Quasi quarant’anni dopo, in una stagione letteraria che ha voltato le spalle al postmoderno sotto la cui stella fu concepito, Il nome della rosa di Umberto Eco conserva ancora la sua fragranza, ma si offre a uno sguardo diverso in ciò, che è stato non soltanto artefice del ritorno del romanzo storico in Italia dopo I promessi sposi e Il Gattopardo, le due prove più significative, ma propugnatore soprattutto di un genere inusitato qual è il romanzo storicistico: non più l’ambientazione in un determinato periodo assunto come scenario, bensì la compenetrazione in esso negli effetti che i rivolgimenti storici causano sulle vicende umane e sulle altre discipline, a cominciare dalla teologia.
Eco non si limitò a calare i fatti narrati in un contesto d’epoca, operando – come scrisse nelle “Postille” del 1983 – alla “costruzione del mondo”, ma si impegnò da medievalista a ricostruirli, lavorando quindi anche alla “progettazione” dello stesso mondo: nella durata di sette giorni spiegò l’anno 1327 interpretando un’intera stagione e – portando il macrocosmo della storia euopea sul piano del microcosmo di un’abbazia montana posta in un’imprecisata zona del Novarese – illustrò come lo spirito del tempo influenzasse le dinamiche umane. Un’operazione storicistica di alta chirurgia letteraria perché, per tenersi rinserrato nella cinta dell’abbazia, Eco non si fece tentare dalla facile centrifuga dei grandi eventi del momento, rappresentati dalle gesta dei Templari, solo da quindici anni messi al bando e ghiotta materia esoterica lasciata appena in filigrana, né dalla febbre riviviscente delle Crociate e neppure dalla morte cinque anni prima di Dante Alighieri. E volle immaginare un’abbazia benedettina, cluniacense perché autonoma da tutte le altre, per tenersi a ridosso della congregazione dei post-dolciniani, da una ventina d’anni sterminata ma rimasta fomite di associazioni ereticali storicamente attive nella zona tra Novara e Vercelli, dei “fraticelli”, l’ala fondamentalista e massimalista dei francescani “spirituali”, come pure dei “patarini”, dei “bogomili” e dei vicini “catari”.
Eco vuole raccontare la storia di un pezzo dell’Italia settentrionale fucina di movimenti eretici e di eresiarchi e si addice a inventare una storia sotto la specie del poliziesco e del mystery nella quale fa rientrare la prima, riuscendo ineccepibile come storico, fino ad apparire addirittura pedante, ma incerto come narratore. Ne è del tutto consapevole egli stesso se nelle Postille così scrive: «Il mio romanzo aveva un altro titolo di lavoro, che era “L’abbazia del delitto”. L’ho scartato perché fissa l’attenzione del lettore sulla sola trama poliziesca e poteva illecitamente indurre sfortunati acquirenti, in caccia di storie tutte azione, a buttarsi su un libro che li avrebbe delusi». Eco non voleva dunque un romanzo tutto azione, ma soprattutto di riflessione, di ricerca e di studio. Scelse un titolo che, detto da lui, implica la figura della rosa, parola «che è densa di significati da non averne quasi nessuno», così rimanendo indistinto tra saggio e romanzo. Da una scelta mancata è nato un romanzo figlio del suo tempo e di un gusto, il postmoderno, del quale è oggi uno dei massimi esempi italiani quanto non solo alla contaminazione dei generi, al diffuso citazionismo, all’ambivalenza tra realismo e variazione, ma anche al double coding, la doppia codifica cioè con la quale l’autore scrive contemporaneamente a un pubblico multiforme per interesse e preparazione. La prova più evidente di tale marca è stata ammessa dallo stesso autore in un’intervista al Corriere della sera in riferimento all’incontro sessuale di Adso con la ragazza introdotta nell’abbazia e poi tacciata di stregoneria: il rapporto carnale è descritto da Eco citando in rapida successione proposizioni di mistici medievali entro una sarabanda di figurazioni che al pubblico meno avvertito sono apparse un crescendo orgasmatico di tipo spasmodico e non il contrappunto di un’elevazione spirituale e catartica quale è sembrato invece al “lettore modello”.
Ma ci sono altri indizi a sottendere il tenore polivalente del romanzo: l’uso a profusione del latino lasciato non tradotto, appannaggio non certo del lettore comune; il ricorso a una terminologia che vorrebbe evocare la lingua del Trecento (“ristemmo”, “mirifico” per mirabile, “formidinava” per immaginava, “immemoriale” per immemore, “morranno”, “arsione” per incendio, “blitiri” come non-senso medievale, espressioni quali “dormire un sonno”, “l’abate lo tacque”) e cade a volte nell’improbabilità, come quando Guglielmo dice a un misero vetraio «Mi sembra un buon entimema», dove più che il francescano detective è proprio Eco che posa a semiologo; l’adozione di un sussiegoso linguaggio specialistico tipico del trattato e di una descrizione intrisa di enciclopedismo così particolareggiata da essere maniacale, com’è per la ricostruzione della mappa dell’Edificio e il piano elaborato per entrarvi che hanno certamente del cervellotico.
Più che preoccupato di rendere scorrevole la trama, Eco si mostra preso dalla sindrome del professore in cattedra che nulla ritiene di dover tralasciare nel rendere esaustiva la sua lezione di storia. La cura è semmai, costruendo il mondo, ovvero il contesto reale, che i personaggi si muovano e parlino anch’essi in quel mondo, cosicché Eco arriva a concepirne i dialoghi, quando sono in movimento, per il tempo necessario a raggiungere un andito che mentalmente egli ha già prima percorso misurando il tempo richiesto. Prima ancora di scrivere, Ecco infatti disegna. L’abbazia è un mondo che egli conosce anche nelle parti ignorate nel romanzo e la costruisce innanzitutto per sé stesso, perché solo così può abitarla insieme con i suoi personaggi, in gran parte sommi eruditi come lui, nel proposito inconfessato di fare parte almeno di un pezzo di essa e cioè la biblioteca. In questa prospettiva sembra quasi che l’impulso incontrollato e continuo di Eco sia di tornare quanto più possibile tra i libri, giacché li cita con l’amore del bibliofilo unito al filologo.
Quando Adso, all’inizio del terzo giorno, torna da solo in biblioteca, dopo che frate Ubertino gli ha parlato di Dolcino, e compie “il secondo viaggio”, chiedendosi perché lo ha fatto e perché ha con sé il lume (domande che dovremmo piuttosto rivolgere noi all’autore), dandosi risposte incongrue («Mi affascinava l’idea di potermici orientare senza l’aiuto del mio maestro» – e perché mai?), risulta evidente che è Eco a portarci ancora una volta nella biblioteca, perché la circostanza che permette al giovane novizio di incontrare la ragazza in cucina ben poteva essere soddisfatta senza inscenare una esplorazione nella quale lo stesso Adso si dice che non sapeva cosa cercasse. In realtà, per tutto il terzo giorno, da quando si sparge la notizia della scomparsa di Berengario fino al ritrovamento del suo corpo, e poi nel quarto giorno fino all’arresto della supposta strega, per quasi ottanta pagine, il romanzo non ha trama ed è interamente teoretico. Non procede, eppure Eco è nel suo elemento congeniale: istruisce Adso dei fatti che sono avvenuti, da Gherardo Segalelli a fra Dolcino, e lascia che gli sovvenga il ricordo di fra Michele, da lui visto personalmente morire come eretico sul rogo: tutti eventi reali estranei al romanzo storico e alla fabula ma non a quello storicistico e come tali ben orchestrati all’intreccio.
Cosa ha fatto Eco: una volta essere riuscito a incuriosire il lettore mettendolo a conoscenza, a piccoli passi, degli avvenimenti fuori dell’abbazia, raccontando la disputa tra papato e francescani, tra Giovanni XXII e Ludovico di Baviera, tra Inquisizione ed eresia, gli viene facile occupare due giorni su sette trattenendo il lettore come fosse un suo studente di storia medievale. Ma forse esagera quando, trasmodando nello stucchevole, la narrazione si arresta del tutto e lascia il campo al saggio erudito. Per evitare queste cadute e tenere sempre le briglie del romanzo, Eco escogita sin dall’inizio l’espediente del manoscritto ritrovato, à la Manzoni, e affida all’io narrante, cioè ad Adso, il compito di narrare e nello stesso tempo illustrare. Non bastandogli, si serve dei medievali mezzi della visione e del sogno per descrivere nel primo caso una chiesa e dare nel secondo a frate Guglielmo la chiave per arrivare alla soluzione. Lo sforzo generosissimo di Eco è inteso a tenersi dentro i limiti del romanzo, ma ad essere infine meglio ricordati non sono le contorte vicende legate ai sette monaci morti (nell’ordine Adelmo, Venanzio, Berengario, Severino, Malachia, Abbone e Jorge) ma quelle storiche e le altre filosofiche e teologiche, nella constatazione che il saggio fa premio sul romanzo, essendo più coerente, più chiaro e certamente più reale, mentre di realistico il romanzo ha molto poco.
L’inverosimiglianza di fondo è la decisione dell’abate di incaricare un estraneo, che non è nemmeno del suo ordine monastico, perché indaghi sulla morte di un monaco, cosa che alla fine gli opporrà: in vista dell’incontro da presiedere, di lì a pochi giorni, tra i rappresentanti francescani e la delegazione pontificia sul tema della povertà della Chiesa, sarebbe stato del tutto ovvio attendersi che l’abate provvedesse da sé a risolvere il giallo, magari dopo la disputa e soffocando intanto la notizia con l’impedire a chiunque anche solo di parlarne; invece, addizionandosi i morti, incoraggia Guglielmo a continuare l’inchiesta, senza avocarla.
Altra incongruità la presenza di una “spalla”, necessaria come in un ogni giallo perché il lettore sia informato degli sviluppi e dei proponimenti dell’indagatore, “spalla” che però, anziché essere posta sul piano di un subalterno Watson nel confronto con Sherlock Holmes (personaggio che Eco disse di aver tenuto ben presente), è quasi equiparata a lui, giacché Guglielmo si rivolge ad Adso non come a un discepolo e a uno scrivano appena novizio ma come a un collaboratore alla sua stessa stregua di preparazione, arguzia e competenza.
Queste due mende di base minano il romanzo, che tradisce ancora un altro grosso deficit di narratologia del quale è avvertito in qualche modo anche Eco: la svolta nella trama si ha per un errore madornale di Guglielmo sul quale Adso ammette che «qui commise un’imprudenza». L’accorto e infallibile francescano si rivolge a Severino, l’erborista, davanti a tutti e da lontano gli grida di conservare bene le carte che ha scoperto, cosa che spinge l’assassino, sentendolo, a ucciderlo per sottrargli carte che sono in realtà il libro da tutti cercato e che è la fonte dei delitti. L’idea del libro capitale così tanto echiana è suggestiva ma debole. Il vecchio Jorge, che è il vero padrone della biblioteca e della stessa abbazia, custodisce la sola copia al mondo del secondo volume della Poetica di Aristotele, quello dedicato alla commedia e dunque al riso, libro che in realtà non c’è elemento per dire che fu mai scritto. Perché misterioso e proibito (il riso essendo arma del demonio), i monaci vogliono impossessarsene e, quando lo hanno uno alla volta in mano, muoiono avvelenati nello sfogliarlo perché portano alla bocca il veleno nel quale è intinto.
Invero per impedire la diffusione del libro sarebbe bastato a Jorge distruggerlo, come infatti poi cercherà di fare strappandone le pagine e inghiottendole, e invece lascia che venga trafugato e giri nell’abbazia costituendo la causa della propria dannazione e della morte di sei confratelli. Eco si rende conto dell’eccesso del movente e appresta lunghe ragioni per spiegare come i monaci pecchino tutti di orgoglio nel cercare la conoscenza anziché custodirla, tradendo lo spirito della biblioteca come riserva di sapere, che esso può «mantenere intatto solo se impedisce che giunga a chiunque, persino ai monaci stessi», perché «il sapere è come un abito bellissimo che si consuma attraverso l’uso e l’ostentazione». La tesi è che i monaci sono dominati dalla biblioteca, non diversamente dallo stesso Eco, che rispondendo a refluenze borgesiane dà all’assassino custode della biblioteca il nome dello scrittore argentino: «Vivevano con essa sperando colpevolmente di violarne un giorno tutti i segreti. Perché non avrebbero dovuto rischiare la morte per soddisfare una curiosità o uccidere per impedire che qualcuno si appropriasse di un loro segreto geloso?». In questa domanda c’è la giustificazione della serie di morti violente.
Ma Eco fa di più, eccedendo ancora: volendo dare un fondo epistemologico alla sua storia e caricarla di mistero, pone gli omicidi sotto uno “schema apocalittico”, immaginando che l’assassino agisca in accordo alle profezie di Giovanni, così evocando scenari escatologici e Anticristi millenaristici, ottenendo però di svilire il genio razionale sia di Guglielmo che di Jorge, il quale si adegua allo schema per depistare il suo cacciatore, ma anche di complicare un romanzo cui non manca certo la complessità.
Il romanzo, bisogna convenire, fatica a reggersi e sembra un pretesto – anzi una preterizione come scrive Eco nelle Postille – per parlare di storia vera, campo nel quale Il nome della rosa assurge invece a capolavoro ineguagliato di competenza filosofica, dottrina, esattezza storica, indagine filologica, passione per lo studio. L’idea di immaginare una disputa tra francescani e avignonesi sulla povertà di Cristo da tenersi in un’abbazia dove si diano appuntamento le migliori menti del tempo in fatto di teologia, incontro che storicamente non si è mai avuto (non essendoci peraltro mai stata l’abbazia in questione), è così appropriata da risultare credibile. L’incontro finisce con l’insuccesso delle tesi francescane per colpa dell’inquisitore Bernando Gui che fa prevalere sulla disputa un processo per eresia delegittimando così l’abbazia come sede della risoluzione, funestata per giunta da orribili delitti, quando nella realtà storica la disputa si è tenuta sempre a distanza e neppure oggi è stata chiusa.
Nondimeno del tutto documentate sono le posizioni: i francescani accusano la Chiesa di violare i precetti cristiani essendo Cristo vissuto nel rifiuto dei beni materiali; l’imperatore in pectore Ludovico sostiene i francescani per potere così osteggiare il papa che pretende di legittimare il futuro imperatore secondo la tradizione; Guglielmo e i confrati si presentano all’incontro nel nome di Ludovico e in aperto contrasto con il papa; le abbazie si schierano con i francescani e con Ludovico per fermare l’indirizzo del papato inteso a dare sempre più spazio ai vescovi, alleati dei mercanti e vicini alle cattedrali cittadine e alle università, dove si cominciano a copiare e miniare manoscritti prima di esclusiva competenza delle remote abbazie; l’eresia imperversa in un florilegio di congregazioni e confessioni e l’Inquisizione incrudelisce nella sua opera di bonifica. Il mondo ancora di ispirazione aristotelica perché fondato sui libri, si va offrendo al nuovo vento che va levandosi nelle città europee ed Eco lo costruisce in un romanzo claustrale dove la biblioteca, quintessenza del sapere, integra un inaccessibile labirinto, anch’esso di tratto borgesiano, dentro il quale vi sono libri ancora più proibiti, quelli infedeli, da non leggere mai, rinchiusi nel “Finis Africae”, il recetto del demonio. Quando tutto va in fiamme, abbazia compresa, l’incendio distrugge un intero mondo. Molti anni dopo, in un altro romanzo esoterico come questo e figlio di esso, Angeli e demoni di Dan Brown, un altro colossale incendio divamperà per distruggere addirittura il Vaticano. Jorge avrebbe detto che da quel libro maledetto era partita «la scintilla luciferina» ed Eco, a leggerlo, si sarà fatto una risata aristotelica.
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