Nella nuova puntata di Letteratitudine Cinema ci occupiamo di questo volume di Alessandra Montesanto dedicato al mondo del cinema con riferimento ai corti, film e documentari che hanno raccontato in presa diretta le periferie. Si intitola “Visioni periferiche. La narrazione dell’hinterland in Italia e nel mondo” (Ass. Multimage editore). Nicoletta Bortolotti ha intervistato l’autrice…
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Visioni periferiche – La narrazione dell’hinterland in Italia e nel mondo: intervista ad Alessandra Montesanto
Varlam Šalamov, nella prefazione ai Racconti di Kolyma, sorta di monumentale documentario scritto sull’atroce quotidianità del Gulag, affermava che nessuna forma artistica può abolire il dolore, ma solo dare voce o, addirittura, restituire bellezza come estremo atto politico. È il medesimo presupposto dello straordinario e sconvolgente turismo cinematografico nelle periferie delle grandi metropoli narrato da Alessandra Montesanto, docente di Cinema e Linguaggio dei Mass-Media e responsabile dell’Associazione Per i Diritti umani. “Visioni periferiche – La narrazione dell’hinterland in Italia e nel mondo” è disanima appassionata e meticolosa di corti, film e documentari che hanno raccontato in presa diretta le periferie. E alla vigilia della controversa decisione di chiudere cinema e teatri a causa di Covid-19, ecco che il cinema stesso, arte di centro, rischia di mutarsi in arte periferica.
– Come valuti la chiusura dei cinema e dei teatri?
Credo sia stato ingiusto chiuderli, perché significa dare un ulteriore colpo al settore della Cultura, fin troppo bistrattato nel nostro Paese. La Cultura – e quindi anche il cinema e il teatro – è fondamentale per crescere come umanità e affossarla significa interrompere un processo di evoluzione individuale e sociale che, di conseguenza, porta alla desertificazione dei valori positivi.
– Le maggiori metropoli mondiali sono cresciute con un centro verticale e un hinterland orizzontale. Come il paesaggio esteriore condiziona quello interiore e come lo racconta il cinema?
Il cinema riflette, spesso, ambienti periferici che Marc Augé definiva “non-luoghi”, ovvero spazi di transito (strade, piazze, mall) in cui non è possibile fermarsi a riflettere; luoghi in cui si trascorre il tempo, senza dare a quest’ultimo una densità di senso. La mancanza di cura e, soprattutto, di servizi porta a far crescere una sorta di nichilismo esistenziale nelle persone che abitano quegli ambienti che, a loro volta, perdono l’interesse per ciò che li circonda e diventano spettatori/attori di un degrado generale.
– E a chi spetta sui territori delle periferie decidere cosa è bellezza?
Il Bene comune, come la Bellezza, andrebbe richiesto dai cittadini stessi, in quanto loro diritto fondamentale; devono essere tutelati sia dalle istituzioni locali, sia da quelle nazionali con la partecipazione, appunto, degli abitanti del luogo. È importante attivare processi di cittadinanza attiva e progetti di riqualificazione urbana, come nel caso di alcune aree a Milano e a Roma, per esempio, di cui si parla nel libro.
– Citi Igiaba Scego: “La memoria non è negare quello che è stato, ma rielaborare quella vita passata…”. Come il cinema può farsi proiezione di memoria?
I film sono, come le altre forme artistiche, uno strumento adatto per mantenere viva la Memoria e, di conseguenza, leggere il presente e il futuro. Grazie al linguaggio tecnico (ambientazione, costumi, regia, fotografia, montaggio) si ricreano sullo schermo storie e situazioni che coinvolgono il pubblico, tramite i meccanismi di proiezione e di identificazione.
– Colpisce nelle vicende filmicamente narrate la presenza di corpi annientati, martoriati, venduti. Che cosa fanno le periferie ai corpi?
Nel libro cito un saggio molto noto di due antropologi e psicanalisti, Benasayag e Schmit (“L’epoca delle passioni tristi”), che sostengono quanto la mancanza di stimoli, di strutture per la formazione e lo svago, di sostegno all’inserimento lavorativo porti a vivere la periferia come una prigione, come un luogo da cui evadere, e i modi per farlo, purtroppo, possono essere numerosi e negativi per la salute psico-fisica delle persone: uso di alcol e di stupefacenti; utilizzo del proprio corpo come compravendita; ricorso alla violenza per micro o macro criminalità. Il corpo, quindi, diventa mappa del disagio sociale.
– In un film rumeno due ragazze costrette all’aborto clandestino concludono che non ne avrebbero più parlato. In che senso il cinema può mutare una vicenda individuale in allegoria del destino di un Paese?
Gabita e Otilia sono le protagoniste del film del regista rumeno Christian Mungiu, dal titolo “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”. Si tratta di una metafora dell’oblio collettivo: gli abitanti di un Paese che ha vissuto a lungo sotto dittatura, spesso, scelgono di non volere più ricordare il passato e di voler guardare solo avanti.
– Lo stile narrativo adottato è per lo più neorealistico… Quali differenze e continuità fra nuovi registi e grandi maestri del passato come Pasolini, Olmi, Scola…?
Oggi molti autori attingono dalla lezione dei Grandi, scegliendo storie minime che diventano universali, mantenendo sullo schermo la verosimiglianza, dando la parola alle persone del luogo. Si può parlare, in alcuni casi, di cinema civile, di denuncia e di questo abbiamo un gran bisogno.
– Nel viaggio affascinante che proponi convergono due centri di interesse, il cinema e i diritti umani… A quali tue esperienze personali si riferiscono?
Sono critico cinematografico e formatrice; amo le narrazioni, non solo letterarie, ma anche poetiche e artistiche.
Inoltre, da sette anni sono responsabile di un’associazione culturale, Associazione Per i Diritti Umani (www.peridirittiumani.com) con cui si vogliono approfondire gli argomenti relativi ai diritti universali sempre tramite la Cultura e il Giornalismo.
– La maggior parte delle sceneggiature sulle periferie ne intagliano ombre e assenze. Esistono anche sacche di luce e di autentica ricchezza?
Fortunatamente esistono: mi piace ricordare un progetto realizzato a Roma, presso la borgata del Trullo, che si intitola “Poeti der trullo”. Il gruppo dei “metroromantici” racconta la capitale degli emarginati con versi sentimentali e motivazionali. Poesie e murales inneggiano alla cura della famiglia, all’amicizia, alla solidarietà, e alla voglia di riscatto. È la voce dei giovani che hanno tutto il diritto di fare istanza di una vita più appagante e colorata.
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Alessandra Montesanto è laureata in Lettere e Filosofia, insegna Cinematografia ed è responsabile dell’Associazione Per i Diritti umani. È caporedattore del giornale online www.peridirittiumani.com, svolge l’attività di formatrice ed è stata Cultore di Materia presso l’Università di Urbino. Scrive per la rivista “Il ragazzo selvaggio”, pressenza.com; Pubblicazioni: “Visioni urbane. Viaggi tra Cinema e Architettura”, “Immigrazione e Mass Media. Per una corretta informazione”, “Mosaikon. Voci e immagini per I dirittti umani”, Arcipekago Edizioni. Di recente uscita: “Visioni periferiche. La narrazione dell’hinterland in Italia e nel mondo”, Multimage Editore. Con Giuseppe Acconcia, “A voce alta. La libertà di espressione nel mondo. La tutela negata”, Kanaga Editore. “Come carta di riso”, edito da Oèdipus, è la sua prima silloge poetica.
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