Nell’immaginario collettivo la sposa, soprattutto il giorno delle nozze, deve essere necessariamente felice e inevitabilmente sorridente (perdonate il doppio avverbio).
Ma è davvero così, o si tratta di uno dei tanti usurati luoghi comuni?
Voi che ne dite?
Secondo una diceria, a Martina Franca, provincia di Taranto, in certi luoghi circolerebbero i fantasmi di spose infelici che si sono uccise nel giorno delle nozze. Su questa leggenda si basa il titolo del nuovo romanzo di Mario Desiati: “Il paese delle spose infelici” (Mondadori, p. 229, euro 17,50).
Mi piacerebbe che discutessimo di questo libro di Desiati (di seguito potrete leggere la recensione di Ranieri Polese pubblicata su “Il Corriere della Sera” del 5 settembre 2008); libro che, a mio avviso, è caratterizzato da una scrittura densa e ricca, a tratti onirica, messa al servizio di una storia che affonda le radici in una terra che è stata definita come “laboratorio del post-moderno” italiano.
Contestualmente vi invito a raccontare aneddoti particolari che hanno come protagonista la sposa nel giorno delle nozze.
Insomma, queste spose sono sempre felici… o no?
Massimo Maugeri
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IN PROVINCIA DOPO DUE ROMANZI DI CITTÀ, L’ AUTORE TORNA ALLE ORIGINI CON «IL PAESE DELLE SPOSE INFELICI»
Mario Desiati, ricomincio dal Sud: «La mia terra ha un sapore romanzesco, la fantasia non serve»
di Ranieri Polese
«A Martina Franca, la mia città, circola una diceria: tutti dicono che quella è la capitale dei suicidi. Ma la stessa voce la trovi in altre città del Sud, ancora affette da quella predisposizione all’infelicità che già aveva diagnosticato molti anni fa Giustino Fortunato quando parlava della “chiusura” della gente del Mezzogiorno. Certo, seppure non da primato, il numero di persone che si tolgono la vita a Martina Franca e dintorni è piuttosto alto, tanto che ogni volta che torno mi raccontano di nuovi casi. Nell’ ultimo anno, per esempio, ci sono state tre donne, ragazze fra i venti e i trent’anni, che hanno scelto di morire. E il modo preferito – cito dai verbali della questura – è per “precipitazione”: ovvero, buttandosi nel vuoto o in uno dei tanti pozzi che ci sono nelle campagne. Mi ha sempre colpito questa espressione, “precipitazione”, che pare suggerire la fretta di farla finita, l’urgenza di levarsi dal mondo». Mario Desiati spiega così il titolo (Il paese delle spose infelici) e il tema di fondo del suo terzo romanzo, uscito per Mondadori, un ritorno alla terra di origine dopo due romanzi di città –la Roma dei barboni del Giubileo, Neppure quando è notte, e quella dei lavori a tempo, Vita precaria e amore eterno – per rintracciare ricordi, riallacciare legami, rivisitare un passato che non passa mai. Come la diceria delle spose infelici che si uccidono nel giorno delle nozze e i cui fantasmi popolano le notti di quel remoto pezzo d’Italia compreso tra le meraviglie della Valle d’ Itria («trulli, muri a secco, masserie bianche di calce»: il nuovo paradiso dove tutti vogliono essere, l’Itriashire dopo il Chiantishire) e il cielo color ruggine e il mare chimico di Taranto. Se Desiati, 31 anni, se n’è andato via presto (tre mesi a Milano e poi, subito, Roma), così non avverrà per i suoi personaggi: Francesco, studente borghese detto Veleno per la passione per il calcio; Domenico detto Zazzà, proletario violento e generoso; Annalisa, la ragazza di tutti, che colleziona cartoline d’Italia e di notte parla con le femmine morte. I maschi giocano in una squadretta amatoriale su campi di terra battuta e sognano l’arrivo di un procuratore che venga, li noti e li porti via, verso la grande squadra. E intanto creano risse, vanno a fare il tifo sulle curve degli ultras del Taranto, si rincorrono tra feste brutte e nottatacce sporche, e poi qualcuno finisce male come Zazà che entra ed esce dal carcere. Tutti amano Annalisa che sembra non considerarli, è libera e per tutti è una ragazza strana: Francesco più volte spera di andarci insieme, dovrà rassegnarsi e capire che l’unico che lei ama è Zazà. Mentre le stagioni passano, arriva la distrazione del truffatore che dice di fare il regista, cerca volti per il cinema ma intanto spilla soldi a sprovveduti sponsor locali. Francesco, l’intellettuale, s’improvvisa sceneggiatore per raccontare la storia sua e dei ragazzi del gruppo. Poi, con una raccomandazione, la famiglia lo spedisce a Torino a far da galoppino e autista presso un avvocato che ha fatto fortuna al Nord. Intorno a questi ragazzi di provincia si consuma la crisi dell’industria di Taranto, la rapida fortuna del sindaco Giancarlo Cito, populista e demagogo, creatore della Lega d’azione meridionale, quello che usa con grande anticipo la commistione fra politica e tv impiegando la sua rete privata Antenna Taranto 6. Ma anche Cito finisce male: condannato per «concorso esterno in associazione mafiosa», si farà quattro anni di carcere. Fra una città, Taranto, che sembra una sorta di laboratorio del post-moderno («la crisi dell’ industria pesante, il populismo, il tifo calcistico che mescola destra e sinistra, una folta schiera di giovani no-global, l’emergenza della spazzatura verificatasi qui molto prima che a Napoli», dice Desiati) e una provincia ancora legata a riti e miti atavici (Desiati parla di «ferinità») si consuma questo bel romanzo di formazione. Un’educazione sentimentale votata al fallimento. I provinciali non andranno in città, i nipoti poveri dei vitelloni per paura di perdersi scelgono di restare. Annalisa si sposa segretamente, si ammala e muore. Per lei Zazà costruisce con le pietre un sepolcro che riproduce le bellezze d’Italia viste solo in cartolina (la Torre di Pisa, il Colosseo, eccetera). Francesco torna da Torino. E come in un pellegrinaggio visita il lebbrosario, il luogo degli «Hanseniani» dove ancora vivono, nascosti, reclusi, cinquanta ammalati. Luoghi (il lazzaretto, i monumenti d’ Italia costruiti con le pietre) che esistono, ci dice Desiati; così come, seppure trasfigurati e romanzati, esistono dei personaggi simili ai protagonisti. «È una terra, la mia terra, che ha un sapore romanzesco, che quasi ti costringe a scrivere senza troppo sforzo, non richiede grandi lavori d’ immaginazione». Basta affidarsi all’eco persistente di un mondo a parte, il cui dialetto sembra fatto solo di consonanti, in cui il confine tra realtà e leggenda sfuma continuamente. E a questo serve molto la scrittura di Desiati, che racconta il reale «con gli occhi del provinciale, disincantato e insieme pieno di stupore» che, seppure debitore nei confronti di tanta letteratura meridionale, guarda a certa letteratura americana (McCarthy, Eugenides: non è il titolo una cripto-citazione dalla Casa delle vergini suicide?). E che, di fronte al dilemma tra un riduttivo neorealismo e un’ aura di leggenda, alla fine decide di «print the legend».
Ranieri Polese
da Il Corriere della Sera del 5 settembre 2008
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Dalle prime pagine del romanzo “Il paese delle spose infelici” di Mario Desiati
La sposa
In un luogo dove le spose erano infelici fece stupore quello che accadde un marzo mite del 1990. Il Taras era il torrente sottile che si attorcigliava al Siderurgico. La sorgente che lo generava veniva dal sottosuolo, si dice fosse miracolosa. Anni prima un cavallo zoppo e morente fu gettato nel ruscello, invece di annegare riprese vitalità ed emerse correndo per il lungofiume. Per molto tempo la gente di Taranto pensò di curarsi dalle malattie e dai sortilegi con i bagni nel Taras. Quel giorno erano le due, il letto era semiasciutto, ma un piccolo rigagnolo dai colori melmosi percorreva i dossi formando cascate. In inverno quell’acqua era tiepida come la conca di un bagno termale, emanava zaffate di vapore come se dentro si raffreddassero le carcasse bollenti dell’acciaio del Siderurgico. Non era chiaro se quella mitezza fosse dovuta al grande impianto o alla sorgente. Alcuni operai in quelle giornate di tepore improvviso dopo un inverno tetro passavano la pausa pranzo cibandosi sopra uno strapunto a forma di stivale. Questo cresceva a pochi metri dalla sorgente del torrente, dove l’acqua era miracolosamente limpida, colorata di riflessi rosati mutuati dal cielo rosso che solo Taranto ha e il fondofiume granata della bauxite. Era marzo, il sole era già generoso, ci si poteva spogliare e restare in camicia e salopette, mettere gli occhi chiusi contro i raggi lievi e ricevere il miracolo dell’arrossamento di quelle facce gialle di altoforno. La dozzina di operai che mangiavano panini, piluccavano spicchi di arance irradiando nell’aria l’aroma acre di agrumi; ebbero un miraggio collettivo, una visione che avrebbe sbalordito chiunque: una donna vestita da sposa veniva dall’orizzonte fosco delle campagne. Camminava altera con la gonna alzata, le scarpe bianche erano infangate, le calze di nylon da bambola brillavano, le spalle nude ardevano sotto il sole invernale. I capelli chiari erano raccolti in su e acconciati a strati come tanti nidi di pernici, il collo lungo sfiniva in un viso con l’espressione premonitrice. Gli occhi parevano dipinti, nei sistemi solari delle deliziose efelidi attorno alla bocca c’era come il manifestarsi di una divinazione. La sposa regalò una sbirciata maliziosa a gli spalti di maschi appisolati, appena saziati da panini frugali. E poi entrò nel fiume senza neanche togliersi le scarpe, mollando improvvisamente la gonna che si alzò sul pelo dell’acqua come la rete di un peschereccio. E fu la cosa più bella che videro quegli operai, uomini che ogni giorno si bardavano come soldati disperati, i sopravvissuti di una guerra nucleare, i liquidatori di una centrale atomica. La gonna parve aprirsi come un ventaglio. La sposa apparve come un cigno bianco e gli uomini non potettero resistere. Perché? Forse la posa statuaria, il viso impassibile dentro l’acqua, l’abito che si gonfiò e sembrava allargarsi quanto tutto il fiume. Tutto sembrò finire sotto la mongolfiera di tessuto prezioso. Così gli uomini sfidarono il freddo e spogliandosi con concitazione, zampettando su una gamba per togliersi i pantaloni il più in fretta possibile, si gettarono dietro quella sirena, quel mistero di bianco, oro e avvertimenti. La donna smise di andare verso l’acqua alta e attese lo sciame disperato di muscoli bruniti, petti ispidi, braccia ingiallite, occhi stregati.
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Il book-trailer del libro
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Ricapitolando…
Mi piacerebbe che discutessimo di questo ottimo libro di Mario Desiati
So che Maurizio de Giovanni ha letto questo libro.
Chiedo dunque a Maurizio – in via ufficiale – di darmi una mano a moderare questo post.
E poi…
Le spose, nel giorno delle nozze, sono sempre felici o è solo un luogo comune?
Avete aneddoti da raccontare?
Proverò a chiedere l’autorizzazione a “postare” le prime pagine del libro.
Letto il romanzo, bello, ma doloroso. Dai molti racconti di amici pugliesi, pare che la Puglia abbia un potenziale narrativo pari al Texas di Lansdale… ma, come qui, di solito viene raccontata con toni ben diversi, anche quando ci sono personaggi “larger than life”, come Cito.
Non che Lansdale sia tutto caciarra e Mario Desiati tutto luttuoso, ma insomma, più che una terra del mito qui si vede una terra della tragedia.
Grazie per il “pronto intervento”, Paolo.
Tu trovi il romanzo… bello, ma dolente. Be’, credo che la tua opinione possa essere condivisibile.
E credo che lo stesso autore sia d’accordo (proverò a farlo partecipare al dibattito).
Non sarebbe male, caro Massimo, inserire le prime pagine del testo in questo post. Si tratta infatti di un romanzo col quale è necessario fare conoscenza: come quelle immense, profonde amicizie dell’adolescenza, che iniziano con un’antipatia per diventare poi una necessità.
Dico subito che la lettura di questo romanzo mi ha colpito profondamente: e che per me è veramente bellissimo. Interamente narrato sul ciglio del burrone che separa la follia e la sanità, la concretezza dal sogno, è la visitazione del ricordo, la sintesi del passato mediante i visi e i corpi. Tu che leggi torni sulla prima pagina due, tre volte per entrare nell’aroma del linguaggio; poi guardi le pagine che seguono con sgomento, pensando di non reggere quell’intensità. Poi navighi all’interno temendo, man mano che si va avanti, che il romanzo finisca.
Temendone la fine, come uno che guida a duecento all’ora di notte: eppure non riuscendo a decelerare, nemmeno un po’.
E’ un romanzo che sanguina, questo. E che incanta.
Caro Massi,
c’è un bel racconto di Piera Mattei nel suo ultimo libro (Melanconia animale, Manni) che si intitola “La sposa bella”.
Piera fotografa una donna alla vigilia delle nozze, che rientra in casa dei suoi per rimanere fedele alla tradizione che vuole che il futuro marito non veda la sposa il giorno prima del grande evento.
E’ un rito consumato quasi per gioco ( i due convivono già da tre anni e hanno un figlio) eppure il passaggio, la linea che delimita un prima e un poi, è avvertita lo stesso.
I preparativi non sono più quelli di una vergine (l’abito bianco di seconda mano e acquistato su internet, le lacrime delle prove dalla sarta sostituite col disincanto di un pacco che perviene per posta, la marcia nuziale col padre già all’altare, senza tenerlo sottobraccio ma incrociandolo solo alla fine – innanzi al pulpito a leggere un discorso già scritto). Eppure la sposa che si rigira nel letto da ragazza, che non lo riconosce, che annusa scarti della vita che l’ha preceduta e che non sono più i suoi – nè mai crede lo siano stati – è triste.
Si sveglia che è ancora l’alba. Si veste prima di ogni altro e aspetta che la casa si riempia di rumori, allerti i suoi sensi, scuota questa sua vigilia sospesa e vitrea, che si adombra di una inaspettata malinconia…
Dice:” Ogni tanto chiudo gli occhi e li riapro di fronte alla mia immagine. Mi osservo con giudizio freddo, come vedessi un’altra.La pelle è tesa sugli zigomi, rosata, i capelli sono ricciuti, castani con ciuffi più biondi sulla fronte e dietro la nuca. Ho strappato due fili bianchi, che crescono sulla tempia sinistra e di solito non mi disturbano. Oggi mi sembravano minacciosi. L’indice teso del Tempo”.
…sono Simona!
Credo che le spose infelici del titolo siano il segno di una predestinazione. Mi spiego: la sposa è istituzionalmente felice, nella superficiale popolare fantasia. E’ arrivata al culmine della propria gioventù, acquisisce un’ipotetica indipendenza, diventa da figlia moglie e in prospettiva madre.
Eppure il paese di Desiati vede con preoccupante frequenza unirsi a questo momento di festa il massimo della disperazione, che spinge le spose al suicidio. E’ una metafora della impossibilità della speranza di una terra che si ribella a una vocazione industriale che non ha, senza però proporne una alternativa. Dice bene Paolo, che vede nella parabola di Cito (splendidamente tratteggiata dall’autore, come un contrappunto inevitabile alla sorte dei personaggi principali) la personificazione dell’esagerazione pubblica di un doloroso privato.
Desiati scrive davvero bene. La sua scrittura è ricca di *affascino*:-D
Non ho letto il libro ma l’argomento mi affascina moltissimo.
Le spose non sono sempre felici e sorridenti, nè sono costrette a esserlo, ci mancherebbe. Credo che a prevalere sia una sorta di tensione emotiva che limita molto il sorriso, anche se devo dire che ultimamente ho visto solo spose sorridenti. Così ero anch’io il giorno delle nozze. Sorridevo e salutavo con gli occhi. Che poi quel sorriso non sia stato foriero di un felice matrimonio è un’altra storia 🙂
OT per Massimo
sei tra quelli che hanno vinto il premio amicizia sul mio blog 🙂
baci
Grazie, cara Silvia.
Devo dire che i sorprendi:
1. non sapevo avessi aperto un blog (stasera ti inserisco tra i link… in bocca al lupo).
2. non sapevo fossi sposata (ma da quando?)
Grazie per il commento, Maurizio.
Guarda che sei co-moderatore del post, eh… 😉
Grazie anche a te, Simo.
Di questa raccolta di Piera Mattei ne avevamo parlato qui:
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/09/22/melanconia-animale-simona-lo-iacono-intervista-piera-mattei/
In serata aggiornerò il post con le prima pagine del libro.
A più tardi!
Bello il parallelo letterario suggerito nella recensione tra il libro di Desiati e “Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides (le cinque sorelle Lisbon si tolgono tutte la vita nell’arco di un anno. A rievocarle è un gruppo di spasimanti a vent’anni di distanza).
In entrambi c’è questa idea di una vita sulla soglia. Su un portico. In sospensione tra passato e futuro. Indecisa se incedere. Arresa, infine, a non lasciarsi andare.
Ne “Le vergini sucide” i narratori comprendono che quel negarsi prima di vivere era stato preceduto da segnali. Da codici morse da decifrare. Da parole e gesti…da cogliere.
E risalgono a ritroso in cerca di una giustificazione. Di tracce. Resti. Evocano ciò che alla luce del dopo era leggibile…ma in ritardo.
Il contrasto sembra essere quello delle spose infelici: la giovinezza che viene data come stagione dell’amore, delle promesse. E il sogno infranto. La paura di perderlo prima di viverlo. O di lasciarlo immutato. Di ucciderlo proprio per non perderlo.
Dimenticavo…
Sara citava il cosiddetto “affascino”.
Approfondiremo più tardi.
Per il resto. Il libro mi affascina molto e la metafora che si tratteggia mi sembra molto interessante tanto più calzante se calata nel contesto meriodionale, dove il matrimonio si carica più che mai per una donna di grandissime aspettative – le madri che cominciano a fare il corredo da quando le figlie erano piccole – e ogni volta c’è questa strana contraddizione tra la festa di una coppia, e la feste di un mondo che celebra la sua prosecuzione la sua riaffermazione. E la coppia si sente espropriata – e la sposa si chiede di chi è questa storia: di mia madre, della mia famiglia o del mio paese. O mia?
Spero che Massimo riesca a postare le pagine!
Intanto aggiungo: onde evitare questi pericolosi interrogativi io e mio marito se semo sposati ” a porte chiuse”, in un’altra città e con pochissimi intimi ( quindici) e qualsiasi speranza di appropriazione di clan (rischio altissimo) è stata fugata rusticamente.
Ot
Sirvia sposata?
ma da quando?
scooppete!
ammiro immensamente Desiati.
Pure, questo suo romanzo mi ha un pò delusa; ma perchè ritengo i du eprecedenti dei capolavori(l’ambientazione romana mi pareva più riuscita)
mi colpisce il riferimento a ‘Il giardino delle vergini suicide’, un libro che ho amato molto:pure, il paragone mi pare azzardato.Io il legame di Desiati con gli scrittori americani non lo vedo.
Anch’io amo il Desiati delle storie romane, ma secondo me in questo libro ha dato il meglio di se. è vero che è dolente, ma per i miei gusti la letteratura vera deve essere dolente.
L’ambientazione di questo libro secondo me è un’epoca, più che un luogo. L’epoca della formazione dei sentimenti, delle emozioni. L’epoca dei bivi nascosti, quando si sceglie una strada piuttosto che un’altra senza la coscienza d’aver scelto.
Simile contesto, ma secondo me molto meno riuscito, “il passato è una terra straniera” di Carofiglio, per singolare coincidenza un altro pugliese.
Secondo voi (mi interessa anche direttamente) è più importante l’epoca o il luogo nell’ambientare una vicenda?
Caro Maurizio,
credo che epoca e luogo non abbiano poi molta importanza purchè siano entrambi fedeli allo sguardo. All’atmosfera. Agli spazi dell’anima, anche. Come hai detto tu.
E allora può esserci un tempo senza tempo e un luogo senza luogo (o più luoghi – e più tempi – contemporaneamente: i ricordi, o gli sfalsamenti temporali). Possono esserci età che non corrispondono all’anagrafe, ma al cuore, e atmosfere moderne in storie antiche.E atmosfere antiche in storie moderne.
La letteratura è visione e narrazione. Se l’una è fedelmente al servizio dell’altra, tutto può svolgersi in un solo luogo e in una sola notte (come insegna Sherazade). E al tempo stesso portarci in mille e un luogo.
In mille e una notte.
Simona, credo di poter dire che la tua sia la più bella risposta che una domanda come la mia possa desiderare.
Ti ringrazio con tutto il cuore.
…e un abbraccio a te!
Grazie per i nuovi commenti.
Bello lo scambio tra Simona e Maurizio!
I commenti di Laura e Marisa si compensano. Ma, tutto sommato, mi sembrano entrambi lusinghieri.
@ Zauberei (e a tutti)
Mario Desiati mi ha mandato le primissime pagine (le sto per inserire nel post)
Si tratta del primo paragrafo, intitolato: “La sposa”.
Per me è una sorta di introduzione alla storai narrata del libro.
L’ho trovato molto bello… onirico e raffinato.
Se avete domande da porre a Desiati, non esitate a farlo.
Mario dovrebbe intervenire domani sera.
@ zaub:
ma come? silvia non ti ha invitata al suo matrimonio!!! oddio che gaffe! c’eravamo tutti. è stata una cerimonia bellissima. l’hanno concelebrata il papa e l’arcivescovo di canterbury. per le musiche sono arrivati elton john, patty smith e i duran duran.
io, preso dalla commozione, ho deciso che chiederò la mano di laura costantini e il piede di loredana falcone. peccato che non ci fossi, è stato indimenticabile.
ps: ma tu, diccelo, hai fatto dei corsi Cepu per non capire mai una saetta oppure è questione di dna?
🙂
se interverrà Mario Desiati, è uno dei pochi casi di scrittori che nonm mi ispirano domande da fargli.
Però gli voglio esprimere la mia ammirazione immensa, perchè ‘Neppure quando è notte’e ‘Vita precaria e amore eterno’ sono due libri che hanno segnato la mia vita.
SE devo tirare fuori paragono, lui mi fa pensare al romanzo di Veronesi che più amo, ‘Gli sfiorati’,con quell’ambientazione romana di derivazione pasolininana, meravigliosa e toccante
Ho letto le prime pagine. belle, belle, belle.
bravo desiati…
Condivido quello che ha scritto la mattiniera (o molto notturna) Laura. E’ sempre affascinante Roma vista da noi non romani, qualsiasi sia il lato sul quale focalizziamo l’attenzione.
“Le spose infelici” ha però anche il condimento del ricordo, e del reperimento nel passato degli eventi che hanno segnato la personalità del protagonista.
Un viaggio verso la conoscenza di se stessi, insomma. E nella mitologia che ognuno di noi ha, popolata di mostri e dei come ogni mitologia.
Non ho ancora letto il libro di Desiati, lo farò presto perché la finalità di questi incontri sulla rete è anche e soprattutto quella di ricondurci al solitario colloquio con la pagina.
Ma ringrazio Simona che con tanta grazia ha ricordato qui il personaggio della “sposa bella”del mio libro “malinconia animale”. E’ un personaggio che anche io amo molto. Per quel personaggio, che del matrimonio aveva fino a quel momento fatto a meno, la cerimonia che avverrà il giorno dopo (la vediamo infatti alla vigilia) soltanto rafforza un impegno già preso. E’ una donna intelligente e bella, consapevole di sé, pensosa e non euforica né preoccupata di esibire “la festa”, come oggi è d’obbligo.
Questo libro di Desiati è un ottimo romanzo di formazione. E’ scritto bene e riesce ad analizzare in maniera non banale certi mali che hanno interessato Taranto e dintorni negli anni passati.
Ho trovato in rete questa intervista sugli esordi letterari di Desiati con Pequod:
http://www.railibro.rai.it/articoli.asp?id=47
Più che spose infelici, nel giorno delle nozze ho incontrato spose nervose. E madri delle spose ancora più nervose. Nervose, ma sorridenti, col sorriso tirato. Comunque prenderò questo libro, mi incuriosisce molto.
@Massimo, @Zaub e a chi non lo sa
Fui sposata (quant’è brutto quel fui :-))
Dal 2005 sono separata, quindi acqua passata. Ovviamente al mio matrimonio non c’era Gregori, che ho conosciuto un anno fa, ma con buone probabilità potreste esserci al prossimo. So’ recidiva, già già.
sempre @Massimo
Il blog è creaturina nuova, l’ho aperto il 1 settembre, mi sa che in quel periodo non c’eri e non ho potuto avvertirti. un bacio
@Silvia
Persevera, persevera: errare è umano, perseverare meraviglioso.
Nulla di meglio che essere stati sposi infelici per poter diventare sposi felici. E’ come percorrere un campo minato conoscendo la posizione delle mine.
Piuttosto, attenta a dare te stessa per scontata: sposati si nasce, non si diventa.
Un bacione forte, e auguri di cuore.
Caro Maurizio, grazie! Tengo i tuoi auguri come preziosi portafortuna, in una tasca solo mia. Credo di essere nata sposata, la vocazione è questa!
Un abbraccio
Mi state convincendo. Se il libro mantiene quel che promette con la magnifica atmosfera evocata dal suo incipit è sicuramente un romanzo da leggere. Io mi riprometto di farlo.
soprattutto per Maurizio De Giovanni:non voglio dare l’impressione che ‘Il paese delle spose infelici’non mi sia piaciuto…mi è piaciuto molto, la scrittura è sublime:però ho specificato qual è la vetta di ammirazione per i romanzi precedenti.
Quello che ‘IL paese delle spose infelici’ribadisce è la visione piuttosto tragica di Desiati.
E dei primi due romanzi mi colpisce l’incredibile capacità di creare e dare vita a personaggi marginali; ai margini della società.
E’ vero, Laura: giustissimo. La bellezza di questa narrazione è proprio nel conferire grandezza agli emarginati, ed è una costante di Desiati.
Come al solito vai al cuore di quello che leggi, senza lasciarti distrarre dalle… guarniture.
Un bacione forte.
ROTH(uniche alternative, per me:Salman Rushdie, o Richard Ford)
ops, ho sbagliato post!
Un caro saluto a Maurizio De Giovanni
ma lo sposo?
qualcuno si è mai chiesto lo sposo come si sente?
🙂
“Il paese degli sposi infelici” sarebbe stato internazionale, troppo vasto!
Una battuta, naturalmente…
Mi piace quel brano del libro di Mario Desiati, trovo il suo pennino muoversi come un pennello, sembra di vederla questa femmina in bianco che avanza fra i boschi e gli sguardi attenti di lavoratori dalla pelle bruciata dal sole, come fossero accecati dal riverbero di un raggio di sole portatore di un sogno, oserei dire un miraggio.
Ma è nella carne che questo scrittore meridionale intinge il suo pennino, come fece Renato Guttuso nel suo modo di dipingere.
Aggiungo che “la linea di confine” fra ragione e follia, fra realtà e sogno, è data da quei nostalgici sentimenti che noi meridionali proviamo alla vista dei nostri cieli turchini e brillanti o di un calda e vibrante sensualità, e la razionalità che ci fa vedere la fugacità di tutto questo, insieme alla consapevolezza di quelle “logiche esistenziali” di cui ha scritto Ranieri Polese.
Ciao Cia
Intanto ringrazio tutti per i nuovi interventi.
E un grazie speciale a Maurizio de Giovanni per la sua presenza costante.
@ Rossella
Mi piace molto il tuo paragone tra penna e pennello. Grazie.
Tentare di dipingere con le parole non è mai cosa facile.
Molto simpatica la battuta di Maurizio in risposta a Gea 🙂
@ Carlo
A mio avviso la scrittura di Desiati mantiene livelli molto alti per tutto il libro. Devo dire che ho trovato l’incipit particolarmente “onirico” e visionario.
@ Laura
Rivolgendoti a Mario Desiati hai scritto: “gli voglio esprimere la mia ammirazione immensa, perchè ‘Neppure quando è notte’ e ‘Vita precaria e amore eterno’ sono due libri che hanno segnato la mia vita.”
—
Credo che queste tue parole farebbero felice ogni scrittore.
Comincio a provare una vergognosa e disdicevole invidia per Mario Desiati.
(ovviamente scherzo, eh)
🙂
@ Silvia
Non è che finirai con il ri-sposarti col Gregori, vero?
🙂
Un saluto a tutti gli altri, in particolare a Piera Mattei.
Chi ha voglia di ascoltare la voce di Desiati può farlo cliccando qui:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=262184
Si tratta dell’intervista di presentazione del libro rilasciata a Fahrenheit.
Grazie a te, Massimo, per avermi permesso di far parte di Letteratitudine. Bello il commento di Rossella, il pennino intinto nella carne; ma più in generale, è veramente coinvolgente scoprire di far parte di un insieme così profondo, La definirei “La compagnia dei numeri primi”: la scoperta di un contatto nell’amore per la parola scritta.
Belle parole a tutti, e grazie.
“La compagnia dei numeri primi”?
Mi piace… mi ricorda qualcosa, però.
Forse il titolo di un romanzo?
Boh!
🙂
Mi hanno segnalato l’esitenza di un booktrailer dedicato a “Il paese delle spose infelici”.
Tra un po’ inserirò il video in coda al post.
Intanto ne approfitto per augurarvi buonanotte.
Considerando che il matrimonio è un salasso i veri infelici dovrebbero essere i genitori degli sposi, che sono quelli che sganciano
Scherzi a parte, il libro mi pare interessante. Ho letto le prime pagine e mi sono piaciute. Lo acquisterò.
Il personaggio Annalisa è bellissimo. Mi chiedo se sia stato ispirato da una ragazza realmente esistita o se è solo immaginario.
Anche a me ha intrigato molto la figura di Annalisa.
Chiederei volentieri a Mario Desiati notizie in merito al rapporto con Zazà, una bellissima figura disperata: il suo amore con Annalisa e la sua amicizia con Veleno.
Innanzitutto buon giorno, sono piuttosto emozionato nel leggere tanti dei commenti in questo blog. Come ho scritto a Massimo non sono abilissimo a destreggiarmi nei post, ma imparerò subito. Leggo l’ultimo Teresa e rispondo con il cuore ancora ferito: di Annalisa ce ne sono almeno cinque o sei, di cui la maggioranza conosciute nella messa della domenica mattina di Sant’Antonio. Mi sono innamorato nella mia vita più a messa che in discoteca…
Quanto ai salassi dei matrimoni, la media di un pranzo in un matrimonio a Martina Franca (TA) è 20-25 mila euro; con fiori, servizio fotografico, bomboniere ecc, si arriva a 40-50.000.
mario desiati dice bene. organizzare matrimoni è diventato un business paradossale. in certe zone del sud ci sono famiglie che sono capaci di indebitarsi fino all’osso pur di garantire ai figli nozze fastose con costi pari a quelli che ha indicato mario.
non è assurdo?
Buongiorno, Mario, e benvenuto. Anzitutto di nuovo complimenti: hai scritto un gran libro e spero che tu ne sia consapevole.
Vorrei chiederti: uno dei protagonisti del romanzo è il calcio, una passione che percorre trasversalmente la narrazione della quale Veleno è dipendente, prima come protagonista poi come spettatore, senza mai diminuire d’interesse.
Come vivi personalmente questo status, considerata anche l’attualità? E poi, ci racconti del rapporto tra Zazà e Annalisa, un po’ “vittima” secondo me della scelta di narrare in prima persona?
secondo la mia esperienza indiretta sono molto più infelici le ragazze che non riescono ad arrivare alle nozze. e non sono così poche. fidatevi
@Massimo
Sto per dire una cosa che farà veramente inc****** Gregori: non potrei mai sposarlo per vari motivi:
1) è già sposato
2) non si risposerebbe mai (comunque)
3) io sono una specie di sorella per lui, gli verrebbe da ridere solo al pensiero
4) potrebbe essere mio padre (ed è quando gli ricordo questa la cosa che mi ripete più spesso che sono un’imbecille!) 🙂
Di spose infelici è piena la vita e anche la letteratura… pensiamo a Madame Bovary o ad Anna Karenina! Per quanto riguarda lo sposo… credo che l’infelicità femminile sia stata maggiormente esplorata e sia più per così dire “letteraria”, anche perché violenze soprusi umilizioni – non me ne vogliano i maschietti – fanno purtroppo pendere la bilancia dalla nostra parte. Siamo noi quelle che scommettiamo di più e perdiamo di più.
Spazio e tempo: la risposta di Simona è poeticissima e condivisibile. La narrazione è spazio e tempo, è cronotopo, per usare una parolona. La storia si muove lungo queste due coordinate che attraversano i personaggi. Ma mentre nell’Ottocento la fisica del romanzo era potremmo dire classica e galileiana, nel Novecento spazio e tempo diventano relativi, einsteniani: fusi, distorti, invertiti… ecco perché secondo me il romanzo è oggi multidimensionale.
Wow, discussione postmoderna!
@ silvia:
5) probabilmente sai cucinare bene, ma non basta
🙂
sull’incipit del libro concordo con carlo. strano! 🙂
effettivamente sembra molto interessante, in primis per un linguaggio che sa essere molto originale senza andare a perdersi in arzigogoli inestricabili. molto bello, davvero
@enrico
6) probabilmente hai un’ottima fantasia, ma non basta 🙂
dal momento che Mario è intervenuto, gli manifesto , cosi’ come nei commenti, la mia ammirazione.
I suoi romanzi mi hanno cosi’ colpita da procurarmi sofferenza(mi riferisco soprattutto al primo):la sofferenza di quegli, per quegli indimenticabili personaggi.
Laura
Ringrazio Laura, sono stra-lusingato. Anche io ho sofferto per i veri cani randagi della Tiburtina anno di grazia 2000, quel gruppo di persone che era con me quando pensavo di scrivere Neppure quando è notte, ma confesso che ho sofferto di più a rievocare i protagonisti che sono trasfigurati nelle spose.
Invece per rispondere a Maurizio De Giovanni sono molto sincero e sintetico: il calcio è una consolazione, ma anche una piccineria, ho vissuto dei momenti di felicità e pienezza sull’erba dello Jacovone o nella curva di Terni o Giulianova dove in dieci eravamo scortati da cento poliziotti e cantavamo Martina Alè. Ma perché questo? Alla fine non riesci a darti risposte, siamo in tanti così, ma almeno provi a raccontarlo.
La prima persona è una scelta che forse mollerò nel prossimo romanzo, mi ha permesso di essere più coinvolto e disperato nel racconto, è vera l’obiezione su Annalisa e Zazà, ma avrei perso un po’ di quello smarrimento di Veleno/Desiati che forse è quello a cui tenevo maggiormente da raccontare.
Ringrazio tutti per i nuovi commenti pervenuti.
Dò il benvenuto a Mario Desiati!
Come dico sempre, caro Mario… considera letteratitudine come casa tua.
🙂
Una piccola sorpresa per te, caro Mario.
Sono riuscito a scovare un tuo pezzo pubblicato su “Repubblica” (sezione di Bari) il 28 ottobre 2007.
Il titolo è: “La mia Taranto, una città dolente vista dagli occhi di un provinciale”.
Lo inserisco nel commento di seguito.
La mia Taranto, una città dolente vista dagli occhi di un provinciale
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Repubblica – 28 ottobre 2007 – sezione: BARI
–
di Mario Desiati
–
I miei ritorni in questi anni hanno confermato questo assunto, perché un ritorno genera sempre un nuovo punto di vista e dunque una riscoperta.
Il libro si chiamerà “Il paese delle spose infelici” partendo da un’ antica leggenda martinese sulla ignota tristezza nel giorno delle nozze che vivono le donne martinesi e racconta l’apprendistato della vita di un gruppo (branco) di ragazzi negli anni ’90 tra Taranto e Martina Franca. Taranto prima o dopo bussa alle spalle di tutti i suoi figli: è una città con ingredienti unici per un qualunque narratore: il più grande impianto siderurgico d’ Europa, due mari, un enorme arsenale, l’ultimo zoccolo duro della classe operaia italiana, due quartieri periferici come Paolo VI e Tamburi che nessuna città al mondo si sogna – se ne può avere solo uno, ma non tutti e due – , il dissesto finanziario, l’odore delle raffinerie, la processione dei Misteri, i colori del cielo, il torrente Taras e il suo carico di sortilegi, la passione calcistica con un tifo fuori dal comune, Giancarlo Cito, la statale 197. Questo inadempiente elenco fa capire come sia quasi impossibile per un narratore nato e cresciuto tra i due mari, prescindere da questo luogo. Ma sul fronte narrativo c’è un aspetto che volutamente ho tralasciato sino ad ora e che mi ha sempre affascinato. La provincia. Innanzitutto il grandissimo contrasto cromatico tra la Murgia carsica e bianca di Mottola, Massafra e Martina e l’immensa distesa metropolitana tarantina color ruggine. Un paesaggio che non passò inosservato a uno dei massimi critici d’arte italiani come Cesare Brandi e che si presta alla fotografia del cinema e a quella di un grande romanzo. Accanto a questo aspetto estetico anche uno antropologico: le piccole, quasi impercettibili, ma decisive differenze tra gli abitanti della città e quelli della sua provincia. Da Martina Franca la percezione di questa terra è molto diversa, le contraddizioni sono ancora più violente, la terra che Mario Soldati chiamava la Murgia Verde e di cui arrivava a dire che era il posto ideale dove trascorrere il resto della vita, con i suoi colori lattei e nitidi. In realtà proprio questa bellezza nasconde una sottotraccia di esistenze sulfuree. Da un lato i piccoli demoni di provincia, coloro che colorano le loro esistenze di mitomanie, aneddoti, avventure di paese. Ma accanto a questo anche un aspetto meno pittoresco e più inquietante, quello di una borghesia impermeabile, un ceto medio chiuso dove si fa fatica a rintracciare le ragioni della sua chiusura. Martina Franca era una città che alla fine degli anni ’70 aveva vissuto una stagione d’oro, erano nati il Festival della Valle d’ Itria, il Martinapoesia, decine di altre iniziative culturali che col tempo sono sparite. Ma lungi da voler trattare argomenti da proloco, il vero aspetto interessante è che il territorio è cambiato, è esattamente il luogo tipico della post-industrializzazione. Quei luoghi che hanno perduto molto delle loro risorse, risorse soprattutto umane. Penso alla fortissima emigrazione giovanile che secondo i dati dello Svimez negli ultimi cinque anni ha raggiunto percentuali paragonabili soltanto ai grandi flussi migratori degli anni cinquanta. Ma non c’è bisogno dello Svimez, per chiunque della mia generazione basta prendere la foto di classe e contare le persone che sono rimaste sotto l’Ofanto per capire quanto oggi l’emigrazione giovanile sia il vero grande tema della nostra terra. Proprio in virtù di questo Taranto e Martina sono due facce della stessa medaglia, fra il capoluogo e il municipio più grande della sua provincia si avverte un malessere che non è soltanto quello economico che ha portato al fallimento il Comune tarantino e in acque torbide quello martinese, ma una sorta di spegnimento delle loro generazioni più giovani. Penso a un fatto di cronaca stupefacente, ma al contempo molto emblematico. In estate hanno preso fuoco alcuni locali in un call center di Taranto. Appena la notizia è stata battuta dall’Ansa alcuni giornalisti si sono presentati per raccogliere testimonianze e immagini. È accaduto qualcosa che forse accadeva soltanto in terra di Cosanostra. Alcuni ragazzi usciti incolumi dall’ incendio del call center misero le mani sull’obiettivo della telecamera per non comparire, come se l’occhio della telecamera e la libertà di poter esprimere un disagio o una paura, fosse pericoloso quanto almeno quell’ incendio appena scampato. Di questa generazione, i cui genitori lavoravano tra l’Italsider e la raffinerie tarantine da una parte e il grande polo tessile martinese dall’ altra, non resta neanche l’eco delle lotte e delle rivendicazioni dei propri genitori. Una terra dove c’ è la vocazione alla sconfitta e al precariato.
Questo credo sia un tema decisivo che chiunque scrive e proviene da questa terra ha il dovere di provare a fare. In questi mesi ho riannodato le mie radici, ho ripreso i contatti con coloro che sono rimasti, ho ascoltato le ossessioni che avevo lasciato anni fa quando partii, le storie che ho sempre voluto raccontare ma che non avevano ancora un finale. Adesso i finali sono arrivati, le vite con cui sono cresciuto sono maturate e a volte marcite, adesso a chi sopravvive toccherà raccontarle.
Caro Mario,
il titolo del romanzo devo ammettere è un pò inquietante, soprattutto per una donna.
Cerco di spiegarne la motivazione.
Le aspettative alle parole sposa, nozze, fede nuziale, sono legate quasi sempre alla speranza di una forte svolta esistenziale, così almeno avevano fatto credere le nonne, le mamme, le zie, ricamando i corredi.
Ma ecco avanzare la nuova meridionale, una donna che non rinunzia alla modernità e che, al contempo, non vuole deludere le vecchie ipocrite mentalità, nutrita dal sogno e sdegnosa di decorosi taillers, indossa l’illibato vestito bianco anche se ha fatto sesso a go-go prima delle nozze, una laurea pass partout di emancipazione che non indietreggia di fronte al ruolo di angelo del focolare, tanti modi di essere per far contenti tutti.
Sarà mica questa l’infelicità?
Io vorrei chiedere a Mario come mai è proprio Annalisa – “la ragazza di tutti”- a parlare con le ombre delle spose infelici…che legame c’è tra l’essere di tutti e l’infelicità? Forse non c’è molta differenza tra chi si offre a tutti (non appartenendo a nessuno) e chi si è tolto la vita per non essere privato della libertà…
Mi associo a Rossella, da Caro Mario a l’infelicità…
🙂
@…
Queste spose-suicida di Martina Franca andrebbero ‘santificate’. Subito!(almeno prima del Silvio).
Quando si nasce in una terra(non solo Taranto, ma Italia), in cui il paragone recondito è con la Madre Immacolata- la crescita e l’evoluzione si muove tra ‘santità’ e ‘puttanesimo’- lo sviluppo e l’emancipazione tra la ‘guerra’ al maschilismo o la sottomissione- l’indipendenza tra potersi comprare il rossetto o stirare camicie al marito- la sessualità tra la “negazione cattolica” o la ‘liberazione compulsiva’- l’amore tra l’estasi allucinatoria o il possesso assoluto, allora si capisce che si è sposati per calmare papà( eppure mammà), e accontentare il parroco e qualche politico per assicurargli figli per un voto in più(cronici democristiani!).
Quindi, soltanto il giorno del matrimonio si arriva a capire questo. E allora, non resta che buttarsi di sotto.
Libere, felici. Un piacere assoluto.
E finalmente, una decisione presa in assoluta autonomia.
( Sante Subito!)
Vi ringrazio ulteriormente per i nuovi commenti.
Come avrete capito leggendo il pezzo di Desiati pubblicato su “Repubblica-Bari” la leggenda delle spose infelici fa un po’ da sfondo, mentre il libro – che mantiene comunque le caratteristiche del romanzo di formazione – tocca problematiche piuttosto complesse.
–
Buonanotte a tutti.
Care Miriam e Rossella, scusate se semplifico, forse l’infelicità la si può intendere come contraddizione esistenziale, vivere riti, cerimonie e routine che per anni sono stato l’opposto di come si era e di quello in cui si credeva. Allora uno si chiede “Chi sono?”, poi la routine matrimoniale può ammazzare, oppure può rilevare la vera natura di serenità di una persona e di una coppia (ma poi la serenità e la tenerezza ammazzano il desiderio). Certo è impossibile semplificare, ma il matrimonio italiano, nel senso più puro di rito (abito bianco, banchetto milionario, promesse e cerimonia religiosa) resta un mistero…
Cara Simona non vorrei parlare del finale, ma Annalisa è autentica e forse ama solo chi ama platonicamente perché è un’untrice… Non sono mai sereno quando parlo di lei, forse perché la vedo continuamente nei fantasmi che mi circondano.
Per Gianni, in effetti ho avuto a volte quell’idea nei matrimoni di una tristezza insondabile, ma percepibile, ci sono delle foto di matrimoni di Piero Pompili dove i volti degli sposi urlano aiuto…
@ Mario Desiati…
bè, ci siamo capiti…
In fondo, di questi tempi, sembra avere ingranato la retromarcia a velocità spedita
(e se ci disgustiamo di certe cose- vedi Carfagna ministro- ci additano come moralisti!… Mentre le donne lasciano tiepidamente passare…).
” E che sono, Paquale, io!?”- ( Il Principe…).
Caro Mario,
in effetti stavo pensando che non sarebbe male – come idea – predisporre un libro con immagini nuziali dove “i volti degli sposi urlano aiuto”.
Anzi, il titolo del libro potrebbe essere proprio questo: I volti degli sposi urlano aiuto.
🙂
—
A dopo!
@ Laura
Cara Laura, visto che i primi due libri di Mario Desiati ti hanno segnata in maniera particolare ti segnalo – di seguito – il link dell’intervista di Fahrenheit sul suo secondo libro.
Immagino ti faccia piacere ascoltarla (o ri-ascoltarla).
del 17/04/2006
MARIO DESIATI, VITA PRECARIA E AMORE ETERNO, MONDADORI
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=172985
Conosco Taranto come le mie tasche. Ci sono nata. E a Martina ho trascorso estati intere, nell’infanzia. Ed è vero il chiaroscuro innaturale del cielo in prossimità dell’Ilva e le code che si incontrano ogni mattina, file lente di operai stanchi. E sono una realtà amara le differenze che si mescolano senza fondersi della vita di provincia. Per me Martina è ancora il ciliegio enorme nel giardino e il fuoco che si accendeva quando si capitava lì d’inverno. Ma c’è una realtà che nulla ha a che fare con il riposo dei villeggianti, un dolore fondo in molti degli sguadi che si incrociano per quelle vie, una storia che ha il sapore di anni difficili che sono passati altrove e per altri ma che lì restano intatti. Di tradizioni anacronistiche, se tradizioni vogliamo chiamarle. E un panorama che racchiude colline dolcissime e parla di una storia che merita in ogni caso di essere raccontata.
Il libro non l’ho letto. Inutile dire che lo farò a breve.
Grazie.
M.
Il libro di Desiati è davvero bello e contribuisce a far conoscere Martina Franca
venite a trovarci!!!!!
http://www.martinafranca.info/
Gentile Mario Desiati, complimenti per il libro che comprerò senz’altro dopo aver letto le belle pagine iniziali. Che tipo di reazione c’è stata a Martina Franca dopo la pubblicazione di questo romanzo?
Ricordo un incontro alla Festa del Libro di Torino, l’anno scorso, dedicato al lavoro, anche precario, c’erano certi scrittori così presi da sè, a soloneggiare sul lavoro (altrui) e sui massimi destini del mondo, in quell’occasione Desiati mi è parso l’unico a dire cose pertinenti.
Mi metto alla ricerca dei suoi libri.
Ciao
Paolo
ho finito di leggere il libro pochi giorni fa. bello, e scritto benissimo.
Caro Massimo,credo proprio che nell’immaginario collettivo la sposa, il giorno delle nozze, mostri fragilità che rasenta infelicità.Si tratta dell’ansia per l’incontro con il “monstrum”, di cui parla Apuleio nella bellissima favola di Amore e Psiche.La giovane é destinata sposare un mostro che fuor di metafora ha il senso dell’ignoto, del salto nel buio, dell’abisso, da cui la sposa si lascia irretire.Poi il monstrum si rivela il bellissimo Eros.Questa paura dell’incontro con l'”altro” é archetipica, anche se oggi si avverte di meno dato che i rapporti sessuali sono più facili ma anche discutibili. Ciao,Lucia
Sulla sposa e il matrimonio…
Apparentemente non siamo più dei primitivi dove venivano riconosciute due forme fondamentali di matrimonio: Per rapimento oppure per compravendita.
Oggi, se ci si unisce è per libera scelta e dopo una reciproca
conoscenza assai più approfondita di quanto avvenisse alcuni decenni fa.
La felicità o l’infelicità di una sposa può dipendere, a mio avviso, dalle ragioni che l’hanno spinta a quella scelta. Quando la molla è l’amore, la sposa è felice.
Ricordo il giorno del mio matrimonio. Un mio studente diplomato in conservatorio, mi aveva fatto l’omaggio di suonare la marcia nuziale di Mendelsson. Il mio pallore, dovuto all’emozione incontrollabile, era talmente intenso da preoccupare persino il celebrante. Ero felice anche se le mie lacrime avrebbero potuto venire interpretate in molti altri modi.
Certo, se la sposa si è messa in vendita al maggior offerente non credo che possa essere né felice, né contare su di un sereno rapporto duraturo.
Maria Luisa Papini Pedroni
Grazie mille per i nuovi commenti.
Un ringraziamento particolare a Lucia Arsì per l’ottimo riferimento ad Apuleio e alla favola “Amore e Psiche”.
Ringrazio anche Maria Luisa Papini, per averci raccontato questo suo aneddoto.
E un saluto speciale al neo-papà Paolo Cacciolati.
grazie di cuore, Massimo.Un bel regalo.
Grazie a te per essere qui, cara Laura. 🙂
Ricordo che all’inizio avevi delle legittime perplessità sui blog letterari. Ti ringrazio molto per avermi dato fiducia ed essere rimasta.
Anch’io, come Laura, nutrivo perplessità sui blog letterari; mi pareva che lo strumento informatico togliesse necessariamente spontaneità e espressività a un argomento che delle spontaneità e espressività non potesse in alcun modo fare a meno.
Invece ho scoperto con Letteratitudine che il blog aiuta a partecipare anche chi, per timidezza o solo difficoltà logistica, rimarrebbe fuori da questi bellissimi incontri: e non riuscirebbe a esprimere le meravigliose sensazioni che danno certe letture, come questa dello splendido libro di Mario Desiati.
Grazie, Massimo. Anche da parte mia.
Eccomi, ancora gratitudine per i commenti of course.
Per Paolo: a Martina non se lo fila nessuno, qualcuno però mi cerca per “chiarirmi le idee” su alcuni personaggi, mentre nella libreria del paese si è riunito un piccolo drappello di persone che si è messo in moto per scoprire se esiste o no Annalisa. Ma il resto è noia.
Per Lucia: Touché su Apuleio, letto e riletto nei mesi che scrivevo…
@…
Confesso, che leggo con una certa titubanza i commenti delle donne quando si parla di loro, amore e matrimoni…
Lo schieramento sembra atavicamente diviso in due : chi sostiene la “paura” dell’ orrido, “miracolosamente” poi divenuto Eros, e chi inneggia a sentimenti iper-romantici, negando appunto ogni spettro di ‘oscurità’.
Siamo fatti di Eros e Thanatos.
Di passato e presente, e futuro. Di paure e speranze. Di forti convinzioni e di debolezze; di fantasia, mente, cuore, ma anche di carne.
E’ soltanto il desiderio che muove tutto e aleatoriamente ci tiene uniti.
Senza desiderio non vi è vita e non vi è amore. E quando si risveglia da recondite oltretombe, ormai tardi, a volte può spingere anche a fare il “volo”.
Sempre meglio che crearsi ‘sottili’ giustificazioni.
Ehi, caro Maurizio…
grazie a te 😉
@ Mario Desiati
Scrivi: “a Martina non se lo fila nessuno, qualcuno però mi cerca per “chiarirmi le idee” su alcuni personaggi”.
Capita spesso in letteratura. Anzi, mi pare un segno paradossale dell’efficacia di questo tuo libro.
ma, gentile Maugeri, l’interrogativo è paradossale.
“necessariamente felice e inevitabilmente sorridente” è una condizione di necessaria e inevitabile infelicità.
se ne deduce che il cosidetto immaginario collettivo, che una volta si chiamava senso comune, ha una visione tragica della sposa; per così dire obbigatoria, doverosa, imprigionata,vincolata.
la questione sarebbe: c’è scampo per la sposa?
Ciao Mario, mi chiedevo dove guardare per cercare la speranza in un libro così disperato, e Annalisa è una figura che porta riscatto, ma non proprio speranza.
Non so neanche se ce ne sia nella pietà finale, così vicina alla follia…
Magari tu mi dirai che non c’è speranza da cercare in questo libro, la tesi di Veleno è quella. Però… io ci spererei… perdona il gioco di parole!
a Gianni Parlato
…ma quando siamo visitati dal de-siderium ossia da quella forza che viene dall’alto(sidera), quella forza ignota che ci turba, inevitabilmente,noi donne, siamo afferrate dalla paura, e perché percorriamo il campo del “monstrum” ossia dello strano, del diverso e dell’ignoto, sia perché, in quanto realisticamente donne, abbiamo cognizione della dolorosa condizione cui Afrodite=AMORE ci coinvolge. Ricordo che per Amore di Elena si combatté un guerra decennale. lucia arsì
Cara Artemisia, gli interrogativi paradossali sono i miei preferiti. Grazie per essere intervenuta.
😉
Caro Paolo, ti ringrazio per il tuo intervento.
Mi avevi già fatto notare che, a tuo avviso, in generale, nella letteratura dei giovani narratori italiani mancherebbe la speranza.
Ma mi domando, ti domando e vi domando: davvero uno dei compiti della letteratura dovrebbe essere quello di dare speranza?
A parte che qualcuno continua a sostenere che la letteratura serve a niente, io penso che essa debba avere un compito fondamentale: quello di intrattenere il lettore.
E penso anche che la letteratura non debba fornire risposte… semmai far sorgere domande.
Che ben venga, allora, la letteratura capace di mettere il dito nella piaga… capace di far riflettere, di farci guardar dentro, anche a costo di far stare male.
Se si vuole, alla fine, la speranza siamo in grado di trovarla.
Basta avere la capacità di guardare dentro di noi.
@ Lucia Arsì…
Appunto. Le guerre vengono combattute dagli uomini, mentre le donne aspettano ‘ignote’ il vincotore.
-” Oh…guarda che ha fatto per me!…”-.
Farsi guidare dal proprio desiderio….mai? Andare ‘sagge e intrepide’ incontro all’ignoto…nemmeno a pensarlo?
E si chiama amore, quest’attesa coperta di parsimonia?
Poi, ribadisco la nota citazione di Sciascia, ripresa dal nostro Roberto Alajmo.
Quando a Sciascia lo mettevano di fronte al presunto pessimisso cronico della sua letteratura, lui rispondeva: “Non sono io a essere pessimista, è la realtà che è pessima”.
—
A me questa citazione è sempre piaciuta, perchè spiazza. E perché è vera.
E anche perché fa sorridere.
“E si chiama amore, quest’attesa coperta di parsimonia?”
Cos’è? Il titolo del nuovo romanzo del buon Federico Moccia?
A proposito di letteratura e dei critici, riporto uno stralcio dal Sole 24 ore di ieri, a firma di Alfonso Berardinelli.
” Che cosa possono dire oggi critici e recensori a chi legge romanzi e poesie? Perfino “gli addetti ai lavori” vivono nell’ansia intermittente che la letteratura non agisca, non cambi il mondo, ma costituisca oggi più di prima un mondo parallelo riservato a minoranze intellettuali marginali e impotenti, giovani senza lavoro e vecchi in cerca di consolazione. La critica dell’ultimo mezzo secolo è passata dal progetto superbamente progettista di fondere una scienza dei testi letterari, alla modesta difesa del lettore e della letteratura”.
Sarà proprio così?
Come può la letteratura agire… cambiare il mondo… se non viene letta?
Sta qui il nocciolo cruciale.
Ed è questo uno dei motivi per cui mi sforzo di portare avanti il progetto di questo umile blog. Ridare centralità ai libri e al valore della lettura.
È un’impresa titanica. A volte scoraggiante.
Ma stiamo andando fuori argomento.
@Massimone Maugeri…
Non ho mai letto il buon Federico Moccia, preferisco il libro di barzellette di Totti. Però…potrebbe essere l’input per un dibattitto, che ne dici? Cos’è “amore”, dedita parsimonia o ‘demone roditore’?
–
Leggo dalla tua breve biografia, che indossi camicia, costumi e boxer azzurri. Sarà perchè, sotto sotto, sei un tifoso del Napoli e non osi confessarlo?( per simpatie politiche, non oserei pensarli io…).
Un caro saluto
@ Gianni
Prima o poi dedicheremo un intero post a “l’amore… e tutte le sue declinazioni”
–
In effetti sono un simpatizzante del Napoli, ma sono anche un tifosissimo del Catania. I miei colori sportivi sono il rossoazzurro.
Il celeste è il mio colore dell’anima.
Massimo, non voglio schierami tout-court sulle posizioni New Italian Epic e parlare di potere curativo delle storie, ma credo che la letteratura abbia compiti più alti che intrattenere.
Parlare di noi, dell’umanità, innanzitutto. E senza speranza, noi umani siamo ben poca cosa. Su utopia e speranza il filosofo Ernst Bloch ha scritto pagine molto importanti.
Per esempio, ne La mossa del matto affogato (ciao Roberto!), la distruzione delle speranze del protagonista ha un senso per chi legge, poiché le speranze malriposte si rivelano non solide, e nello stesso tempo traspare una qualche azione di giustizia trascendente, quasi a dire “i furbetti non la fanno franca in eterno, per quanti raggiri riescano a mettere in atto”.
Insomma, io lettore, oltre a leggere un ottima prosa e vivere in maniera molto diretta un’esperienza che non è la mia, entro in un orizzonte di senso che mi dà qualcosa di positivo di cui fare tesoro.
Fiducia nelle possibilità di questo mondo, nonostante lo schifo che c’è. Mostrare la disfatta e basta può essere una grande lezione, ma difficilmente fa la stessa presa su chi legge!
Caro Paolo, quando io dico che un compito fondamentale della letteratura è quello di intrattenere il lettore, lo dico in contrapposizione a chi sostiene che la letteratura serve a niente.
E sostengo che questo è un compito minimo.
Per spiegare meglio il mio punto di vista ti scrivo, di seguito, due link di vecchi post dove espongo in maniera più chiara il mio pensiero.
Il primo link è del 13 novembre 2006:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2006/11/13/piperno-e-saviano-tra-esibizionismo-e-inutilita-della-letteratura/
Il secondo è del 6 maggio 2007:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/05/06/a-che-a-chi-serve-la-letteratura/
Per il resto, rispetto assolutamente il tuo legittimo parere di lettore.
Lucia Arsì ci trasporta nel mondo del mito quando parla d’amore… ci fa sognare e ci dice cose molto giuste. Psiche scopre Amore dapprima come monstrum, terrorizzata se non spaventata, poi per ingenuità e abbaglio per la troppa luce di Eros rischia di perderlo e per ritrovarlo dovrà percorrere un sentiero iniziatico che la porterà a maturare e a vivere da immortale con lo sposo ritrovato. Per una donna è questo il percorso. Saggia e intrepida è la donna quando ama veramente, altrimenti è un’incosciente. Sense and sensibility, ragione e sentimento.
Care Lucie,
sull’ultimo post di Roberto Alajmo ho voluto intenzionalmente scrivere sullo stato involutivo in cui attualmente si trova la società in cui viviamo, ponendo l’attenzione sul problema della comunicazione e delle relazioni e partendo dalla coppia come fosse la cellulla importante di un organismo più vasto, e’ molto semplice capire la radice di generali infelicità.
Ma a noi quel che ci interessa maggiormente e per ritornare al tema del titolo del libro di Mario Desiati, è la donna, il quadro attuale con il quale interagisce e mi sembra di avvertire che il suo disagio interiore sia dovuto a quella mancata terra promessa per la quale in un certo senso hanno lavorato interi eserciti femminili, reduci da tradizioni di cui doversi liberare. In che modo? Attraverso la cultura e la scolarizzazione e la conoscenza anche le donne del sud si sono rapportate ad altre realtà coltivando all’interno speranze di cambiamenti.
In questo, perchè negarlo, ci ha supportato il femminismo e comunque tutti quei movimenti che hanno agevolato l’integrazione e la realizzazione di aspetti a noi congeniali per vivere e sentirci meglio…ma, c’è un grosso MA, a fronte di una donna emancipata che in un certo senso ha costituito il modello da emulare, una miriade di “altre donne” che crollano in una emancipazione di tipo autistico (secondo me le meridionali sono particolarmente soggette a questo problema) con risultati da moglie che avrebbe voluto fare la leader che avrebbe voluto avere due bambini che avrebbe voluto viaggiare all’estero che avrebbe voluto dare il meglio di quello che ha studiato all’università che avrebbe voluto…
Per cui, secondo me, come si può amare un altro essere quando all’interno, intendo nei confronti di sè stessi, non si prova quell’amore che ci fa essere appunto sè stessi e che ci fa sentire pienamenti realizzati?
Care Lucie,
ho ancora riflettuto sul problema delle spose infelici.
Forse perchè il problema delle donne mi tocca in special modo mi sono anche interrogata che cosa ha causato la sofferenza e penso che il punto sia proprio lì, nella scissione fra forma e contenuto, in questa destrutturazione dei vecchi schemi e quindi della conseguente perdita di identità e la non realizzazione di possibili forme nuove.
In questo avverto un processo di distruzione e non di creazione anche se i propositi di chi vuol attuare un cambiamento è fatto di entusiastici impulsi , responsabili nell’inconsapevolezza dei propri limiti che si traduce con la parola incoscienza.
Allora appaiono patetici quadri di donne che si accontentano di realizzare i loro sogni in contesti che con i loro sogni non c’entrano nulla, e questo lo vedi nel quotidiano, nelle lotite scimmiette del cartellone pubblicitario, madri di famiglia con toni manageriali, che pena tutto quanto!
@Gianni Parlato
La “vera” guerra, la fa la donna, allorché decida per l’altro…un marito, un figlio, una casa ed è una guerra costruttiva. La guerra di cui fai cenno, la guerra distruttiva, a cui partecipano gli uomini in gran parte, é opera dell’orgoglio maschile, colpevoli di tracotanza mentale e pagano il fio, coinvolgendo, purtroppo, donne e figli.L’oggi docet.A proposito di amore, non mi passa per la testa l’idea di un amore parsimonioso.Anzi.Tenerezza e complicatio, luce e ombra sono il quadro del vero amore, l’amore impossibile, maestro di vita.Grazie per la polemica,il dibattito é sempre sterile.Lucia Arsì
@Rossella
Intendiamoci sul linguaggio:identità e sintesi di contenuto e forma.La donna é la Fonte da cui ha origine e verso cui si completa tutto ciò che é.E’ lo spazio, la dimora, da cui, entro cui, verso cui l’uomo esperisce il suo labirintico viaggio vitale.Amare la donna significa aiutarla a mantenere la possibilità di esserci, significa fare esperienza della molteplicità del reale, significa agire patendo, che é ciò che fa la differenza tra un uomo superficiale( quello che pensa esclusivamente al suo coito o quello che usa la testa pro domo sua, credendo che gli altri siano manichini ad uso e consumo)e uno che va errando nell’errore, che é la dimensione tragica del vivere.Scollare il contenuto dalla forma, separare l’idea(eidos= forma)dal reale essere, ossia ciò che si é da ciò che si fa, é dovuto alla normale ignoranza. E le donne del Sud sanno, forse troppo; il problema é che questo sapere oggi é obnubilato da interessi mediatici che della identità e della tranquillità non s’interessano per nulla. Più confusione, più ansiolitici, più soldi nelle tasche di pochi.E-ducare ai significati profondi dell’esistenza, convivere con un mondo malato, disilluso, confuso, inerte e senza alcuna prospettiva é difficile ma é un gioco azzardato che piace e riempie le tasche ai pochi. E’ un piacere dibattere con te. Lucia arsì
Grazie Lucia.
@Lucia Arsì…
Quanta luce in queste donne?!…Forse siamo noi, ad essere miopi!…
–
Apollo non mi brillerebbe di luce propria, se non sentisse la ‘scapestrata’ passione di Dioniso.
Le donne si agitano solo, quando confondono il senso di possesso assoluto per passione( meglio dire…nevrosi?).
Una mente proiettata sempre al futuro o la passato, rende il corpo assente al “qui ed ora”.
Soltanto la consapevolezza di essere nel momento, nel “quì ed ora”, fa di ogni corpo il proprio modello erotico.
Con simpatia, Gianni Parlato.
p.s.
– “Grazie per la polemica,il dibattito é sempre sterile”-.
Cosa vuol dire?
Suvvia, Parlato. Buttarla sul giochino uomini contro donne è roba vecchia.
😀
@…
Uomini contro donne? Mettere in luce certe differenze che ci sono -bilogiche, psicologiche, fisiche- non è sentirsi “contro”…Semmai negarle, o voler assoggettare l’altro a sè… è “deviante”.
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-“Apollo non “mi” brillerebbe di luce propria…”- ovviamente…” Apollo non brillerebbe…”.
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io parlo di differenze. Poi uso toni provocatori, ma non astio, per vedere dove ci può essere la linea d’incontro.
@Gianni Parlato
con te é inevitabile la polemica, la lotta che, a dire di Eraclito(polemos è il padre di Zeus e degli uomini) é determinante per la costruzione di poleis( città)e della politeia(costituzione). Come ben vedi il termine non ha,a mio avviso, connotazione negativa. Polemizzare sul tempo cronologico o sul tempo fuori dalle lancette(il kairòs o l’aiòn) serve a comprendere la dimensione esistenziale di una persona ancorata al sic et nunc(lo stato presente)che non sa da dove vengano i suoi sospiri bacchici( che ben vengano, per carità!)e dove andranno a parare. L’Eros é maschile e sventaglia il calore alla donna, che sa rendere Uomo per sempre chiunque maschietto. Diversamente sarebbe un procuratore di semi infecondi, uomo in-utile , e destinato ad essere seppellito come ci raccontano gli antropologi che, a prima defaillance, veniva seppellito. . La Madre, per dare frutti, deve ricevere dal suo paredro i semi.Non é un complimento osceno. Ciascuno al proprio posto, asseriva Terenzio. La differenza di genere non prevarica, semmai connota e nel postivo e nel negativo.Ciao. Lucia.
@Lucia Arsì…
Mi pare di capire che la tua raffinata e colta scrittura espliciti meglio quanto detto dalla mia, senz’altro più e pedestre e arrangiata. Però…
-“… Polemizzare sul tempo cronologico o sul tempo fuori dalle lancette(il kairòs o l’aiòn) serve a comprendere la dimensione esistenziale di una persona ancorata al sic et nunc(lo stato presente)che non sa da dove vengano i suoi sospiri bacchici( che ben vengano, per carità!)e dove andranno a parare… L’Eros é maschile e sventaglia il calore alla donna, che sa rendere Uomo per sempre chiunque maschietto”- .
Come dire…
” maledette teste di ca..rtone, come facciamo a farvi capire che state sbagliando!?…Però continuate pure così; che senza, non ne potremmo fare a meno!…”..
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– “Diversamente sarebbe un procuratore di semi infecondi, uomo in-utile , e destinato ad essere seppellito come ci raccontano gli antropologi che, a prima defaillance, veniva seppellito”-.
Questi antropologi, che fossero uomini o donne, li sento un po’ soggiogati da una certa “invidia del pene”(FREUD), e “invidia testosteronica(aggiungo io) : ” ma quando diventi vecchio o impotente, così ti annienterò!?…”( la speranza dell’ “invecchiamento”, è una cosa che ho sentito in più donne).
Trovo di una tristezza enorme, “dare frutti” soltanto per il gusto di vedersi come pianta ‘fertile’, o magari per assoggettamento(alquanto inconsapevole) di una certa religione che, ahimè, non solo è presente nel nostro sangue e NON nella nostra testa; ma , a dirla tutta, sfotte in una certa maniera anche la dignità delle donne con La “Beata Vergine”.
A questo, poi, aggioungiamoci,(dopo oltre 60 anni) Mussolini : ” Il numero è potenza”.
Mescoliamo e agitiamo il tutto con i predicozzi di papi e preti con l’avallo di politici “pluridivorziati”, e ne viene fuori che, fare figli e famiglia, è prima di tutto un’identificazione di “dignità sociale”.
Il resto, poi, poco importa…
Donne che, sentendo svanito il loro ‘psicotico’ orizzonte, vanno a caccia del Dioniso della porta accanto per sentir “sventolare il loro calore”; mariti rassegnati e non, continuano a cercarsi scappatelle, e figli che finiscono in ‘ogni male’…
Però, che soddisfazione sentirsi una pianta “utile e dignitosa”!…
Prima di voler ammirare le pianta, bisogna valutare il giardino dentro cui volerla mettere; valutare se i semi sono buoni e -soprattutto- se il desiderio che quei semi diventino pianta, è talmente forte, da farci perdere ogni “mentale convinzione” che si ha sulla vita.
Capisco, si andrebbe incontro all’ignoto. Ma mica tanto…
L’amore è un sentimento(MISTERO) empatico e simbiotico.
E stimolante.
Ti prego di continuare questa polemica, mi diverte.
Ciao, Gianni
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@Gianni Parlato
rozzamente, hai compreso. Per quei semi”utili e dignitosi”sono stati versati quintali di inchiostro; sono stati allestiti i”giardini di Adone”mentre lacrime fitte inondavano le guance di Afrodite.Bada: macigni di forza e senno virile servono ad “intenerire”zolle aride ed irrazionalmente riluttanti. E non é poco. Polemica conchiusa. Onorata per la diatriba. Ciao. Lucia
@ Lucia Arsì.
che delusione!…
Aprire e chiudere una polemica non è cosa elegante( “Chiudere l’orecchio anche alle migliori delle controargomentazioni è preso come un segno di forza. Come dire…”- interrompo qui la frase di Nietzsche perchè conclude con un aggettivo negativo, e lungi da me l’intenzione di voler offendere te o qualcun altro, e nemmeno voglio essere frainteso).
Però tu ci hai provato spesso : – “macigni di forza e senno virile servono ad “intenerire”zolle aride ed irrazionalmente riluttanti. E non é poco”-… oltre, nei precedenti, all’allusione alle ‘sterilità’ e quindi anche ad una stigmatizzante e fascista “in-utilità”( mi compiaccio…Puniremo severamente tutte le donne e gli uomini che magari, per “difetto di natura”, sono sterili. Pardon…”im-potenti”. “Quelle” e “quelli” che invece ne hanno “potenza” e non la sfruttano, li parcheggeremo soltanto nei lagher(nell’attesa che si ravvedano!). Invece, chi eseguirà a rendere “il Numero Potenza”, lo iscriveremo negli allori vertici della “Razza Ariana”.
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Io sono un rozzo, e sono io stesso ad affermarlo, ma non stupido. E sarò anche “irrazionalmente riluttante”. Ma trovo sia sempre meglio(magari per giustificare chissà quali sensi di colpa) d’inserire “l’irrazionale e i sentimenti” in schemi filosofico-pragmatici.
Il che, è un tentativo assurdo.
Ciao, Gianni.
p.s.
Se puoi voi riprendere la diatriba, sono qui.
15 novembre 2008
Esortazione forte
alla Pace e alla Carità
MARTINA FRANCA. Sabato 15 novembre 2008, presso la Basilica Collegiata di San Martino, dalle ore 19,30 alle 21,30, si svolgerà un convegno sui temi della Pace e della Carità.
Il convegno è organizzato dalla Basilica di San Martino, monumento Unesco messaggero di una cultura di Pace.
Introdurrà e concluderà il convegno monsignor Franco Semeraro, rettore della Basilica di San Martino.
Il professor Francesco Lenoci terrà la lectio magistralis “il fuoco della Pace: luce per le nostre coscienze, energia per il nostro agire” approfondendo, in particolare, la meravigliosa esortazione di don Tonino Bello:
“Il Signore è sceso sulla terra assetata di Pace
e ha scavato il pozzo artesiano della Pace,
servendosi della Croce come se fosse una trivella….
Adesso è compito nostro portare l’acqua in superficie
e farla arrivare fino agli estremi confini della terra”.
Nell’occasione al professor Francesco Lenoci sarà assegnato il Sigillo Martiniano 2008. Le motivazioni saranno illustrate dall’avvocato Agostino Picicco.
Martino di Tours, prima soldato, poi monaco e vescovo (come si legge nella Lettera Enciclica Deus Caritas Est di papa Benedetto XVI) mostra il valore insostituibile della testimonianza individuale della carità. Alle porte di Amiens, Martino fa a metà del suo mantello con un povero. Gesù stesso, nella notte, gli appare in sogno rivestito di quel mantello, a confermare la validità perenne della parola evangelica: “Ero nudo e mi avete vestito…. Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Il Sigillo Martiniano viene assegnato dal 2002 ogni due anni (nel 2002 al dottor Ubaldo Zito, nel 2004 al signor Lino Cassano e nel 2006 al cardinale Renato Raffaele Martino).
Venite a trovarci:
http://www.viaggiareinpuglia.it/
“il paese delle spose infelici”, a mio modesto avviso, rappresenta bene la tragicità dell’esistenza, e la tragicità del meridione. L’immagini che le parole di Desiati dipingono sulla pagina sono tuttavia ammantate di nostalgia che rende il passato mitico, senza tempo. Infatti, benché sia ambientato nella Puglia degli anni 90, e vi siano costanti riferimenti alla realtà, il lettore viene catapultato in una dimensione onirica. A me è sembrato di viaggiare in un quadro di Klimt a tratti. E di aleggiare in un tempo sospeso in cui venivano a galla fantasmi della memoria, oggetti, e ricordi, ma anche un grande sofferenza (che scaturisce solo da un grande amore per la propria terra) per il destino della Puglia che un mostro come l’Ilva di Taranto ha avvelenato. Di tutti i libri che ho letto da settembre ad oggi “il paese delle spose infelici” è l’unico che mi ha lasciato davvero senza fiato, e che ho letto senza un attimo di tregua dalla prima sino all’ultima pagina, ritornando su certe pagine, su certe frasi, cariche di molteplici significati.
Un tema che credo non sia stato toccato in questo blog, è quello dell’amor fou che penso come l’affascino sia centrale nel libro, e mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i vari commentatori, andando oltre la sociologia da sex in the city sui rapporti uomo-donna.
”La mia terra ha un sapore romanzesco, la fantasia non serve” dichiara Desiati stesso. Sono con lui ed estenderei la definizione a tutta l’Italia, aggiungendo pero’ questo, che affermo io: ”servono tuttavia la capacita’ e la volonta’ di vedere e percepire in profondita’ il posto in cui si vive e quanto di fantastico ed onirico esso ci suggerisce”.
Concordo “con la fantasia non serve” come dice Desiati perché ci sono posti in Italia, io parlo per il sud, non conosco il Nord, in cui si vive in un grande teatro. Si alternano personaggi che forse la fantasia stessa non sarebbe in grado di creare e attrezzare così bene da divenire eroi e antieroi di romanzi. Tuttavia solo chi osserva attentamente ciò che lo circonda e magari con occhio zavattiniano ( il banale non esiste diceva Za, il mondo è piccolo perché lo vediamo piccolo) riesce ancora a cogliere le loro potenzialità romanzesche, e decide di raccontarli, quindi anche Sozi ha ragione, ma aggiungerei un aspetto, da non sottovalutare, la lontananza. Solo quando ci si separa da quei luoghi che si è vissuti intensamente, a lungo, in profondità perché sono i tuoi luoghi, quelli in cui sei nato e, almeno per quanto mi riguarda sono le uniche scenografie dei tuoi sogni, si sente il bisogno di raccontarli. E inevitabilmente si mitizza il passato e il vissuto in questa terra di cui si ha profonda nostalgia.
Gia’, cara Viky: quest’ultima osservazione sulla distanza io la sento piu’ che bene!
Ciao
Sergio