La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “Graphic Novel e Fumetti“è dedicata al volume “Il Rapporto di Brodeck. Libro 1/2 – L’Altro” di Manu Larcenet – (Coconino press – Fandango)
* * *
Rapporto pesante
Recensione a Manu LARCENET, “Il Rapporto di Brodeck. Libro 1/2 L’Altro“
di Furio Detti
Non conosciamo il romanzo di Philippe Claudel. Ci assumiamo quindi il rischio di una recensione “orba”, guercia. Forse, però, nel procedere possiamo rivendicare a parziale scusa la maggiore schiettezza che deriva dall’accostarsi a un’opera derivata senza il filtro dell’originale. Confidiamo che i fan di Claudel capiranno e ci auguriamo che possano trovare nuove fresche e inaspettate risonanze in questo commento alle chine di Manu LARCENET. Autore per cui abbiamo più di un debole… Se errori e dissonanze resteranno, ciò è di certo imputabile alla nostra ignoranza dell’opera in prosa, dovuta al solo contatto con la trasposizione effettuata dal fumettista.
Il Rapporto di Brodeck ci pare senza dubbio segnare un decisivo salto di qualità nell’opera di Emmanuel “Manu” Larcenet, autore pluripremiato e ormai miliare nel panorama d’Oltralpe. Tanto più che ogni dubbio in merito viene fugato da queste tavole. Larcenet, a partire da “Lo Scontro Quotidiano”, e ancor più con “Blast”, non è certo nuovo al racconto non autoconclusivo e alla serializzazione in più volumi. La scelta anche tipografica e di formato – orizzontale – de “Il Rapporto di Brodeck” si inserisce in questo filone con una forza comunque inedita. Non solo perché i paesaggi naturali spiccano, e quindi non solo per assecondare il soggetto; ma anche per la scelta, ci sembra, di segnare una faglia di discontinuità con la sua produzione precedente. La confezione con sovracoperta mostra una serietà accresciuta e la maturità di misurarsi anche nella stampa con un nuovo orizzonte espressivo, pienamente maturo.
Sfogliando poi il volume, graficamente parlando, al peggio, il Larcenet di questo nuovo romanzo grafico ci ricorda, nel tratteggio minuto, il pur bravo Ferdinando Tacconi, ma al meglio, e parecchie tavole lo dichiarano pienamente, siamo ai livelli di un Micheluzzi e, azzardiamo, siamo sulla strada per raggiungere un Sergio Toppi. Anche un Enrique Breccia, con più “forse”, ci starebbe bene nelle rimembranze di questo modo, che conserva ovviamente i temi cari allo stile ormai consolidato di Larcenet – specialmente nella combinazione fra tratteggio e campiture e nella resa anatomica delle fisionomie, nelle atmosfere allucinate, nelle situazioni tese fra i personaggi, nella “regia” che inquadra in scene e close-ups (è proprio la firma dell’autore) particolari anatomici o alcuni animali sorpresi nel loro esistere quotidiano, gatti e uccelli, specialmente. Come nella splendida tavola 29 in cui lo stormo di uccelli e la cenere dei villaggi distrutti si mescolano nel cielo. Eppure ne “Il Rapporto di Brodeck” si segna uno stacco netto rispetto alle scelte precedenti di Larcenet, in cui il testo era parte decisamente consistente e necessaria delle vicende e più di qualche volta travalicava anche il disegno; qui Larcenet cede la parola all’immagine più che ai dialoghi e il risultato, splendido, oscilla fra più universi o mondi, senza assomigliare compiutamente a nessuno di essi: ci troviamo certi film espressionisti tedeschi degli anni Venti per le inquadrature nette, sgorbiate, segate da tagli di luce arditi, per l’ambiente antropizzato allucinato, in cui gli edifici sembrano trattenersi a stento dal gridare l’angoscia che si cela dietro le loro pareti e per gli interni gravidi di minaccia. Brodeck, il protagonista, attraversa piazze e vicoli ostili, freddi, malati; entra in stanze segnate dalla brutalità e dalll’odio. Il villaggio è specchio della crudele umanità che lo popola, come in un film di Bergman o, meglio ancora, c’è l’atmosfera sinistra del film “Il Nastro Bianco” di Haneke o quella ottusa e ostile del “Jean de Florette” di Claude Berri, col soggetto di Pagnol. Poi però usciamo nell’altro mondo, quello dei boschi, della natura selvaggia, il mondo in armonia con Brodeck, e vi troviamo scene che sembrano, per il tono classico e la composizione, rubate a artisti del pennello come un Bruegel e a molti dei paesaggi toppiani. Tavole e paesaggi in cui vibra l’estranea vitalità del bosco. Così nobile e a-umana, non dis-umana come i campi di prigionia e i villaggi divorati dalle faide e oppressi da indicibili segreti. Una prova complessa, matura, coerente e autonoma nello stile, nonostante gli illustri richiami e le analogie, fedele nel servire una storia di violenza e paura. In questo senso possiamo anche considerare il “Rapporto di Brodeck” come il punto di arrivo di un modo di raccontare l’alienazione e la solitudine cominciato peraltro molto bene con “Blast”. Con il mondo selvatico come muto testimone ancora delle vicende dei protagonisti e di Brodeck, giunto come sopravvissuto e straniero dopo lo smantellamento del campo di sterminio, anche lui estraneo alla comunità di villaggio e alla deriva rispetto a quella umana. Questi sono i poli drammatici fra cui si dipana la trama della vicenda: la commissione di un resoconto, dal sapore amministrativo e Kafkiano, al guardaboschi Brodeck su un fatto di sangue nel villaggio, ossia l’omicidio dell’Anderer, il supervisore, o semplice visitatore straniero, fermatosi nel villaggio e qui linciato dai paesani.
«Dirò “io”, come faccio nei miei rapporti, perché non so raccontare in nessun altro modo… ma vi avverto, “io” vorrà dire “tutti”… il paese, i casolari nei dintorni… i ricchi, i poveri, i giovani, i vecchi… noi tutti, insomma.»
Sembra a questo punto quasi superfluo l’orrore del lager, descritto in queste vicende; anche se in effetti la storia di Brodeck è una storia di sopravvivenza e di resistenza della ragione e dell’umanità alla pazzia umana e collettiva.
«Loro sono morti. Io sono vivo»
Il contrasto melodico è tutto qui: il singolo contro la folla, che sia pur quella minuscola e meschina di un villaggio perso in qualche regione del centro Europa. L’unica cosa che non condividiamo affatto è la bestializzazione grafica, la deformità teriomorfa degli aguzzini del lager. Certamente è bene ricordare che il tono della vicenda non è storico, ma simbolico e interiore. Gli animali sono su un piano superiore rispetto alle “bestie” umane, il cui massimo grado di deformazione espressionista è proprio quello dei soldati del campo. Pure questo ci sembra un eccesso un fuori scala rispetto al resto, e all’armonia dell’opera, in cui l’orrore è più forte e risulta narrativamente ben giustificato quando veste i panni dell’ordinario. Troverei comunque banale riferirmi alle vicende in sé, penso invece che la forza delle tavole di Larcenet sia non nell’ennesima riproposizione di un tema arcinoto, la Shoah (o comunque l’oppressione sterminatrice), ma nella riflessione intima, e proprio per questo più sinistra, sul male che ogni “comunità” umana è capace di compiere. Sull’alienazione del sociale. Portare tutto sulla linea della narrazione e narrativa olocaustica – come han fatto molti, fra cui Stefano Feltri per “Il Fatto Quotidiano” – ci sembra un non aver compreso che superficialmente la forza e la novità del fumetto di Larcenet, la rappresentazione artistica di una titanica lotta del singolo e della sua umanità contro la barbarie del collettivo. Lotta che si esprime nei ritratti, quasi da pittore fiammingo, e nei giochi di sguardi, altro segno distintivo larcenetiano. I personaggi, non la tragicità dell’evento “storico”, sono la chiave di lettura e la forza di questo fumetto (e immagino, pure del romanzo di Claudel). Brodeck, come gli animali e i boschi che ama, è un solitario, è un “homme-sauvage” unico, poiché la natura è sola nel suo farsi, sopravvivere, morire. In questo c’è un contrasto nitido, secco, tra il villaggio e i delitti che vi si compiono, centrale l’omicidio dell'”Anderer”, lo “Straniero” o supervisore finito lì per qualche kafkiana combinazione. Ecco che intorno a Brodeck si scatena il gioco dei personaggi – che rivestono ruoli fortemente archetipici e quasi proppiani, fiabeschi – da quelli positivi, come Marcus Stern, un “uomo dei boschi”, cacciatore ma sapiente e consistente con la natura, maestro di Brodeck; o la vecchia saggia Comare Pitz, letteralmente piegata in due da una vita di fatiche centenarie, quasi certamente analfabeta, ma capace di regalare a Brodeck magnifici libri illustrati sugli uccelli; o il più libresco e filosofico Diodème, tenero avamposto del razionalismo nel villaggio, anche lui inghiottito dalla violenza dei compaesani. A questi fanno da contrasto i minacciosi e ambigui potenti della comunità, come il padrone e allevatore di maiali Orschwir, il quale illustra le virtù dei suoi maiali al protagonista. Ci sono figure anche intermedie, mediatrici fra i due mondi, forse più deboli perché un attimo caricaturali o eccessive, come il parroco, Padre Peiper, ubriacone e schifato dal peso delle confessioni altrui. Un caso a parte è la faustiana Zeileniss, la moglie del comandante o direttore del Lager, la quale non si perdeva le impiccagioni quotidiane col neonato al seguito; unica figura disegnata come umana, e uccisa dagli internati nella splendida sequenza della tavola 122, durante lo smantellamento del campo.
«Eri così diverso da tutti gli altri e non soltanto perché venivi da lontano… Sapevi andare oltre le cose.» Marcus Stern
«Quello che vorrei, Brodeck, è capire. […] A me invece le domande piacciono fin da quando ero bambino, con tutte le strade che ci permettono di imboccare. Non sono le risposte quelle che contano, Brodeck. La vera soddisfazione sta nel compiere un cammino…» Diodème
«Forse Diodème è morto proprio per questo. Perché voleva capire tutto.» Brodeck
«Non lasciarti ingannare dal loro aspetto, Brodeck… Sono delle vere belve. Sembrano pacifici come balene, ma sono delle belve. Senza cuore, senz’anima, senza memoria. L’unica cosa che conta per loro è la pancia e hanno un solo obiettivo nella vita: riempirla. Sarebbero capaci di divorare i loro fratelli, di sbranare le loro stesse carni senza batter ciglio… […] Capisci quello che ti sto dicendo, Brodeck? Loro non pensano… Non sanno cosa siano il rimorso né il passato. Si limitano a vivere. Non credi che abbiano ragione loro?» Orschwir
Restano fuori gli affetti intimi di Brodeck, Fedorine, la vecchia che lo salva da bambino sulle rovine del villaggio natio; la compagna Émelia e la figlia (di cui è ignoto il nome, credo). Loro sono silenziosi, adesi, consustanziali alla persona e all’estraneità di Brodeck, anche se rappresentano l’ultimo labilissimo legame con il consorzio umano, quello che mantiene Brodeck nella comunità. Pure sono anche loro, come lui, vittima di un’indifferenza ostile. La solitudine di Brodeck è tutt’uno con le sue immagini in cammino nella foresta (tav. 86), mentre va a segnare con una croce gli alberi da abbattere [1]
«Ti fa comodo, eh, fare finta che loro due non esistano?» Brodeck a Orschwir
Intorno a questi personaggi spicca naturalmente l’Anderer, il supervisore, che arriva da fuori e prende nota, sulle sue mappe e nei suoi fogli di ogni cosa: montagne, proprietà, fiumi, animali, case… aiutato raramente in questo dallo stesso Brodeck. I due, anzi, sono gli unici a trovare spontaneamente un’istintiva, naturale intesa, un dialogo civile in quella tremenda solitudine. Brodeck considera questo nuovo personaggio una specie di santo.
«Noi due ci assomigliamo» l’Anderer (a Brodeck)
«La santità è una cosa strana. Quando ti ci imbatti, la scambi spesso per indifferenza, scherno, arroganza, disprezzo. Ti sbagli, perdi il controllo e commetti l’irreparabile. È per questo che i santi finiscono sempre martiri.» Brodeck
Un volume che segna l’ingresso nella maturità artistica di Manu Larcenet, la prima parte di una graphic novel che merita ogni interesse e che ci lascia in sospeso con il silenzio di un notturno, un bosco sotto la tormenta. Decisamente non per chi ama vicende travolgenti o azione. Potremmo paragonare “Il Rapporto di Brodeck” a una triste leggenda kafkiana o Yiddish, o a un lungo, epico film in bianco e nero sulle profondità disumane dell’umanità e sulla pacifica dignitosa grandezza del mondo selvaggio… con l’eccezione, forse, delle volpi.
«Ripensandoci alle tue volpi… Gli uomini le odiano tanto perché sono simili a loro… cacciano per mangiare, certo… ma sono capaci anche di uccidere per puro piacere. […] Non le ho dovute ammazzare, le ho trovate morte nella posizione che mi hai descritto. Non posso certo dire di essere nella loro testa… ma in questa guerra sono morti così tanti uomini… tu, poi, lo sai meglio di me… Chissà, forse le volpi ci stanno solo imitando.» Marcus Stern
[1] Ci piace anche vederci un ricordo delle comiche, autobiografiche vicende di “Ritorno alla Terra”, in cui l’alter ego di Larcenet si chiede se per caso le croci sugli alberi non abbiano a che fare con il culto dei morti…
Manu LARCENET, “Il Rapporto di Brodeck. Libro 1/2 L’Altro”, Coconino Press, coll. Fandango (2016)
* * *
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo