito più a lungo perseguito da Pavese: la conversione di luoghi e uomini in sangue, fuoco, luna, sesso, terra, carne, perfusi di valenza mitologica. Ma la guerra, la lotta partigiana, le classi, i rossi e i neri, nel “romanzo” hanno un rilievo tenue, qua e là paiono un poco appiccicati, un poco voluti e inseriti, pronti, negli anni cinquanta, per essere fraintesi. Di gran lunga maggiore il tema della violenza del sesso o meglio di quella sensualità di cui è impregnata ogni pagina, ogni accenno di gesto, d’odore o di colore – che tanto affascinava i giovani lettori d’allora e non credo più quelli d’oggi – e soprattutto della violenza contadina, violenza di conflitti, sulla terra, sugli animali – gli uomini come animali- sulle donne. Fu il suo supremo sforzo. Forse si potrebbe sostenere che nell’impossibilità di realizzare il mito del destino sulla pagina, questo verrà realizzato nella vita e con la morte. Come rivela il Diario nelle ultime righe prima del suicidio, se interpretato in nuova chiave. Al posto delle parole (“Non parole”), oramai inutili e fallimentari sotto questo aspetto, un atto (“un gesto”), cioè un rito antico ed efficace che sostituisce quello altrettanto antico ma inerte della scrittura (“Non scriverò più”).
Enrico ha ragione, su Pavese: ha rappresentato il suo tempo. Per una ragazzina (come ero io) leggerlo mi faceva stare male, anzi mi disturbava proprio. Può darsi che lo rileggerò, ma più avanti, in questo momento mi sto dedicando ad altro. Sto leggendo Verne (in omaggio ad Alessandro d’Egitto) e Maledetti architetti di Tom Wolfe che ai tempi mi era sfuggito perché, come oggi, presa , sarebbe meglio dire avvolta, dalle bianche e durissime bende.
🙂
L’angoscia vera è fatta di noia. (da Il carcere, Einaudi)
[citazione di Pavese]
L’uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente. (da Lavorare stanca, Einaudi)
[citazione di Pavese]
@ Fausta Rigo:
ciao, bentornata. Ti faccio una domanda fuori tema: la tua opinione sulla nuova rivista del Sole 24 Ore che uscirà il 19 settembre “Il, l’uomo come era una volta”. Proponiamo a Massimo di aprire un post?
Ciao, Miriam
🙂
Ps: la copertina del primo numero è dedicata ad Obama.
Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. Cesare Pavese.
………………………..
Parole d’addio riportate sul frontespizio di una copia dei Dialoghi con Leucò, ritrovata su un tavolino accanto al suo corpo senza vita. Il 27 agosto 1950, Pavese si suicidò con una dose eccessiva di barbiturici in una camera al terzo piano dell’Hotel Roma in piazza Carlo Felice, a Torino. Lo indussero a compiere questo «atto di ambizione» (vedi anche la pagina di diario del 16 gennaio 1938) la delusione amorosa per la fine del rapporto sentimentale con l’attrice americana Constance Dowling – cui dedicò gli ultimi versi di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi – e il disagio esistenziale che per tutta la vita aveva cercato di vincere.
La fine di Pavese dimostra che si può morire per amore.
Mi domando se sia giusto morire per amore.
Comunque sia, un grande saluto a Cesare Pavese.
L’uomo è una bestia che vorrebbe far niente?
E’ un immagine innaturale, soggettiva. L’uomo ama fare, sempre e in ogni stagione della sua età. basta osservare i bimbi che da subito “costruiscono”, ispezionando, valutando tutto ciò che viene a contatto con loro; è parte dell’istinto. Solo una mente “educata” rinuncia al fare, e lo fa per scelta, però allora la scelta, la decisione del non fare è essa stessa un fare. Bastano poche parole per riportarmi alle sensazioni di tanti anni fa. E forse non è nemmeno vero che Pavese rappresentava il suo tempo. Ci rifletto e ritorno.
Ciao
E’ molto interessante anche il percorso umano e letterario del Pavese traduttore. Perchè coincise con una riflessione sullo stile. E, attaverso questo, con una immersione nella dimensione dell’atto creativo della parola.
Dice infatti Pavese ne “Il mestiere di vivere”:
“Che noi conosciamo uno stile vuol dire che ci siamo resa nota una parte del nostro mistero”.
Ciò perchè per Pavese, abituato ai lunghi esercizi sui testi di Sinclair Lewis, Melville,Sherwood Anderson, lo stile non era forma. Tecnica. Involucro.Ma modo d’essere. Identità.
Ragione per vivere.
Aggiunge:
“Verrà il giorno in cui avremo portato alla luce tutto il nostro mistero.E allora non sapremo più scrivere. Cioè inventare lo stile”.
–
Parallelamente alla riflessione sulla dimensione inafferrabile e “misteriosa” della parola, all’ansia di assoluto che la domina, alla necessità di farne una compagna, Pavese approfondisce l’amore per lo slang americano, per i gerghi popolari, per il linguaggio che nasce dall’uomo senza artifici. Senza maschere. Nudo della sola esigenza di comunicare.
Il risultato sarà un misto tra lingua parlata e lingua colta. Tra generi diversi (le poesie-racconto), tra regole della metrica e libertà della strada.
Una fantasia di simboli e realtà. Di dimensione ultraterrena e di affondo nell’uomo.
Di volontà di vivere e incapacità di farlo.
Fu per questi motivi che Carlo Salinari coniò per Pavese la definizione (calzante, a mio avviso) di “realismo simbolico”.
Considerando che l’uomo spesse volte fa danno, farebbe bene a non far niente. Almeno in certe circostanze
Morire per amore? Mai e poi mai.
Morire per amore è sempre sbagliato. Anche perché, prima o poi, l’amore finisce. Sempre.
@ Ugo C :
“mi domando se sia giusto morire per amore”, ognuno può decidere il significato della sua vita e della sua morte; è una scelta e opinabile solo per certi aspetti. Personalmente sul gesto ultimo, preferisco tacere e riflettere intimamente e in ogni caso.
Quello che invece “non è giusto” o quanto meno, a me irrita sempre e comunque, è il mito che si lega alla vita degli uomini riassunta in parte, che si propone e ripropone senza pudore. Erano anni, i suoi, dove il fascino del mito veniva riformulato in una versione “appetibile” con grande confusione sotto il sole. Ad idee (sacrosante) di rivolta, nate dal pensiero e dalla ricerca di un senso nuovo per società eque e democratiche, si affiancavano nuove forme di potere, totalitarie, alimentate con una nuova mitologia, “semplice” e spaventosa. Purtroppo, la fine della catastrofe non riuscì a rimuovere quel bisogno di identificazione e se ne alimentarono altri, soprattutto da noi dove la presenza di un PCI forte ed organizzato che dell’egemonia culturale faceva bandiera. Legati alla mobilità del pensiero intellettuale, cristallizzandolo però in un contesto di astrazione ragionevole. Durissimo momento per un intellettuale e infatti gli anni cinquanta furono i tempi della diaspora; in molti se ne andarono da qualche parte e più o meno in pace
@ Simona:
le lingue sono un corpo in movimento, da sempre! Benissimo riflettere sullo lo slang americano, ma qui era già successo, secoli e secoli fa, con il latino che si espandeva fra i popoli contaminandosi e “generando”.
Vedi, queste tue ultime considerazioni nascono dal nostro prostrarci ai “miti”, un modo di fare che pesa come un blocco di cemento legato ai piedi.
Cosa c’è di straordinariamente significativo in queste riflessioni che tu ci riporti? Niente, basta aprire un vocabolario e leggere gli etimi delle parole per comprendere che le lingue si trasformano . Don Milani, schietto e forte come sempre, riassumeva così: Le lingue le fanno i poveri, i ricchi le cristallizzano per poi sfottervi perché non parlate come loro. (dalla scuola di Barbiana)
Liberiamoci dalle mitizzazioni e così sia!
Baciotto grande e passa sul post del romanzo fiume, c’è una domanda culinaria per te. Buona giornata.
Miriam
Non credo si possa morire per amore. Si muore per “mal di vivere”. Ad esso può essere collegato anche l’amore, ma è una componente di un contesto molto più ampio, che ci fa sentire inadeguati, incapaci di agire, di affrontare la realtà e che può realmente portare all’autodistruzione.
Morire solo per amore è un altro discorso: è il sacrificio; muoio io perchè tu ti salvi. E’ un atto di estremo eroismo. Come quello del pensionato che ha salvato i due bambini nel mare di Ravenna. Amore per il prossimo, in senso generico: i bambini neanche li conosceva.
E può essere lo stesso per chi mette in gioco la propria vita per un coniuge, un figlio, una persona amata. Questo è il solo vero “morire per amore”.
Che non si muore per amore
è una gran bella verità
però dolcissimo mio amore
ecco quello
quello che
da domani
mi accadrà
IO VIVRO’
(…)
piangerò
Buongiorno a tutti, e buon salotto in questa confortevole casa di cultura.
Un post breve breve prima di correre a scuola: io ho amato moltissimo il Melville tradotto da Pavese. Ho letto almeno tre volte Moby Dick nella sua versione, che è nello stesso tempo concreta e estremamente poetica, con un uso della lingua pastoso e efficacissimo. Tanto che fatico a immaginare questo testo tradotto da altre mani. E capisco l’inquietudine che può invadere un traduttore confrontandosi con un’opera come questa. Il termine di paragone è talmente solido da sembrare non superabile.
Un caro saluto a tutti, Massimo per primo.
Fiorenza
In effetti oggi è anche l’anniversario della scomparsa di Lucio Battisti.
Letterariamente c’è un pò di differenza tra Mogol e Pavese, ma le strofe qui sopra in qualche modo confermano anche il mio precedente discorso.
Un grazie a chi lo ha ricordato postandocele.
Ciao anche a Lucio.
@Mia cara Miriam: sì, è vero. La magmaticità della parola, il suo movimento, il passaggio dalla staticità alla vita, è una realtà immanente al’uomo. Al poeta. Allo scrittore. Da sempre.
Ma la novità di Pavese sta nell’aver agganciato questa evoluzione (nata dall’assiduo esercizio della traduzione) alla propria identità. Alla propria ricerca. Alla propria ansia di una realtà spirituale.
Al punto da morire – cioè , per lui, cessare di scrivere – per l’esaurimento del mistero.
E’ lo stesso mistero ( e lo stesso meccanismo) che lo lega ai suoi amori sfortunati.
E che rimanda sempre a una irrisolta ricerca di sè.
Parola e amore sono specchi. E lo sono nella misura in cui scavano in lui, lo instradano a trovarsi.
Scrive infatti nei giorni precedenti il suicidio:
“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perchè un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”.
–
Un baciotto a te Miriam e….passo in cucina….
@ carlo
25 Marzo 1950
Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla.
da ”il mestiere di vivere”
io sono torinese, ho studiato nel suo glorioso liceo, e mio padre
è delle sue parti:Pavese l’ho sempre detestato.Completamente.
E quel biglietto’Non fate troppi pettegolezzi’:Pavese non mi piace,sotto tutti i punti di vista
@Gea: Abbiamo scritto la stessa cosa!
E’ significativo che Pavese riporti quelle parole nel suo diario ( e in una lettera alla sorella dove aggiunge: “sto bene come un pesce nel ghiaccio) pochi giorni prima della sua morte (Agosto 1950, il 24 Giugno aveva ricevuto il premio Strega per “la bella estate”. La morte è del 26 Agosto).
è il suo mettersi a nudo senza ipocrisia in maniera a volte persino imbarazzante quello di lui che ho amato in maniera viscerale…
credo sia l’autore italiano di cui possiedo quasi tutto, è diventato negli anni la mia cassaforte, a volte mi ha fatto male, avrei voluto buttare le sue pagine dalal fienstra, ma sapevo che sarei corsa a riprenderle sempre e comunque
Perché vergogna? Quando uno ha pagato il suo tempo, /
se lo lasciano uscire, è perché è come tutti /
e ce n’è della gente per strada, che è stata in prigione. /
……
@ gea:
ma perchè siamo così infermi?
Pavese è deprimente, forse può sembrarci sublime (in certi momenti della nostra vita) ma, spero, non un maestro. Se confronti i suoi pensieri ad altri suoi coetanei la sua “originalità” scompare, si annienta in un mare di banalità colte. Poi, la sua scrittura può piacere e anche avere un certo fascino, ma era un decadente. Sia pace all’anima sua.
sono perfettamente d’accordo con chicca. e aggiungo che se delle pagine fanno male vuol dire che sono efficaci e che hanno raggiunto il loro scopo
miriam, se le pagine sono efficaci hanno raggiunto il loro scopo.
la cultura se è davvero tale non è mai banale. e il concetto di originalità è soggettivo. e l’essere decadenti è perfettamente in tono con una società decadente.
poi, ognuno ha i suoi gusti.
@ Maddalena:
ma era il loro scopo? Non te lo chiedi mai?
Con simpatia
🙂
@Maddalena:
ancora una cosa; quale decadenza? quella degli anni 40, quando si doveva combattere contro il nazismo, o quella degli anni 50 quando tutto doveva essere ricostruito e le macerie rimosse? Oggi siamo decadenti, ma alle generazioni che si affacciano che messaggio trasmettiamo, quello che per amore ci si uccide perché scopriamo di essere dei pezzi di ………
ancora con moltissima empatia
🙂
la decadenza che ha attraversato l’intero novecento, che ha incrociato l’italietta e i falsi fasti del fascismo e la discutibile ricostruzione del dopoguerra. con l’eccezione, forse, dello sviluppo economico che ha interessato gli anni sessanta.
ma pavese era morto prima.
credo sia scorretto ridurre al figura di pavese all’atto del suo suicidio.
non possiamo mai sapere cosa passa davvero per la mente di un uomo che decide di togliersi la vita. discutiamo le opere, non le tragedie personali.
Mio marito è un grande ammiratore e conoscitore di Pavese. Nel museo di Pinolo Scaglione c’è una sua fotografia con Nuto, e ha delle lettere inviategli da Nuto stesso.
Quindi per noi in famiglia è un giorno speciale, è il compleanno di mio marito e mia suocera, e per noi non è stato mai un caso.
Auguri a tutti, a mio marito a mia suocera, e al grande Cesare che ci guarda da lassù.
Un altro elemento vorrei aggiungere, io e mio marito ci siamo innamorati parlando dei libri di Cesare Pavese, io li avevo letti tutti e mi ero appassionata, lui ovviamente li conosceva a menadito.
Io avevo degli appunti da fare sulla visione di Pavese riguardo alle donne, lui mi dava ragione, ma mi raccontava la storia della sua vita, e mi spiegava da dove veniva il suo punto di vista. Era la fine degli anni 70, e mio marito in vacanza andava in Piemonte, per conoscere i luoghi del suo idolo. Noi siamo veneti, ma per noi il Piemonte è come una seconda regione, come per molti veneti, che hanno parenti lì.
Comunque la poetica di Pavese è ancora molto attuale, peccato che nelle scuole se ne parli così poco!
Talvolta si parla d’un autore attraverso la lettura d’una sua recensione, senza averlo mai letto, oppure attraverso ricordi confusi e frammentari relativi alla lettura di opere di quell’autore. E altre volte si confonde la discussione sull’opera letteraria con quella sulla biografia dell’autore (c’è il pregiudizio che opera letteraria e biografia debbano essere comunque collegate). O altre volte si fa sociologia delle letteratura, equivocandola con una discussione sulla scrittura d’un autore. Anche qui su Pavese, mi sembra che in tanti si parli di cose diverse, pensando invece di parlare ognuno intorno a uno stesso tema.
@ Miriam
tu dici:
“””Se confronti i suoi pensieri ad altri suoi coetanei la sua “originalità” scompare, si annienta in un mare di banalità colte. Poi, la sua scrittura può piacere e anche avere un certo fascino, ma era un decadente.”””
beh io penso che una persona (come scrive La Capria nella sua recensione) che abbia questo coraggio
“”quando dice di contentarsi «dell’umiltà con cui mi sottopongo al mio destino» poi aggiunge dubbioso; «se non è pigrizia o vigliaccheria». Un dubbio che in un super-cosciente come lui affiora sempre e in un certo senso lo perseguitò anche negli anni che seguirono”””
è tutto fuorchè decadente, è spietato con se stesso , cosa che i suoi “contemporanei” han fatto molto meno…
e poi sì è questione di gusti , concordo senza dubbio
vorrei lasciare questi versi che mi hanno seguito da quando ho memoria…
Pensieri di Dina (da lavorare stanca)
Dentro l’acqua che scorre ormai limpida e fresca di sole,
è un piacere gettarsi: a quest’ora non viene nessuno.
Fanno rabbrividire, le scorze dei pioppi, a toccarle col corpo,
più che l’acqua scrosciante di un tuffo. Sott’acqua è ancor buio,
e fa un gelo che accoppa, ma basta saltare nel sole
e si torna a guardare le cose con gli occhi lavati.
E’ un piacere distendersi nuda sull’erba già calda
e cercare con gli occhi socchiusi le grandi colline
che sormontano i pioppi e mi vedono nuda
e nessuno di là se ne accorge. Quel vecchio in mutande
e cappello, che andava a pescare, mi ha visto tuffarmi,
ma ha creduto che fossi un ragazzo e nemmeno ha parlato.
Questa sera ritorno una donna nell’abito rosso
-non lo sanno che sono ora stesa qui nuda quegli uomini
che mi fanno i sorrisi per strada- ritorno vestita
a pigliare i sorrisi. Non sanno quegli uomini
che stasera avrò fianchi più forti, nell’abito rosso,
e sarò un’altra donna. Nessuno mi vede quaggiù:
e al di là dalle piante ci son sabbiatori più forti
di quegli altri che fanno i sorrisi: nessuno mi vede.
Sono sciocchi gli uomini – stasera ballando con tutti
Io sarò come nuda, come ora, e nessuno saprà
che poteva trovarmi qui sol. Sarò come loro.
Solamente, gli sciocchi, vorranno abbracciarmi ben stretta,
bisbigliarmi proposte da furbi. Ma cosa m’importa
delle loro carezze? So farmi carezze da me.
Questa sera dovremmo poter stare nudi e vederci
senza fare sorrisi da furbi. Io sola sorrido
a distendermi qui dentro l’erba e nessuno lo sa.
(23-24 marzo 1933)
questa era stata tolta nella prima edizione per volere dell’ufficio censura della prefettura di firenze
”non fate pettegolezzi”.
trovo profondamente scorretto sindacare le scelte personali di chiunque, e giudicare qualcuno per la sua sofferenza.
pavese è stato per me un grande scrittore, e una grande figura di intellettuale.
intellettuale vero, che non pretende di essere maestro di vita agli altri, che ha condiviso col mondo il suo amore per la letteratura e la scrittura.
sul fatto che uno possa ritenere se stesso non adeguato e trarne conseguenze estreme non me la sento di sindacare: ognuno conosce gli inferni suoi.
può piacere o meno, pavese, come scrittore. son gusti.
come persona, non sta a noi.
a pelle devo dire che preferisco di gran lunga chi si mette sempre in discussione, magari eccedendo, a chi di dubbi non ne ha mai, e in tasca, tra gli spiccioli, è convinto di avere la verità.
Gli anniversari mi fanno impressione. Specie questo. Mia nonna paterna se fosse viva ieri avrebbe compiuto 100 anni. 8 settembre 1908. E’ vissuta più di novant’anni, al contrario di Pavese. Io facevo riferimento a lei pensando a Vittorini Pavese e al terremoto di Messina. Persone e fatti lontani e vicinissimi.
Claudio Fava è un estimatore di Pavese, che ci ha fatto leggere e studiare durante un corso di scrittura. Io amo “Lavorare stanca” e “La luna e i falò”. Scrittura asciutta e lirica allo stesso tempo. Da rileggere e considerare classico.
Non fa parte dei 2 autori che avrei salvato secondo i dettami del famigerato post di qualche tempo fa del mai ringraziato a sufficienza Massimo Maugeri… (ricordate ? potete conservare solo 2 libri, uno per l’800 e uno per il ‘900 come espressione maxima dell’umanità ecc.ecc.)
Ma forse solo perchè l’ho letto troppo “presto”, quando ancora non ero maturo per apprezzarlo. O forse perchè se non si ha avuto lo stesso suo trascorso, se non si è respirato la sua aria piemontana (!), è difficile sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda.
Non prometto neanche di rileggerlo oggi… scarsa libido (e poi non sono molto più maturo di allora, almeno spero).
Mi scuso in anticipo coi suoi estimatori, la mia è solo una misera opinione.
Buon pomeriggio!
Ringrazio tutti voi per i vostri interventi.
(E grazie, Gluck, per il commento qui sopra).
Sono state espresse opinioni discordanti, e va bene così.
I dibattiti, del resto, senza divergenza d’opinione non potrebbero neppure sorgere.
E’ interessante, però, constatare che ancora oggi Pavese riesce a far parlare di sé e delle proprie opere.
Io mi schiero tra coloro che considerano Pavese un valente intellettuale… uno scrittore che ha dato un importante contributo alla crescita della letteratura italiana del Novecento.
… pur rispettando l’opinione di chi la pensa diversamente.
Mi ha fatto sorridere questa frase della lettera (vedi post) che Pavese mandò a Einaudi il 28 febbraio del ’46: “Se come primo risultato della tua politica di risanamento e ripresa, gli impiegati romani – compreso io – devono rimandare a domani il pranzo e la cena, allora ti consiglio di cambiare mestiere e lasciare il campo a gente dalla testa sul collo.”
—
Non le mandava a dire, vero?
🙂
Mi piacerebbe – tempo permettendo – approfondire ulteriormente la figura di Pavese traduttore.
–
Sono d’accordo con chi ha messo in risalto la bellezza della traduzione di “Moby Dick” di Melville.
E poi… è vero: oggi decorre il decennale della morte di Lucio Battisti.
Il nostro pensiero va anche a questo grande artista della musica leggera nazionale.
@ Gea
A me piace “eccedere” proprio perché ho molti dubbi; e mi piace provocare e leggere poi le risposte a pelle scorticata. Io ho avuto la stessa esperienza di Gluck: l’ho letto quando ero troppo giovane e in quegli anni si sceglieva fra poche cose, pochissime; soffrivamo tutti un po’, senza saperlo, per quelle imposizioni che ci calavano addosso. Pavese era consigliato dai compagni grandi e così per senso politico ci adeguavamo. Altri nostri coetanei, invece, ascoltavano la musica e andavano ai concerti, vivendo più adeguatamente la loro gioventù.
Conta, sempre ed eccome l’esperienza personale che ti avvicina ad un autore; il contatto si impianta nella memoria per sentimenti e suggestioni, buone o cattive che siano.
@ Chicca
quella poesia che tu hai postato, me ne ha ricordata una di Garcia Lorca, dedicata anche quella ad una donna vicino ad un fiume, non ricordo il titolo, ma ricordo che dalle immagini traspariva il colore verde. Le suggestioni erano le stesse. Musica grandiosa, purtroppo, il gambone non mi permette di raggiungere il testo.
A proposito di Pavese traduttore…
sul numero di Tuttolibri di sabato scorso è stato pubblicato anche un bel pezzo di Claudio Gorlier.
L’ho trovato molto interessante e vi invito a leggerlo e (se volete) a commentarlo.
(Lo inserisco di seguito, come commento).
da TUTTOLIBRI di sabato, 6 settembre
—
Nel Borgo di Faulkner come in Langa
di CLAUDIO GORLIER
—
«L’arte di maturare», il saggio di Cesare Pavese pubblicato postumo e che chiude “La letteratura americana e altri saggi”, porta la data del 14-16 agosto 1949: un lascito prezioso, quasi simbolico, ove si addita l’importanza «del secolo americano».
«Di quest’arte americana», secondo Pavese, colpisce in particolare «il suo intemperante autobiografismo».
Bene: mi sembra che qui Pavese faccia risolutamente un esercizio di autobiografia, non confessionale, non autoreferenziale, ma decisamente programmatica.
Mi pare questo un appropriato punto di partenza per esplorare il territorio dei libri di Pavese, quelli che gli erano cari e insieme i suoi. In questo senso, il volume curato da Claudio Pavese e da Franco Vaccaneo, “Cesare
Pavese. I libri”, strutturato quale nucleo di una biblioteca ideale, va accolto quale proposta pur discutibile nel suo impianto.
Il territorio variegato delle frequentazioni culturali di Pavese sostanzia un esercizio insieme speculativo e creativo, in perenne esplorazione, e insieme serbatoio della reinvenzione. Si dà ormai per scontato che la frequentazione cruciale sia quella con la letteratura degli Stati Uniti, e su questo non esistono dubbi.
Ma preferirei allargare la prospettiva, ovviamente affrontando la problematica del Pavese traduttore.
Se, da un lato, Pavese affronta la traduzione con rigore filologico – direi quasi missionario alla luce del suo progetto – per offrire a un lettore ideale testi esemplari, dall’altro vi si muove come in una officina destinata innanzitutto a se stesso. Insomma, si trova qui la radice della sua educazione sentimentale, nel senso flaubertiano della parola. Allora, sfogliamo pure il volume cui mi riferisco, e verifichiamo qualche titolo esemplare. Comincerei non con un americano, ma con un inglese. Mi riferisco alla traduzione di “Moll Flanders” di Daniel Defoe, pubblicata da Einaudi nel 1938. Nel risvolto della sovraccoperta, Pavese raccomanda questa vicenda «di una donna in mezzo e contro una società delle più corrotte e ricche di contrasti che vedesse la nostra Europa». Non basta: egli si cimenta con uno degli esemplari più significativi che caratterizzano la nascita del romanzo moderno, e sperimenta una prosa moderna che lo salvaguardi ma insieme lo appropri. Fu criticato per alcune soluzioni (tipo «madama» o «madamina») giudicate addirittura dei piemontesismi.
L’operazione acquisterà naturalmente coordinate di sempre maggiore ampiezza con gli americani, dove l’appropriazione andrà ben oltre i confini puramente letterari. Sottolineo la ammirevole Prefazione di Italo Calvino al volume di saggi americani, dove egli rimanda alla definizione pavesiana dell’America come «il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti».
Contano sempre più manifestamente, nel corso delle scelte di Pavese, da un lato opere ove mito e realtà si fondono, e naturalmente qui spicca “Moby Dick” di Herman Melville, dall’altro romanzi dove lievita lo specifico locale fino a porsi quale concreta, quotidiana allegoria.
Il mio amico Eugenio Corsini, che dichiaratamente conosce gli Stati Uniti in termini a dir poco generali, mi disse che lui, genuino langarolo, nella traduzione pavesiana di “The Hamlet, Il Borgo”, di William Faulkner, aveva scoperto una autentica Langa americana. Per questo dico che l’osmosi tra il Pavese traduttore e il Pavese scopritore e traduttore degli americani mi sembra incontrovertibile. Non solo: si tratta di un’esperienza speculativa
e insieme militante, racchiusa nei confini cui accennavo.
Pavese non sentì mai il desiderio di visitare gli Stati Uniti. Di più: nell’immediato dopoguerra giudicò chiusa la grande stagione letteraria americana, a differenza di Elio Vittorini, che continuò letteralmente a nuotarvi e, lo si rammenti, a tradurre con divertita libertà, anche se a lungo resistettero equivoci comuni a tutti: rammento l’autore dell’ “Antologia di Spoon River”, che si chiamava di cognome Masters, essendo Edgar Lee i suoi nomi.
Vorrei però, quale sigillo del mio discorso, mettere nel conto i modelli, gli esemplari piemontesi, da non trascurare per il piemontese Pavese. Un nome, in particolare, deve figurare nella biblioteca personale di Pavese, quello di Augusto Monti; sicuramente per la sua figura di maestro, ma anche per il suo talento di scrittore, ben noto a Pavese.
Non meravigliatevi, dunque, se saluto con gioia una recente ristampa, con prefazione, vedi caso, di Massimo Mila, di “I Sansôssi” (Araba Fenice Editore).
Pavese avrebbe approvato.
Claudio Gorlier
@ Miriam e Gluck
Provate a rileggere Pavese. Magari potreste scegliere lo stesso libro e confrontare, pubblicamente, le vostre opinioni – conseguenti alla rilettura – proprio nell’ambito di questo post.
Potreste ricredervi… oppure le vostre perplessità potrebbero trovar conferma.
Che ne dite?
A dopo!
Grazie ancora a tutti. E un caldo benvenuto a chi ha scritto per la prima volta.
–
@ Fiorenza Aste:
Ehilà, come stai?
io non giudico e non commento le adolescenze altrui.
la mia è stata sufficientemente difficile di suo.
io andavo a concerti, ascoltavo musica E leggevo.
facevo politica, mi drogavo, scopavo E leggevo.
litigavo con i compagni più grandi, le prendevo da tutti E leggevo.
molte cose sono svanite nel nulla, sbiadite con i lividi delle botte.
la musica e le letture sono rimaste, tutte.
@ Massi:
sono d’accordissimo con te nel sottolineare l’importanza di Pavese traduttore, come dicevo anche prima.
E questo perché il lavoro di traduttore fu decisivo per la sua attività di scrittore. E’ attraverso l’incontro con “gli americani” (anni 30 e 40) che Pavese affina e matura la direzione del proprio percorso (lui stesso qualche anno più tardi dirà che senza un violentissimo amore letterario per i mari del sud dell’Oceania ottocentesca e dell’America del xx secolo non avrebbe scritto “Paesi tuoi “ e “lavorare stanca”).
Pavese tradusse “Il nostro Signor Wrenn “ di Sinclair Lewis, “Moby Dick “ di Melville e “Riso nero” di Sherwood Anderson. Da Andersono accolse temi a lui congeniali (la solitudine umana, il contrasto città-campagna,la realtà del mondo operaio), da Melville assorbì il valore del mito, da Lewis respirò quell’”atmosfera americana” che ebbe per lui più il valore di una formazione , di una scoperta iniziatica che di un gusto esclusivamente formale.
Io trovo che il guizzo della balena bianca di Mody Dick, il suo affondo nella schiuma del mare, debba a Pavese una trasposizione davvero assimilabile ai grandiosi miti greci.
E infatti mito, simbolo e spiritualizzazione saranno i cardini della sua poetica e il frutto delle letture americane.
” Il mito è una norma. Lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte. E trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini.Come nell’infanzia: è fuori tempo” (da : “Del mito,del simbolo e d’altro”, in “Feria d’Agosto”, C. Pavese).
@ Massimo:
è così bello avere idee diverse, altrimenti Letteratitudine non sarebbe quello che invece è: un posto dove un po’ si commenta, un po’ si dice, si ricorda e più o meno si dialoga e ci si confronta. Oppure, peggio ancora sarebbe solo un sito celebrativo o di presentazione, un blog come tanti, non trovi?
🙂
@ Gea
Bello il riferimento alla “centralità” della Lettura, nella tua vita. Grazie.
Una domanda per te.
Se dovessi consigliare un’opera di Pavese a chi non lo ha mai letto (un/a ragazzo/a, per esempio), quale libro proporresti?
@ Simo
Grazie per il tuo ulteriore – e ottimo – contributo su Pavese scrittore (che, come avrai capito, è uno degli aspetti di Pavese che prediligo).
Molto bello il riferimento al mito.
Perentoria la frase iniziale della citazione.
“Il mito è una norma.”
Ma pensi che quella frase possa valere anche oggi?
Pensi che nella letteratura odierna il mito sia ancora una norma?
Ma certo, Miriam!
L’ho scritto anche in un commento precedente:
“Sono state espresse opinioni discordanti, e va bene così.
I dibattiti, del resto, senza divergenza d’opinione non potrebbero neppure sorgere.”
Se non ci fossero opinioni contrastanti potremmo chiudere bottega!
🙂
L’importante è non scadere nel litigio e nelle strumentalizzazioni. E tenere a mente quella frase scritta nell’avvertenza (colonna di sinistra del blog): “La libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui.”
E ricordarsi che questo blog nasce principalmente come “luogo d’incontro”.
Ma su questo siamo tutti d’accordo. Altrimenti non saremmo qui.
@ massimo
sarò trasgressiva, e dirò ”moby dick”.
in quella traduzione c’è la summa della sua poetica, della sua idea di letteratura.
e poi, a seguire, il resto. forse i ”dialoghi” per primi.
ultimo ”il mestiere di vivere”.
non perché sia pericoloso, o fuorviante.
perché non è facile da capire davvero.
le poesie, sempre.
tutte.
Gea, se parli di “Moby Dick” a me… sfondi una porta aperta.
🙂
Perfettamente d’accordo.
Quella traduzione è un capolavoro!
Qualcuno sostiene che è un po’ datata… ma chissenefrega.
oddio, i miei figli hanno detto: ma è scritto in italiano antico!
e se lo sono letto in inglese..
🙂
Davvero?
Ma sono bravissimi!
Però anche l’americano di Melville ha la sua età:)
sarà che gli fa meno impressione, non so.
o che si son sentiti autorizzati, con la scusa, a saltare dei pezzi (pennac rules, a casa mia)…
🙂
@ Massi:
Io credo che il mito sia norma nel senso “giuridico” della parola. Nel senso che “codifica” i comportamenti, le esperienze, la vita nei suoi vari risvolti e li propone sotto un solo nome che evoca subito un significato. O un valore. O un evento.
La dimensione mitologica a mio avviso continua a dominare la letteratura, la psicologia, il diritto. La nostra stessa vita quotidiana anche senza consapevolezza da parte nostra.
Penso ad Amore e psiche. Ai risvolti razionali ed emotivi dell’amore che tanta partae hanno nella letteratura attuale (persino in Paolo Giordano nella “Solitudine dei numeri primi”). O al mito del minotauro. Che continua ad affascinare (Durenmatt, ma anche l’israeliano Tamuz). O alla Medusa, ai suoi tentacoli (Melania Mazzucco).
Moltissime storie moderne sono rifacimento di un mito.
E anche in Pavese de “La bella estate”, c’è l’ansia di rompere gli schemi. Di forzare il limite. Di superare la barriera.
Un volo che ricorda moltissimo l’audacia di Icaro.
Sono d’accordo con te, Simona.
Grazie mille.
Che l’audacia di Icaro possa guidare la penna degli scrittori (purché non perdano le penne a causa di una caduta da alta quota).
😉
Buona giornata a tutti.
La discussione, qui, rimane aperta per eventuali ulteriori considerazioni su Cesare Pavese.
bel post e bella discussione. Complimenti a tutti
Segnalo il “Centro studi pavese” a Santo Stefano Belbo.
Venite a dare un’occhiata:
http://www.centrostudipavese.it/
esare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno pascolianamente con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto sull’indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso.
Molti si sono occupati dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della natura e sempre pronto ad isolarsi dagli altri, a nascondersi, a inseguire farfalle e uccelli, a sondare il mistero dei boschi.
Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo tende a evidenziare due elementi fondamentali: la morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua freddezza e il suo riserbo, attuerà un sistema educativo più da padre asciutto e aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al «vizio assurdo», la vocazione suicida. Ritroviamo infatti sempre un accenno alla mania suicida in tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.
Questo mondo adolescente di Cesare, così difficile, così traboccante di solitudine e di isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica della adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del padre e mondo femminile in cui viene allevato, desiderio inconscio di autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile forse, ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de Il mestiere di vivere.
Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare a questi primi anni, non si può negare che si profila subito in essi la storia di un destino tragico e amaro, evidenziato da un disperato bisogno d’amore, da una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni interpersonali, destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere solo.
Dibattuto tra gli estremi di una orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come schermo metaforico della sua condizione esistenziale» (Venturi), in essa cercando la risoluzione dei suoi conflitti interiori.
Studia nell’Istituto Sociale dei Gesuiti e nel Ginnasio moderno, quindi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo D’Azeglio è di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante a impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.
Cesare trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonisti dei suoi romanzi. Ha la sensazione di essere giovane, rinato e, negli ultimi anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro della sua anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio con gli altri. Quella donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso, quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma una nube dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico». Quelle colline e quel cielo tornano ancora umanissimi come il «dolce incavo della sua bocca».
Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Gli anni del liceo e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello dell’amicizia: tutto contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della politica, i caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in collina, le vogate sul Po che rinvigoriscono il suo corpo, precocemente squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una grande fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti, i tram sferragliano e dovunque si ascolta musica.
Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il rimorso di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte.
Intanto sempre nel 1931 viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis. Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio a un periodo nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di quanto sia grande la sua ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema delle retoriche nazionalistiche e aprire a sé e agli altri nuovi orizzonti culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano fatto ammalare la società italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse, condannava e impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.
Contro la monotonia della prosa d’arte e diversamente dall’Ermetismo, Pavese dimostrava come il contatto con le grandi masse americane attraverso quei romanzi vivificasse anche il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del suo destino è Peter Mathiessen (lo scrittore della Natura: Il leopardo delle nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano NdR.), per la comune ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la vita, nonché per l’estremo gesto suicida.
Nel 1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio Einaudi: questi sono gli anni dei suoi momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo, Il carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.
Si richiude in un isolamento forse peggiore di quello adolescenziale ma ancora una volta a salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla penna».
Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi. Esce nel 1941 la sua prima opera narrativa, Paesi tuoi, «ambiantata in quelle colline e vigne delle Langhe, che accanto alla Torino dei viali e dei caffè, dei fiumi e delle osterie, costituisce l’altro grande luogo mitico della poetica pavesiana» (Emilio Cecchi). Sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma.
Destinato a Roma per aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire aessere attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che ritorneranno nel Corrado de La casa in collina e che in un certo senso riportano alla inettitudine sveviana e quindi al Decadentismo).
Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi religiosa, altro non era se non un ennesimo equivoco, una nuova maniera di prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua probabilmente era una sorta di tentativo di riparazione, di voglia di mettere a posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò.
Recatosi a Roma per lavoro (dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…
A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel 1938 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido, si toglie la vita in una camera dell’ albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un’annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.».
Aveva solo 42 anni.
Non sai che quello che ti tocca una volta si ripete? Che come si è reagito una volta, si reagisce sempre? Non è mica per caso che ti metti nei guai. Poi ci ricaschi. Si chiama il destino.
(citazione di Pavese da LA BELLA ESTATE)
@ Massimo: ciao Massimi carissimo. Tutto bene, dentro una vita che mi si è rivoluzionata fra le mani, in questi ultimi sei mesi. Ma i cambiamenti fanno bene, anche se portano con sè una inevitabile componente dolorosa.
Uno dei lati buoni della mia nuova vita è che mi lascia più tempo per me. E dunque penso che ci vedremo ancora, qui su queste pagine…
@ tutti:
“Ma allo stesso modo, nel tempestoso Atlantico del mio essere, io sempre godo di una muta calma nell’intimo e, mentre pesanti pianeti di dolore incessante mi ruotano intorno, laggiù in fondo continuo a bagnarmi in un’eterna soavità di gioia.”
HERMAN MELVILLE, Moby Dick
Questo brano è diventato per me, da anni, una sorta di motto, che mi accompagna lungo i vortici della vita. E l’ho voluto portare nel mio zaino esistenziale nelle parole tradotte da Pavese. Di solito mi traduco da sola quel che mi sta a cuore; ma qui non ho osato. Troppa fluida musica in queste poche righe, per osare tentarne di mie.
Vi abbraccio, e vi auguro una buona giornata.
Fiorenza Aste
Bella la citazione di Fiorenza ^_^
«Cesare Pavese, scrittore in bilico fra il mondo e suo territorio d’origine: Torino e le Langhe». Così l’ha definito Giuliano Soria, presidente del Premio Grinzane Cavour, nel concludere il recital di parole, pensieri e musiche che ieri sera ha celebrato al Teatro Gobetti il centesimo anno dalla nascita del grande scrittore piemontese, nato a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908 e suicidatosi a Torino il 27 agosto 1950.
Con Soria l’hanno ricordato tre dei quattro vincitori della 25ª edizione del «Premio Grinzane Cavour Cesare Pavese». Sono Alberto Arbasino, Raffaele La Capria ed Emanuele Severino (assente il Premio Nobel Imre Kertész). Con loro sono intervenuti gli scrittori Lorenzo Mondo e Boris Biancheri e l’autore teatrale Giorgio Pressburger. Hanno rievocato la Torino e i tempi di Pavese, commentati dalle sue riflessioni, tratte da letture interpretate dagli attori Mimmo Calopresti e Marina Tagliaferri, su un delicato sottofondo di canzoni d’epoca.
Il racconto della figura umana e intellettuale di Pavese e della sua eredità letteraria ha preso avvio con le immagini della sua Torino: via Roma, le piazze Cavour e San Carlo, descritte dal film «Le amiche» di Antonioni. Le hanno accompagnate le musiche care allo scrittore, quelle di George Gershwin e di Richard Rodgers. Poi è stata la volta delle sue parole. Per prime quelle della pietà che provò nei giorni della Resistenza per i nemici vinti. «Fecero scandalo allora, specie fra certa sinistra. Ma Pavese non fu mai del tutto di sinistra» ha ricordato Mondo. «Era un uomo al di sopra delle parti» ha osservato La Capria. «Pavese sfuggiva la politica» ha aggiunto Biancheri. «Meno ne sentiva parlare e meglio stava. Il suo problema era un altro, era esistere. Non aveva rivelazioni da fare. Chi si rivela di solito è un invasato, lui non lo era». «Per Pavese – ha aggiunto Severino – più che la politica era importante l’arte, la letteratura, che inseguiva come il girasole insegue il sole».
Perché si è suicidato? «Forse perché a un certo punto l’arte non gli ha permesso più di sopravvivere. Chi crede nella possibilità del ritorno delle illusioni evita di suicidarsi».
E l’amore? Per la Capria «Pavese ha vissuto la sproporzione fra la sua grandezza intellettuale e la sua difficoltà a vivere. Era immaturo nei confronti della vita». «Ha vissuto – ha notato Biancheri – l’affanno di chi rincorre qualcosa che sfugge. E che ci sfugge perché noi non siamo alla sua altezza. Il dramma di Pavese è quello dell’uomo che si sente sempre al di sotto di quello che vorrebbe esprimere». E la passione per la musica? «Non è un tema che lo abbia interessato molto» assicura Mondo. «Pavese non amava la musica. Non aveva orecchio. A Beethoven preferiva il varietà. Sì, è vero, Gershwin gli piaceva, ma solo perché gli ricordava l’America».
La letteratura è una difesa contro le offese della vita. Le dice: Tu non mi fai fesso: so come ti comporti, ti seguo e ti prevedo, godo anzi a vederti fare e ti rubo il segreto componendoti in scaltrite costruzioni che arrestano il tuo flusso. (10 ottobre 1938)
* * *
Citazione di Pavese da “Il mestiere di vivere”
“La letteratura è una difesa contro le offese della vita.”
Bella vero?
Per colpa vostra sto leggendo Moby Dick tradotto da Pavese. Non avevo mai letto questo libro.
Se non mi piace vi citerò per danni
😀
@ Fiorenza
Splendido brano di Melville (e di Pavese, per la traduzione) da te citato. Dovrò riprendere tra le mani Moby Dick (ma si dice che sia una creatura sfuggente…).
A Subhaga. E siamo in due.
😀
ciao, sono mirella, ho 16 anni. sto iniziando la lettura di la luna e i falò, però avete fatto venire anche a me la curiosità di leggere moby dick. mi sarebbe piaciuto leggerla in originale, ma non essendone capace mi accontenterò della traduzione di pavese.
Ho scovato una vecchia antologia, volevo rileggere Pavese adesso, spulciando qui e là. Un brano più bello dell’altro, ascoltate (perchè la scrittura di Pavese mi sembra di ascoltarla), ascoltate, dicevo, ad esempio, questo brano tratto da “Il compagno”:
***
“C’era dei giorni dentro Roma che il calore soffocava. Mi venne voglia di rivedere il mare. Provai qualche volta con Gina a salire sul tram, ma andavamo di domenica e la folla era peggio che a sera sul Corso. Anche arrivati, bisognava fare a piedi chi sa quanto per trovare due metri di sabbia scoperta. Ma sotto il sole era bello vedere quell’acqua. C’era dei giorni che sembrava un cielo unito, l’acqua e l’aria, e nuotandoci dentro si perdeva la vista. Gina restava sulla sabbia e mi aspettava. Certe ragazze che vedevo entrare in acqua, mi piacevano. ‘Chi sa se qualcuna va la largo e si spoglia’, pensavo vedendole.
Poi le sere di mare tornavamo in città, e restavo a cenare e ballare con gli altri. Eran di nuovo in trattoria tutti quanti. Ci veniva anche Gina. Quelle sere, bevendo e ballando, tutto l’inverno mi tornava in mente, e il Paradiso e i camion.”
@Letizia: sì, è allo stesso tempo lieve fluido e scorrevole, e anche pesante e pietroso. Un piccolo capolavoro in cui le parole vanno oltre se stesse. E Moby Dick è pieno di perle come questa. Sia nel testo originale che nella straordinaria traduzione di Pavese. Piccoli attimi che tolgono il fiato.
@Lorenzo: tranquillo, non temo di doverti pagare i danni… vedrai. Devi solo essere paziente: Moby Dick, come dice Subhaga, è creatura selvaggia e sfuggente, proteiforme e cangiante… non la si cattura con l’arma tagliente della logica, ma con quieta paziente accettazione. E’ solo quando smetti di cercare di prevederla che ti si offre in dono…
@Subhaga: è così. Cerca e troverai….
Un caro abbraccio.
Fiorenza
@ Gaetano:Bravissmo!
E guarda. Sulla vita:
” C’è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda”.(dialoghi con Leucò)
Sulla donna:
“C’è la bacca e la belva, c’è l’urlo, la morte, l’impietramento crudele. So il sangue sparso, la carne dilaniata, la terra vorace, la solitudine. Per lei, la selvaggia, è solitudine. Per lei, la belva è solitudine. La sua carezza è la carezza che si fa al cane o al tronco d’albero. Ma, straniero, lei mi guarda, mi guarda e nella sua tunica breve è una magra ragazza, come tu forse ne hai vedute al tuo paese”.(dialoghi con Leucò)
Sul silenzio:
“Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnar ai suoi tanto silenzio” (lavorare stanca)
Vi ringrazio per i nuovi commenti sul post dedicato a Pavese.
Ringrazio Fiorenza, Gaetano e Simona per le belle citazioni.
Altri dico (ma anche a me stesso, in verità): “leggete, o ri-leggete Moby Dick… che male non fa!”
😉
“Moby Dick” è uno di quei classici che per un motivo o per un altro – soggezione? paura di restarne delusi dopo tanta attesa per leggerli? – ho evitato di affrontare. Ma mi avete messo dentro la voglia di superare il blocco… di Melville vi consiglio “Bertleby lo scrivano”. Profondissimo nella sua breve essenzialità. Come ci sono arrivata? Tramite “Mucchio d’ossa” di Stephen King. Incredibile, vero?
Cara Mari,
lessi Moby Dick – tradotto da Pavese – molti anni fa.
Lo sai che sono anch’io molto tentato di rileggere quel libro? Ora lo sto guardando. E’ al suo posto… nello scaffale della mia libreria. A un paio di metri da me.
🙂
–
Ho letto”Mucchio d’ossa” di King e devo dire che non mi è affatto dispiaciuto.
”I would prefer not to.”
avrei preferenza di no.
meravoglioso.
🙂
“Descrivere poi paesaggi è cretino. Bisogna che i paesaggi – meglio, i luoghi, cioè l’albero, la casa, la vite, il sentiero, il burrone, ecc. – vivano come persone, come contadini, e cioè siano mitici. La grande collina-mammella dovrebbe essere il corpo della dea, cui la notte di San Giovanni si potrebbero accendere i falò di stoppie e tributare culto. La dolce vetta a crinale, in fuga verso il salto nel vuoto, sarebbe la strada seguita dall’eroe civilizzatore (un Ercole, un Adone) quando, dopo beneficata la gente, parte per un’impresa ignota. Il campo nudo e tremendo in vetta al colle più alto, desolato, di là dagli alberi e dalle case, una specie di altare dove scendono le nubi e si danno ai loro connubi con i mortali più intelligenti…”
***
Lettera di Cesare Pavese a Fernanda Pivano, 27 giugno 1942.
Mucchio d’ossa di King è molto buono. Ottima scelta, Massimo 😉
Sì, Morena… “Mucchio d’ossa” è molto buono.
Ma ora discuteremo di un altro libro, in questo post:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/12/il-dolore-piu-grande-orfana-di-mia-figlia-di-morena-fanti/
Scusate il ritardo, ho letto Pavese (titolo Ferie d’agosto) che avrò avuto 13 anni, amore a prima vista, a 18 anni ( si parla di 40 anni fa) avevo letto tutto di lui e visto a teatro Il vizio assurdo… Ancora lo leggo, soprattutto Il compagno e mi emoziono come la prima volta. Pavese è stato il grande nonno che ti racconta la vita e che ti spiega cosa sono i legami, i ricordi e le esperienze. Capisco perfettamente che queste parole illustrano un’ emozione e tradiscono la mia inadeguatezza letteraria, ma Pavese per me è questo.
Saluti.
Posto qui alcune riflessioni sul libro di Alessandro Cascio, letto tra ieri e oggi: Le tre candele. Lo posto qui, dove l’autore del Mal di vivere, è stato celebrato per il suo centenario dalla nascita; qui, dove abbiamo discusso del rapporto fra quel autore e i giovani, auspicandone la conoscenza.
Non è una provocazione, ma solo un atto dimostrativo; come un volantino, anzi un adesivo, appiccicato dispettosamente ai semafori o agli angoli delle strade. Facciamolo verde! Ricordate? Si trattava di Nixon e della guerra del Vietnam. Erano altri tempi e noi leggevamo Pavese ma facevamo tutto ancora per “gioco”, ancora pochi passi ci separavano dalla fine del percorso, uno spiazzo enorme sopra il vuoto: eroina e lotta armata. Tutto poi fu diverso, in noi sopravvivono i ricordi, che per i più sono depurati dalle scorie e allora confondiamo la nostra adulta età con quella delle generazioni che ci hanno preceduto. Riproponendone il senso (anziano uguale custode del tempo). Ma quale, se tutto nel frattempo è sfuggito, in un vortice epocale di cambiamenti e di rivoluzioni soggettive che ha trasformato ogni vita in un terreno di guerra?
Alessandro Cascio parte da qui, dalla considerazione che crescere è una guerra, che va tenacemente combattuta con azioni di “pace”: tre, come le ghinee della Woolf. Sì, il libro di Alessandro è una poetica confutazione del libro della Woolf e parla alle ragazze, alle giovani donne. Alle ghinee che scongiurano la guerra, istruzione, professione e impegno per la pace, Alessandro contrappone tre candele: l’innocenza, la passione e l’esperienza. Un racconto filosofico, dove fantasia e realtà si fondono nelle forme delle tre età della vita, con gli occhi sempre aperti al mondo che ci sta attorno; le circumnavigazioni dell’io sono bandite. A salvarci è il mezzo che ognuno trova da sé, l’accesso ad un’altra dimensione, l’intimità necessaria per combattere il male della vita.
L’intimità preziosa, che urta famiglia, amici, affetti, luoghi comuni, mode, ma che alla fine si compone con una grazia giovane, nuova e lontana, lontana da Munchausen e da un pastore errante dell’Asia.
Vi inviterei a leggerlo, io, personalmente ci vedrei un film di animazione con il meglio della musica che c’è!
Perchè Miriam volersi noi (d’altre generazioni!?) così male? “Fine del percorso”, “ogni vita un terreno di guerra”, dici… Il nostro percorso meraviglioso continua, con i tuoi dipinti, con Alessandro Cascio e le sue pagine, con di tutti coloro che portano bellezza nel mondo, da meno zero a infinito d’età, sperando che i portatori di bruttezza(!) ricordino la loro, e di tutti, meravigliosa bellezza. Amen!
Bacioni e buona domenica,
Gaetano
Correggo: con tutti coloro (e non: con di tutti coloro).
Gentile Massimo, questo è un nostro suggerimento per la copertina di Letteratitudine. Cosa ne pensi? Complimenti per tutto
Alfonso e Nicola Vaccari –
PS Spero che questo codice visualizzi l’immagine, altrimenti troverò un’altra maniera, e ci scusiamo.
Ops…non è funzionato. Cosa escogitare? Scusaci. Faremo del nostro meglio per inviarti l’immagine.
Alf e Nic