Considerato, secondo i diversi aspetti, un romanzo sentimentale (dell’amore inesausto e inappagato), utilitaristico (del bene individuale che si ottiene col successo economico), fatalistico (del caso che decide il destino comune), sociale (degli scontri di classe in un tempo di insorgenza del socialismo), oblomoviano (dell’inettitudine esistenziale), libertario (della licenza dei costumi e della permissività etica), Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald è tutto questo insieme, ma la sua vera natura letteraria rimane un rebus. Trattandosi anche di un poliziesco, giacché conta un suicidio, due morti ammazzati e qualche altro solo ipotizzato (l’omicidio misterioso imputato a Gatsby), il romanzo uscito nel 1925 – con un modesto riscontro di pubblico invero, a motivo forse della sua poliedricità – sembra echeggiare un genere americano, l’hard boiled, che è di largo seguito negli anni Venti, e nello stesso tempo evoca il gusto per l’introspezione interiore, retaggio del Primo Novecento europeo e modello portato alla massima espressione da Henry James, del quale infatti Fitzgerald è ritenuto il legittimo successore, anche per la sua vita divisa tra un continente e l’altro.
Sospeso perciò tra psicologismo e crudo realismo, Il grande Gatsby si serve di un fondo evanescente e ancipite che è forse il suo elemento costitutivo e nel quale si riconoscono, in un’epoca che ha appena superato i traumi della Grande guerra, da un lato l’amor fati proprio della coscienza europea di inizio secolo e da un altro, in un ben diverso spirito, l’età del jazz e dei telefoni bianchi, del benessere sociale e del banausismo sfrenato di un’America che corre ignara verso la crisi del ’29. Il romanzo si situa a metà e sembra tenersi come in bilico tra due crinali, sottendendo uno stato di precarietà nel quale va anzichenò visto un miracolo di equilibrismo.
Gatsby è detto “grande” (“magnifico” nelle prime edizioni) perché ha affrontato la titanica impasse che postula, oltre che due culture, anche due condizioni sociali storiche e di gran momento, povertà e ricchezza, le stesse sperimentate da Fitzgerald, il quale nel suo capolavoro presagisce la crisi che metterà in ginocchio l’America quando nel ’22, l’anno di ambientazione del libro, comincia a scriverlo nella sua villetta di Long Island (teatro anche della vicenda romanzesca), dove tiene feste sontuose e dispendiose, proprio come Jay Gatsby. Due anni dopo andrà a Parigi con la sua Zelda Sayre, che lo tradirà non diversamente dalla facilità dei protagonisti del romanzo, e in Francia completerà e pubblicherà il libro nel quale la décadence europea integrerà la toughness americana, non soddisfacendo tuttavia appieno né l’una né l’altra temperie, ma realizzando un tout de même (più o meno riuscito) nel quale la propensione tutta americana ad ipostatizzare una vicenda collettiva reificandola in un personaggio che diventa eroe si fonde con la spinta all’ipertrofia dell’io che in Europa rende l’uomo invece un inetto, un heidegerriano essere “gettato nel mondo”.
Fitzgerald plasma allora in Jay Gatsby un doppio di sé, una personalità scissa sia interiormente che dal mondo, un americano-europeo che nella derelizione del suo protagonista vede la rovina che anch’egli prefigura per sé: Gatsby viene ucciso per una colpa che non ha avuto, mentre Fitzgerald muore a soli quarantacinque anni dopo una vita di eccessi, vorticosa ma breve. Il romanzo che perciò leggiamo è un’autobiografia per preveggenze di un autore che se si serve di un narratore è proprio per non ammettere che il romanzo è ispirato a fatti realmente avvenuti e che in parte devono avvenire. A lui.
Nick Carraway è un io narrante che a Fitzgerald dà in prestito la sua villetta di Long Island con la quale la villona di Gatsby è appena confinante e nel romanzo assolve al compito di fare, essendone il cugino, da esca a Daisy Buchanan invitandola a casa perché Gatsby possa rivederla dopo cinque anni di distacco. Il caso (che non è mai un buon ingrediente in un romanzo) ha qui molta parte nel decidere le sorti umane e Fitzgerald non ne fa mistero quando imputa a «una questione di coincidenze» l’affitto di una casa a Long Island. Un caso è anche la morte di Myrtle Wilson, travolta dall’auto guidata giustappunto da Daisy. Martly è la moglie di George Wilson che, prima di suicidarsi, uccide Gatsby raggiungendolo inspiegabilmente e liberamente dentro casa perché sa che è sua l’auto che ha ucciso la moglie. La quale è a sua volta l’amante di Tom Buchanan, il marito di Daisy, segreto questo che George però non conosce, per cui non agisce anche contro di lui: lasciando così non compiuto un intreccio di coincidenze che molto sente della formula mantico-divinatoria della tragedia greca e del dramma di agnizione moderno in una prospettiva teatrale che è forse rivelatrice di una vicenda tutta tenuta nel raggio corto di qualche chilometro e su una stessa ribalta con pochi personaggi e dentro una trama a circuito chiuso, circolare, per un romanzo di poche cose e di molte parole, ricco di inessenzialità e accidentalità, esorbitante di descrizioni e dialoghi più che di narrazione e di fatti.
Perché allora Il grande Gatsby si offre a continue ristampe e a trasposizioni cinematografiche anche di forte richiamo? E perché piace così tanto anche in Italia? Probabilmente perché è molto europeo e poco americano, godendo innanzitutto di uno stile che non ha niente della prolissità e del moralismo di Henry James, perché anticipa semmai canoni di scrittura elegante e briosa – profilata anche di riflessioni non banali e di una epistemologia epigrammatica passata nel citazionismo degli aforismi celebri – di cui il principale interprete si rivelerà Albert Camus. Ma al di là dello stile, è la struttura del romanzo che si raccomanda a un giudizio di eccellenza, giacché premia un cespite del Novecento europeo, il Doppelgänger, che è il mito del doppio già proposto da Pirandello in Il fu Mattia Pascal, reso patrimonio della coscienza comune anche come fattore sociale di inquietudine e di disturbo.
Lo sdoppiamento della personalità, l’assunzione di una seconda identità, il camuffamento da alter ego sono anche temi cari alla ricerca scientifica di quel Primo Novecento che nel Vecchio continente si è in letteratura precisato in forme espressive quali il monologo interiore e il flusso di coscienza, da Svevo a Proust a Joyce. In Il grande Gatsby un doppio è già Gatsby rispetto a Fitzgerald, ma anche Nick Carraway lo è riguardo all’autore. Il quale ha costruito un abile gioco di scambi e di mascheramenti: Tom Buchanan ha l’amante, la quale è sposata e tiene all’oscuro il marito; Daisy ha un marito ma non dimentica il precedente amore di Gatsby, che a sua volta ha un passato avvolto nel mistero e invece di una doppia personalità ha una molteplicità di identità, se il suo vero nome è James Gatz; anche Nick Carraway nasconde la parte di sè che riguarda una relazione sentimentale lasciata nel Midwest da dove è venuto, mentre una seconda personalità, ma cieca, possiede pure l’enigmatico mercante ebreo Meyer Wolfshiem, amico e sodale di Gatsby; allo stesso modo doppia è la sfuggente Jordan Baker, anche lei con un passato nelle nebbie e come tutti gli altri attratta dal lusso e dunque con una «voce piena di soldi» al pari di Daisy.
Fitzgerald ha inteso ricreare un milieu nel quale nessun personaggio è fatto per essere amato. La lunga lista di tipo omerico degli ospiti di casa Gatsby, citati estenuamente per nome, non è che esempio di un disegno moltiplicatore perché, accrescendo il numero degli individui della stessa genia, venga incrementato un risentimento di ordine generale da rivolgere verso i pochi personaggi sulla scena, quello che Nick Carraway chiama “disprezzo spontaneo” nei riguardi di Gatsby. Sennonché è proprio l’antipatia nutrita per tutti che porta ad amarli in blocco, motivo questo che conferisce al romanzo un merito stavolta molto americano, ovvero l’inclinazione ad ammirare i duri, apprezzandone il carattere negativo, propensione che Hammett e Chandler si preparano ad esaltare e fare propria. Questo mix di opposte istanze, proprie di due culture continentali differenti e distanti, fa del romanzo un unicum non solo del suo tempo ma anche del nostro, giacché pochi altri autori hanno saputo dare una sola voce ai due mondi e parlare a entrambi con lo stesso timbro di Fitzgerald.
Fitzgerald fa più che una veronica di doppi: aumenta in Il grande Gatsby la singolarità con un virtuosismo che al gioco degli scambi di personalità aggiunge quello dei passaggi di centralità, motivo per il quale è facile ritenere che il romanzo manchi di un reale protagonista e che, in forme diverse, lo siano tutti i personaggi in pari grado. Quando Nick comincia il suo racconto, reso subito dopo la conclusione degli avvenimenti narrati, l’interesse che all’inizio suscita è verso di sé, perché ci parla della sua vita dopo un sommario e vago cenno a Gatsby, necessario per indicare «l’uomo che dà il nome a questo libro». Poi l’attenzione di Nick si sposta su Tom Buchanan, trattato con tale cura descrittiva da farlo supporre l’oggetto della narrazione, sennonché la presenza in salotto di Daisy al suo fianco ne illumina il ruolo, principalmente come moglie tradita, sicché subito dopo Nick si ritrova in un altro salotto dove con Tom gongola la “sua ragazza”, Martly Wilson, adultera senza rimorsi. Gatsby è ancora lontano e quando appare lo fa sotto vesti che Nick non riconosce: crede di parlare con un ex compagno di armi finché non apprende di essere davanti al suo vicino di casa che lo incuriosiva e che lo ha invitato per irretirlo.
L’andamento è del romanzo borghese: di una classe che si crede in paradiso e che si crogiola di festa in festa e di salotto in salotto, in un’aria rutilante di opulenza, frivolezza, condiscendenza e parvenza di impunità e inestinguibilità che non sembra possa essere minata se non da una vecchia tresca che Gatsby e Daisy provano a ristabilire. Il gioco che Fitzgerald innesca di scambi di centralità è condotto di personaggio in personaggio fino a Dan Cody, l’uomo della fortuna di Gatsby, come in un passaggio di testimone e in un processo di preparazione alla spannung finale innescato dalla gita serale in macchina a New York che vede partecipi i coniugi Buchanan, Nick Carraway, Jordan Baker e Jay Gatsby in una rappresentazione corale che funge da scioglimento (lo scontro tra Tom e Jay sull’appartenenza di Daisy) ma anche da prodromo all’inatteso esito culminante in una raccapricciante sarabanda di eventi entro la quale la love story si muta in crime story e tutto il romanzo prende l’aspetto di un sepolcro imbiancato.
La sensazione è che ogni personaggio sia appunto un testimone, a cominciare da Nick Carraway, il primo a non sapere niente della reale identità degli altri. Fitzgerald è proprio questa l’aria che vuole e sceglie un narratore al suo posto allo scopo di eliminare l’onniscienza autorale e rendere ogni fatto relativo, incerto e aperto a più interpretazioni. Nulla si sa del suo stesso passato, né di quello di Gatsby, oggetto di ripetute e contraddittorie vociferazioni, e poco sappiamo degli altri, da Daisy a Martly. Fitzgerald vuole in verità che il lettore non sappia più di Nick, ma almeno in due occasioni è costretto a trovare espedienti per potere dare seguito all’intreccio, non trovando come farlo condurre a Nick: quando introduce la figura di un giornalista che scrive del passato di Gatsby e quando lascia che l’io narrante divenga Jordan Baker incaricata di raccontare a Nick (riportando addirittura i dialoghi e dunque parlando in realtà al lettore) come Daisy aveva conosciuto Gatsby ma sposato poi Tom. E dei resoconti di stampa Fitzgerald si serve anche per fare raccontare a Nick dell’incidente automobilistico e poi dell’omicidio di Gatsby. Che muore solo e dimenticato, dando al romanzo il senso di un cupio dissolvi dove il forte desiderio di vivere si traduce – entro un contrasto di thanatos ed eros – in un irredimibile sentimento di morte.
A dissolversi davanti agli occhi sgomenti di Nick che abbandona alla fine Long Island sono le case della costa sullo Stretto, come a cancellarsi volutamente al compimento di un’estate vissuta in un inferno creduto un paradiso: che è perduto per colpa di una sbadataggine. Una svista, non più di una distrazione, è posta infatti a giustificazione della fine di un’epoca che nutre un sogno d’amore e il progetto di fare rivivere il passato: ragioni che possono essere addotte solo dai ricchi che mai parlano di colpe ma solo di distrazioni. «Erano persone sbadate, Tom e Daisy. Rovinavano le cose e le persone e poi si rintanavano nel loro denaro o nella loro enorme sbadataggine» scrive Fitzgerald.
Tom ha detto a Wilson che era Gatsby alla guida della sua auto gialla istigandolo così al delitto e Daisy accetta la versione data e con essa la morte dell’uomo che non aveva sposato perché povero ma che poi aveva amato perché divenuto ricco. Tom ha perso la “sua ragazza” ma ha riguadagnato sua moglie e può spiegare a Nick che a morire è stato un uomo violento che «se l’è cercata». Può allora andare in gioielleria per un regalo a Daisy in segno di un ricominciamento e a suggello di un teorema secondo il quale il potere, soprattutto economico, si rigenera e ricompone, mantenendo sempre e comunque uno stato di assoluta immunità. E in Gatsby, nel quale si compie la parabola del povero arrivista alla Balzac e alla Maupassant e che per amore dice a Nick che affermerà di essere stato lui al volante così da salvare Daisy, vediamo piuttosto l’innamorato idealista che approfitta delle opportunità materiali per coronare il sogno spirituale e impossibile di essere amato da chi ama. È grande per antifrasi, essendo in realtà piccolo. Ma Fitzgerald lo magnifica confessando di parteggiare per lui e in fondo riconoscendosi nelle sue tribolazioni. Dopo la sua morte, delle centinaia di ospiti che affollavano le sue feste, pur’anche non invitati, nessuno va al funerale. Si presenta un solo personaggio anonimo e anch’egli oscuro, chiamato “Occhi da civetta”. «Andiamo, che diamine! Si presentavano a frotte» dice a Nick. Per poi concludere, come dettando un epitaffio: «Povero figlio di puttana».
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[è da poco uscito il nuovo libro di Gianni Bonina: “Fatti di mafia” (Theoria)]
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