Il racconto che vi propongo in questo post è tratto dalla raccolta "Il maniaco e altri racconti" di Sergio Sozi. Vi invito a leggerlo e a lasciare i vostri commenti. L’autore sarà lieto di partecipare alla "discussione". Ringrazio ancora una volta l’editore Valter Casini per la gentile concessione.
Il maniaco
Rem tene, verba sequentur
Primo capitolo
Qualcuno gli avrebbe dato una medaglia, in altri tempi. Ne era convinto, il capitanone impomatato della Compagnia Trieste II. Poi, Euterpe Santonastasio, non è che usasse tanta gelatina, a dir la verità: era una questione di splendore naturale, riverberantesi da ogni pelo nero sulla ”clientela” di quell’affollato distretto. Così, oltre al nome sbagliato, il povero Benemerito aveva anche una fama immeritata, quella di ”cicalone”, ovvero ”sciccoso” e ”fotogenicofilo”. Tutte menzogne delle malelingue – bastarde e fors’anche prezzolate! – che spargevano unzioni all’uscio di ogni palazzo ceccobeppiano del circondario, senza risparmiare gli edifici d’epoca fascia o postquam. Questa ultima sarebbe in realtà la postmoderna:
«Ma poiché l’Epoca Postmoderna non esiste, bisogna contentarsi di un Postquam.»
Ragionamento quadrato, ineccepibile, caro capitan Santonastasio. Però gli untori imperversano, premono, spingono e scalciano. E perché tanta agitazione da parte della cosiddetta ”maggioranza morale” triestina, in quell’Anno Domini di post-finemillennio (secondo)?
«Ve lo dico io, gentilissimi utenti: perché i belli meridionali non devono beccare i delinquenti, ma fare le sfilate di moda sul Viale, o anche verso le Rive, quando ogni capello neropece attira raggi solari per accecare le pupille autoctone! E io, invece, ‘sto disgraziato mariuolo, lo voglio proprio caccia’ in gattabuia. Be’.. mica ne sarei tanto sicuro, di volerlo; insomma, vedremo.»
Il mariuolo, secondo Euterpe II (”il Dialogante Solitario”), doveva esser ingabbiato da qualche sbirro fisionomicamente più idoneo alla bisogna: uno col viso oblungo e le lentiggini, la sparuta parrucca cinerea, e in allegato anche tanto di gestualità repressamente nervosa. Questo tipo umano garantisce fedeltà lavorativa, se si tratta di risolvere casi eclatanti. Casi come quello di un… un…
«…Un fottutissimo maniaco alfabeticodepressivo, Bedda Matri!»
Gli sbirri rudi e tarchiati vadano a risolvere furti di banane ai depositi portuali o rapine. Ecco: ladrocinî e rape d’ogni tipo, col taglierino o l’ascia a mezzaluna, con la falce fienaia o il piede di porco, con i moschetti e le mosche-al-naso. Basta che si freghi, si sottragga, si faccia sparire qualcosa. Anche le risse e i regolamenti di conti vanno bene. Ma…
«…Ma quel coglionazzo del mio maniaco triestino non borseggia e neanche s’interessa di sghei, non malmena, non violenta, né – Dio l’abbia in gloria! – procura dolore in giro a chicchessia!»
Però lo deve acchiappare lui. Inutile che Euterpe ”nomedafemmina” Santonastasio discuta col maggiore. Ed effettivamente aveva provato ad opporre resistenza, sperando nell’affidamento di un’altra indagine. Il maggiore si chiama Vlado Novak e durante la belle époque suo padre aveva rinunciato a diventare un Novacchi o un Novaco.
«Testone che non è altro, il capo. Tale e quale a me. E mai nessuno che dia le medaglie a chi se le merita, qui. Eh, in altri tempi l’avrebbe ottenuta sì, quello, l’onorificenza!»
Ma in quali altri tempi, capitano Santonastasio? E a chi daresti il premio? Lascia stare queste menate e tienti pronto, piuttosto, ché fra poco il primo querelante entrerà nel tuo ufficio: vorrei consigliarti di evitare i ricordi, ora, ma so che non ascolti.
Secondo capitolo
Quel giorno del benedetto affidamento, il maggiore Novak era nero come la fuliggine vista dalla cokeria durante il turno di notte. Quindi, svolgendosi il colloquio alle nove di un’assolata mattina estiva, la rabbia dell’ufficiale acquisiva, assieme alla sua folta peluria castano-bionda, un contrasto piuttosto inconsueto: crema e cioccolato, come nelle migliori gelaterie.
«C’è qualcosa che fa per lei, Santonastasio.»
Porca l’oca: ho sbagliato l’esordio. ”Che fa per lei… ” con lui non va bene. Si corresse mentalmente: ”C’è un caso raffinatissimo per lei… ”. Si corresse facendo sforzi di petto anche se sapeva di essere malumoroso: l’autocritica crea il consenso coi subordinati, si dice. Mannaggia… Troppo tardi!
«Sissignore: il prepensionamento, fa per me.»
Oddio, che giornataccia. Ormai non posso ricominciare da capo:
«Stavo scherzando. Indovini un po’ cosa sto per comunicarle?»
«Che me lo hanno concesso, mica.»
Di male in peggio.
«Spingo nelle alte sfere, spingo, capitano.»
«E intanto io non ne posso più di giocare a guardie e ladri, maggiore. Che, per caso hanno rubato un altro carico di granturco al Terzo Molo? Non guardi me. Io, il grassatore della Barcolana l’ho ammanettato personalmente ieri, in mezzo alla folla. Adesso vorrei un bel truffatore di matusalemmi, per stimolare la creatività investigativa. Ma non si stanchi, lei; spinga comunque. Grazie.»
Creatività investigativa, bene, bene. Stavolta lo incastro:
«Fuor d’ironia, capitano: la fantasia le servirà veramente, stavolta! Ho fra le mani un tizio che crea scompiglio, in città, senza far altro che discorrere con le sue vittime. Non le deruba, non le rapisce, non le picchia. Ci parla e anche a proprie spese, sembra.»
«Capito: è un maniaco che prende appuntamenti con femmine ingenue e intellettuali per fottersele, scusi l’espressione, dopo, in luoghi appartati.»
«Lui non fotte.»
«Logorroico parolacciaro e sporcaccione, zozzo maschio vecchio stampo?»
«Castigato quanto Giovanna d’Arco.»
«Femmine pazze e ninfomani mitomaniacali?»
«Le denuncianti sono sane mentalmente come noi due. Nessuna di loro ha a che fare con psicanalisti eccetera.»
«Lasci stare l’esempio, la prego, signore. Checcazzodiuomosarebbe, questo qua?»
«Un caso di coscienza.»
Lo accettò: evidentemente pensava che i suoi occhi grigiochiaro lo legittimassero al caso insolubile, nonostante la brunaggine tricomica da pesca-scippatori. Presto ne conobbe i dettagli, grazie (o malgrado?) al voluminoso fascicolo che un soddisfatto maggior Vlado Novak gli fece recapitare nello studio:
«Ecco… E guarda un po’… So’ sei mesi che ‘ste poveracce fanno gli esposti. Niente indagine fino alla prima denuncia contro ignoti… Ah! Ma c’è anche un uomo. No: tre uomini e sette donne. Chissà perché. Tutti perseguitati. Il maniaco scrive lettere. Niente imèil, non ciatta, non va col telefonino. Niente telefonia fissa. Cazzo: addio tabulati. Rimangono le impronte sulla carta… robba diffficile!»
Santonastasio si allentò la cravatta con mossa di studiata decadenza, nel concludere la lettura dei verbali dai quali ogni fastidio sarebbe derivato. Solo e appoggiato coi polposi gomiti alla scrivania d’ordinanza, iniziò a pensare che era inutile atteggiarsi in presenza di un semplice mazzo di carte. Beh… semplici per modo di dire. Una bella grattata alla nuca lo riportò in fase concettual-meditativa:
«Bisogna reperire ancora i molestati per interrogarli.»
Le lettere anonime erano presenti solo in fotocopia. Alzò la cornetta e, mentre formulava le tre cifre dell’interno, parlava con se stesso a voce alta:
«Eppercheccazzo non ci hanno consegnato gli originali? Mi chiami Buritovič, per favore, Elsa? Sì, subito, subito. Come il maresciallo non c’è. Elsa, lo devi rintracciare immediatamente. D’accordo, chiamalo a casa e digli che mandi un fischio appena può, qui in ufficio. Sai per caso se i giornali hanno parlato di un maniaco alfabeticodepressivo, in questi giorni? Al-fa-be-ti-co-de-pres-si-vo. Un maniaco strano.»
No. Niente stampa né televisione. E allora, a un tipo come Novak, cosa gliene importa? Perché tanta fretta? Stai a vedere che qualcuna delle denuncianti fa l’amore con lui e… la gelosia triestina… ecco il caso fatto per me. Stronzetto. Ah, ah. (Pausa breve). Ennò: il maggiore xe molto pulito, xe candido come Voltèr. Stronzetto son mi. Sarà perché mancano i furti di carichi navali. Incredibile.
Il giorno stesso spedì il povero maresciallo Buritovič a rintracciare di persona i famosi denuncianti, tutti. Ecco come si trovò a dover pensare alla medaglia al merito d’altri tempi, una settimana più tardi. Ed infatti è ancora lì che aspetta di interrogare dieci persone; lo abbiamo conosciuto proprio mentre attendeva il primo di costoro. Questi ha appena salutato e chiede permesso, aprendo prudentemente la porta dell’ufficio.
Terzo capitolo
«Il fatto che lei non voglia consegnare ai carabinieri gli originali delle missive anonime, signor Bellini, a noi sembra… ecco…»
Un vero triestino, Clemente Bellini. Nato a Palermo e vissuto tra Figline Valdarno, Genova ed altre sett’otto città europee, espone disinvoltamente un naso molto insinuante. Fronte piatta e vasta come il lago Trasimeno. Impermeabile grigetto per un mite inizio di settembre; quarantott’anni spesi male a coprire un’evidente avarizia intellettiva, egli, inoltre, tace con gran classe.
«Se queste… cinque lettere autografe la infastidiscono veramente, perché non ce le dà? Sono prove.»
«Lo devo proprio fare… subito?»
«Naturalmente. Altrimenti, come potremmo indagare?»
Pausa imbarazzata del Bellini. Il capitano prosegue paternalmente:
«Perché… lei forse ci tiene, a queste lettere?»
La sfinge prende vita.
«Un poco io ci tengo.»
«Eh, ma… a che gioco giochiamo. Prima lei fa l’esposto, poi… siamo coerenti.»
«Mi fanno compagnia, ‘ste lettere, signor capitano.»
«Allora ritiri l’esposto, così sospendiamo tutto e… arrivederci.»
Ancora un’istantanea fiammata di vivacità dell’interrogato.
«No. No. Vorrei sapere chi è.»
Santonastasio sta per collassare dalla rabbia (sangue bollente ch’avvampa gli occhi), ma si contiene, pensando alla imminente risoluzione del pasticcio. Mo’ lo metto ai ferri corti, ‘sto frocetto.
«L’Arma non è un’agenzia per cuori solitari, scusi. Io la querelo per falso esposto. E meno male che i giornali non ne hanno parlato, altrimenti ci sarebbe anche la turbativa di ordine pubblico; il procurato allarme!»
«Capitano, io sono sposato e le assicuro di non essere… Il discorso va messo in altri termini. Non c’è morbosità, non c’è sesso.»
«Dica, allora, e presto, su, Bellini.»
«C’è che mi disturba profondamente, questo scrittore anonimo, ma anche mi aiuta a vivere. È profondo… ha letto queste lettere?»
«Qualche riga. Diciamo la metà di ogni sua lettera; perché non scrive solo a lei, lo sapeva?»
«Ah no?»
«Esistono altri nove destinatari, per un totale di… una sessantina di lettere, tutte scritte a mano e lunghe almeno cinque pagine. E questo, ammettendo che sia solo lui, il mittente: sa, prima di consultare un grafologo, noi vorremmo individuare un profilo giuridico. Un reato da Codice Penale. A mio avviso la grafia ha evidenti tratti somiglianti in tutti gli scritti: stesse grazie (gli abbellimenti dei caratteri corsivi), stesse aste per le ”d” e le ”t”. Occhielli identici nelle ”e” e nelle ”l”. Credo che sia un unico individuo.»
«Maschio o femmina?»
«Non sono uno psicologo e lui evita magistralmente di scoprirsi, da questo punto di vista. Certo, scrive bene. Le righe sono ordinatissime quasi sempre, prive di sbalzi e cancellature.»
Attento, capitano! Ti stai lasciando andare troppo. Oltre un certo limite, inizi a sognare.
«Ha fantasia, il suo piacevole persecutore. Se conservasse le brutte copie, dovrebbe pubblicarle. Ieri ho letto quella parte in cui tratta della personalità in chiave sociale: ”ogni uomo scompare nel suo relazionarsi con gli altri”. Più avanti, ritorna sull’argomento, spiegando anche che ”l’individuo, però, acquisisce un’irrinunciabile – ”irrinunciabile” diceva, mi sembra – chiarezza, solo quando è costretto a porsi in rapporto dialogico con altri enti.”. Bello, tutto ciò, signor Bellini. Ed anche vero.»
La curiosità, vecchio Santonastasio. Se eccedi in curiosità, l’intuito svanisce. E tu ti sei fatto soffiare dei clamorosi successi investigativi proprio per esserti interessato personalmente ai casi. Le linguacce sussurrano che saresti portato per natura ad assolvere chiunque, a causa del ”risvolto umano” delle vicende criminali. Ma adesso, perché non continui a cercare di appurare se ci sia qualcosa di punibile in tutto ciò?
Sarebbe possibile che il capitano si fermasse, se non ci fosse il primo interrogato a rispondergli prontamente:
«Dunque le sembra giusto, che io voglia conservare per me ‘sta roba disturbante.»
«Se tutti i disturbi stessero in queste righe, io sarei orgoglioso che il maniaco avesse scelto me per conversare. Ma ora arrivederci. Ci faremo sentire noi.»
”Bravo il fesso. Domani pomeriggio, una bella passeggiata nella zona pedonale non me la leva nessuno: la farò per espiare.”
E si accese, a mo’ di anticipatorio fioretto, pure la sigaretta penitenziale, quella per lo stomaco vuoto. Poi prese l’inguattata bottiglia di brandy e si versò una abbondante coppa di rimorsoso liquore. Così qualcuno sostituisce ceri e mea culpa.
Quarto capitolo
Noi stiamo qui, in divisa con filorosso sulle gambe, per impedire ogni disagio alla popolazione: Deus nobis haec otia fecit! Peccato che il sereno volgo italico sia, a volte, leggermente masochistico. Se un autolesionista denuncia un sadico dopo averlo autorizzato a picchiarlo, come la mettiamo? Conta più il momento in cui quello ha deciso in piena libertà di farsele dare o il fatto che l’altro abbia accettato? Se non ci fosse plagio, naturalmente. Mandare una lettera anonima non è, di per sé, un reato, a meno che non vi sia intento persecutorio… anche solamente psicologico. Ma è il mittente, in questo caso, che si sta affidando alla benevolenza di chi riceve, poiché scrivere per motivi interiori produce sempre incertezza nel lettore. E un lettore (cioè anche un uomo qualsiasi) incerto, prima o poi opta per il peggio, immagina il marcio, lo schifo negli intenti altrui. Questo fenomeno, presumo che abbia origine dalla profondità, che toglie facilità di interpretazione all’espressione grafico-verbale.
Santonastasio, celibe e nottambulo, rifletteva sul suo fottutissimo caso, al termine del decimo colloquio con i denuncianti e non riusciva a decidere. Ancora evitava di capire se avesse perso l’ultima settimana guadagnandosi il pane, o, piuttosto, in un privato esercizio intellettuale sulle orme di quell’epistolario. ”A due passi dalla pensione, sono: se non due, massimo tre anni ancora e… la pace dei sensi.”. Brutta strada, imboccano i pensieri, alle due di notte. Bisogna indirizzarli meglio.
Colmato nuovamente il bicchierino di grappa croata, l’uomo si rimboccò le maniche, al fine di riordinare i dialoghi tenuti in caserma. Era tornato a casa da poco. Nel salotto liberty, il rombo delle macchine triestine sembrava esser quanto di meno pertinente ai mitici Roaring Twenties – atmosfera eccitante a cui lo rimandavano gli ereditati mobili scuri. Quelle persiane verde smeraldo, poi, lasciavano che anche certi sporadici miagolii interrompessero i soliloqui prodotti dai veicoli. Peggio ancora: annoiati i guidatori sgommanti e in calore i felini… il contesto, a modo suo armonico, non richiede tutori dell’ordine.
«Saremmo noi ad aver bisogno di silenzio. Anzi, sarei io.» Disse.
Beh, tutti i ”perseguitati” avevano in fondo espresso la medesima incertezza, fra il sentirsi in colpa per aver chiamato i carabinieri e la volontà di esprimere a qualche essere umano, neutrale come un gendarme, il proprio disagio interiore. Una serie di interrogativi sembravano esser affiorati alle coscienze di costoro, per via delle lettere. Era gente alquanto sola, o solitaria, per quanto oggi si possa considerare pienamente solitaria o sola la generazione fra i trenta e i cinquant’anni. Infatti, la solitudine è così diffusa che forse nessuno la vuole ma tutti non possono starne senza. Come ‘sto maniaco: va ricercato e preso o… È un caso di coscienza, certo. Quel cazzo di Novak me lo ha spiattellato sulla scrivania per farmi impazzire. La gente parla, comunque. Presto andrà a finire tutto sui giornali, è questione di giorni. E dopo Bellini, ho parlato con quella grassoccia, la Ortolano, o con la Cosulich? Sì, era la Cosulich, la più giovane. L’unica che abbia sporto denuncia contro ignoti. La più strana ed incomprensibile, ‘sta Marialisa Cosulich. Carina, magra, truccata, sprofumata, vestita alla moda. Orecchino al naso, ovviamente, senza che sia una rom. Aria germanica, eccetto la struttura ossea, la complessione. Forse uno dei suoi cento antenati era proprio italiano. Oh, che voce sottile e limpida:
«È un criminale, un arrogante. Dovete aiutarmi.»
«Ho visto le quattro lettere a lei indirizzate, signorina. Non contengono insulti, contumelie, minacce… voglio dire… mi è sembrato, leggendole, che si trattasse di poesie, con qualche osservazione in mezzo. O sbaglio? Mi dica, prego.»
Ero fresco come un giglio di campo, quel pomeriggio con la Cosulich, poiché l’angoscia del tormentone, al secondo colloquio, ancora non m’aveva riempito lo stomaco. La biondina sembrava in preda ad un panico sottocutaneo, che penso credesse di nascondere bene. Quasi tremava, mentre le pupille scoppiettavano nervose, inquadrando istantaneamente ora me, ora i muri dell’ufficio, la finestra, il pavimento di vecchie maioliche cilestrine.
«Ho bisogno della mia riservatezza, signor capitano. E la legge la garantirebbe, giusto?»
Ero tentato di mandarla a fare in culo; così, a pelle.
«Certo, certo. La garantisce, entro certi limiti.»
Quasi mi interruppe:
«Allora cerchi di evitare che questo sconosciuto mi importuni per via postale. Io non lo conosco, né l’ho invitato a scrivermi. Cosa c’entrano le poesie? Io non le desidero e questo basta. I limiti di cui lei parla, capitano, credo che prevedano il rispetto della mia volontà di vivere a casa mia senza essere bersagliata da lettere anonime. Se cerco qualcuno, io, prima mi presento con nome e cognome.»
«Ma la legge prevede l’accertamento preventivo, da parte nostra, di almeno una sola vera e propria offesa, di un turpiloquio esplicito o molto probabile, prima di avviare indagini e prove calligrafiche, eccetera. Non posso arrestare un tizio solo perché le scrive dei biglietti non richiesti.»
In procinto di ribattere acidamente, la Cosulich si esibì in una smorfia che non dimenticherò mai, sempre che riesca a non farmi seppellire da questa cazzutissima storia meta-investigativa. Ecco: allargò le narici come un negro senza strabuzzare gli occhi o arricciare le labbra carnose. Difficile a vedersi, roba da circo Barnum.
«Lei non può? Ed io chiedo al mio avvocato di procedere contro l’Arma per interpretazione ingiustificatamente estensiva del Codice Penale, a questo punto.»
Stava per andarsene senza salutare.
«Ma cosa la infastidisce, di quelle lettere, scusi? Mica pensa che quell’uomo tenterà di avvicinarla?»
«E perché non dovrei, capitano? Sono sicuro che lo farà, prima o poi!»
«Dopo un anno che le scrive? E usando quei toni delicatissimi, elegiaci, direi?»
«Anche il mio ex fidanzato mi ha rivolto la parola dopo due anni che mi vedeva all’università. Chi sa, cosa agita la mente dei matti?»
«Magari stavolta non si tratta di un matto.»
«Non raccolgo l’ironia; poca confidenza, signor carabiniere.»
Che facesse pure quello che voleva: denunciasse me per libidine mentale, la stronza. Poco me ne importava. Volevo vedere chiaro nella faccenda e quello era proprio il momento di capire qualcosa di più… scommisi tutto sulla Cosulich:
«Gli altri nove che hanno ricevuto analoghi dispacci dallo stesso individuo – e le assicuro che è lo stesso, ché di scrittura autografa ne so qualcosa – non sono stati ancora avvicinati. E la prima lettera risale addirittura a due anni e tre mesi fa. Il maniaco è più paziente del suo ex fidanzato, signorina.»
«Lei sta dalla sua parte. Solidarietà maschile.»
«Non sono sicuro che si tratti di un uomo.»
«Meno male che lei è esperto di scrittura corsiva.»
«Un navigato grafologo le confermerà la mia incertezza: l’anonimo potrebbe tranquillamente essere una donna.»
Dio, che nervi. Ripresi subito senza lasciarmi irretire dal gesto di sfida che mi fece (una rigida manina agitata nell’aria, come a dire: ”tu sei fuori”): «Il contenuto di una, fra quelle lettere, mi ha stupito.»
«A me invece tutte, mi hanno stupito. Ma finisca il suo discorso. Dica perché non cercherà il maniaco, su. Così lo potrò riferire a mio zio, il generale Aulenti.»
«Ossequi al signor generale. L’ho incontrato al comando regionale l’altro ieri. La lettera, però, è quella dove l’anonimo paragona una aurora sul Carso triestino alla solitudine di un granchio fra i neri scogli dalmati. Bellissima immagine.»
Attento ancora. Santonastasio, la subdola mano dell’aerea fantasia ti sta nuovamente arpionando, per sottrarti al dominio della razionalità mediterranea!
«Bellissima immagine,» continuò a ricordare nel salotto liberty, «che egli ottimamente precisa, considerando il crostaceo ”un brutto anatroccolo del nostro semisoffocato pelago adriatico”. L’alba, così, viene ad assumere la valenza di ”sole triste fra desolati anfratti carsici”, se non ricordo male.»
La ventisettenne tacque. Socchiuse gli irrequieti occhi. Credevo che stesse proprio, addirittura, riflettendo.
«Il maniaco, secondo lei, la desidera carnalmente, signorina?»
«No.»
«E questo… cosa le fa pensare?»
«Che la sua maniacalità sia ancora più spaventosa di quella che muove i violentatori, i bruti.»
«E perché lo dovrebbe essere?»
«Perché vuole scavare dentro di me.»
«E… ci riesce.»
Marialisa Cosulich così lasciò il mio ufficio, cinque giorni or sono che mi sembrano una vita. Questa indagine mi piaceva sempre di più, respingendomi al contempo: pioggerella salutare dopo l’afa, che diventa bufera, grandine, poi ancora nevischio, bailamme.
Dopo vennero la quarantenne Rosa Ortolano, vedova da un decennio, negoziante in centro. Il trentatreenne Goran Colarich, impiegato in una ditta di importazione alimentari che lavora al Molo Settimo. Agata Vascotto, trentacinque anni, dipendente sovraffaticata di un’azienda di intermediazione finanziaria – boh, chissà di cosa si occupa? Ed ancora: Sergio Tosi, quarantuno anni, impiegato portuale; Giovanna Servi, cinquantatré anni, insegnante con la mini-penzion, divorziata; Elsa D’Ambrosio, trent’anni esatti, piccola industriale della Zona Est; Catia Pannese, disoccupata laureata in Lettere Moderne, trentadue anni; Giulia Corsani, quarantuno anni, buona carriera fra tante ditte, libera professionista, cioè consulente aziendale.
Tutti apprezzavano il persecutore, l’ossessivo grafomane alfabeticodepresso, nonché mascherato. Eroe o eroina da ingabbiare quanto prima.
Fuorilegge? Questo spetterà ad un uomo dal nome femminile deciderlo. Intanto nessuno dei dieci aveva manifestato a chiare lettere la volontà di lasciar cadere tutto nel dimenticatoio. L’iter era libero di iterare.
Quinto capitolo
Sospettati zero. Inutile scavare sulle conoscenze dei dieci soggetti. In circostanze simili, abitualmente interveniva Euterpe III (”l’Astuto”). Ne sarebbe stato propriamente il caso? Se Euterpe Santonastasio lo avesse desiderato, Euterpe III si sarebbe posto sull’attenti in un battibaleno, certo. Ma dopo… vàllo a fermare! Quello si sa dove comincia e non si sa dove né come finisce: tre anni prima era riuscito a sbattere dentro una ghenga di contrabbandieri specializzati in mandarini extracomunitari e tuberi vari (eccetto i tartufi) privi di documenti. Euterpe II (”il Dialogante Solitario”) ricordò ad Euterpe I (”il Capitano Filantropo”), quanto dispiacque a tutti e tre mettere in gattabuia quelle famiglie di poveracci – tre italiane, due bosniache, una albanese ed una cinese. Era gente così sana che neanche fumava o beveva alcolici. Avevano solo il vizio di masticare e vivere sotto un tetto triestino.
Un’alternativa ci sarebbe… Vediamo. Il quattordici settembre del Duemilaedue, Euterpe Santonastasio prese dall’agenda mentale di Euterpe III solamente un numero telefonico che nessuno chiamava da tempo. Poi lasciò l’Astuto nel cantuccio a sonnecchiare intorpidito e mosse l’indice sulla tastiera dell’apparecchio di casa.
«Buonasera, professore. Mi riconosce?»
Dall’altro capo della linea giunse un farfuglio. Poi la rauca voce dell’interpellato:
«All’una di notte, o è san Dionigi o un suo adepto. Salve capitano… ha finito di leggere le Onoranze postume di Pandurovič?»
«Un paio di semestri or sono.»
«E adesso è in procinto di scusarsi per l’ora. Non lo faccia o abbasso la cornetta.»
«Lungi da me. Peccarità!»
«Continua a dare gli esami?»
«Ehm.»
«Le ho consigliato spesso di lasciar stare i titoli, capitano. Alla sua età… eh, eh, eh…»
«Alla nostra età, lei fa conferenze ed io carcero.»
«Con la laurea in Lettere, continuerà a carcerare come prima. A cosa debbo il piacere? Ne avrei una mezza idea.»
«Allora io le svelo l’altra metà, la prima: se il professor Ernesto Spitella ricevesse una serie di lettere anonime, contenenti poesie, elucubrazioni filosofico-morali, opinioni, eccetera, dopo un anno, cosa farebbe?»
«Andrei da lei e denuncerei il fatto.»
«Veramente l’hanno denunciato direttamente in Procura, poi il maggiore Novak mi ha passato il fardello. Come fa a saperlo, professore?»
«Verba volant. Ne parlano anche nei bar. Ma io non denuncerei nessuno, Santonastasio.»
«Già: lei fa le conferenze. Io regolo i tragitti delle manette sulle strade di Trieste.»
«Come fa a carcerare se non sa chi sia il colpevole?»
«Tra le varie mezze idee che ho, Spitella, qualcuna potrebbe farmi arrivare a quel tizio. Basterebbe… non so se mi spiego… farle camminare, svilupparle.»
«Oh… finis coronat opus! Dunque le sviluppi, esimio.»
«Devo prima decidere se c’è il reato.»
«E c’è?»
«Le segnalazioni giunte in Procura dicono di sì. Io…»
«Lei dice di no.» Spitella lasciò uscire in un sospiro, fra i denti, qualcosa di simile ad un sorriso: «Ecco. Scrive bene?»
«A volte. Provoca riflessioni utili: sulla natura dell’infanzia sostiene che i genitori trattano da deficienti i bambini, li viziano senza dar loro un vero aiuto per risolvere i propri enigmi. E tutti i destinatari, eccetto uno, hanno prole.»
«Ah… Sai che fastidio!»
«Ovviamente. Però le vittime sono ormai dipendenti dal carnefice. Quindi tocca a me decidere se acchiapparlo. Posso anche far scivolare il fascicolo nel limbo dei casi insoluti: nessuno si scandalizzerebbe, visto che una persecuzione postale raramente fornisce indizi validi.»
«Però lei, se ci si mette proprio di buona lena, lo becca nel giro di una settimana, vero?»
«Sì. Dopo due anni, saranno in molti a sapere; basta ungere le ruote dei miei migliori informatori.»
«Capìto. Continui a parlarmi di lui, non ho sonno.»
«Un’epistola contiene esclusivamente la descrizione del monologo interiore di un bambino immaginario. È dolcissima, struggente: il movimento del nascituro, visto nel corpo della madre quando inizia appena, rappresenta il suo chiedersi se vorrà effettivamente nascere. I movimenti di questo essere privo di nome sostituiscono la sua voce. Non è un embrione, un feto, ma un essere completo, perfetto, cosciente, che teme di sporcarsi col mondo esterno. L’anonimo presta alle movenze tutta la potenza dei suoni. Un’intuizione spiritualmente paragonabile al puer aeternus.»
«Lasciamo perdere i classici, capitano. A mio avviso lei dovrà prima rintracciare questo scrittore, con molta discrezione. In secondo luogo…»
Verso le tre, Santonastasio si rimise a studiare le lettere. Non avrebbe dovuto portarsi le incriminande fotocopie a casa. E ora non dovrebbe esaminarle nello studiolo, immagina, però…
Euterpe Santonastasio raramente ha visto i suoi tre gemellini interiori collaborare tanto proficuamente: il filantropo seleziona quel che i dialoghi propongono, mentre l’astuzia sbirresca si prodiga per scansare problemi d’ordine professionale. Come una troica fra i coriacei ghiacci moscoviti, egli approfondisce gli autografi passando, anzi sgusciando, fra le nervose mani dell’opinione pubblica. Ostinato a non darla vinta ad altrui convinzioni.
Quanto amore esiste, sparso, perduto, inclassificabile per la moltitudine! L’organizzazione umana demolisce quanto ogni singolo vorrebbe edificare. Sforza gli stanchi occhi, Euterpe, e si ferma con l’indice sopra delle frasi:
”Il silenzio dètta alla parola usando caratteri eterni. La parola, se non naufragherà nella propria abissale indecisione, saprà scegliere i più armoniosi vestiti per evitare all’uomo i lutti infiniti del silenzio. Ma senza silenzio non v’è parola che tenga. Ed io avverto quel primo linguaggio tacere: è fuoco sotto la cenere, covo di animali errabondi e selvatici, imprevedibilità dell’empireo. La parola resiste solo se c’è un solido tacere alle sue spalle.”
In trent’anni di carriera nessuno mi ha consolato mai quanto costui: che sia eruttato direttamente dalle fiamme dell’Etna? Quanto dignitose siete, pagine, laddove vi curviate alla tremula fiamma di una necessità:
”…Sempre il silenzio ha bisogno di qualcuno che parli per suo conto.”
E tu, anonimo, riesci a dargli voce, a questo pericoloso, incontrollabile animale mitologico? Non starai mica tentando di dominare il silenzio? E… come io so che tu esisti, forse anche tu saprai di me, sulle tue tracce.
”Tutto esiste perché esiste. Solo l’uomo esiste se qualcun altro lo fa esistere.”
Crollando addormentato sulla seggiola dello studiolo, Euterpe trae il suo dado:
Anche se fosse l’ultima scelta della mia vita, lo identificherò.
Ma nel corso della notte – questa breve notte di fine settembre ancora tormentata dall’afa estiva – un sogno giunge al suo capezzale. Sembra aver le fattezze del vecchio pieno di dubbi che gli appariva a Siracusa, quando aveva sedici, diciassette anni. Un pazzoide mezzo sdentato, canuto, quattr’ossa appena vestite di tunica logora e giallastra. È in piedi, fra le alte gramigne di un campo di ghiaie, argilla e pozzanghere, fra le lievi ondulazioni. Il cielo non si mostra, probabilmente farcito di cirri o nembi, chissà. Quanto parla, sghignazzando, e gesticola semiartritico, curvo, eccitato per oscuri motivi! È frenetico come un burattino:
«E dàgli, dàgli! Eeeeh. Scemo, illuso. Fatti gli affari tuoi, cosa ti manca? Lasciami scrivere, no? Cosa ti manca, che cerchi di incastrarmi?!»
Te ne stai approfittando perché non riesco a parlare, adesso, gobbaccio.
«Va be’ che sei solo come una serpe, come – ah ah – un sasso di fiume fra i sassi. Ma lasciami parlare, no? Ho capito, mi vuoi mettere nel sepolcro. Ti sono scomodo. Giovinastro aguzzino; perbenista che senza regolette scialbe e sociali crepa. E crepa, vaffanculo! Intanto io continuo a cantare nella palude. La vedi, la palude? Mi ci hai infilato proprio tu.»
Non è vero, brutto rimbamb…
«Ma io, qui, ci sguazzo. Vedi come sto bene? Canto come un grillo, un’allodola, un…»
Un pazzo.
«Un flutto del Tevere!»
Bevi meno.
«Volevi crearmi una solitudine soffocante e invece: tié! Faccio le corna alla facciaccia tua! Fra le rane ed i coleotteri, i girini, qualche gatto selvatico, sto bene: canto, io! La-so-li-tu-di-ne-è-un’in-ven-zio-ne-bor-ghe-se. Scialalalalà! La-so-li-tu-di-ne-ti-ren-de-caccia-to-re, scialalalalà! Sogna-sem-pre-e-non-ti-svegliare, scialalalalà! Lasciami predicare, scrivere e amare, sciallalà!»
Eppure anche le notti agitate scorrono via. Lo si constata il giorno successivo, quando la fisica assurdità delle cose torna.
Sesto capitolo
Egregio capitano Euterpe Santonastasio,
Alleluia: mi sta cercando! Non c’è problema. Chi si voleva nascondere? Le scrivo qui sotto il mio indirizzo (spiacente, ma non ho telefono, lo odio). Mi trova in casa tutti i giorni tra le nove e le dodici. Sono convinto che non chiamerà i paparazzi… o almeno hoc est in votis (scriptoris).
Cordiali saluti
Romolo Testa.
Sì… (uffa: ‘ste sentenze latine iniziano a farmi degenerare la pressione!) e la mamma si chiamerà Capitolina. Il babbo Ascanio.
Come girano le voci, in questa città! O forse è la città che gira e le voci stanno ferme, considerando la Storia. Meno male che non mi ha scritto addirittura a casa, Romoletto. Speravo almeno di far in tempo a ricevere un paio di rapporti dagli informatori… Va be’, questi si tratterà di utilizzarli per altre faccende, chissenefotte degli informatori: la pappa è pronta ed io vado a servirmi direttamente nella cucina dello chef.
Alle dieci del mattino, il capitanaccio (capelli scarruffati per via della notte passata con il vetusto anarchico onirico, lingua a mo’ di pastafrolla, cravatta d’ordinanza stortina) richiude la missiva dell’ex anonimo carnefice-gentiluomo. Alza la cornetta e seleziona la linea dell’autorimessa. Il cielo pregno di pioggia non lo conforta come dovrebbe, ed un mutismo tutto siciliano s’è impossessato del vecchio feudo; quando Euterpe tace e non si rallegra nemmeno per la pioggia vuol dire che sta succedendo qualcosa di più importante: qualcosa tipo un dialogo fitto fitto bloccato a livello di cervice:
”E adesso che je dico a iddu, a quello?”
”Digli che sei un suo affezionato lettore.”
”Stolto e bestia: si vede che non studiasti. Sbrigati a parlare seriamente, che fra due minuti arrivo a casa sua.”
”Stanotte, parlai, no?”
”Parlasti.”
”E tu, caruso che non sei attro, nulla capisti?”
”Caruso dillo a… Insomma… pochino, capii.”
”Bogghese, sei, non studioso! Devi rrinsavire, sennò è inutile che io parli e palli, e palli sempre! Anzi ammo’ taccio e te lascio alle tue rrogne. Ciao, pronipote ddeficiente. Lo stagno m’attende.”
”Ma…! Aspetta! Scusa nonnuccio! Ecco s’è arraggiato e dde sicuro non lo vedrò più fino a stanotte. Lui sta lì a parlare in dorico coi rramarri ed io… ”
Quasi non s’accorge dello scrostato palazzo di via Trissino, ovverosia la meta. Meno male che almeno ha cominciato a piovere e non c’è un filo di vento, pensa, mentre, lasciato l’autista in un baretto nei dintorni, si sta pressando il cappello flàmmeo sul capoccione crucciatissimo.
Che zucca che ho stamattina: sembro una testuggine… testa… caput… Cinque rampe di scale… Eccolo lì, Testa: nomen omen?
I saluti durano poco, in certe occasioni, come sovrabbondanti fronzoli rococò. Corta capigliatura con scrimo a destra e frangetta appena accennata, naso vittimisticamente penzoloni, statura alquanto elevata e corpo plastico ma non longilineo, Romolo Testa vanta una cravatta…
…non troppo estesa, che è un bigiù: ornata alla pompeiana, stile architettonico con quadrati che sembrano stanze vermiglie. Una figurina maschile in peplo appena accennata vicino all’orlo. Seta pura. Sei elegante, criminale! Sei una Citazione antropomorfa! Sei un…
«È stato un vero piacere per me, signor Testa, leggere quanto ha fatto avere a quei signori.»
«Spedito, preciserei. Sessanta lettere in due anni e tre mesi. Tutte con la postacelere.»
Bella voce, hai, criminale letterato, italianista di sicuro: morbida voce. Ettidicocriminale pecché altrimenti te ne approfitteresti.
«Ma, scusi, perché le ha spedite in forma anonima?»
Occhi color dell’uva passa, Romolo.
«Secondo lei, capitano?»
Dignitoso, Romolo Testa.
«Non lo so proprio. Una domanda è una domanda.»
«Per non mettermi a declamare mostrando la faccia. Anche per questo.»
«Così ha provocato vomiti di angoscia a mezza Trieste.»
«Più angoscia di quella che già c’è? I mali di Pandora prima o poi si esauriscono: è umanamente impossibile aggiungerne altri, a meno che lei non creda che io sia Mefistofele.»
Oddio, mi sta scappando da ridere. Autocontrollo, Euterpe.
«Sp… spiritoso, signor Testa. Le conosce personalmente le vitt… i destinatari?»
«Vittime va bene. No: mai mangiato il brodin con loro.»
Deciso e caustico. È proprio autoctono.
«Ed io la arresto immantinente.»
«Dura lex.»
«Fuma?»
«Favorisce?»
Bisogna ammettere che in questa città – benedetto il Millenovecentottantanove quando arrivai – ci si prodiga meglio nel condensare il brodin di manzo che sulle elaborate variazioni maccheroniche. Niente di scotto, sciatto, anonimo… il brodin xe propio una delle cose che lori fanno ben e bon:
«Scusi, Testa, ma il vinello bianco dove lo ha preso?»
«Mio cugino, che el ga un campisel fora città.»
«…Ed il soffritto per il brodo…»
«Ghe go meso anche el batudin finofino. Le piaxe?»
«Quasi quasi chiamo anche l’autista. Posso permettermi… professore?»
«Go la matura media, mi. La terza media e stop.»
«No!»
«Certo, leggo in biblioteca, ogni tanto… quasi un paio di volte all’anno un libretto: a Natale e a Pasqua; però a volte salto Pasqua. E chiami il suo commilitone, chiami prima che si freddi tutto quanto. Ma, scusi… volevo dire… sa… avrei un appuntamento e forse sarebbe meglio che ci sbrigassimo. Così lo rimando a data da destinarsi.»
«Ha fretta? Vada, vada. Tanto io devo tornare in caserma verso le tre. E sono già le due.»
«Come vada vada, capitan.»
«Ah, già, l’arresto. Magari domani.»
«E se fuggo?»
«Lasciamo stare. Piuttosto: come fa a scrivere lettere come quelle?»
«Penso.»
«E le citazioni?»
«Vocabolario Campanini e Carboni. Ne ho uno ch’era di mio nonno.»
«Perbacco… E le figure retoriche, le parafrasi, le forme ellittiche, eccetera?»
«Che roba sarìa, questa, capitan?»
«Sarìa… sarebbe il parlar forbito, l’eloquio ricco e significativo.»
«Che ne so: mi, scrivo quel che go dentro.»
Santonastasio fece un fischio dalla finestra al sottoposto guidatore, alzandosi piuttosto frastornato dalla comoda seggioletta di casa Testa. E non era in quelle condizioni per effetto del vinello.
«Rimanga reperibile. Se non le dò fastidio torno domani verso la stessa ora. Forse. E… volevo prima chiederle (pausa e grattata di cervice): gli indirizzi dei destinatari, come li ha avuti?»
«Elenco telefonico, sior capitan. A caso.»
Naturalmente. Domanda stupida. Addio, caro.
Santonastasio, tirando giù il finestrino per accendere una sigaretta senza procurare smorfie all’attendente, si sente chiamare. Preferirebbe restare in assoluto silenzio fino alla caserma, ma la voce non ammette dinieghi:
«Cogghjone e bborghese sei, fosti e rramarrai pe’ ssempre, figghiu. Però io parlo e pallo. Pallo sempre, così li dubbi tuoi almeno fugghiono. E dopo, senza dubbi stupidi, tu cerchi de vivere cchiù serenamente. E ascolta anche queddu llì, RRomolo, pecché co’ iddu io ci parlo tutte le notti da quando nascette.»
P.S. E nessuno diede a qualcuno una medaglia, bisbigliano le anonime oralità triestine.
Bravo, signor Sozi, a cui ancora devo ancora un grazie per la bella pagina sul Petrarca di qualche tempo fa.
Il racconto ha ritmo incalzante ed acuta analisi introspettiva.
Ad ogni pagina prorompe la sua solida cultura classica; la dimestichezza con vari dialetti attualizzano il racconto rendendolo accattivante dalle Alpi alla Sicilia, con in più il tocco esotico dei nomi slavi.
Complimenti, mi sono divertita, ma lo rileggerò di nuovo più attentamente, vagliandone tutti gli aspetti, palesi e reconditi.
Marisa Magnani
Ho letto il racconto e l’ho trovato davvero molto interessante. Grazie a Sergio Sozi per avercelo offerto e a Massimo Maugeri per averlo pubblicato.
Care Marisa ed Elektra,
grazie per la stima e l’apprezzamento: nel mio modesto libro ci sono altri sei sogni di questo tipo. Sogni che sono riuscito a pubblicare nel 2007 solo dopo due anni di vagabondaggio della mia agente fra editori medi e piccoli. Quindi un vero grazie andrebbe espresso all’editore Casini, il quale e’ stato l’unico a credere in me. Adesso attendo le opinioni dei lettori, perche’ questi sono i soli, veri destinatari di ogni mio ”giochetto” narrativo. E spero che critichino anche con lame affilate!
Sergio Sozi
“mi sono innamorata di te perché non avevo niente da fare…”. Per lo stesso motivo, oggi ho letto il racconto di Sergio Sozi, e sono felice. Evito gialli,polizieschi, horror, perché le trame mi confondono e dopo un po’ penso solo ai fatti miei. Oggi invece, superate le righe del primo capitolo mi sono sentita avvinta da Euterpe Santanastasio e dai suoi “gemellini interiori”: il filantropo che seleziona, i dialoghi che propongono e l’astuzia che si prodiga. C’è il nostro vivere fuori rotta e il nostro ingombrante sapere che si traduce in commistioni confuse. Tutto raccontato con sapienza e ironia musiliana. Solo che ad essere stufo dei civili “e di far lavorare il cervello a quel ritmo” non è il generale Stumm ( o Santonastasio), ma i civili stessi, che ( anche se un po’ in colpa) sentono il bisogno di ordine.”Se lo spirito non è che ordinata esperienza, allora in un mondo ordinato non c’è affatto bisogno di lui”.
E’ molto bello questo racconto, adatto anche ad una versione teatrale. Sono dialoghi filosofici che, fra le altre cose, fanno pensare e ricordano i ragionamenti di Don Chisciotte e la novella di Anselmo e Lotario: Il cervellotico principio.
A presto. Nel senso che mi farò coinvolgere da altri giochetti.
Miriam
Non sono brava a “esporre” il mio pensiero come Miriam. Però anch’io ho trovato il racconto di Sergio Sozi molto interessante e originale. E con una “valenza” letteraria superiore alle cose che si leggono in giro di questi tempi.
Cara Miriam Ravasio,
eh si’: lo spirito serve, nel Mondo, proprio perche’ di ordine, nel mondo, non ce ne e’ mai a sufficienza. E questo ammettendo l’apriori musiliano che lo spirito sia l’ordinatore delle esperienze mondane. Ma se, invece, propongo io, lo spirito fosse qualcos’altro tipo ”la sostanza della vita stessa”? Ovvero: se lo spirito fosse, per l’uomo, la coscienza della vita cosmica, del tempo, dell’amore, infine di Dio?
Insomma la bellezza incorporea. Lei, signora Ravasi, mi pare stia sfiorando il senso da me percepito per il mio proprio scrivere. Grazie: discorreremo ancora a lungo, voglio immaginare.
Un saluto caro e un ringraziamento vanno alla sig.ra Rosa Fazzi, dalla quale tuttavia attendo un’opinione piu’ estesa.
Sergio Sozi
Sergio Sozi: chiamami Miriam.
Sì discuteremo a lungo e magari incrociando colori e forme. Su questi temi sto lavorando da anni, su album e su grandi fogli.
A presto, Miriam
E’ proprio così, quante arrabbiature e quante ore trascorse davanti al computer per controllare se il tipografo rispettava i testi i miei testi originali. Spesso saltava il cursore e non ti dico cosa usciva fuori. Potrei scrivere un romanzo sulle vicissitudini vissute nell’antro del tipografo…con il corredo di tutte le zanzare allenate a vivacchiare tra inchiostri e acidi e carta umida…specie per il primo libro che finii di stampare nel luglio 2000 e quindi era la stagione giusta per uscire dalla tipografia non solo con gli occhi gonfi ma anche con le gambe punzecchiate all’inverosimile e per di più, mi ricordo che per stampare il mio secondo libro, non vidi una catasta di cartoni e cassette di legno e mi ci fiondai sopra. Finii il libro con tanto di ammaccature da tutte le parti e per questo non mi fecero neanche lo sconto…Poveri noi scrittori e come capisco quei grandi che hai citato…sono sempre più convinta che un autore dovrebbe avere una tipografia incorporta nel cervello….onde evitare giornate di strazio infinito….ma alla fine, uhe!uhe!, il libro è nato e tutto si dimentica…
Cara Gabry Conti,
proprio nel Duemila scrissi il mio primo libro, una raccoltina di versacci: idem con patate! Certe litigate col proto-factotum! Torniamo ai papiri e alle tavolette di cera dei Romani, su, e’ piu’ pratico e garantisce la firma dell’autore.
Va be’, a parte gli scherzi: va bene lo Strega, e’ che io non sopporto Ammaniti, l’ho anche fatto tradurre (da mia moglie) qui in Slovenia ma non lo apprezzo. Dovevo farlo perche’ curavo un’antologia di racconti italiani 1989-2003 e dunque il ”dovere di cronaca” mi costringeva ad includere anche qualche (sottolineo: qualche) autore molto popolare in Italia. Pero’ ho fatto (e faro’ in seguito ancor meglio) conoscere per la prima volta in questo Paese anche gente brava come Vassalli, Lodoli, Marani, Pazzi, D. Del Giudice, e altri.
Saluti Cari
Sergio Sozi
racconto letto. molto, molto interessante. grazie mille. curioso di leggere l’intera raccolta che penso di acquistare on line
Credo che il bel racconto di Sergio Sozi,così innervato da una prosa letteraria e non giornalistica,costituisca un balsamico ricostituente per tutti gli amanti di una narrativa non destinata alle librerie site negli aeroporti.
Cari Gianni C. e Max 67,
per me scrivere e’ un godimento che si trasmette: volatile – e tenace! – come la gramigna e aeriforme quanto i gradi centigradi. Grazie!
Sergio Sozi
P.S.
Vi ”regalo” anche una poesiola dedicata a Sandro Penna, contenente la mia modesta definizione di un aspetto importante della buona Letteratura:
Scricciolo che fosti
lumina il minimo
verbo della disperazione.
Caro Sergio,
noto con piacere che questo racconto sta destando parecchio interesse. Ottimo. Non avevo dubbi, del resto.
Una domanda: Euterpe Santonastasio è un personaggio seriale (e dunque lo “rivedremo”) o è destinato a “vivere” solo in questa raccolta?
Caro Massimo,
ho pubblicato solo un terzo dei miei racconti su Euterpe Santonastasio. Ne ho ancora quattordici che attendono di vedere la luce del sole. E, se questa prima raccolta avra’ un qualche buon risultato… conto di proseguire.
Grazie Mille per l’apprezzamento!
Sergio Sozi
Ah, dimenticavo:
i quattordici racconti che stanno nel cassetto sono solo una minima parte, se riesco a far ubriacare Euterpe. Tutto dipende da lui.
Sergio
Complimenti per il libro, complimenti per il racconto che da il titolo alla raccolta. Ho notato una grande ricchezza linguistica coadiuvata da una capacità di sintesi nella narrazione; il modello Gaddiano si fa sentire. Ma c’è proprio una originalità, una vivacità ed un entusiasmo nello scrivere; e allo stesso tempo la capacità di condurre un discorso di ricerca esistenziale profonda. Euterpe Santonastasio ed il suo “maniaco” così dolce sono sulle orme, più che di Poirot o Maigret, di Socrate, Platone e Seneca.
Caro Sergio,
complimenti per il vespaio di commenti positivi che hai scatenato grazie al tuo racconto.
Sarebbe difficile rendere ancor più ricco questo carnet di scritti e scrittori i quali evidentemente sanno bene quel che dicono e quel che fanno. Da parte mia, solo questo: è incontrovertibile il fatto che le tue pagine – che, sia chiaro, apprezzo moltissimo – non possano nè debbano essere collocate in una libreria da aeroporto (ammesso e non concesso che gli aeroporti siano frequentati solo da lettori dilettanti o occasionali), ma mi chiedo se una Letteratura così sottile e, come è stato più volte sottolineato, filosofica, ovvero alta, aulica, difficile, trovi il proprio motivo d’essere anche nell’autocompiacimento dato dalla consapevolezza della propria elitarietà, e se sia giusto altresì che su cento “comuni” lettori, presumibilmente solo una manciata (tre, quatto?) possano realmente avvicinarsi, comprendere e – ritengo – apprezzare i tuoi scritti.
So che adesso sarò bastonata , ma a mia discolpa chiarisco di essere una cara amica del Sozi da lunga data (dunque se polemizzo, lo faccio con simpatia) e ovviamente di non praticare il mestiere letterario.
Ilaria
Cari Lorenzo Abbondanza, Max 67 ed Ilaria,
1) A Lorenzo: effettivamente filosofeggio, seppur da dilettante: per l’appunto l’amor platonico sovrintende la mia modesterrima poetica!
2) A Max 67: all’aeroporto io non ci metterei piede neanche con la mia ”longa manus” letteraria, tanto forte e’ il mio terrore di volare.
3) Ad Ilaria: scrivo cose che hanno due piani di lettura: al ”piano terra” chiunque abbia fatto dei normali studi medio-superiori ci arriva ottimamente; al ”piano nobile” ci si arriva comunque ma solo grazie ad una ”assunzione mentale” calma e ponderosa. I miei sono, pertanto, due ”piani” che equivalgono a due ritmi di lettura, non due piani d’ordine classistico (plebe e aristocrazia delle Lettere). In ogni caso, mia moglie, che come tu sai bene e’ straniera, questo racconto lo ha letto tutto d’un fiato e lo ha compreso perfettamente subito.
Grazie a tutti e tre!
Vostro
Sergio
Caro Sergio,
sono ancora in tempo? Ma…hai avuto tanti complimenti, molti aulici, dotti (perchè tu lo sei, e qualcuno non voleva far brutta figura), molti di riflesso (tutti hanno detto che è bello, mo’ lo dico anch’io…), i miei sono i complimenti di un naif, di un lettore-scrittore rustico, un parvenù della letteratura, uno che è stato ammesso tardi alla corte…e spesso, pubblicando qualcosa, gli viene chiesto di “spengere la luce quando esce(non spegnere)”.
Quando ho letto il tuo commento per l’avversione allo “Strega” per Ammanniti mi sono intrigato, ho pensato: “O questo è scemo e si vuole fare propaganda, un presuntuoso; o questo è talmente “tosto” da aver delle cose da dire”. A Napoli si dice che se vuoi prendere il posto del guappo devi andare a prenderlo a schiaffi a casa sua. Ho stampato il racconto e l’ho letto varie volte, e ogni volta mi ripetevo: “Rick, figlio di puttana”…ti ricordi la frase che il collega nero ripeteva sempre al poliziotto Mel Gibson in “Arma letale”, compiacendosi del coraggio?
Non è un bel racconto, è “Il racconto”, è la novità che le mummie della grande editoria non vogliono accettare, è la grande tradizione dei “Nick Carter”, dei Chandler:”Ehi, bambola calma, non picchio mai le donne dopo le undici di sera!” e, umoristicamente, di un Pennac del 2008, condensata nella tradizione che si rinnova. Da’ nuova vita, o vita (direttamente) all’umorismo, alla satira, a tutto quello che in letteratura è unto dal peccato originale, quello di far sorridere, quello che è considerato un sottogenere.
Ti ringrazio per questo
p.s. vai avanti tu, che mi vien da ridere
Caro Massimo,
OLMI voleva provocare una
certa categoria di persone.
OLMI sa che i libri accompagnano la nostra vita.
Senza libri non c’è memoria
storica del passato – presente
né dibattito sul futuro.
I nuovi mezzi di comunicazione
aiutano a completare, ma non
riusciranno mai a sostituire i libri
cari saluti—-
Cari sig.ri Francesco Di Domenico e Caterina,
Per il primo:
far ridere qualcuno (di gioia, di felicita’, come un bambino che era bambino, appunto, ”Quando il bambino era bambino”, come dice Wim Wenders nella pellicola ”Il cielo sopra Berlino”) e’ la mia aspirazione massima, esistenziale, terragna, aerea, posta nella mia storia individuale e in quella del mio sangue… un sangue melodrammaticamente pazzo, ossia gioioso.
Un sincero Grazie per le Sue osservazioni e… della grande editoria io me ne infischio. Faccio il mio lavoro. E se piace a ragion veduta, salgo sugli astri e bacio le comete.
Per la seconda:
il libro e’ un bambino indifeso che segue la mano dei genitori e dei parenti tutti, senza poter scegliere. Se andra’ alla tomba, dunque, sara’ solo perche’ scrittori, lettori e critici (i ”parenti serpenti del cosiddetto Nuovo Millennio) ce lo porteranno. Ma io, mi creda, non saro’ fra costoro. Io portero’ alla tomba solo i patrigni e le matrigne, esprimendomi, nel mio piccolo, criticamente.
Cordialmente
Sergio Sozi
Caro Sergio,
sono lieto che il tuo racconto abbia raccolto commenti così lusinghieri.
Credo che Euterpe Santonastasio reclami ulteriori spazi nel mondo delle lettere. Chissà, magari – nel futuro – si potrebbe pensare di farlo vivere in un romanzo! 😉
Caro Massimo,
Euterpe Santonastasio in un romanzo? Ne dubito. Il romanzo rappresenta il mio ”Muro di Berlino” personale ed io non ho la forza della disperazione nelle ossa, come i tedeschi dell’Est di un tempo, per poterne oltrepassare l’acuminata cima. Io resto giu’, li’ dove allignano i modesti narratori di breve respiro… sperando che il respiro, appunto, sia breve ma… ripetuto!
Saluti Cari e mai fievoli Ringraziamenti per l’ospitalita’
Sergio Sozi
P.S.
Oltretutto ho interrogato Euterpe, ieri, a proposito di raccontarmi qualche sua storia un tantino piu’ lunga e… sai come m’ha risposto, lo screanzato? (Era lucido, una volta tanto) Mi ha risposto cosi’:
”Io dico quel che c’e’ da dire, mica allungo il brodo col prezzemolo, se mi basta il soffritto!”
Caro Sergio,
ti ringrazio per la pronta risposta alla mia osservazione. A questo punto posso aggiungere semplicemente che ogni testo letterario che si rispetti dovrebbe possedere più di un livello di lettura (e di comprensione), e questa caratteristica non dovrebbe inficiare la piacevolezza di affrontarlo per chiunque abbia interesse e buona volontà.
Trovo invece fin troppo facile e scontata la ribattuta alla tua seconda riflessione. So bene che tua moglie è straniera, ma so anche che conosce la lingua e la letteratura italiana alla perfezione, tanto da lavorare in qualità di traduttrice in sloveno di opere di grandi scrittori italiani.
Ti saluto con affetto, Ilaria
Cara Ilaria,
”mi hai fatto tana”, come si diceva una volta. Ragionamento impeccabile, il tuo. Infatti Veronika ha tradotto e traduce gente come Vassalli, Calvino, Marani, Magris, Maraini, De Luca, Pazzi, Tabucchi, ecc. Pero’ va anche detto che il livello attuale della narrativa italiana sta un po’ troppo seguendo lo stereotipo della ”mediocritas”stereotipata a cura degli editor. E superare lo scoglio degli editor e’ cosa da… forzuti delle Lettere!
Con Affetto
Sergio Sozi
Scusatemi, lettori di Letteratitudine. Sno un nuovo adepto, ma devo, purtroppo notare che
questo racconto, ”Il maniaco” e’ una cosa mediocre!! Paragoni con Gadda, Bontempelli e Landolfi, Palazzeschi. E perche’ non Leopardi, al punto in cui siamo. Basta parlarne… anzi, diro’: per fortuna nessuno ne parla ulteriormente. Le metafore sono incomplete, il linguaggio e’ ricercato all’eccesso e spezzato nel ritmo, la supponenza dell’autore simile a quella, dopotutto elementare, di un parvenu’ delle Italiche Lettere. Poi, niente lascia pensare ad un intento comunicativo: se Sozi parla per se stesso, lasciamolo nella sua stanzuccia, e’ vero? A stendere il memoriale di un comunicatore fallito, magari.
Scusatemi per la sincerita’ (parziale sincerita’: avrei molto da aggiungerne, purtroppo).
F. M. Buattini
Egregio signor Buattini,
naturalmente ognuno ha il diritto di criticare in libertà (purché non si trascenda nell’offesa personale… non mi stancherò mai di ripeterlo). Le confesso che i paragoni con Gadda, Bontempelli, Landolfi e Palazzeschi avevano fatto storcere il naso anche a me (peraltro il naso mi è rimasto ancora un po’ storto).
Certo, la definizione “memoriale di un comunicatore fallito” mi pare un po’ forte. Ma la usi pure se crede. E’ un giudizio critico un po’ duro, ma non un’offesa personale. Mi permetto solo di invitarla a rileggere il racconto. Magari una rilettura potrebbe “addolcire” le sue valutazioni (così come avviene per il secondo ascolto di una canzone un po’ meno orecchiabile che tenta di discostarsi dagli standard sanremesi).
Comunque, visto che si dichiara “adepto”: benvenuto a Letteratitudine.
Spett. Maugeri,
la sola cosa che, in tutta sincerita’, mi irrita dell’atteggiamento critico di questi tempi, e’ l’incondizionata adesione riservata ad alcuni autori. Come alternativa c’e’ la ridicolizzazione e la messa al bando come ”ciofeca”.
Mi pare che le vie di mezzo tra santita’ e Inferi siano, invece, tante. Basta analizzare con maggior profondita’ i testi – possibilmente senza sentirsi in dovere di esibire dei paragoni spesso improbabili, fuori luogo o esagerati.
Uno scrittore e’ prima di tutto se stesso: valutiamolo dunque come ”unicum”. E lasciamo i morti in pace.
Poi Sozi non e’ cosi’ male, dopotutto. Qualche pregio ce l’ha: vuol dire molte cose tutte insieme e sa creare una buona suspence. Le sue strutture narrative reggono. Pertanto mi scuso per il mio essermi infervorato all’eccesso. Solo che sono stanco, oltre che delle ”assunzioni in Cielo” e delle ”dannazioni” critiche, anche delle mezze parole: nell’arte bisogna esser spietati.
Cordiali Saluti
F.M. Buattini
Mi sostituisco ai nostri amici Ciceroni perché mi è capitato di leggere questa bella recensione al libro di Sergio Sozi: “Il Maniaco”.
La inserisco qui di seguito. Tu ne eri al corrente, Sergio, o ti ho fatto una sorpresa?
——
La scrittura di Sozi e l’enigma della molteplicità
(di Marco Gatto)
Una raccolta di racconti edita da Valter Casini rivela tutta la ricchezza
del plurilinguismo, con tocchi finemente gaddiani, da giallo filosofico
—————
Scorrendo brevemente il catalogo delle opere di narrativa che affollano le nostre librerie, è facile accorgersi che la nozione basilare secondo cui la scrittura è prima di tutto consapevolezza e sacrificio pare ormai dimenticata. Con sacrificio vuole intendersi qui un dato di fatto che può apparire abbastanza scontato: il lavoro di lima, l’inesauribile ricerca di una forma compiuta, la necessità di investire il linguaggio di forza euristica e di mescolarlo ai voli dell’immaginazione. Oggi l’epoca della leggerezza ha invaso pure la supposta qualità della scrittura, ci ritroviamo nelle mani opere o quasi-opere che della parola non fanno oggetto di riflessione, ma strumento per tessere vacuità e vuote superfici narrative.
Per queste ragioni è raro incontrare, nel proprio cammino di lettore del panorama letterario contemporaneo, una raccolta come quella di Sergio Sozi, Il maniaco e altri racconti (Valter Casini Editore, pp. 140, € 16,00). Basti subito dire che il riferimento del nostro autore è, senza alcun dubbio, sia da un punto di vista stilistico, che contenutistico, e saremmo tentati di aggiungere pur filosofico, il gran lombardo della letteratura italiana, Carlo Emilio Gadda. E già questo basta per proporre un ordine sparso di considerazioni. Da una parte, la scelta di un modello, come ci ha insegnato Borges, equivale alla costruzione di un padre, all’elezione di una linea da seguire; dall’altra, però, l’invenzione narrativa è tale che il rovesciamento della prospettiva, per così dire, paterna, ha una possibilità retrograda: quella, ovvero, di saper rileggere, alla luce della sua contingenza, un’intera prospettiva storica. Per cui, dal libro di Sozi potremmo estrapolare più prove di quanto la “funzione Gadda” abbia agito nel corso di questi anni. Non senza affermare che la molteplicità gnoseologica di quella pratica narrativa potrebbe essere alla base di un atteggiamento di resistenza nei confronti della leggera e vacua letteratura commerciale o, per meglio dire, postmoderna.
La detection e la verità linguistica
Al centro dei racconti di Sozi – il brano che dà il titolo alla raccolta è da segnalare come prezioso gioiello narrativo – sta la figura di Euterpe Santonastasio, capitano della Compagnia Trieste II, che si ritrova alle prese con assurdi casi polizieschi, che, vale sottolinearlo, hanno al centro le carte, la scrittura, l’enigma narrativo. Il nostro autore vuole senz’altro aggiungere al tema già gaddiano della detection un’ulteriore peculiarità: la ricerca della verità è prima di tutto ricerca di un senso, che spesso appare ultimo e invalicabile; come, allo stesso modo, difficile e terribilmente lontano appare lo sforzo di ricercare la verità attraverso la scrittura. Così le lettere sentimentali di un ignoto autore, un vero e proprio maniaco della scrittura, diventano lo strumento attraverso cui il nostro capitano – un Ingravallo atipico – si interroga per giungere a soluzioni che spesso scarnificano il processo di ricerca e nello stesso tempo lo esaltano, avendo come risultato la chiarezza e la semplicità, il termine o l’interrogativo (si legga il finale del primo racconto).
Sozi ci accompagna in questo viaggio nel molteplice e nel plurale attraverso una scrittura che quella eterogeneità vuole riflettere. L’utilizzo del plurilinguismo (siciliano, triestino, romano, lessico alto, basso) non è certo di maniera: serve al nostro autore a rappresentare un groviglio che, oltre ad essere oggettivo nell’indagine e nel reale, è tutto interiore: la scrittura è un rovello metafisico, come lo è il pensiero che insegue i problemi del reale, un magma espressivo che non lascia tregua alla facilità, un elogio della difficoltà. Anche per questo il lettore è scosso dall’impossibilità di rimanere inerme e superficiale di fronte a questo tipo di scrittura. Un antidoto, questo, alla letteratura priva di ogni valenza gnoseologica. Basti leggere l’ultimo racconto, Elettricità, per essere rapiti dal vortice della scrittura, che in Sozi è spesso ironica, mai banale. Aspettiamo di leggere i prossimi lavori, favorevolmente colpiti da questo bel libro che abbiamo presentato.
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Marco Gatto
(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 2, ottobre 2007)
Fonte: http://www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=66
Sapevo della bella recensione del profondo e arguto Marco Gatto (che e’ oltretutto un bravo poeta, ricordiamo!), ma non pensavo che sarebbe finita qui. Te ne sono pertanto molto grato, anche se forse sarebbe il caso che finalmente qualcuno scrivesse un commento al mio ”Maniaco” un po’ meno ligia allo stereotipo che si sta avvalorando in questi mesi: ”Sozi uguale Gadda del 2000”.
Se qualcuno dei frequentatori di Letteratitudine volesse provare a farlo – senza nulla togliere a Marco Gatto – ne sarei felicissimo. Si accettano stroncature ma si auspicano punti di vista ”extragaddiani”.
Provateci! Avanti! Picchiate duro sul ”Maniaco”! (Non me la prendero’: promessa di ”scaut”)
Sergio Sozi
Inizio io:
Sozi va letto due volte per esser capito e possibilmente in stato di ebrezza. Altrimenti sembra neogreco traslitterato dal fantasma ubriaco di Prezzolini.
Carissimi,
è una delle prime volte che visito questo blog. Intanto, complimenti: diventano sempre più invisibili i luoghi dove poter discutere di letteratura.
Mi intrometto nella discussione sul libro di Sozi, sollecitato anche dall’immissione nella mischia della mia recensione. Riferirsi a Gadda non vuol dire, a mio parere, evidenziare un rapporto di filiazione: qui il riferimento è piuttosto alla “funzione Gadda” – quella plurilinguistica, per intenderci – che il compianto Contini ha poi retrodatato, collegandola non solo all’antimonolinguismo di autori come Maggi, Basile, Ruzzante, ma a tutta una certe linea espressivista di marca europea. Penso che questa importante tendenza agisca, vuoi inconsapevolmente, vuoi con coscienza, nel particolare approccio di Sozi alla scrittura. E non solo per l’uso del dialetto, quanto per il risultato teorico a cui giunge una simile pratica, ben evidenziato ancora da Gadda: una scrittura che, a partire dalla molteplicità del reale, apre squarci di dialogismo all’interno del linguaggio, lo avvicina all’eterogeneità della realtà. Lungi dal fare paragoni o dal creare rapporti di filiazione, ripeto! E’ bene, a mio parere, comprendere la genealogia di ogni pratica letteraria contemporanea: e ciò lo si può fare solo attraverso la storicizzazione e il riferimento a chi davvero ha cambiato il nostro modo di fare letteratura. La presenza dei racconti di Sozi, in tal modo, può essere anche una prova di verifica delle cattedriali teoriche che abbiamo costruito per capire il passato. E credo certamente che molto altro possa essere detto su Sozi, anche di extragaddiano. A presto, cari saluti a tutti,
Marco Gatto
Adempio volentieri alla promessa fatta qualche giorno fa. Ho letto il racconto di Sozi. E’ colto e profondo. Ma, peraltro, anche ironico e surreale. Sorpresa delle sorprese dalla penna di chi descrive se medesimo (più o meno) “malmostoso umbro”. Insomma, sembra che in Sozi convivano il dottor Jeckyll e mister Hide. Io, ovviamente, preferisco il secondo 🙂
Ci sono autori che anziché indirizzare la propria scrittura sui percorsi definiti da mode, tendenze ed esigenze di mercato preferiscono impegnarsi per trovare una personale strada narrativa che possa essere, dunque, ben identificabile. Ritengo che Sergio Sozi rientri nella suddetta categoria.
Nato a Roma il 3 marzo del 1965, Sozi ha trascorso buona parte della sua vita in Umbria per poi trasferirsi in Slovenia, dove attualmente risiede. Dal 1989 si occupa di letteratura, giornalismo culturale, insegnamento e traduzioni. Ha esordito come poeta con la raccolta ”Oggetti volanti” (Perugia, 2000. L’omonima silloge venne segnalata dal Premio Sandro Penna nel 1999 – presidente prof. Walter Pedullà).
In questi giorni Sergio Sozi torna in libreria con la raccolta “Il maniaco e altri racconti” dove figura come protagonista il capitano Euterpe Santonastasio, sessantenne siciliano, dipendente della Compagnia Trieste II, in attesa della pensione. I casi in cui Santonastasio si trova coinvolto, però, non sono casi ordinari. Tutt’altro. Non tragga in inganno il titolo del primo racconto: “Il maniaco”, dove non troverete serial killer, né atti di stupro, né violenze fisiche.
Ma al di là dei contenuti e delle trame dei racconti occorre sottolineare che la scrittura di Sozi è il frutto di un riuscito mix tra narrativa realistica e letteratura grottesca (se non dell’assurdo), dal quale è facilmente ravvisabile una tendenza alla sperimentazione linguistica e all’uso di neologismi. Una scrittura ricercata e coraggiosa, lirica e umoristica, attraverso la quale lo scrittore si mette in gioco nel tentativo di proporre, come già accennato in premessa, un proprio marchio letterario. L’ascendenza gaddiana, quella che trae origine proprio dal noto pasticciaccio, è qui facilmente riconoscibile; ma Sozi è bravo a gestirla in maniera oculata e personalizzata evitando di cadere in una delle più diffuse trappole letterarie che, di fatto, riducono l’autore a semplice epigono.
=
Fonte: Letteratitudine
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/05/16/il-maniaco-e-altri-racconti-di-sergio-sozi/
Caro Marco,
…ovviamente non intendevo sminuire in alcun modo la Sua bellissima e rischiarante analisi del mio modesto libro. E’ che, a questo punto, vorrei evitare di esser troppo inserito in un contesto che – per quanto illustre e nobilitante – mi risulta un po’ stretto, se – sempre SE – frainteso dall’opinione pubblica. Pertanto vorrei ora inscrivere le Sue precisazioni nell’ambito che intendevo io circoscrivere: quello riguardante il lettore semplice, il quale legge l’accostamento a Gadda un po’ dappertutto e potrebbe crederci eccessivamente, pertanto semplificando i rimandi letterari che, modestamente, fungono da retroterra al mio agire scrittorio-narrativo. Le differenziazioni col grande Lombardo sono molte e di altro retaggio… forse, propongo: Achille Campanile (per l’umorismo), Massimo Bontempelli (l’ambientazione magico-realistica)… e inoltre, magari: la generale atmosfera che rende i racconti di per se’ una ”citazione in funzione antinomico-critica” dello psicologismo novecentesco; la derisione delle mode globalistiche… eccetera.
Ma cio’ non toglie ”un atomo” alla Sua recensione: approfondita, vera e illuminante.
Saluti Cari
Sozi
Ad Enrico:
io ricerco la bellezza, il sogno, la poesia, non la cultura. O, meglio: ricerco la cultura solo perche’ esclusivamente con essa ed IN essa si POSSONO FARE delle belle cose – o almeno provarci.
Saluti Affettuosi
Sergio
P.S.
Enrico, sei proprio una persona simpatica.
Sergio
….e quindi se quello che viene fuori, poi, è cultura perchè te la prendi?
per me sei paranoico. sai che differenza c’è, infatti, tra lo schizofrenico e il paranoico?
per lo schizofrenico 2+2 fa 1634786254,33
per il paranoico fa 4…..ma gli rode tanto il culo!
🙂
Va bene: aggiudicato il ”paranoico”.
Sergio
Caro Sozi,
ci mancherebbe, ho ben compreso l’intento del suo messaggio. E condivido le sue parole in pieno. Ancora auguri per il suo Maniaco, e a presto,
Marco Gatto