Cari amici di Letteratitudine,
con questo post decreto l’apertura di una rubrica che verrà affidata a Ferdinando Camon (nella foto).
Come ho già scritto in altra occasione, Camon è una delle voci più autorevoli della nostra letteratura; un uomo che ha scritto e pubblicato libri di altissimo pregio, a prescindere dal fatto che abbiano vinto premi importanti, tra cui lo Strega e il Campiello (lo stesso Camon sostiene che “I premi non sono giudizi critici, non sono saggi e non sono articoli. Non aggiungono nulla ai libri. Nella vita dei libri, le vicende che contano sono gli incontri con i giornali, con le riviste, con le scuole e le università, e, attraverso le traduzioni, con le lingue e le culture straniere”). La presenza di Camon qui a Letteratitudine è per me un vero onore, ma al tempo stesso testimonia l’apertura che questo grande letterato (classe 1935) mostra per i nuovi mezzi di comunicazione (come Internet e i blog).
Per espressa volontà dell’interessato, il titolo della rubrica sarà: Il sottosuolo.
Il riferimento è all’ottima opera Memorie dal sottosuolo (o Ricordi dal sottosuolo, dipende dalle traduzioni) di Fëdor Michailovič Dostoevskij. Libro che, secondo lo stesso Camon, contiene uno degli incipit più belli della storia della letteratura.
Io direi di far partire questa rubrica proprio così… discutendo di questo libro di Dostoevskij. Ritengo che si possa prestare a un interessante dibattito.
A quarant’anni Fedor Dostoevskij è uscito da poco da una serie di vicende drammatiche (la militanza socialista, la condanna a morte commutata all’ultimo momento, la deportazione siberiana) e, pur praticando un’intensa attività giornalistica, sta ancora cercando la sua strada. “Memorie dal sottosuolo” (1864) è il libro che annuncia i capolavori della maturità. Con i suoi tratti autobiografici, il protagonista delle memorie è un impiegato inconcludente, un uomo a disagio con se stesso e in rotta con la società, isolato, con una vita di relazione inconsistente, incapace di legare con i colleghi d’ufficio come con gli ex compagni di scuola. Un uomo timido, senza risorse e protezioni, che proprio la brutalità della vita sociale respinge nel sottosuolo, e a cui non resta che cercare uno sfogo provvisorio tormentando chi sta ancora più in basso di lui: Liza, misera prostituta alle prime armi, incontrata in una sera di neve bagnata.
Vi lancio una sfida. Vi invito a leggere (o a rileggere) il volumetto del celebre autore russo per discuterne assieme qui. Io dispongo dell’edizione Adelphi, con traduzione di Tommaso Landolfi.
Alcune domande provocatorie (spunti tratti dal libro).
Siamo davvero “convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?”
E mentre ci sono ne approfitto per chiedervi… in che rapporti (letterari) siete con il grande scrittore russo?
—
Vi riporto inoltre un testo che Camon scrisse nel 1985 e che “Libération”, pubblicò nel numero speciale: Pourquoi écrivez-vous?, 400 écrivains répondent (numero speciale 15 marzo 1985; in volume: edizioni di “Libération”, Parigi 1988, pp. 247-248).
Mi pare un’ottima presentazione. Seguirà, infine, una biografia dell’autore.
Mi raccomando… massimo rispetto e serietà.
Ci tengo molto.
Grazie.
Massimo Maugeri
______________________________
PERCHÉ SCRIVO di Ferdinando Camon
Scrivo per vendetta. Non per giustizia, non per santità, non per gloria: ma per vendetta. Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa. Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce. Quando ricevevano una lettera dal Municipio, dall’esercito, dai carabinieri (nessun altro scriveva ai contadini), si spaventavano e andavano a farsi spiegare la lettera dal prete. Li ho visti passare molte volte, ero un ragazzo. Da allora ho sentito la scrittura come uno «strumento del potere», e ho sempre sognato di passare dall’altra parte, impossessarmi della scrittura, ma per usarla in favore di coloro che non la conoscevano: per realizzare le loro vendette.
Ma essi non volevano vendicarsi e perciò non si sentono rappresentati da me. E coloro che io cerco di vendicare, mi considerano — giustamente — come un nemico. Di conseguenza, sono isolato, e non riesco a legare con nessuno. Dappertutto dove sono passato sono un non-riconosciuto, un espulso, un non-accettato: famiglia, paese, mondo letterario, mondo cattolico, partito comunista, psicanalisi… Sono uno al quale non si può fare alcuna confidenza, uno che può tradire. Ogni mio tradimento consiste nella ripetizione del primo tradimento: mi sono impossessato della scrittura per vendicare gli analfabeti, sono passato attraverso il cattolicesimo per insegnargli cos’è la santità, ho descritto i gruppi terroristi per giudicarli dall’interno, e sono entrato nella psicanalisi per «dominare» l’analista… Conseguenze: all’esordio, quando ho pubblicato il primo libro, Il quinto stato, il sindaco del paese che descrivevo voleva citarmi in giudizio… Sempre, dall’inizio fino ad oggi, la prima reazione che incontro è il rifiuto, la condanna, la censura. Ho scritto su molti giornali italiani, e dappertutto sono stato censurato: dall’«Unità» all’«Osservatore romano», dal «Corriere della Sera» a «Paese-Sera» al «Giorno».
Se dovessi definire la vendetta direi che è una giustizia nevrotica. Quando dico che scrivo per vendetta, voglio dire che scrivo per compiere una giustizia smisurata, eterna e dunque ingiusta: la scrittura deve essere una esaltazione o una punizione destinata a durare senza fine. Ho bisogno di coltivare l’illusione che questo sia possibile. Non importa che si tratti di un’illusione: se prendo coscienza che la mia opera non durerà a lungo, la mia vita non ha più giustificazione. Da qui il bisogno di scrivere poesie o romanzi, non politica: la politica produce una vendetta troppo provvisoria. Quando scrivevo Il quinto stato, volevo fare l’esaltazione degli ultimi, vendicare la loro condizione di repressi. Non c’è differenza tra repressione politica, militare, economica, sessuale, ecc.: sono tutte collegate. E di conseguenza l’espressione — che è l’esatto contrario di repressione — le “vendica” tutte. Scrivendo La vita eterna volevo vendicare i partigiani contadini, il loro destino oscuro, senza gloria.
Poiché il capo delle SS di questa zona dell’Italia di cui parlo nel libro fu scoperto quando La vita eterna fu tradotta in tedesco, e fu citato in processo, e morì la notte della prima udienza, mi piace pensare La vita eterna come un colpo di fucile sparato dall’Italia alla Germania per colpire al cuore un nemico della mia gente. La Procura di Verona aveva incluso La vita eterna, edizione italiana ed edizione tedesca, tra i documenti a carico.
Con Un altare per la madre ho voluto realizzare un mio personale processo di santificazione, sostituendo quello della Chiesa: ho voluto fare la più grande esaltazione possibile del più miserabile dei personaggi, usare la santificazione come vendetta sociale.
E con La malattia chiamata uomo ho tentato di rovesciare i ruoli della psicanalisi, concependo il transfert come strumento per mezzo del quale il paziente conosce se stesso e l’analista. L’analisi è qualche cosa che non si può, non si deve raccontare: è piena di tabù.Colui che la racconta, non rompe un tabù, ma un contenitore di tabù. Caricata di questi compiti, che forse non può sopportare, la scrittura mi logora. Accettando di logorarmi punisco me stesso: mi punisco delle ingiuste giustizie che compio ogni giorno con ogni riga della mia scrittura. E così il cerchio si chiude: la scrittura è colpa ed espiazione, peccato e assoluzione, vendetta di una colpa, colpa per questa vendetta, espiazione di questa colpa.
Ferdinando Camon
——
BIOGRAFIA
Ferdinando Camon è nato in un piccolo paese di campagna, in provincia di Padova, presso Montagnana, cittadina chiusa da una perfetta cinta di mura (Castellani vi ha girato il film “Romeo e Giulietta”) che risale ai tempi del tiranno Ezzelino, prima di Dante. Di questo paese non ha mai indicato il nome. Aveva dieci anni quando la guerra finì, e dunque fece in tempo a imprimersi nella memoria rastrellamenti e bombardamenti: c’era un grande olmo nella campagna paterna, e lui vi saliva sopra per osservare le battaglie aeree tra i caccia tedeschi e le Fortezze Volanti americane, o la cattura dei partigiani da parte delle SS: fu così che vide un suo parente, membro di una squadra della brigata partigiana Garibaldi, mentre si arrendeva in un campo di frumento incendiato: aveva la pancia segata da una raffica, per la ferita uscivano le viscere, e lui se le reggeva con le mani (Camon ne parlerà in una poesia de Liberare l’animale, 1973, e nel romanzo Mai visti sole e luna, 1994). Gli abitanti della campagna (“uomini, angeli, diavoli, animali”) sono i protagonisti dei suoi primi due romanzi, Il quinto stato e La vita eterna, pubblicati nel 1970 e ’72. Questi due romanzi furono poi oggetto di una lunga riscrittura, terminata nel 1988: sicché la loro stesura definitiva ha richiesto un quarto di secolo. Questa riscrittura si era resa necessaria perché man mano che i due libri venivano tradotti nel mondo, e che le vicende che essi raccontano si allontanavano nel tempo, l’autore sentiva pacificarsi il suo rapporto con quelle storie, che nella prima stesura gli risultava sofferente e sovraccarico. Il quinto stato uscì in Italia con una appassionata prefazione di Pier Paolo Pasolini, e fu subito tradotto in Francia per iniziativa di Jean-Paul Sartre e in Unione Sovietica da Gheorgi Breitburd, che a metà del lavoro scende a Venezia, insieme con Ajtmatov, per un incontro con l’autore. Breitburd, che s’era poi ritirato in una dacia per tradurre La vita eterna, morirà a metà di questo lavoro, che sarà perciò terminato da Julia Dobrovolskaja. Tra i due romanzi Camon interpose le poesie Liberare l’animale (premio Viareggio 1973). Imprevisto, e come elaborazione di un lutto, pubblica nel 1978 Un altare per la madre: esaltazione di un Cristianesimo mistico ed originario, questo romanzo (premio Strega) si diffonde nel mondo e specialmente nei paesi comunisti. La RAI, Radiotelevisione Italiana, ne ricava un film con Angela Winkler e Franco Nero. Un altare per la madre ebbe una gestazione lunga, e fu riscritto diciannove volte: ma la stesura mandata in stampa non fu la diciannovesima, ma la terza, anche per scelta dell’editore Livio Garzanti. I tre romanzi furono riuniti nel “ciclo degli ultimi”, perché con essi Camon si accorse di aver descritto la fine di una civiltà, la civiltà contadina: questa fine era stata chiamata, da un poeta francese (Charles Péguy), «il più importante avvenimento della storia, dopo la nascita di Cristo». Geno Pampaloni, illustre critico letterario italiano del secondo Novecento, inserendo questi romanzi nella “Storia della Letteratura Italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno”, scrive: «Tre libri che sentiamo radicati come pochi altri nella cultura dell’ultimo ventennio». Il “New York Times” parlava di «A scene like a Bruegel canvas», la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” di «Ein Epitaph, ein Requiem für die Letzten», “Le Nouvel Observateur” scriveva: «”La vie éternelle” est le livre d’un Lévi-Strauss qui aurait prêté sa plume à Faulkner». Raymond Carver, il padre dei minimalisti americani, definiva Un altare (che in America si intitola Memorial): «A sublime work of art», e in Francia l'”Express” terminava la recensione avvertendo: «Attention: chef-d’oeuvre». In Italia, la rivista “Letture” lo definiva: “Un libro meraviglioso, un libro sacro”. Avendo cominciato dunque con la ricognizione di una crisi (la crisi della civiltà contadina), Camon prosegue come descrittore di altre crisi: col “ciclo del terrore” (Occidente, Storia di Sirio) racconta quella crisi che si chiama “terrorismo”, e col “ciclo della famiglia” (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili) la crisi che porta in analisi. La malattia chiamata uomo (titolo francese: La maladie humaine) viene rappresentata per quattro anni consecutivi al teatro “L’Aquarium” di Parigi.La particolare funzione che Camon attribuisce alla scrittura (la scrittura è rivelazione, quindi un merito, ma anche un tradimento, e più esattamente una delazione, quindi una colpa) fa sì che ogni ciclo romanzesco provochi delle reazioni: per il “ciclo degli ultimi” s’interrompe ogni rapporto con i paesi d’origine, che non volevano essere descritti per quel che erano, e con La vita eterna (diventata un best-seller in alcuni stati, tra cui
la Germania, dove fu per dieci mesi consecutivi nella lista dei libri raccomandati dalla critica) ottiene l’apertura di un processo contro l’SS che nel libro è l'”eroe negativo”, e che mantiene lo stesso nome (Lembke) che aveva nella realtà: il libro è assunto come “documento a carico” dalla Procura della Repubblica di Verona, ma quell’SS muore d’infarto alla vigilia del processo. Al quotidiano francese “Libération” l’autore dichiarerà di sentire quel libro «come un colpo di fucile, sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore un nemico della [sua] gente». Alla pubblicazione di Occidente fan seguito le reazioni di gruppi terroristici: all’autore viene distrutta l’auto, e per mesi gli vengono recapitate nella cassetta postale delle piccole bare, col suo nome scritto sopra. L’autore ebbe per lunghi periodi la casa e il telefono controllati, su sua richiesta, dalla polizia. Quando Occidente viene ridotto a film dalla RAI, l’autore abbandona la sua città, con tutta la famiglia; anche la troupe, che aveva cominciato a girare a Padova, è costretta a trasferirsi altrove (il film sarà terminato a Ferrara). Contro il film sporge denuncia il terrorista “nero” che si riconosce come protagonista. Ma, condannato all’ergastolo, perde i diritti civili, e il processo non ha luogo. Successivamente riabilitato, con piena assoluzione, chiede a Camon un incontro chiarificatore, da pubblicare. Il colloquio, di un’intera giornata, è pubblicato nel volume I miei personaggi mi scrivono: si conclude con Camon che domanda al suo “personaggio” in che cosa consista la sua innocenza, e quello risponde che «è innocente non colui che è incapace di peccare, ma colui che pecca senza rimorsi». Camon ritiene che con quelle parole il terrorista volesse affermare: «Sì, sono stato io, ho fatto la strage: ma possiedo un sistema morale in grado di giustificarmi». Sul problema della “colpa” Camon ha dialogato con Primo Levi, superstite di Auschwitz: ne è nata
la Conversazione con Primo Levi, conclusa poco prima del suicidio (ma Camon non crede che si tratti di suicidio) di Levi. La tesi di Camon è che lo Sterminio coinvolga una responsabilità più grande di quella affermata da Levi, il quale adotta una concezione “eroica” della storia, per cui la storia è fatta da pochi, i Napoleoni che galleggiano come sugheri sulla volontà dei popoli; Camon pensa che l’eliminazione degli ebrei sia stata l’atto finale di un plurisecolare processo di rigetto, che ha il suo nucleo originario nel cuore stesso del Cristianesimo, che non permetteva alcun rapporto con i “diversi” se non finalizzato alla loro conversione: nella concezione cristiana del “bene” stava in realtà la radice di una immensa colpa storica. Col Canto delle balene (1989) Camon inaugura un nuovo ciclo, e lo chiama “ciclo della coppia”: in questo primo romanzo racconta come la coppia si costruisca attorno ai proprî segreti, e come, con la violazione di quei segreti, si dissolva. Ma il libro vuol essere anche una “epigrafe” su una generazione, la generazione dei cinquantenni, un compendio delle sue grandezze e dei suoi delirî: la psicanalisi di massa, il culto dell’India, la mancata rivoluzione, l’invenzione di un nuovo Dio, e la tardiva riscoperta dei sentimenti e del sesso. Nel 1991 esce il romanzo Il Super-Baby, storia del parto visto dal nascituro (tutto il tempo del romanzo coincide col tempo pre-natale) e dal maschio: con soggezione e, avvertibile in ogni pagina, con rancore. La moglie (la “nuova donna”) vuole infatti partorire un genio, e perciò porta a scuola il bambino nei nove mesi prima che nasca: il marito (il “vecchio uomo”) la accompagna e la spia, ammirato e costernato. Fino al drammatico risultato finale. Nel 1993, mezzo secolo esatto dopo le vicende raccontate nella Vita eterna, un soldato tedesco torna nei paesi veneti dove aveva partecipato alle rappresaglie che avevano seminato 56 cadaveri in una decina di mesi: vuol essere festeggiato, contando sull’oblio delle vittime. L’incontro con questo soldato riporta Camon alla rievocazione della guerra e alla denuncia dei colpevoli che si sono costruiti una biografia innocente: nasce il romanzo Mai visti sole e luna (1994). Nel ’96 pubblica
La Terra è di tutti, sul tema dello scontro di civiltà che si svolge nelle città occidentali, sotto l’urto delle ondate migratorie dall’Asia e dall’Africa. Nel 1999 Camon ritorna alla campagna e alla poesia, con la raccolta Dal silenzio delle campagne, in cui rievoca la ricchezza cattolico-pagana della civiltà contadina del dopoguerra, e l’amorale oblio della campagna di oggi, protesa alla ricchezza, dimentica del suo passato grandioso, delle violenze patite nell’occupazione, le rappresaglie e le stragi, e popolata di mostri, parricidi, serial-killer, mercanti di donne, drogati e spacciatori. Per quattro anni viene eletto presidente degli scrittori italiani associati nel Pen, e come tale inoltra all’Accademia di Svezia la candidatura al premio Nobel per
la Letteratura di scrittori italiani, uno all’anno: Mario Rigoni Stern, Antonio Tabucchi, Andrea Zanzotto e Alda Merini. Nel 2004 esce il breve romanzo La cavallina, la ragazza e il diavolo, che finalmente instaura un rapporto felice, gioioso, nostalgico con il mondo della campagna e i suoi abitanti, e lancia il messaggio che bisogna fare quel che è giusto, avvenga quel che può: ognuno avrà il premio che si merita, e se l’astuzia o l’iniquità glielo toglie, gli sarà restituito. Nel novembre del 2006 Camon ha riunito in un volume (“Tenebre su tenebre”) una lunga serie di pensieri, ragionamenti, analisi, ricordi, scritti nel corso degli ultimi 12-15 anni a ridosso delle vicende più importanti della storia e della cronaca: guerre, stragi, encicliche, processi, omicidi, suicidi, insomma i fatti che cambiano la nostra vita. Camon scrive regolarmente su giornali italiani, ”
La Stampa”, “L’Unità”, “Avvenire”, i quotidiani delle Venezie del gruppo “Repubblica-Espresso”, a volte su “Le Monde” (Parigi) e su ”
La Naciòn” (Buenos Aires). Ha due figli maschi: il primo, Alessandro, vive a Los Angeles, dove produce film, il secondo, Alberto, vive a Bologna, dove insegna Procedura Penale.
Cari amici, vi prego di intervenire con atteggiamento serio e rispettoso. Ci tengo molto.
Perdonatemi se metto le mani un avanti nel ricordarvi la ormai nota “avvertenza” (la trovate sulla colonna sinistra del blog).
Ringrazio moltissimo Ferdinando Camon per avermi autorizzato a pubblicare il suo testo scritto del 1985 per “Libération”, nell’ambito dello speciale “Pourquoi écrivez-vous?”: 400 écrivains répondent.
La prima uscita di questa rubrica è dedicata, appunto, alla figura di Fëdor Dostoevskij e, in particolare, al volume “Ricordi dal sottosuolo”.
Nel post accennavo all’incipit.
ve lo scrivo di seguito.
Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’avere male al fegato. Del resto non so un corno della mia malattia e non so con precisione dove ho male. Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene tenga in gran conto la medicina e i medici. Inoltre sono estremamente superstizioso, comunque abbastanza superstizioso da tenere in gran conto la medicina. (Sono colto quanto occorre per non essere superstizioso, ma lo sono). No, non voglio curarmi per malvagità. Ecco una cosa che certo voi non vi degnerete di capire. Be’, ma io la capisco. S’intende che non so spiegare a chi appunto faccia dispetto in questo caso con la mia malvagità; so perfettamente che non faccio un torto ai medici col non andarmi a curare da loro; so meglio di chiunque che in questo modo faccio male soltanto a me stesso e a nessun altro. Tuttavia se non mi curo è ugualmente per malvagità. Ho male al fegato: ci ho gusto, possa venirmi ancora di più!
Forte, vero?
@ Fëdor Dostoevskij
Caro Fëdor, come sarebbe bello se tu (proprio tu) potessi parlarci di questo tuo libro.
Sai… mi piacerebbe rivolgerti alcune domande, se tu fossi in grado di rispondere.
Per esempio:
– Questi Ricordi sono tuoi, o sono del tutto inventati?
– Esiste davvero gente così? Intendo… capace di esprimersi in quei termini? Esiste ancora oggi?
– Chi è il protagonista del libro? Chi è l’uomo del sottosuolo?
Sì, lo so che ci hai lasciato nel 1881. Ma so anche che i libri e la letteratura uniscono. Al di là delle barriere di spazio e tempo. Al di là della morte.
Massimo Maugeri
Gentile Massimo Maugeri
Sia l’autore di questi Ricordi che i Ricordi stessi sono, si capisce, inventati. Nondimeno gente del genere di colui che ha composti questi ricordi non soltanto può, ma deve anzi esistere nella nostra società, considerate le circostanze che tale nostra società hanno formata. Io ho inteso presentare al pubblico, in maniera appena più evidente del solito, uno dei caratteri del recente passato. È questo un rappresentante d’una generazione tuttora in vita. Nel presente primo frammento, dal titolo Il sottosuolo, il personaggio presenta se stesso, le sue idee, e sembra voler spiegare i motivi per cui è comparso e doveva comparire in seno alla nostra società. Seguono, nel secondo frammento, i veri e proprio Ricordi di tale personaggio, relativi ad alcuni avvenimenti della sua vita.
Fëdor Dostoevskij
Vi rinnovo la sfida. Leggiamo (o a rileggiamo) il volumetto del celebre autore russo per discuterne assieme qui.
Dài…
E ora vi riscrivo le domande provocatorie del post (tratte dal libro).
–
Siamo davvero “convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?”
Infine la domanda “generale”.
In che rapporti (letterari) siete con Fëdor?
Intanto saluto Ferdinando Camon e gli dò il benvenuto su questo blog… Massimo è un ottimo padrone di casa, noi lettori e “scribacchini” passiamo da questo salotto – un caffè letterario, una fumisteria, un pub? – e ci incontriamo via web negli incroci fugaci delle nostre vite diverse ma accomunate dalla letteratura amata e praticata come esercizio, come consolazione, come sfida, come risorsa…
Dostoevskii… Ho letto “Le notti bianche” e “I demoni” nel periodo universitario e specialmente il secondo mi parve pesantissimo, tetro. Forse ci dovrei tornare col senno del poi. “Delitto e castigo” mi ha catturata immediatamente: vero, serratissimo, uno scavo nel sottosuolo della nostra anima. Un essere sordido e in fondo squallido e banale, il protagonista, ma “eroe” di una redenzione acquistata a caro prezzo, perché è così che dev’essere. Ogni sua idea di grandezza falsa e intellettualoide svanisce al contatto con la sofferenza e il dolore e al fuoco dell’amore di una dolcissima Sonja.
Oggi abbiamo memoria corta, coscienze sbiancate, smacchiate e stirate con l’appretto, l’indultino è la regola, impegno, disciplina e rigore sono allentati e quasi inesistenti. Viviamo nella società dei consumi e del benessere a tutti i costi, del dolore annullato o anestetizzato, della vita come una traumatologia infinita da attutire inebetire a tutti i costi. Certo che il troppo star bene fa male come il troppo star male!
Spero di aver risposto alle indicazioni del dibattito.
Saluto ancora Camon…
@ massimo:
perché rivolgere domande a un defunto Dostoevskij quando ci sono io contemporaneo? bah, non ti capisco.
Comunque di quel dopolavorista russo ho letto Il giocatore, Delitto e Castigo, I fratelli Karamazov e Il coccodrillo.
Lo trovo, spesso, un po’ troppo incartato dentro se stesso, almeno a giudicare da quello che ho letto. Laddove si libera dei suoi “demoni” personali si invola verso l’empireo. Parlo dei Karamazov. Se fosse in versi sarebbe il contraltare alla Divina Commedia. Un capolavoro indescrivibile.
Avevo scritto un commento ma si vede che è andato perso…
Rinnovo il mio benvenuto a Ferdinando Camon… Massimo Maugeri è un ottimo padrone di casa e noi lettori e “scribacchini” passiamo di qui negli incroci delle nostre vite impegnate magari a fare altro ma accomunate dall’amore per la letteratura e la scrittura come esercizio, come risorsa, consolazione, sfida, gioia…
Dostoevskji. Ho letto “Le notti bianche” e “I demoni” nel periodo universitario, ma dovrei tornarci col senno del poi. Il secondo mi risultò pesantissimo, tetro.
“Delitto e castigo” mi ha conquistata da subito: un capolavoro assoluto, uno scavo nel sottosuolo del bene e del male, una discesa dantesca agli inferi per poi risalire, purificati dalla redenzione del dolore e dell’amore – dolce Sonja! – a riveder le stelle, ad essere veramente uomini, al di là delle idee anche intellettualoidi di grandezza. Un libro vero, bruciante.
“Memorie del sottosuolo” mi manca. Provvederò.
Ancora un saluto a Camon…
@ Enrico
Mi pare che I fratelli Karamazov hanno vinto qualcosa proprio qui, se non ricordo male.
@ Enrico
le domande per te (e per gli altri) le trovi sopra…
@ Maria Lucia
Ti ringrazio molto e mi scuso. Ogni tanto il “sistema” wordpress dà di matto. I tuoi commenti erano finiti nella sezione spam. Non chiedermi perché (non saprei risponderti).
Speriamo che non si ripeta.
Nel caso… non preoccuparti. Li ricupererò non appena sarò collegato.
Buonanotte e te e agli altri amici.
Tranquillo Massimo, tutto ok! Riecco i miei commenti… buonanotte a te e a tutti i salottisti…
Gioie e dolori del web… buonanotte a tutti, domani ci si aggiorna su Dostoevskji…
Che dire? Per me Dostoevskij è il più grande romanziere della storia della letteratura mondiale. Fa sempre piacere constatare che ancora oggi si parla di lui
Caro Fedor,
mi hai fatto leggere “memorie del sottosuolo” quando non ero pronta a riceverlo. Con quello scavo nella nebbia della tua anima. Con quell’inabissarsi in te, in me, che preannunciava un viaggio.
Più tardi, quando la vita era già scorsa su altri binari, quando me lo porgesti con fare ammiccante (suggerendomi: “ora sì, è il momento”) compresi che il tuo libro mi aveva atterrita perché mi somigliava.
Chi, dimmi, chi di noi non vive nello spasmo di un sottosuolo. Chi di noi non ha percorso i suoi budelli allumati alla men peggio almeno una volta. Io sì. E ovunque me lo porto piantato nel sangue. Ovunque posso dire di essere – almeno in parte, almeno un po’ – una straniera.
Mai veramente di qualcuno. Mai veramente con qualcuno. Forse perché chi scrive percorre, come dici tu, solo un’estenuante e incomprensibile fuga.
@ Gentilissimo Camon, credo che memorie del Sottosuolo non sia che il portale che immette nella poetica Dostoevskijana e che troverà compimento solo coi Fratelli Karamazov. Un libro che leggerei come anticipo di un percorso umano e letterario.
Nell’esilio del diverso, del non compreso, ho sempre visto lo sguardo pietoso del Dio degli ultimi. Lo stesso che ne “I Demoni” spiega – se rinnegato –l’origine dell’idea rivoluzionaria e terroristica. Lo stesso che in “Delitto e Castigo” soffonde la sua presenza nella disapprovazione non tanto del peccato quanto della sua astrazione, conseguenza di una razionalità esclusiva, orfana di padre.
Credo che Dostoevskij si adatti ai nostri tempi. Non tanto per la presenza di foschi avvenimenti di cronaca (come il terrorismo, del quale pure Dostoevskij ha fornito una spiegazione lucidissima e ancora attuale ) quanto per quel vivere senza pietà la condizione umana che non genera più orrore ma indifferenza.
Una tiepida normalità che reputo più insidiosa dei massacri delle grandi guerre.Non pensa?
io amo molto Dostojevskij, e ci sono anche legata per motivi affettivi. Mia nonna – che insegnava lettere ma traduceva letteratura russa, mi ha impedito per molti anni di leggerlo. Io ero curiosissima e lei mi diceva di aspettare il tempo opportuno, il tempo della profondità verticale. dell’inconscio che non ti mangia più come nell’adolescenza.
Il mio primo Dostojevskij fu il tenerissimo “povera gente” e poi le memorie del sottosuolo, e poi il resto. Ho amato moltissimo delitto e castigo, ho amato moltissimo l’idiota. Ma il mio preferito, per la geniale anticipazione psicoanalitica, per la confusione tra psichico e onirico, reale e fantastico è “il sosia”
Sull’altra domada di Massimo. Boh temo di fare un commento troppo psicoanalitico. Caso mai dopo:)
Caro Camon,
dopo aver letto la sua lettera, il suo “…scrivo per vendetta”, io che ho spesso giocato con le parole augurandomi di diventare un autore, mi sono sentito come mia figlia che, al primo anno d’Accademia, usci dalla sua stanza stravolta urlando” Papà, questo Caravaggio è un diavolo, ha fatto tutto lui, io non dipingerò mai!”
Grazie maestro
Chiederei a Ferdinando Camon di esplicitare meglio la relazione tra il suo scritto, molto interessante per capire la sua scrittura, e la scelta del sottosuolo di Dostojevskij. Mi ha interessato anch l’idea del transfert rivoltato, ma a pensarci bene è una novità nel mondo culturale e mediatico, dove i concetti di transfert e controtransfert sono la vulgata della teoria freudiana, il mondo psicoanalitico ha detto questo e molte altre cose sul transfert. Ma il libro mi ha comunque incuriosita. E anzi chiedere Ferdinando Camon di parlarcene un po’ di più.
– Come il transfert ribalta le parti?
– cosa fa conoscere?
– dove va a pararare il libro?
(E no, io non vorrei scrivere per vendicarmi, vorrei scrivere con, o per o solo per me, ma la contritudine eterna è una condanna e tutto sommato molto egoista. E perciò credo che anche Lei scriva per qualcos’altro. La vendetta non je la fa da sola a essere così estetica)
“Sono un uomo malato…Sono un uomo cattivo…” L’esordio già trasmette inquietudine, preludio a una storia angosciante.
Ma è anche una lettura del profondo malessere in cui può trovarsi un essere umano, in fondo incapace di rapportarsi agli altri in quanto l’oscurità che è presente in lui sa che appartiene anche agli altri.
Incapace di accettarsi, incapace di sottrarsi, si lascia vivere al limite dell’esistenza, in un baratro da cui non sa trarsi, né vede via di uscita. Nell’autocommiserazione disperata che quasi vorrebbe l’annichilimento della coscienza.
Quel “male di vivere” che si può conoscere fino in fondo, quanto più ci si inabissa.
Desolante condizione, ma anche unica condizione per capire sé stessi senza nascondersi dietro a palliative menzogne.
Rapportato al momento presente, posso constatare quanto sia stato e sia tuttora difficile calarsi nella miniera profonda della propria essenza umana…e forse è per questo che adottiamo innumerevoli maschere e ci stordiamo con infinite rappresentazioni sceniche.
Ma la Verità è nuda e scarna, sempre, e prima o poi ci mostrerà le sue ossa.
Saluti a Ferdinando Camon e a tutti i partecipanti.
Per Massimo.
Un nuovo, stimolante post. Grazie.
“I libri e la letteratura uniscono. Al di là delle barriere di spazio e tempo. Al di là della morte”.
Perfettamente d’accordo
Smile
Per Fedor.
Caro Fedor, ho trascorso molto tempo insieme a te. Mi sono tuffata nelle tue storie riempiendo di vita e riflessioni serate intere che altrimenti sarebbero rimaste vuote. Ti confesso che non ho ancora letto le tue “memorie dal sottosuolo”, ma spero di riuscire a recuperare nel fine settimana.
La letteratura vera è immortale, Fedor. E tu vivi ancora.
Smile
Per Ferdinando Camon,
un caro saluto e un caldo benvenuto anche da parte mia. Bellissimo l’incipit di questo suo pezzo: “Scrivo per vendetta. Non per giustizia, non per santità, non per gloria: ma per vendetta. Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa”.
Una vendetta legittima che sa di sacro riscatto. Sono con lei e la ringrazio tanto per averci offerto questo scritto.
Smile
Per improvvisi problemi familiari, mi è impossibile prendere parte all’interessante discussione.Fedor Dostojevkij è uno dei miei scrittori prediletti.*****Per Ferdinando Camon mi sarebbe piaciuto scrivere una riflessione ponderata ,mi limiterò a citare il pensiero di chi scrive meglio di me.-****” Da sola la sofferenza non è creativa, deve prima diventare feconda, dar vita alla speranza. E’ il momento in cui ci si accorge che, perché il deserto diventi giardino non basta strappare spine e cardi, bisogna piantare fiori e alberi da frutto. (R. ALVES)
*****
” Sia la teologia che la filosofia si trovano sprovvedute e senza parole di fronte a questo insieme complesso del male e della sofferenza umana causata dalla natura, dalle persone e dalle strutture. C’è troppo dolore innocente e assurdo da potere essere razionalizzato eticamente e teologicamente. La storia è testimone dell’impotenza dell’uomo a realizzare il sogno di una società umana senza dolore.- (Schillebeeckx)
****
Il bene non si spegnerà mai sulla terra da quando la Parola di Cristo ha seminato nel mondo l’amore, seme che non inaridisce, ma germoglia, cresce e diventa albero maestoso.( F. Mauriac). A presto spero
Tessy
Siamo di fronte al CAPOLAVORO. Tutto il romanzo occidentale è debitore a Dostoevskij e le memorie sono l’anticipo del decadentismo. prima di Freud e meglio di freud, ecco a voi il sottosuolo.
@ Camon
domani mi procurerò i tuoi libri e poi cercherò di interloquire con te che scrivi per una “vendetta gloriosa”.
Amo Dostoevskij e considero Delitto e castigo il romanzo moderno per eccellenza; un’ opera rivoluzionaria e fino a qualche anno fa, anticipatrice del contemporaneo. Ora non più.
A presto, Miriam
Lascerò un commento banale e me ne vergogno, ma non posso stare al pari di cotanti estimatori della letteratura russa. La mia lettura dei Fratelli karamazov risale a parecchi anni fa e quindi parlerei di ricordi più che di impressioni recenti.
Riguardo al fatto che il male di vivere possa essere un valore perseguito e aggiunto per chi scrive… beh, senza essere Dostojewski l’ho sempre pensato. Di solito si scrivono cose belle quando si sta da cani perché l’angoscia che senti ha bisogno di riversarsi fuori e l’inchiostro diventa sangue che sgorga da ferite aperte. E’ in quel caso una scrittura di sofferenza, di dolore, di catarsi. E forse spiega il fatto per cui molti scrittori amano raccontare tentativi di suicidio, anoressie, depressioni, come se il loro sentirsi inadatti alla vita possa costituire garanzia di qualità. Tutto questo mi fa pensare che forse è il caso di mettermi a considerare tutto ciò che nella mia vita non funziona (ci sono due o tre cosette piuttosto importanti a ben guardare) nella speranza che l’incipiente depressione, quella che combatto strenuamente da sempre per dedicarmi al sunny side of the life, renda la mia scrittura più sanguinosa, verticale, profonda. Ma la malinconia dei russi, ragazzi, è inarrivabile e deriva dagli inverni eterni, dalle estati effimere ed appiccicose, dagli orizzonti sconfinati e dalla sofferenza di dittature zariste, leniniste, staliniane e poi, ancora, putiniane. Non ce la posso fare.
il mio primo dostoevsky fu ”le notti bianche”, allungatomi in tenera età (una dozzina di anni) da un padre distrattamente mentore e complice della mia caotica formazione.
seguirono a stretto giro i karamazov, delitto e castigo, l’idiota,i demoni e il giocatore, in una frenetica ricerca del fondo, molto adolescenziale. il sottosuolo lo lessi più tardi, intorno ai diciotto, insieme a bartleby lo scrivano di melville. nella mia testa sono sempre stati mischiati e associati.
ora, a distanza di trent’anni, mi è venuta voglia di riprenderlo in mano.
mo’ lo faccio, e entro domani vi saprò dire che ne traggo con una lettura adulta.
sempre che, of course. sennò ignoratemi.
🙂
Grazie mille per i commenti.
@ Simona e Elektra
Vi ringrazio per aver dato seguito alla mia idea di scrivere a Fëdor Dostoevskij.
Come avrete capito il commento firmato Dostoevskij (di giovedì, 21 Febbraio 2008 h. 11:26 pm) è in realtà la breve nota dell’autore ai “Ricordi dal sottosuolo”
Vi ringrazio tutti per i commenti affettuosi rivolti a Ferdinando Camon (che sperò avrà la possibilità di interagire)
@ Zauberei
Cara Zau, hai scritto: “Chiederei a Ferdinando Camon di esplicitare meglio la relazione tra il suo scritto, molto interessante per capire la sua scrittura, e la scelta del sottosuolo di Dostojevskij.”
–
Alla tua curiosità posso rispondere io. In verità non c’è alcuna relazione.
Ti spiego.
Avevamo concordato il titolo della rubrica (“Il sottosuolo”, appunto… dal libro di Dostoevskij).
Poi sono stato io a chiedergli di poter pubblicare quel suo pezzo “Perchè scrivo” (del 1985). Mi sembrava un buon modo per presentarlo.
Dunque nessuna relazione.
Però sarei comunque curioso di conoscere il parere di Ferdinando Camon (magari una relazione c’è!).
Un grazie a Francesco Di Domenico e a Cristina Bove
@ Miriam
Hai mai letto “Ricordi dal sottosuolo”?
@ Gea
Attendo la tua ri-lettura, allora. Grazie mille. Sei molto cara.
@ Maria Teresa
Grazie molte anche a te. Auguro di cuore che i tuoi problemi di natura familiare possano risolversi al più presto.
Un abbraccio.
@ Laura
Forse combattiamo tutti con un’ “incipiente depressione”.
Interessante questa tua considerazione (grazie!): “la malinconia dei russi è inarrivabile e deriva dagli inverni eterni, dalle estati effimere ed appiccicose, dagli orizzonti sconfinati e dalla sofferenza di dittature zariste, leniniste, staliniane e poi, ancora, putiniane”.
Gli altri sono d’accordo?
ho sempre sospettato che il problema dei russi fosse quello di esserlo..
laura, d’accordissimo.
🙂
La prima volta che ho letto questo libro di Dostoievski avevo un’edizione più antica di quella adelphiana, Adelphi non era ancora nato, e l’incipit di “Memorie del sottosuolo” diceva così: “Sono un uomo malato. Sono un uomo maligno. Credo che mi faccia male il fegato. Del resto, non so con esattezza che cosa mi faccia male e non desidero saperlo”. Capisci subito che il libro non parlereà di quel male oscuro, ma lo suppone ad ogni riga. Capisci che il male è oscuro perché l’oscurità è un tornaconto: c’è un interesse nel rifugiarsi nella malattia, dice Freud, ma c’è un ulteriore interesse nell’ignorare la malattia, perché conoscerla comporterebbe un dolore. Il “sottosuolo” è l’inconscio prima che si chiamasse inconscio. L’inconscio contiene l’idea di una mancanza di luce, portare all’inconscio vuol dire illuminare, l’inconscio è buio, o, religiosamente, tenebre. Il sottosuolo contiene l’idea di una ricchezza sepolta, quindi non utilizzabile, per utilizzarla devi scavarla e portarla su, a rischio della vita. Quel libro di Freud mi è parso il più carico di intuizioni psicanalitiche prima di Freud. Scavando nel mio sottosuolo, credo d’aver capito alcune delle ragioni per cui scrivo, e qui cerco di esprimerle: non sono tutte onorevoli, ma la prima posizione da conquistare, quando ci si mette a scrivere, è di non scrivere per fare bella figura, perché non si scrive per i parenti o gli amici. Per loro bastava una lettera ieri, oggi un sms. Si scrive per coloro che non sono ancora nati. Il libro serve a questo, e a nient’altro. Ferdinando Camon, 22 febbraio 2008, ore 18,37
@ Ferdinando Camon
La ringrazio per il suo intervento.
–
Queste ultime sue frasi, da sole, basterebbero ad avviare un ulteriore dibattito. Le riporto di seguito:
Scavando nel mio sottosuolo, credo d’aver capito alcune delle ragioni per cui scrivo, e qui cerco di esprimerle: non sono tutte onorevoli, ma la prima posizione da conquistare, quando ci si mette a scrivere, è di non scrivere per fare bella figura, perché non si scrive per i parenti o gli amici. Per loro bastava una lettera ieri, oggi un sms. Si scrive per coloro che non sono ancora nati. Il libro serve a questo, e a nient’altro.
E poi metto in risalto queste ottime considerazioni sul libro di Dostoevskij e sul concetto di “sottosuolo”.
–
Il “sottosuolo” è l’inconscio prima che si chiamasse inconscio. L’inconscio contiene l’idea di una mancanza di luce, portare all’inconscio vuol dire illuminare, l’inconscio è buio, o, religiosamente, tenebre. Il sottosuolo contiene l’idea di una ricchezza sepolta, quindi non utilizzabile, per utilizzarla devi scavarla e portarla su, a rischio della vita. Quel libro di Freud mi è parso il più carico di intuizioni psicanalitiche prima di Freud.
Tutte queste cose sono molto belle, ma troppo fisse per i miei gusti: l’inconscio come una struttura fissa del sotto e la terra sopra, la scrittura come una narrazione forte colla missione dell’onestà – e la convinzione che sia l’illuministica discesa agli inferi della consapevolezza a garantire la qualità del percorso.
Il novecento ha perso queste certezze credo, in tanti contesti: scientifici, espressivi, psicoanalitici. se Maturana e Varela contestano il rapporto oggetto e soggetto nell’osservazione biologica, la psicoanalisi perde la convinzione di una coscienza vs un inconscio e una certa fissità di contenuti,
(mi era partito il commento non finito!)
Tutte queste cose sono molto belle, ma troppo fisse per i miei gusti: l’inconscio come una struttura fissa del sotto e la terra sopra, la scrittura come una narrazione forte colla missione dell’onestà – e la convinzione che sia l’illuministica discesa agli inferi della consapevolezza a garantire la qualità del percorso.
Il novecento ha perso queste certezze credo, in tanti contesti: scientifici, espressivi, psicoanalitici. se Maturana e Varela contestano il rapporto oggetto e soggetto nell’osservazione biologica, la psicoanalisi perde la convinzione di una coscienza vs un inconscio e una certa fissità di contenuti, li il mondo diurno qui quello notturno, qui i traumi nascosti, li la realtà distorta. la psicoanalisi ha avuto una svolta ermeneutica per cui la terapia si configura come rinarrazione, ristrutturazione, reinterpretazione di se. L’inconscio emerge dove meno te lo aspetti e dove non pensi che sia. L’inconscio è anche una chiazza di lago nella luce del sole, è lì perchè è incosciente e non sa di se, eppure c’è. E così la narrazione anche per me, si destruttura, si canalizza si rivela autentica quando non è detto che lo sia, quando è distratta sbadata. Una scrittura concentrata che si cala dall’alto verso il basso è un parto dell’io non è un parto dell’es. Lo tocca? Certe volte, certe altre forse no.
Chi sa invece che può fare – una lettera agli amici.
@ Massimo
Ho letto tutto di Dostoevskij e molto su di lui (compreso un saggio-biografico scritto dalla sua seconda moglie), ma in questo momento mi sento lontana, soprattutto da “Memorie del sottosuolo”. Come ha già scritto Enrico, Dostoevskij era un “dopolavorista” e per pagarsi i debiti di gioco allungava, di molto-molto, le pagine. Non tutti i suoi libri entusiasmano, o meglio questo avviene solo a tratti. Straordinari e incomparabili restano Delitto e castigo e i Karamazov.
ciao
Non entro nel merito delle considerazioni psicologiche. Credo però che ogni scrittore, ogni grande scrittore, desideri che la propria scrittura sopravviva a se stesso. Non tutti hanno il coraggio di dirlo, di ammetterlo. Camon sì. E questo gli fa già onore.
Scrivere per coloro che non sono ancora nati…
Non tutti avranno la capacità, la forza, la fortuna di farlo. Ma chiunque ci proverà, con tutto se stesso, con tutte le forze, tutte le energie, si sarà avvicinato meritoriamente a quel tipo di scrittura con la esse maiuscola che serve per produrre libri destinati a rimanere.
Una lettera agli amici può fare tanto, così come un’allegra chiacchierata o una pacca sulla spalla. Ma parliamo di sfere diverse.
@ Massimo
grassormp@tiscali.it
“Delitto e castigo”, secondo me, è l’opera più grande di Dostoevskij. E una delle più grandi in assoluto. Credo che “Il sottosuolo” sia un’opera propedeutica, preparatorie delle grandi citate sopra.
Con questo libro, apparso nel 1864, affiora e si disegna uno spazio innominato della letteratura e dell’anima: il sottosuolo, luogo di tutto ciò che la coscienza tenta vanamente di accantonare.
Questo era d’obbligo scrivere, caro Massimo.
Non bisogna dimenticare che Dostoevskij scrive ciò che ha scritto, nel “sottosuolo”, negli anni Sessanta dell’Ottocento. E a prescindere dal fatto che il libro sia ancora attuale o no, e per me lo è, bisogna riconoscergli il merito di aver avuto capacità preconiche poi sviluppate dalla psicoanalisi e sfociate nel decadentismo.
E se non sbaglio proprio nel 1864 la moglie di Dostoevskij sta morendo di tisi. Questo evento avrà influenzato la scrittura del libro?
@ Miriam: anch’io ho letto la biografia della seconda moglie di Dostoevskij ed è vero che la sua vita privata era costellata, anche da un punto di vista intimo e familiare, da oscurità e toni cupi. Debiti di gioco, scadenze con gli editori ai limiti del possibile, case in affitto e uno strano metodo letterario. Dettava alla moglie che scriveva. Infatti la Dostoevkaia era , prima del matrimonio, la sua segretaria.
Non c’è dubbio che queste vicende e la stessa necessità di scrivere per motivi anche economici abbiano influenzato l’evolversi della sua coscienza e i quadri in cui si muovono i personaggi. Morì osannato ma povero. La seconda moglie spirò nei pressi di Yalta dopo di lui ma trascinata dai medesimi , tristi, eventi: morì di fame.
@ Luigi Fronzino
Grazie per i molteplici interventi.
Fai notare (lo fa anche Rossella) il periodo storico in cui il libro fu scritto e le sue “capacità preconiche poi sviluppate dalla psicoanalisi e sfociate nel decadentismo”. Quindi convieni con Camon che “Ricordi dal sottosuolo” è il libro “più carico di intuizioni psicanalitiche prima di Freud”.
@ Zauberei
Tu sei un’addetta ai lavori, nel senso che ti occupi di psicologia e psicanalisi.
Dando per scontato che la “letteratura dell’inconscio” si sviluppa ampiamente nel Novecento, e che le teorie di Freud, in tal senso, giocano un ruolo fondamentale, ritieni che “il sottosuolo” abbia effettivamente avuto il ruolo di precursore?
@ Miriam e Simona
Ritengo che, in un modo o nell’altro, la vicenda umana, il destino contingente (capitato o fatto capitare) entri nella scrittura o, quantomeno, la influenzi.
Anche nel pezzo di Ferdinando Camon, dopo l’incipit (“Scrivo per vendetta. Non per giustizia, non per santità, non per gloria: ma per vendetta”), spiega il perché di quella vendetta (“Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce”). Ed è un perché legato alla sua vita, alla sua condizione. E alla condizione del contesto sociale in cui viveva.
@ Rossella
Grazie per la precisazione. La mia mail dovresti conoscerla (si trova nella sezione info del sito). Comunque… letteratitudine@gmail.com
Secondo me Massimo si. Ma guarda, molte altre cose di Dostoevskij (lo scriverò ogni volta in maniera diversa:)) C’è anche il fatto che Freud e lui, per strano che possa sembrare avevano lo stesso mondo culturale, lo stesso inconscio condiviso. Uno stesso mondo in cui alle virulenze dell’inconscio corrispondeva un’esistenza di trine e merletti. Oggi il correlativo tra psicoanalisi e letteratura non si giocherebbe più fra questi due estremi, e quanto la letteratura quanto la teorizzazione psicoanalitica si sono scomposte in una serie di rivoli – non ci sono Odissee in giro, nè Divine Commedie, ne Traumbedeutingen, men che mai Simboli della trasformazione, il grande libro con cui Jung si scostò da Freud. Il se si è scomposto in un prisma di ritratti possibili, di strade percorribili, rivoli fatti di piccoli romanzi (alcuni veramente bellissimi – altri godibili) e rivoli fatti di piccole scuole, ricerche dal fiato corto ma dalla parola affidabile. Anche la “Psicoanalisi” non esiste più e si tritata in una molteplicità di sguardi.
Pure, mi ricordo il mio maestro, che mi raccontava una bella storia talmudica – dove una ragazzina va al collegio rabbinico e racconta un sogno, e ogni rabbino dava un’interpretazione diversa. e la morale era, che erano tutte interpretazioni vere. Credo che valga per tutte le narrazioni del se, quelle letterarie e quelle psicoanalitiche.
–
Mi sa che ho sforato. Pardon!
(che ce fa pure rima co’ Ferdinando Camon!)
@ concordo con Ferdinando Camon
Se solo l’uomo potesse scendere nello stagno melmoso dell’inconscio umano e restarci anche solo per un giorno, completamente immerso nelle parole, in quel pensare fatto di pregiudizi, ferocia, animalità, profondo qualunquismo, menefreghismo e quant’altro occorre per vedere che, quando si trova in superficie, è un vero bugiardo, soprattutto per quanto riguarda i suoi connotati cristiani, per non parlare di quelli morali, davvero capirebbe che ha una gran fortuna: galleggia.
Vedo l’uomo che vuole conoscere l’inconscio con quest’immagine: un audace palombaro nella melma con la lampara sulla fronte per illuminare gli abissi; qualche volta decide di fare pulizia mentale e volta le spalle all’inconscio, qualche volta se ne serve nella scrittura o nella pittura e, a parte il povero Vincent Van Gogh e il suo orecchio tagliato come atto di liberazione contro l’insopportabile frastuono dei mali del mondo, c’è un quadro molto significativo di un pittore che si chiama Georg Grosz: l’Ingegner Heartfield , esemplificativa prospettiva cubica contenente una testa crudele con tanto d’apparecchio.
L’esaltazione della malattia. Il quasi bearsi di un malanno fino a vantarsene. L’orgoglio di essere marcio, moribondo, avariato.
Qual è il limite tra la consapevolezza passiva e la lucida accettazione di questa situazione decrepita? O, meglio ancora, non potrebbe essere la malattia e la sua propaganda una difesa contro gli altri? Una barriera per evitare di essere invasi dall’ignoto o dallo sgradevole?
Leggeno l’incipit del “sottosuolo” mi sono venuti in mente quei rapinatori sieropositivi armati di siringa caricata a sangue infetto.
La malattia come arma. Come strumento, forse l’unico, per la sopravvivenza. Perché guarire non si può. Oppure non si vuole, per timore di rientrare tra i “normali”. Laddove, in assenza di “pietas”, vivere è più difficile. Perché sconti e indulgenze non ve ne sono.
Ipotesi, ovviamente, giacchè Dostoevskji è deceduto e pure io non sto del tutto in forma.
🙂
La ricerca dell’integrita’ umana (ovvero del singolo uomo) e dell’integrita’ del blocco nazional-culturale cui egli appartiene e’ – a mio avviso – la scommessa dell’epoca presente. O almeno la mia personale. Fare dei rivoli un fiume e ottenere, cosi’, un mondo normale, fatto di tanti fiumi (Nazioni) che, pero’, a differenza del passato, si passino le proprie peculiarita’ nazionali restando in pace. Scavando nella tradizione, cioe’ in NOI STESSI, in cio’ che crediamo sia pazzesco risuscitare (mandolini? amore reciproco? poesie contadinesche? famiglie patriarcali? SI’!), torneremo ad essere italiani-uomini, mentre ora siamo solamente dei poveracci privi di spina dorsale e forza interiore.
Questo ricomporre ogni uomo, pero’, e’ OGGI possibile – secondo il sottoscritto – solo ricorrendo ad una fede: nell’amore, in Dio, in molti Dei, nella Natura. Panteismo, ilozoismo, mono- o politeismo, filantropismo.
Noi siamo Italiani e queste ”scuole” le abbiamo avute tutte, dunque diamoci da fare a scegliere. Possibilmente eliminando il materialismo e il consumismo, l’egotismo da quattro soldi e la mafiosita’ congenita dal nostro orizzonte. Ecco: eliminiamo la nostra mafiosita’, che faremo un’opera di ”riforma interiore” veramente seria. Seria, dico.
Sergio Sozi
Leggendo le riflessioni sulla malattia come arma “laddove, in assenza di pietas vivere è più difficile”, mi vengono alla mente alcune riflessione di Piergiorgio Odifreddi nel Vangelo secondo la scienza, a proposito dell’India e di Madre Teresa di Calcutta. Forse provocatorie ma con un grande fondo di verità; quel bisogno “culturale” di guardare alla sofferenza come atto di redenzione che ci porta ad una inconsapevole (?) accettazione sociale. “Malattia” che si lenisce ma non si cura.
Mamma mia, come sono monotona, al solito l’intervento di Zaube mi fulminò.
Il caso vuole che le “Memorie” del Dosto abbiano accompagnato gli anni della mia formazione teatrale. Ho un particolare attaccamento nei confronti di quegli sventurati abitanti del sottosuolo. Se da una parte sono d’accordo con Zaube nella sua analisi, dall’altra credo che per Dosto il sottosuolo fosse qualcosa di più che la metafora dell’inconscio. In parte sì, ma solo analizzato a posteriori. Il Dosto al sottosuolo dava anche un valore politico oltre che filosofico. C’è insomma, a mio parere, una volontà precisa di dare alla sofferenza umana una motivazione. La disperazione di quelle pagine diventa un monito, una ragione per gioire della propria esistenza. Non dimentichiamo che Dosto è anche provvisto di una massiccia dose di ironia.
A questo proposito vorrei ricordare la sua straordinaria capacità di rendere credibili e “tridimensionali” i personaggi delle sue opere. Inoltre, importantissimo, Dosto è il vero inventore della figura letteraria dell’antieroe, cosa non da poco.
Insomma, sì, il suo inconscio lavorava a forza di straordinari, ma anche perché supportato da un talento che levati.
Uff, svista, “diventano un monito”.
No, avevo scritto bene, vabbè me so’ rincretinita.
Le riflessioni di Odifreddi sulla pietas ed i suoi risvolti deteriori, hanno colpito anche me, per questo condivido il commento di Miriam Ravasio.
Credo anche che l’impulso a sostenere chi soffre nasca soprattutto dalla connaturata predisposizione a proteggere i componenti di una specie al fine dell’autoconservazione. Legge naturale cui l’uomo non può sottrarsi. Se poi , come in tutte le manifestazioni umane, quello che è un istinto primario ha poi necessità di essere sublimato nelle varie forme dell’ Arte, non potrebbe rientrare in questa categoria anche l’impulso a sublimare la compassione?
In fin dei conti viviamo immersi in un sistema i cui riferimenti ed inferimenti sono filtrati dalle molteplici strutturazioni storiche e culturali.
Se guarire non si può, che sia possibile lenire.
Se guarire si potrà, dalle gravi deformazioni sociali, non ci sarà più bisogno di lenire. Ma sento che è mera utopia.
Devo dire che alcuni interventi mi sono piaciuti molto, tra quelli dopo il mio. In particolare quello della Faustissima, che mi ha spiegato una chiave di lettura a cui non avevo pensato, e molto quello di Gregori che ho trovato molto lucido e molto psicoanalitico ancorchè vicino a delle cose che diceva mia nonna. Voi mi perdonerete se ne parlo ancora, ma le ero molto legata, e se ne è andata da un anno…
Mia nonna leggeva Tolstoj, Guerra e Pace, una volta ogni quattro anni. E’ morta a 92 anni, avrà cominciato sui venti… fateve du’ quiz. Mi diceva sempre che in Tolstoj c’è il tentativo di scrivere un’umanità intera un se ma un altro da sè, mentre in Dostoeskij vi trovava una splendida prosa delle cose fulminanti, ma solo una parte dell’umanità. Una fetta un tipo, il ritratto su un quartiere del mondo. Questa cosa mi sembra vera.
Questa idea dell’inconscio come terra della sozzeria e degli istinti primordiali per cui uno deve guardare il proprio inconscio in modo da prenderne atto, come la descrive Rossella (anche molto bene! era bello il suo intervento!) è molto freudiana molto novecentesca. E molto patologica. Questo inconscio pessimo di cui tutti parlano è l’amplificazione mediatica del pensiero freudiano. Questa cosa, presso gli addetti ai lavori fa sempre sorridere, perchè invece sono cinquant’anni secchi che l’inconscio non è più una cosa pessima da affrontare armati di elmo e spada, ma una parte di se che anche bello incontrare -non per dominarla, ma in un certo senso per permetterle un dominio democratico nell’assetto della personalità. Io trovo che sia molto importante sfatare questo luogo comune, che si adegua felicemente a certi ritratti e stili e modi esistenziali: che è il sottotesto di molte bellissime poesie di Baudleaire (il tipo che la sera si fuma la pipa e vorrebbe invece compiere un assassinio) è il sottotesto del dottor Jakill con Mister Hide, è il sottotesto di quadri diagnostici come la personalità “come se” di Helene Deutsch – di certi assassini efferati che si compiono nelle province, e di certi lottatori meravigliosi e fantastici come Dostoevskij e Camon. Ma non è per niente detto che sia la marca della struttura di personalità inconscia di molti altri. Questo andrebbe a codificare come menzogna qualsiasi gesto etico, qualsiasi gesto amorevole. Che in effetti è un vizio del vecchio freudismo, – per il quale anche l’arte era il risultato di una necessità nevrotica. La sublimazione di impulsi molto più arcaici. Ma non è per niente detto che per tutti sia così. Altri analisti molto importanti hanno interpretato la persona e la produzione letteraria e artistica in altri modi (il freudiano winnicott per esempio)
Buon Sabato a tutti:)
Amo questo libro e quasi tutto quello che ha scritto dal suo autore. Un amore viscerale che riesco a vivere pienamente solo dall’interno. Ci sono situazioni e persone che possono dare godimento solo quando sono massimanente dannose. Portarle alla luce, proiettare su di esse la nostra “luce”, significa ucciderle, vanificarle. Attualizzare quel sottosuolo equivale ad annullarlo e non possiamo macchiarci di un simile gesto, non possiamo “vendicarci”. Io scrivo per esistere, non per uccidere. La malattia, l’altro dallo star bene secondo i canoni dominanti, può essere arma o copertura, ha ragione Enrico. Bisogna invitare, non costringere, ad entrare nel proprio buio. Se proprio nessuno volesse farlo comunque non possiamo rinunciare ad esso. Quella che crediamo essere la nostra luce è solo la fiamma della quale quel buio è stato privato. Più è oscuro e più possiamo iluminarci, ma anche scottarci.
Vi ringrazio per i vostri nuovi, bellissimi, commenti.
–
Insisto sulla necessità di considerare Dostoevskij rispetto all’epoca in cui scriveva.
Pongo un paio di domande.
Siete d’accordo nel considerare Dostoevskij come il precursore del moderno romanzo europeo psicologico e di idee?
Convenite sul fatto che abbia “affiancato” la problematica dell’esistenzialismo kierkegaardiano, precorrendo Freud, indicando nuovi percorsi al romanzo, poi ripresi in direzioni divergenti da autori come Gide e Kafka?
Ngorno Massimo:)
Non conosco Gide, ma secondo me Massimo con Kafka Dostoevskij non ci entra niente. lassa perde la lettera al padre, che è letteraria solo per accidente e per talento, ma Kafka è quasi l’antitesi di Dostoevskij: quello scendeva negli inferi colla coscienza, kafka sale nella coscienza olla simbolica inconscia. Trovo Dostoevskij più vicino a altri filoni. Lo Zeno (pallosissimo) per esempio. La strada di quelli che scendono dall’alto verso il basso, e gli conferiscono la forma con gli occhiali dell’alto. In Dostoevskij non ci si perde mai. Non ci si disorienta, ci si sente pericolosamente sedotti – ma alla fine del delitto c’è la certezza del catigo, e l’ordine razionale ha fin dall’inizio controllato il gioco delle carte. Kafka non mi da questa sensazione, è una simbolica che sta per conto suo, sofferente e stralunata.
A proposito di Dostoevskij e Kafka…
Vi sottopongo due frammenti di testo.
Il primo è di Dostoevskij, tratto proprio dai “Ricordi dal sottosuolo” (ediz. Adelphi, piccola biblioteca n. 356, pag. 15).
Il secondo è il noto incipit de “La metamorfosi” di Kafka (“I racconti”, Bur, pag. 124).
–
Dostoevskij: “Io, non dico malvagio, ma niente son riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto.”
–
Kafka: “Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa, si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto.”
Ciao Zauberei, buongiorno a te.
Io non ho detto che Kafka “segue” Dostoevskij, ma che lo riprende in direzione divergente. A me il confronto tra i due stralci che ho riportato qui sopra ha sempre colpito. Non so se qualcuno se n’è mai accorto. Probabilmente è un caso.
Certo, c’è da dire che la critica più aggiornata tende a rinunciare a una chiave interpretativa universale dei testi di Kafka e preferisce studiarne più analiticamente il significato letterale.
@ Zauberei
Interessantissima la “lettura” – e le valutazioni – di tua nonna sui due grandi russi: Tolstoj e Dostoevskij.
Aggiungo che in Russia l’opera di Dostoevskij ha conosciuto alterne vicende di fortuna, ma sempre all’ombra di una certa diffidenza da parte della cultura ufficiale. Mentre in occidente la sua popolarità e la sua influenza sono stati enormi e, secondo me, continuano in parte ad esserlo ancora oggi.
Un signore russo, che ebbe un certo peso, così scrisse sull’opera di Dostoevskij: “I suoi romanzi son un tremendo pasticcio, un miscuglio di sciovinismo e religione isterica”.
–
Sapete come si chiamava quel signore? Lev Nikolaevic Tolstoj
(C’è pure un bel romanzo do Coetzee che usa Dostoevskij come protagonista… il maestro di Pietroburgo. Ci sarebbe da fa un bel post su Coetzee e le sue meravigliose oscillazioni tra scrittura e critica letteraria)
@ Zau
Prima o poi parleremo anche di Coetzee: grande romanziere, oltre che Premio Nobel.
Promesso:)
@ ZAUBEREI
questo forse esula un po’ dal tema letterario in questione, in quanto è una richiesta di un parere professionale da parte tua.
Di recente leggevo un libro abbastanza interessante dove si parlava di strani comportamenti e delle varie forme di magia inconsce. Per esempio la magia imitativa (inconsciamente) di molti individui: le stesse parole ripetute all’infinito, come se la puntina del giradischi si fosse bloccata, o ancora una specie di pappagallo che imitando qualcuno o ripetendo qualcosa cerca una falsa identità e quel che può derivarne dall’imitazione del modello. E che dire di coloro che sanno aprire la botola dell’inconscio e volontariamente danno ordini all’insaputa e contro la volontà di chi li riceve ?
Faccio l’esempio, per buttarla sul ridere (?), di coloro che vogliono avercelo grande e potente come Rocco Vatteallapesca e lo imitano anche nel suo modo di pensare e di agire … insomma ho come la sensazione che se l’inconscio o il sottosuolo sia il luogo di tutto ciò che la coscienza tenta di accantonare (una specie di mondezzaio) c’è chi ha comunque trovato il modo di compiacersene, cercando così di ottenere potere sugli altri e sugli eventi della sua vita dal momento che non sa far di meglio alla luce del giorno ( ed è su questi motivi che dovrebbe chiedere aiuto alla psicoanalisi ). A riguardo leggevo che gli strizzacevelli non condannano le ossessioni ripetitive della magia imitativa inconscia, ritenendola un lecito sfogo per chi vuole ritrovare fiducia in sé stesso attraverso le caratteristiche o le capacità altrui.
Questa bonarietà però non relaziona in maniera corretta le parti del Tutto, voglio dire che c’è anche chi subisce in superficie le problematiche del sottosuolo.
Per ritornare al discorso letterario personalmente penso che Dostoevskij sia uno scrittore talmente grande che quando lo si legge oltrepassa il tempo e lo spazio, immettendosi in una qualità di scrittura tale che il suo romanzo abbraccia l’uomo nella usa interezza e nel suo destino.
Ti ringrazio per la tua attenzione. Ciao.
@Sergio
ti ho scritto sull’altro post
Che argomento interessante!
In che rapporti sono con Dostoevskij ? Lo adoro e lo trovo ancora attualissimo per quanto riguarda la conoscenza dell’animo umano in tutte le sue sfaccettature… credo che ‘L’Idiota’ sia un capolavoro irragiungibile.
Ciao, Giuse
Camminiamo sul filo ogni giorno, e ogni giorno il filo si assottiglia. C’è una distanza da percorrere ancora prima che si spezzi e si cada tutti insieme, oppure ognuno perderà l’equilibrio da solo?
Sono l’unico ad esser cosciente di questo oppure c’è altra gente come me che mette in dubbio la propria salute mentale? Sono domande che, fortuna, non mi pongo quasi mai, se non quando devo restare a Milano d’estate per lavoro… ma sono le domande che mi tornano, col mal di fegato, quando leggo Dostoevskij. E sopra quel filo che sembra doversi spezzare da trent’anni eppur mi regge ancora assaporo la dolce ebbrezza del restare in equilibrio sopra un mondo che dall’alto conserva tutta la sua bellezza antica.
L’incipit è veramente efficacissimo, uno tra i più forti che mi sia mai capitato di leggere; nel male al fegato (sede della bile, del fiele, di tutto ciò che è amaro nell’esistenza – così è sempre stato nella “medicina” fin dai tempi antichi) c’è già tutto quello che l’uomo del sottosuolo cercherà di sviscerare nelle trenta pagine successive, il dialogo (monologo) col lettore che copre la prima sezione del libro (un po’ prolissa e noiosetta, ma questo è solo il mio parere).
Ma dice bene la nostra Righessa: in questo fiele, questo disprezzo per sé e per gli altri e per il mondo tutto c’è una forte volontà di dare un senso alla propria esistenza, e a mio parere di affermare in qualche modo la propria umanità attraverso la libera scelta individuale, attraverso una qualsiasi (anche in negativo) affermazione di un sé: è come se questo per il protagonista, vero o falso che sia ciò che dice (egli stesso dubita della verità di ciò che afferma e “sospetta di mentire come un calzolaio”), fosse sufficiente o necessario per continuare a vivere. E quindi in fondo per sentire un’appartenenza (all’umanità) anche attraverso il suo spregio.
Non dimentichiamo il forte “senso del peccato” che pervade tutta la sua produzione letteraria, e da qui il senso della sofferenza , non solo mezzo di redenzione che può essere voluta o rifiutata (e qui lo è rifiutando Liza), per libera scelta, ma comunque strumento per dare un significato, anche di semplice castigo, ad una vita.
Il sottosuolo di Dostoevskij pertanto non è a mio parere l’inconscio, ma la malattia: il più che conscio malessere di chi rifiuta una qualche “integrazione” nel mondo circostante, per qualsiasi ragione: per ragioni politiche, etiche o morali, per senso di incapacità o inadeguatezza di fronte al mondo che si trasforma, per semplice paura.
Il sottosuolo è rifiuto, da sempre: anche negli anni più recenti si era affermata una certa “cultura-underground” che era la “cultura-contro” o controcultura.
Forse è sottosuolo anche il manicomio di Eventounico e del suo “Come pagina Bianca” (Evento: ti lancio questa palla, se la vuoi raccogliere), anche se lì la voglia di redenzione c’è, e forte, attraverso la ricerca delle parole e con esse il senso della vita.
Stimolante il paragone che suggerisce Massimo: l’uomo del sottosuolo di D. e il Grigor Samsa di K.
Ci debbo pensare ancora sopra, ma di primo acchito direi che nel suo pieno rifiuto nichilista ed apparente disprezzo di sé, in qualsiasi forma possibile, con l’eroe di D. siamo in pieno romanticismo-decadente. Con la visionaria metamorfosi Kafkiana siamo già nell’epoca moderna: il suo eroe si sveglia e si accorge del cambiamento, in qualche modo ne prenderà atto, ma non rinuncerà mai a sentirsi umano, anche se in forma di insetto, anche di fronte all’orrore ed al rifiuto dei suoi familiari che infatti saluteranno la sua morte con sollievo per la riconquistata “normalità”.
Per questo in fondo amo di più Kafka.
Camon è un grande scrittore e Dostoevskij ineguagliabile.
Mi permetto di dire che Camon nel testo per “Liberation” del 1985 è molto Camusiano nella spiegazione del motivo della sua Scrittura.
Anch’io sono Camusiano e Dostoevskiano in egual misura nei miei testi e anche se molto giovane so che questo senso di appartenenza plasma. La Necessità dello Scrivere per dare voce a quelli che non possono e soprattutto il continuo indagare delle pieghe dell’animo umano. Mancano gli scrittori in Italia che si occupano in modo serio di questo, la letteratura ha assunto un ruolo “borghese” a tutti gli effetti e i romanzi sono diventati puntate di “Uomini e Donne”. Mi si lasci passare questa provocazione: so bene che è una forzatura ma bazzicando la letteratura, conosco praticamente tutti i massimi esponenti in italia, non riscontro nè ricerca, nè “senso sociale”, solo belle parole sterili e tante reciproche pacche sulle spalle. Ovvio che non è così per tutti. Mi auguro possiate leggere presto il mio piccolo romanzo o quelli della mia “confraternita” per capire ciò che intendo. Io i romanzi di Camon li ho letti e li ho amati. Quelli di Dostoevskij e Camus sono il mio tempio. ugo sette
@ Massimo.
Sì Massimo. Credo che la produzione di Dostoevskij abbia influenzato successivamente l’idea stessa del romanzo come struttura aperta, verticale e orizzontale, in seno alla quale si muove un uomo complesso, inquieto, la cui oscurità convive con la luce.
La sua stessa visione religiosa, pur così potente, non era priva di incertezze, di riflessioni, di riletture anche ardite. Basti pensare alla famosa affermazione che mi ha sempre colpita e affascinata, quella in cui diceva ” se la verità fosse cosa diversa da Gesù, sceglierei comunque Gesù” (frase per la quale si è detto che Dostoevskij è il più cristiano degli scrittori anche se il meno cattolico).
E’ segno di un animo che non tace sulle zone d’ombra ma vi affonda, le scruta ed è abituato – anche per vicende personali – a considerarle ineludibile intreccio del bene. Necessario controcanto.
Anche nell’indagine dell’origine del male c’è modernità sconcertante. Un approccio che è precursore delle moderne ipotesi psicologiche , per esempio , della Gestalt oltre che di quelle più risalenti collegabili a Freud.
La novità consiste non tanto nella contemporanea presenza nel cuore umano di due opposte valenze (positiva e negativa) quanto nella coscienza – modernissima – che l’uomo ha della sua condizione.
Satov, uno dei personaggi de ” I demoni”non ha la fede ma vorrebbe averla. Nel suo grido disperato c’è una lucidità altissima della mancanza di Dio. E del male che genera.
E non mi sembra azzarato neanche il parallelo con l’incipit della “metamorfosi ” di Kafka. Non per l’uso comune della parola “insetto”, che pure colpisce, quanto perchè quell’essere insetto coincide con le parti di noi che non affiorano e che – tuttavia – vegliano , latenti, nel nostro personale sottosuolo.
Carlo ti ringrazio per il “gancio”, ma ti sarà evidente evidente che sarebbe fuori luogo raccogliere. Posso però dirti che sento più vicino Kafka. Ciò nonostante la sua lucida consapevolezza porti troppa luce nel sottosuolo e quindi lo privi di ogni dimensione privata. E’ un modo pubblico, quasi televisivo, di vivere la diversità. Un modo di negarne l’esistenza proprio mentre la si afferma.L’insetto è quanto di più distante dall’essere umano. Eppure i suoi pensieri, il suo modo di sentire la diversità, la sua sofferenza lo fanno vivere dentro di noi con una sostenibile repulsione.
Per rossella:
Rossella siccome mi sembrava che andassimo troppo off topic ho messo la mia risposta al tuo post nella pagina “voi siete qui”, che mi sembra un analogo molto carino della camera accanto.
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/02/16/voi-siete-qui/#comment-23789
le tematiche affrontate ,da dostoevskij a camon,a kafka a freud, sono tutte interessanti,e tutte attraversate da un filo conduttore capace di condurci a grandi verita’.la malattia,la diversita’,il disagio esistenziale,come condizioni temute e desiderate,coltivate in se’,meditate e raccontate al mondo,cosa sono se nn la coscienza della condizione e dell’esperienza umana di cui gli scrittori sono testimoni per elezione.in un suo saggio freud esprimeva parole di ammirazione per come Jansen analizzava in un suo libro il sogno del protagonista,ritendendolo esatto secondo le sue teorie psicanalitiche pur venendo da persona non addetta ai lavori.
Lo scrittore dunque,e’ colui che dialoga senza mediazioni dottrinali,ma per la profondita’ del suo pensiero interiorizzato,con l’inconscio ,proprio,ma anche collettivo,per citare Jung,ed e’ questo il valore universale e atemporale della letteratura .
per questo noi ci riconosciamo in essi,al di la’ di tutte le barriere spazio temporali.
La malattia e’ un segnale delll’inconscio,un pensiero represso che ritorna e si vendica in forma di affezione sul corpo fisico,di punizione,di espiazione,di vergogna ,di senso di colpa,che si svela e ci scuote per liberarci ,se sappiamo smascherarla e accettarla come segno della nostra umanità.
Ma per Camon addirittura l’uomo E’ UNA MALATTIA,quella malattia chiamata uomo,di cui dobbiamo sperare tutti di essere affetti,altrimenti sarebbe solo svolazzare di trine,come dice zauberei,nn sangue,non urla,nn passioni e paure,non coraggio della propria fragilita’,non testimonianza universale di disperazione,di fede,di amore.
Negli ultimi giorni di vita gli amici che andavano a trovare Fabrizio de Andre’ gli dicevano,per dargli coraggio,di combattere perche’ sarebbe guarito,e lui che sapeva come avrebbe finito di soffrire,rispondeva:’si,lo so che guariro’ da questa bellissima malattia che si chiama vita’.
Scusatemi se vado sul personale un attimo:
Rossella, ti ho appena risposto sulla ”Letteratura della follia”, se vuoi vai la’.
Grazie
Ciao
Sergio
Caro Ugo Sette,
sono sostanzialmente d’accordo con Lei sulla condizione penosa del romanzo italiano e degli scrittori del nostro Paese. Le eccezioni sono da ricercare col lanternino. Parola di chi guarda con occhio critico e non trova corrispettivi viventi di grandezza pari a quella di stranieri viventi. Eccetto eccezioni – ma sono persone di altra generazione: Tabucchi, Camon, Vassalli. Solo Diego Marani fra gli ultraquarantenni mi sembra abbia scritto un testo veramente eccellente: ”Nuova grammatica finlandese”, romanzo ottimo e comparabile con i buoni libri stranieri.
Saluti
Sergio Sozi
P.S.
Il resto non e’ fatto neanche da ”belle parole” come dice lei: brutte parole e miseria generalizzata che si vede, trapela anche dalle righe, mi creda.
@ Zauberei
Ti ringrazio per l’esauriente risposta su “voi siete qui”.
E’ mio dovere comunque precisarti che la definizione “molto patologica” riguardo la sottoscritta e la sua posizione pro analisi froidiana non è stata focalizzata in maniera corretta. Necessita quindi fare un’estirpazione di idee sbagliate.
Non ho mai lavorato né ho mai condiviso il sacchetto d’immondizia libidinoso che alla fine piacque tanto al dr. Froid, e non so chi l’ ha fatto con altrettanta compiacenza e interesse…
Sono una perfetta incompetente nel campo della psicoanalisi, mentre nella morale e nelle sue logiche spesso ho trovato eccelsi numi raziocinanti; proprio come dice Ferdinando Camon, per me ogni esperienza è utile per ricondurla al settore che m’interessa maggiormente, ovvero la pittura.
Che viviamo in un tempo di grande confusione dove in molti pensano di avere le competenze necessarie per giudicare e gestire cose che neppure conoscono è pur vero, compreso il sottosuolo: nei fatti ignorano Socrate ed il suo conosci te stesso, con le parole sbandierano teorie di autocoscienza e di saper fare. Basta vedere dove è arrivata la società e quanta immondizia c’è in Campania. Stop.
Ciao
Rossella
@Zauberei
vedi che ho anche sbagliato il cognome del Sig. Freud!!!!!!
Zaube, ti ringrazio pubblicamente per il bellissimo intervento, mamma mia, hai visto che gente?
Baci
fausta
Scusate l’ot
Un saluto e un ringraziamento a Carlo S., M.G., Eventounico.
Un benvenuto a Ugo Sette (che “incrocio” per la prima volta).
@ Simona
Ti ringrazio per il tuo commento. Sono lieto che tu non abbia trovato l’accostamento con Kafka troppo peregrino.
In verità, ripeto, quando lessi quel passaggio de “Il sottosuolo” pensai subito a “La metamorfosi”.
Pensai: ecco, l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij non riesce a diventare nulla, nemmeno insetto; il Samsa di Kakfa, invece, diventa insetto (ci si ritrova trasformato).
Vorrà dire qualcosa? C’è qualche attinenza (pur nella diversità dei due soggetti)?
Aggiungo che Dostoevskij ha giocato un ruolo importante nello sviluppo del cosiddetto “tema del doppio” nel romanzo moderno (mi riferisco in particolare a “Il sosia”), con enormi ripercussioni nella letteratura occidentale. Basti pensare a Stevenson, a Wilde, a Pirandello, allo stesso Kafka (dicotomia uomo/insetto).
Vi riporto i titoli delle opere in tal senso più significative e le date di pubblicazione.
“Il sosia” (1846) di Dostoevskij, “Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde” (1886) di Stevenson, “Il ritratto di Dorian Gray” (1891) di Wilde, “Il fu Mattia Pascal” (1904) di Pirandello, “La Metamorfosi” (1916) di Kafka.
Sempre più intrigato tra il Dostoevskij “nemmeno insetto” e il Kafka che un bel dì ci si sveglia (e sperando di non dire scempiaggini quali quelle da me dette ieri: ho provato a rileggermi ma in fondo non mi sono capito neppure io).
Dost. nel suo sottosuolo alla fine non si riconosce in nulla perchè ha provato ad essere tutto e non vi è riuscito. Ha provato ad essere eroe ed antieroe, degno e indegno, pietoso e cinico, ma alla fine non trova mai il coraggio di operare una scelta e ritiratosi nel suo sottosuolo trova una ragine d’essere solo nel rimuginare sui moti della sua psiche e di scriverli, confessarli al lettore e consegnare a lui il senso del suo rifiuto totale.
Kafka si sveglia e pluf! è già insetto e non si sa il perchè e il percome. La sua psiche ha già rimuginato (si sveglia da un incubo, ma non ci dice quale): non ci sono scelte da fare; c’è una realtà che è assurda, ma è vera, è lì fuori. C’è la volontà di descriverla, di registrarla, narrarla, ma senza elaborazioni: quelle nella mente dello scrittore sono già state fatte; resta al lettore fare le sue (decifrando i suoi simboli, come suggerisce Zaube ?)
@ Carlo S.
L’immagine della bratta o del roditore che le grandi anime combattono è sempre molto interessante. Ricordo Giorgio Gaber che in suo libro, con l’ironia che gli era propria e da raffinato intellettuale che tutti conosciamo, raccontava la lotta ingaggiata con il “grigio”, un fastidioso topo con il quale si relazionava e che cercò di combattere con mille trovate.
Al di là di tutto questo Dostoevskij, hai detto molto bene nel primo intervento, ha una visione di sè stesso e della sua malattia come mezzo per cambiare in meglio, quindi, alla fine le sue pagine descrivono uomini cose e situazioni con l’intento di rinascere interiormente.
Ciao
@ F. M.Rigo
Da quel che mi sembra di capire lei, signora Rigo, continua a omaggiare la psicoanalisi. Avrà i suoi buoni motivi.
Ma Io ho i miei che, non disdegnando affatto la psicoanalisi, ritengono che la verticale parte dall’alto e non dal basso. Ne consegue che non condivido la tesi dell’inconscio prioritario alla coscienza, parola ben diversa dalla consapevolezza; da questa radicale diversità di pensiero e di comportamenti (che è sostanzialmente un fatto religioso oltre che etico) ritengo sia civile non giudicarsi male a vicenda. Tantomeno con la sufficienza intellettuale propria di chi non conosce il suo prossimo e che siede su troni di quella intolleranza che lei tanto combatte.
La ringrazio.
Certo Carlo. Atrimenti perchè Eco avrebbe parlato del testo come di una “macchina pigra”. Il lettore deve fare la sua parte. Un testo, qualunque testo, vuole qualcuno che lo aiuti a “funzionare”, ad acquisire senso oppure no. Un testo è sempre una offerta di libertà.
L’uomo che parla dal sottosuolo è il primo uomo “vuoto”, probabilmente solo un lontano progenitore di Svidrigajlov e Stavrogin.
Freud, di quell’universo tenebroso e convulso, non prenderà per la sua “interpretazione” che piccoli frammenti vulgarizzando quell’uomo nei personaggi della vita comune, a mio parere, sbagliando perchè il mistero, se illuminato, può rivelarsi una grande delusione.
Infine su Kafka, condivido la visione di Massimo, ma non credo si possa parlare di dicotomia.
E’ proprio dall’unione di uomo e insetto, dall’essere due in uno senza mai poter essere solo l’uno o solo l’altro, che nasce il terrore, sia pure in una forma addomesticata, moderna, in fondo non troppo lontana da quella teorizzata da Kurtz.
@Maugeri: comunicazione di servizio.
Il post “dell’ironia” sopravvive stranamente, sembra il “nocciolo duro” di Chernobyl: la mal’erba eh?
Ho letto il libro di cui si parla molti anni fa, e la cosa che effettivamente mi ha colpito era la modernità, quasi contemporaneità rispetto alla mia epoca, del tema.
Un uomo roso dal senso di inadeguatezza che imbastisce un rapporto conflittuale e distruttivo con la realtà cirocostante.
Quando si parla del potere evocativo e profetico dei narratori questo dovrebbe essere citato come un esempio classico.
Del resto forse la stessa pulsione alla scrittura di un mondo inventato, e quindi alla ri-scrittura , della vita e delle regole è l’istinto che guida nove volte su dieci le persone a scrivere.
A questo punto mi sembrerebbe opportuno spostare il dibattito da un defunto dostoevskij a un autore vivente(visto che abbiamo la fortuna) come Camon.una volta che lo stesso ha chiarito quale significato attribuire all’immagine,o metafora,del sottosuolo,mi sembra di aver colto in questa sottolineatura, in quale direzione ilnostro illustre tutor vorrebbe condurre il dibattito.mi sembra che finora lo abbiamo solo sfiorato,spesso addirittura ignorato.
Se ho capito bene il compito di uno scrittore e’ portare alla luce la sua parte in ombra o inconscio.mi chiedo se in questo lei trova una funzione terapeutica,psicopedagogica,antinevrotica,letteraria o cosa?
e poi vorrei sapere se i lunghi anni di analisi raccontati nel suo libro ‘la malattia…’sono stati utili e quanto a poter accettare o interagire o sconfiggere le sue nevrosi,le fobie,i complessi rimossi,ecc.
infine in che modo,secondo Lei,l’uomo dovrebbe affrontare il suo male oscuro?.
Mi farebbe veramente piacere avere una Sua risposta.La ringrazio in ogni caso.
Condivido e rilancio tutte le domande di M.G. con un forte coinvolgimento personale.
brava mg:)))
condivido m.g. a prescindere anche se non ho capito nulla
🙂
Considero gli interventi di questo forum molto interessanti, ma, nello stesso tempo, percepisco in essi una certa forma di soggezione, di pudore, una indecisione (sarà forse soltanto quel che io provo) che impediscono il ravvivarsi della discussione.
Dostoevskij è uno degli autori che amo maggiormente. Talvolta ho fantasticato di imparare il russo per il solo motivo di poter leggere le sue opere in lingua originale. Quando avevo più o meno venticinque anni, durante un mio periodo particolarmente fragile e faticoso, venni terrorizzato dalle pagine di “Memorie dal sottosuolo”. Più tardi, leggendo “Delitto e castigo”, una notte sognai di essere Raskolnikov…
A proposito del “Sottosuolo”, avevo pensato di scrivere d’un territorio nascosto da purificare da repressioni e accumuli, da comportamenti automatici e inconsapevoli, da atti incompiuti, sofferenze non elaborate, ecc. E a quel territorio, come per una pianta, donare nutrimento e oscurità per le vivificanti radici, percepirne di esse il fremito suggestivo, la vitalità, evitando di respingerle, di ignorarle, di sezionarle analiticamente, di portarle all’esterno e inondarle di luminosità razionale, rischiando in tal modo di uccidere le radici e l’intero organismo. Ma poi ho pensato: anche questa è un’immagine che frantuma l’esistenza in alto e basso, luce e ombra – un altro modo di spezzare l’incanto.
Ho appena concluso la lettura di “Un altare per la madre”. Mi rimane addosso il fascino di un raro momento di osservazione muta, di gratitudine e amore.
Buona serata,
Gaetano
Un saluto e un ringraziamento a Outworks e a Subhaga Gaetano Failla per il loro commenti.
Un ringraziamento a m.g. per la domanda.
Ne segue una mia.
Gentile dr. Camon,
nel suo articolo “Perché scrivo”, del 1985, lei sottolinea quanto segue: “sempre, dall’inizio fino ad oggi, la prima reazione che incontro è il rifiuto, la condanna, la censura. Ho scritto su molti giornali italiani, e dappertutto sono stato censurato.”
È cambiato qualcosa in questi 23 anni? Oppure, ancora oggi, la prima reazione che incontra è il rifiuto?
Letteratura e psa sono sorelle, usano le parole, e le stesse parole, per lo stesso scopo. Primo Levi aveva il trauma di Auschwitz, io gli chiedevo: “Scrivere le è servito? Scrivere l’ha liberato?”. Mi rispondeva: “Mi ha liberato, sì. Scrivere è stato per me terapeutico”. Un problema in psa lo dici infinite volte, lo ripeti sempre, finché un giorno ti càpita di dirlo in maniera non più perfettibile: non potrai mai dirlo meglio, quella è la sua forma definitiva. Allora smetti di dirlo, e quello smette di essere un problema. Ma questo quoziente terapeutico (la non ulteriore perfettibilità) è il suo quoziente estetico: un racconto e una poesia la riscrivi finché capisci che non potrai mai scriverlo meglio. Io non sono d’accordo con coloro che temono uno scarso potere della psa, io ho constatato il troppo potere. Il problema non è come e perché continuare la psa, il problema è come smetterla: non puoi più vivere senza di essa.
(Per Levi, cfr. il libricino “Conversazione con Primo Levi”; per gli altri concetti, cfr. “La malattia chiamata uomo”, libro al momento introvabile, ma fra un mese verrà venduto in allegato a un quotidiano). A m.g. dico: “La malattia chiamata uomo” è la psa di un uomo, la psa di una donna sta nella “Donna dei fili”, che nelle ultime edizioni (tascabili) porta in appendice un intero quaderno, scritto dalla professoressa che si è riconosciuta come protagonista, e che solleva proprio queste questioni. FC
Per Massimo Maugeri.
Sta accadendo una cosa molto strana, alla quale non ero preparato. Ma credo che accada a tutti gli scrittori. L’ha esposta molto bene Arbasino, in un suo pensiero. Lo modifico un po’, adattandomelo: Uno scrittore trentacinquenne alla prima opera è una valida promessa; alla seconda, sui quarant’anni, è una mancata conferma; dai cinquanta ai sessanta è il solito stronzo; dai settanta in poi è un venerato maestro. Non è che coloro che non erano convinti alla tua seconda-terza opera poi si convincano; è che quando tu giungi alla tua sesta, settima, ottava opera, loro non contano più nulla. In un certo senso, quando cominci a scrivere, non devi scrivere per coloro che ti circondano, ma per coloro che gli succederanno. Se hai dei figli, non devi scrivere per loro che ti circondano, che ti parlano, che gli parli, ma per quelli che saranno e per come saranno di lì a trent’anni. Io vorrei tanto, oggi, parlare con Pasolini e con Fortini, fargli capire che in certi giudizi avevano torto; ma purtroppo non ci sono più; io ho ragione, ma non glielo posso dimostrare; e i nuovi lettori, per i quali ho ragione, non sanno niente delle vecchie polemiche, nelle quali avevo torto. A chi scrive, come a tutti i viventi, la Storia presenta dei problemi, ma ha uno strano modo di chiudere quei problemi: presentando altri problemi.
Ferdinando Camon
Io questa cosa del quoziente estetico, me la prendo come un regaletto e me la porto appresso a vita, io che appunto sto dalla parte di quelli psi, psi col palino della scrittura. E perciò, La ringrazio davvero.
Per Ferdinando Camon.
La ringrazio davvero tanto per entrambe le risposte.
ringrazio il dottor Camon per la risposta,cortese e chiarissima,com’e sempre stato nel suo stile.Le sue parole semplici,il suo tono pacato sono indici di una profonda onesta’ intellettuale,ancor piu’ ammirevole in una societa’ dove personalita’ di poco livello si fanno scudo del consenso a qualsiasi prezzo morale.egli e’ sempre uguale negli anni,cio’ conferma la sua coerenza morale e artistica.la verita’ di un talento senza tempo,che il tempo ignora e domina.Mi sento di segnalare all’attenzione di tutti i blogghisti un’altra verita che da quelle parole trapela:il potere straordinario della parola.Se ne prendiamo coscienza sapremo usarla sempre per la giustizia,per un fine etico,di pietà ,rispetto, onestà,di autoanalisi,per vendicare gli ultimi che di quel potere nn sono depositari.dappertutto,anche in questo infinitamente piccolo microcosmo di letteratitudine vedo purtroppo che tale funzione spesso sfugge.grazie per questa grande lezione.
a zaub
ti consiglio,visti i tuoi interessi,la lettura del libro’la malattia chiamata uomo e ‘la donna dei fili’.
non ne puoi prescindere,credimi,in tutta onestà diventera’ una testa di ponte della tua formazione,da tutti i punti di vista.baci.
@ Interessante Ferdinando Camon,
quando scrive di quoziente estetico.
Solo che psa chiede a letteratura o letteratura chiede a psa quando lo scrittore è diventato scrittore; nella risposta ogni sorella prende autonomamente la sua strada, significandone lo scopo artistico.
Forse è successo in momenti inaspettati, seduto pigramente in poltrona, mentre camminava per strada e guardava invano una giornata uggiosa, Gesualdo Bufalino, ad esempio, raccontò ironicamente che quando andava a letto, siccome soffriva d’insonnia, metteva una pila di libri sul comodino in modo tale che anche la notte servisse a qualcosa, mostruose riflessioni a parte.
Forse. O forse lo scrittore nacque col talento della scrittura, avvalendosi di notti e giorni insonni, metabolizzando, procedimento necessario come primaria esigenza di dare la forma.
Grazie.
“Scrivere come un cane che scava la sua buca, un topo che si prepara la tana. E, per questo, trovare il proprio punto di sottosviluppo, il proprio dialetto, il proprio terzo mondo, il proprio deserto” (Deleuze-Guattari).
Vorrei parlare di coraggio, poiché scrivere presuppone questa forza imponderabile, figlia medesima della fragilità. Uno scrittore lo sa: non può, non riesce, non deve sottrarsi alle variabili dell’eccesso e dal proprio destino.
Siamo midolli impauriti per semplice umano esistere. Ma credo ed auspico che si viva in un incerto gemmato di fede. Come, del resto, il fegatoso personaggio del Sottosuolo. Autentica meraviglia di autenticità.
Scrittura è autenticità, soprattutto esclamazione dell’irrisolto. Dostoevskij ha rappresentato questo e ben altro, oltre che Melancolia. Lasciamo stare Freud, psicanalisi: viviamo tutti un’esistenza “incattivita”, che non vuol dire essere cattivi… Ma là fuori c’è la realtà, che poi entra in noi, territorio dove questa realtà s’impone. Noi la contrastiamo, la decontestualizziamo, la trasformiamo, la ricreiamo attraverso il processo della creazione. Se ci serve rabbia, depressione, “vendetta” come atto di giustizia nei confronti della Storia, quella dei lager e delle deportazioni, quella dei derelitti e dei regimi, le dobbiamo usare e trasmutare.
Ringrazio infinitamente Ferdinando Camon perché credo ce l’abbia fatta, e con molto, profondissimo dolore. A Lei va tutta la mia stima e gratitudine; a me – l’umanità del suo cuore, la grandezza della sua scrittura.
Continui a disvelare, prima sospeso nelle retrovie dell’andare, palpitando un’inquietudine di viole, poi nello slancio desideroso che la porterà… Me lo dica Lei, un giorno dove la porterà il suo andare.
Che dire di me?
“Sono un cane dalla cavità cranica superiore alla media. Un cane eccentrico che usa sostantivi e aggettivi per fare di se stesso scrittura e arte. Sono il cane delle torbiere allevato dall’uomo delle palafitte.
Tra il moderno e il neolitico scelgo la familiarità, il condizionamento, l’estimazione sociale, il contrasto tra due forze antagoniste. Orino e sbavo come il cane che tende alle campane.
Qui banchettano le mie nevrosi”.
Un abbraccio affettuoso a Massimo Maugeri e a tutti voi.
Nina Maroccolo
Il cane melanconico esiste.
Sicuramente esiste, Nina, per passare di qui a quell’ora lasciando simili parole. Ripasserà ?
Caro eventounico,
sono già qui… Cosa intendi per “simili parole”?
Un abbraccio.
Piccolo appello:
non è facile per me inserirmi nei blog; e quando mi esprimo molti restano perplessi, mi dicono che scrivo “difficile”, che ho la spocchia da intellettuale e cose varie… Non ci resto molto bene, mi esprimo per come sono: una passionale che prende a cuore determinate situazioni, che ha il “vizio” della letteratura, della poesia, dell’arte.
Nessuna spocchia. Parto di penna e di pensiero annidato nel cuore.
Ogni miocardio ha qualcosa da dire, non è solo un fisiologico alternarsi tra diastole e sistole.
Per me la scrittura è irrinunciabile, la vivo tutti i giorni, ci lavoro, ne piango, ne gioisco. Con lei viaggio nel mondo, nell’etimo.
Ha un senso nel momento in cui la condivido, perché l’altro da me debba esserne il fruitore privilegiato.
Sono contenta di aver conosciuto Letteratitudine.
Ma perché gli altri non rispondono?
Io ci sono. Umilmente…
Un caro abbraccio,
Nina.
Nina, quello era solo il mio goffo modo di scodinzolare al tuo arrivo ed alle tue belle ed intense parole
nina cara li blog trionfano di solito quando non dovrebbero – ovvero in orario di ufficio, ma io che cazzeggio sempre rispondo subito al tuo accorato appello! benvenuta! Spero che non ti angosci ma io nell’etimo ci viaggio solo alcuni giorni a settimana, secondo come me gira – non è una battuta eh… per il resto ci viaggio fora, dall’etimo. Ma siccome questo è un blog di passioni scribacchine c’è posto per tutte le gradazioni di follia per cui nun te preoccupà – quand’anche dovessi metterti a snocciolà tutto il lexicon della treccani a partì da “abate”. Nun ze scompone nessuno.
🙂
@ eventounico
@zauberei
Carissimi, intanto grazie…
Eventounico, in effetti mi si erano abbassate un po’ le orecchie, coda fra le gambe, e mugolavo canina. Ma ora ho la lingua di fuori e scodinzolo con te!
Zauberei, mi fa piacere incontrarti… Strano che non commenti la lettera che ho scritto a Camon, e a tutti voi!
Dai, viaggiamo nell’etimo insieme!!!
@Nina Maroccolo
Mi ha colpito felicemente la tua lettera soprattutto nell’aspetto visionario. Commentarla risulta difficile per un paio di motivi: il primo, le visioni si contemplano, con il ragionamento si distruggono. Il secondo motivo è relativo ad alcuni significati da esplicitare, per evitare una discussione densa d’equivoci. Faccio solo qualche esempio, non posso adesso indicare tutti i significati che andrebbero chiariti: lo scrittore, secondo te, “non deve sottrarsi alle variabili dell’eccesso e dal proprio destino”. Cosa intendi per “variabili dell’eccesso”? E destino? Intendi il destino nell’accezione, da me condivisa, di Hillman nel libro “Il codice dell’anima”? In tale accezione, il “daimon”, il demone, che ciascuno di noi riceve prima della nascita, ci aiuta, come compagno, secondo il mito di Er raccontato da Platone, “a prendere certe vie”. “Perchè è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi.”
Mi ha colpito anche il tuo riferimento al senso di giustizia della scrittura come “vendetta” da usare e trasmutare. Mi aveva un po’ inquietato, nelle frasi di Camon, e anche in quelle di una o due e-mail successive, questa immagine della scrittura come “vendetta” per riscattare i vinti, gli ultimi.
Il tuo riferimento alla trasmutazione mi sembra importante. I fini non giustificano i mezzi; i mezzi trasformano i fini, o meglio, i mezzi sono già i fini. “Tutta la via al Paradiso/ è Paradiso.” (Caterina da Siena, citata da R. D. Laing in “I fatti della vita”).
Un abbraccio,
Gaetano
Caro Subhaga,
grazie per la tua lettera intensa. Tu che ami Hillman non potevi non intuire la mia identica natura hillmaniana… Sì, l’accezione di “destino” si riferisce in parte al “daimon”, in parte al concetto buddhista di “karma” cui, ineluttabilmente, non possiamo sottrarci. Possiamo chiamare questa componente, nel caso che guidi colui che opera nell’arte, “vocazione”. L’idea di destino, per me, è molto lontana, lontanissima dal fattore “sorte” o “fato”: entrambi non si possono ammaestrare, invece il daimon ci chiama, prima o poi si fa sentire con tutta la sua forza e ci induce a ritrovare in noi la piccola ghianda. Il cuore delle cose, della creatività, dell’universo.
Molto più complesso è il karma: modificare i nostri stati negativi impegna a un rigore, una disciplina che va oltre questa stessa esistenza e quelle passate. Sempre che si creda nel principio della reincarnazione.
“Le variabili dell’eccesso”. Quando l’ho scritto pensavo ai cani, che vivono queste variabili “emotive” senza spiegarsele. Noi esseri umani siamo dotati della ragione: malgrado ciò, spesso non sappiamo motivare gli eccessi dell’emotività, i risvolti psicologici improvvisi, fulminei; di scatti, di idee; del profondo. L’irrisolto, l’imprevisto sovrastano, talvolta sconvolgono… ecco, io mi lascio andare, senza sottrarmi, anche quando so – in tema di scrittura – che con molta probabilità finirò in qualche “sottosuolo”, in qualche luogo “infero” (sempre per citare Hillman con il suo straordinario libro “Il sogno e il mondo infero”), insomma in zone vietate, pericolose, fatte di melma e poltiglia.
Ho scelto di infrangermi, qualora ve ne sia bisogno per arrivare a rendere etico, autentico, il mio percorso artistico – che poi è anche quello umano-esistenziale.
Tutto questo non mi lascia immune, ma appesantita da molta prostrazione e fatica.
Ma siccome la scrittura impone anche una responsabilità, quando si affrontano temi legati alla Storia bisogna agire con cautela. Questo vale anche per le storie che riescono a parlare di noi tutti.
Beh, io ci provo. La scrittura in noi sorge per dirigersi verso gli altri.
Credo profondamente, in ultimo, all’idea di trasmutazione. Questo momento storico è talmente labile che ne ha profondamente bisogno. Ma intanto partiamo da noi stessi: è già qualcosa se ci riusciamo.
Caro Gaetano ti dedico questa mia poesia. Un abbraccio affettuoso.
Avi
mi assiepò
l’abdicare dei predecessori
–notturnò l’uovo
e mi fui ignota–
allora conferii col divino
mentre giungevo
per circonferenza e seme–
atomi d’alabastro li intesi piume
mi fui doglia la intesi bellica
sgusciai dove tardano le stelle:
«Nell’ignoto
diverrai viva. Egualmente morta
migliorerai piangendo.»
–tremulo Phosphòrus
nell’inverno d’una capinera
@subhaga
purtroppo la poesia non è costruita così… ha spazi, silenzi, interruzioni che riportati qui non sono stati rispettati. che rabbia! devo essere io inadatta… comunque si intitola “Avi”.
spero di risentirti presto,
‘notte
Grazie di cuore Nina. Buonanotte,
Subhaga
@PERDONATEMI SE INVADO QUESTO SPAZIO
Chiedo scusa a Ferdinando Camon e Massimo Maugeri. Devo lanciare un appello sulla nuova ondata di violenza e uccisioni in Tibet. La questione asiatica sta diventando sempre più terribile, non è bastata neanche la Birmania (che ha secoli di storia terribile… quanto il Tibet).
In Tibet i monaci si stanno tagliando le vene, fanno atti di autolesionismo, alcuni vogliono suicidarsi. Per chi conosce il buddhismo tibetano, questo atto per un monaco è inamissibile. Comporta una deviazione dai precetti del Dharma. Ma vi rendete conto cosa arrivano a fare?
A Lhasa la polizia cinese ha caricato anche i civili. La polizia sta arginando i tre monasteri più grandi e importanti di questa regione tormentata. Bisogna fare qualcosa. Lanciamo un appello, Pechino va boicottata, le Olimpiadi vanno boicottate, la Cina va fermata: sta portando avanti – moralmente – il genocidio nel Darfur vendendo armi ai miliziani sudanesi.
Vi sto chiedendo aiuto. Si può intentare una raccolta firme?
Legarci alle iniziative di Amnesty International, non so…
Mi appello a tutti gli scrittori di Letteratitudine, critici letterari, semplici lettori. A voi tutti.
Questo è un altro modo per fare della scrittura e della Letteratura un “mezzo” etico, di denuncia, di azione civile per reclamare i diritti umani e richiamarci ai doveri semplici di cittadini del mondo.
NINA MAROCCOLO