Sono molto felice di aprire una nuova pagina dedicata a “BABELIT”, lo spazio di Letteratitudine destinato all’incontro con autori non italiani e a dibattiti plurilingue. Nella fattispecie avremo modo di cimentarci in una discussione in lingua italiana e in lingua inglese con il coinvolgimento di scrittori e artisti irlandesi: prima fra tutti, la scrittrice Catherine Dunne (in Italia pubblicata da Guanda).
Ciò sarà possibile soprattutto grazie alla preziosa collaborazione di Barbara Gozzi, e Federica Sgaggio (le ho elencate per ordine di nome)… anime della seconda edizione del festival letterario italo-irlandese assieme a Luigi Grimaldi, tra i soci fondatori dell’associazione ònoma, Teresa Arcelloni, Paola Francia, Fabio Bussotti e Massimo Giuliani (citati in ordine sparso: maggiori informazioni su ciascuno dei citati, sono disponibili qui).
E grazie anche alla collaborazione di Valeria Lo Forte per la traduzione di alcuni interventi di seguito proposti e per la partecipazione all’organizzazione del festival con il Circolo dei Lettori di Verona e scuolAleph.
Peraltro ho già avuto modo di incontrare Barbara e Federica nell’ambito della puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” del 13 aprile 2012, dove abbiamo avuto modo di discutere del festival (a tal proposito – per ulteriori informazioni – ci tengo a segnalare questo articolo, dal blog di Niamh Mac Alister, una delle partecipanti irlandesi).
Il tema di questo post è incentrato sul concetto di “viaggio”, inteso soprattutto come “percorso creativo” (ma non solo).
Catherine Dunne, in particolare, ci propone una stimolante riflessione sul “viaggio creativo”… ovvero quel percorso bellissimo e irto, al tempo stesso, che deve intraprendere uno scrittore nel momento in cui si cimenta con la scrittura della propria storia. Catherine prende come esempio il suo nono romanzo (da poco terminato e ancora inedito) intitolato «The things we know now» («Le cose che sappiamo adesso»).
Alla discussione parteciperanno anche: Lia Mills (intervento tradotto da Federica Sgaggio), Niamh MacAlister (traduzione di Barbara Gozzi e Federica Sgaggio), Celia de Frèine (traduzione di Valeria Lo Forte), Anthony Glavin (traduzione di Valeria Lo Forte).
Per leggere i contributi inviatici dai nostri amici irlandesi, incentrati sul tema del viaggio (inteso come “percorso creativo”, ma anche come “viaggio nella memoria”) basta cliccare sui loro nomi (in tal mondo si apriranno le pagine con i relativi interventi).
Ne approfitto per porgervi alcune domande, ispirate dal pezzo di Catherine Dunne, volte a favorire il dibattito:
1. Qual è il problema principale che sorge all’inizio di un “viaggio creativo”?
2. Quali, tra questi elementi, possono contribuire di più ad avviare il processo creativo di una storia? Una visione, un incipit, il ricordo evanescente di un sogno? O cos’altro?
3. Quali altre domande, oltre al «what if?» («cosa accadrebbe se?») potrebbe accompagnare lo scrittore nella prosecuzione del suo viaggio creativo?
4. Quali sono i principali ostacoli che deve affrontare uno scrittore nella prosecuzione del suo itinerario creativo?
Di seguito vi propongo il contributo di Catherine Dunne in lingua originale (rilasciato appositamente per Letteratitudine) e la traduzione dell’ottima Federica Sgaggio (che, insieme a Barbara Gozzi, darà una mano nello svolgimento di un servizio di traduzione simultanea online dall’italiano all’inglese e viceversa).
Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno la possibilità di partecipare alla discussione.
Massimo Maugeri
* * *
The Creative Journey by Catherine Dunne
I read somewhere recently that ‘every creative journey begins with a problem’. It seemed such a statement of the obvious that at first, I was puzzled by its impact. The sentence fairly leapt off the page. Seven such seemingly innocent words: how come they were such a revelation?
Received wisdom has it that each creative journey begins with a moment of inspiration: that single, singular moment when a vision, or an opening sentence, or the gauzy remnants of a dream appear and settle into a silent, internal space. A space which is already prepared, waiting to germinate the seeds of a new story.
But the ‘problem’, and the ‘moment of inspiration’ are, I am beginning to believe, inseparable: two halves of the same whole. The writer’s constant companion, the ‘What if?’ that accompanies each new creative journey, is an expression of that duality.
What is she talking about, I hear you say. Let me explain.
I have recently finished my ninth novel, entitled ‘the things we know now’. This novel began its life – my creative journey – with a picture. A sudden, mental snapshot of a young boy, a fourteen-year-old, cycling towards home, fuelled with a sense of deadly purpose. I didn’t know then what his purpose was: I just knew it was both brutal and inevitable. That moment was, for want of a better term, my ‘inspiration’: everything I wrote subsequently was the result – however loosely-linked, tangential or oblique a result – of that one, singular moment of absolute clarity. The boy on his bike; the tangible sense of purpose.
But then the ‘problem’ arose. Who is he? Why is he cycling home in such a frenzy? (And it was always towards home: that was never in doubt.) What is the purpose that fuels him? I began to frame all of those questions with the novelist’s ‘What if?’ Grappling with one of those ‘what ifs’ can occupy whole months at a stretch – and each one of them did. Eventually, I knew that I needed to settle on just one, central question: What if this boy is about to change – in one moment – his own life and the lives of his parents and his family forever?
Now I had my starting point. I began my journey back in time with this young boy, Daniel, and we learned together about the forces that had driven him to despair.
It has to get easier, someone said to me recently. Surely, after all those books, you know the process by now? Well, yes and no. I know the process, but it is a process that shifts and changes with each new story. And it doesn’t get any easier. It gets harder. As a writer, you want to do more, to do better, to do something different from before. You want to raise the bar, to rise to the challenge, to push the boundaries of language and voice and character in ways that you haven’t dared until now.
And it is also a process which is not entirely within the writer’s control. That is both the exhilaration, the joy, and the sheer terror of embarking on each new journey. With ‘the things we know now’, once I had begun to get to know Daniel, I needed to know his parents. I felt that I already knew his mother: I identified with her concerns, her hopes and dreams, her devotion to her son. Her motherness. She became the next companion on my journey: and we got on well enough. I think we liked each other, we had similar views of the world, we were easy in each other’s company.
That was the problem.
The mother was too familiar, too cosy, too easy for me to read – and to write. There was no spark of conflict between us. We took a significant part of the journey together – but then we parted company. Sadly.
I had to redraw the map.
Then the father exploded onto the scene. There is no other way to describe it. Patrick’s arrival was stormy, tumultuous: he threw all the pieces of my story into the air and laughed as they landed, scattering shards of language everywhere. This is my story, he kept insisting. Don’t even think of writing it without me.
So I didn’t: I couldn’t, by then, think of writing it without him. Patrick became my companion for the new creative journey, and together, we planned a different route, neither of us knowing where we were going, neither of us sure of our destination. We stepped into the unknown together.
And that is how each creative journey is: similar only in its differences. The initial leap off the cliff; the territory of the unknown; the answer, eventually, to the ‘What if?’ that started the whole thing off.
The joy of language. The elation of story. The making of narrative out of chaos. That’s the creative journey.
* * *
Il viaggio creativo di Catherine Dunne
(Traduzione di Federica Sgaggio)
Ho letto da qualche parte, di recente, che «ogni viaggio creativo comincia con un “problema”». Mi è sembrata la formalizzazione di una tale ovvietà che in un primo momento la sua forza mi ha lasciato disorientata. Per poco la frase non ha fatto un balzo giù dalla pagina. Sette parole così apparentemente inoffensive: come potevano essere una tale rivelazione?
Il tradizionale buon senso vuole che qualunque viaggio creativo abbia inizio con un istante di ispirazione: quel momento singolo e unico in cui una visione, o un incipit, o il ricordo evanescente di un sogno si manifesta e si sistema in un silenzioso spazio interiore. Uno spazio già arato, che attende di far germogliare i semi di una nuova storia.
Io, però, comincio a credere che il «problema» e l’«istante di ispirazione» siano inseparabili: le due metà della mela. Il compagno fedele dello scrittore, quel «cosa accadrebbe se?» che accompagna ogni nuovo viaggio creativo, è un’espressione di quella duplicità.
«Cosa intende dire?», vi potreste domandare. Ci arrivo.
Ho da poco concluso il mio nono romanzo, intitolato «The things we know now», «Le cose che sappiamo adesso». Questo romanzo ha cominciato la sua vita – e io il mio viaggio creativo – con un’immagine. Un’istantanea che, all’improvviso, ha materializzato davanti ai miei occhi un quattordicenne che pedalava verso casa, mosso dal propellente di un proposito che aveva a che fare con la morte. Non sapevo, in quel momento, che tipo di proposito fosse: sapevo soltanto che era allo stesso tempo violento e inevitabile. Quel momento è stato, in mancanza di un termine migliore, la mia «ispirazione»: qualunque cosa io abbia scritto dopo è il risultato – non importa quanto indiretto, tangenziale oppure obliquo – di quel momento singolo e unico di assoluta chiarezza. Il ragazzino in bicicletta; la percezione quasi «materiale» del suo proposito.
Ma in quel momento è sorto «il problema». Chi è? Perché pedala verso casa con tutta quella furia? (E non c’era nessun dubbio che era certamente verso casa che lui stava pedalando). Qual è il proposito che gli fa da propellente? Ho cominciato a inquadrare tutte queste domande nel «cosa accadrebbe se?» dello scrittore. Vedersela con uno di quei «cosa accadrebbe se?» può impegnare lunghi mesi di fila; e per ciascuno di quei «what if?» c’è voluto un sacco di tempo. Alla fine, ho capito che avevo solo bisogno di dare un assestamento a una questione centrale: «Cosa accadrebbe se questo ragazzino fosse sul punto di cambiare per sempre – in un istante – la propria vita, la vita dei suoi genitori e quella di tutta la famiglia?».
In quel momento avevo un punto di partenza. Ho cominciato il mio viaggio all’indietro nel tempo insieme a questo ragazzino, Daniel, e insieme abbiamo scoperto quali fossero state le forze che l’avevano condotto alla disperazione.
«Dovrebbe diventare più facile», mi ha detto qualcuno poco tempo fa. «Dopo tutti quei libri di sicuro padroneggi il processo».
Eh. Sì e no. Ho la padronanza del processo – sì – ma è un processo che slitta e si modifica con ciascuna nuova storia. E non diventa affatto più facile: diventa più difficile, invece. Come scrittore, vuoi fare di più, meglio e in modo diverso. Vuoi alzare la posta, essere all’altezza della nuova sfida, spingere un po’ più in là la frontiera della lingua, e della voce, e del personaggio, in un modo che fino ad allora non avevi mai osato affrontare.
E il processo, per giunta, non è interamente sotto il controllo dello scrittore: cosa che è tanto motivo di euforia e gioia quanto di puro terrore.
Con «Le cose che sappiamo ora», una volta entrata in confidenza con Daniel, ho avvertito il bisogno di conoscere i suoi genitori. La madre mi sembrava di conoscerla già: mi identificavo con le sue preoccupazioni, le sue speranze e i suoi sogni; con la sua adorazione per il figlio. Con la sua «madrità».
È diventata per me il secondo compagno di viaggio: e andavamo abbastanza d’accordo. Penso che ognuna di noi due piacesse all’altra; avevamo visioni del mondo simili, e stavamo a nostro agio l’una in compagnia dell’altra.
Questo era il problema.
Per me, la madre era troppo familiare, troppo comoda e facile da leggere. E da scrivere, anche. Fra di noi mancava la scintilla del conflitto. Abbiamo percorso insieme una parte importante del viaggio, ma poi abbiamo spezzato l’alleanza. Con tristezza.
E ho dovuto ri-tracciare la mappa.
A quel punto sulla scena è esploso il padre. Non c’è altro modo di descrivere la situazione. L’arrivo di Patrick è stato turbolento e tumultuoso: ha buttato all’aria tutti i pezzi della mia storia, e si è messo a ridere mentre ricadevano a terra come frammenti di linguaggio dispersi per ogni dove. «Questa è la mia storia», continuava a ripetere. «Non provare nemmeno, a scrivere senza di me».
Non l’ho fatto: da quel momento, non ho più potuto concepire l’idea di scrivere senza di lui. Patrick è diventato il mio compagno per il nuovo viaggio creativo, e insieme abbiamo progettato un itinerario differente. Nessuno dei due aveva idea del luogo verso il quale stavamo andando né era sicuro di quale fosse il punto d’arrivo. Ci siamo messi a camminare insieme nell’ignoto.
Tutti i viaggi creativi funzionano in questo modo: simili solo nelle loro differenze. Il balzo iniziale giù dalla scogliera; il territorio dell’ignoto; la risposta, alla fine, al «cosa accadrebbe se?» che ha dato l’avvio a tutto quanto.
La gioia per la lingua: l’esaltazione per la storia; la costruzione e l’estrazione dal caos di un filo narrativo coerente: il viaggio creativo è questa cosa qua.
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Vi invito a seguire LetteratitudineNews e LetteratitudineRadio
Cari amici,
sono molto felice di aprire una nuova pagina dedicata a “BABELIT”, lo spazio di Letteratitudine destinato all’incontro con autori non italiani e a dibattiti plurilingue.
Probabilmente qualcuno di coi ricorderà il dibattito condotto in lingua italiana e in lingua tedesca con la scrittrice Birgit Vanderbeke: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/01/nasce-babelit-incontro-con-birgit-vanderbeke/
Fu un’esperienza molto stimolante… e incentrata su un grande clima di scambio culturale e di condivisione.
Come avrete già letto nel post, al centro di questo nuovo appuntamento di BABELIT c’è una discussione in lingua italiana e in lingua inglese con il coinvolgimento di scrittori e artisti irlandesi: prima fra tutti, la scrittrice Catherine Dunne (in Italia pubblicata da Guanda).
Ne approfitto anche qui (nello spazio riservato ai commenti) per ringraziare – per la preziosa (anzi, indispensabile) collaborazione Barbara Gozzi e Federica Sgaggio… anime della seconda edizione del festival letterario italo-irlandese assieme a Luigi Grimaldi, tra i soci fondatori dell’associazione ònoma, Teresa Arcelloni, Paola Francia, Fabio Bussotti e Massimo Giuliani.
E grazie anche a Valeria Lo Forte per la traduzione di alcuni interventi di seguito proposti e per la partecipazione all’organizzazione del festival con il Circolo dei Lettori di Verona e scuolAleph.
Grazie a tutti, cari amici.
Un abbraccio virtuale a tutti voi: http://italireland.net/chi-siamo/
Naturalmente auspico sulla vostra partecipazione nel corso di questo dibattito bilingue.
Conto moltissimo sulla collaborazione di Barbara e Federica per la traduzione simultanea online (diciamo così) dall’italiano a ll’inglese (e viceversa).
Il tema di questo post è incentrato sul concetto di “viaggio”, inteso soprattutto come “percorso creativo” (ma non solo).
Catherine Dunne, in particolare, ci propone una stimolante riflessione sul “viaggio creativo”… ovvero quel percorso bellissimo e irto, al tempo stesso, che deve intraprendere uno scrittore nel momento in cui si cimenta con la scrittura della propria storia.
Come ho già precisato sul post, alla discussione parteciperanno anche: Lia Mills (intervento tradotto da Federica Sgaggio), Niamh MacAlister (traduzione di Barbara Gozzi e Federica Sgaggio), Celia de Frèine (traduzione di Valeria Lo Forte), Anthony Glavin (traduzione di Valeria Lo Forte).
Trovate informazioni biografiche sui nostri amici irlandesi, cliccando qui http://italireland.net/irish-members/
Per leggere i contributi inviatici, incentrati sul tema del viaggio (inteso come “percorso creativo”, ma anche come “viaggio nella memoria”) basta tornare sul post e cliccare sui nomi degli scrittori irlandesi coinvolti (in tal mondo si apriranno le pagine con i relativi interventi).
In ogni caso, per scrupolo, riprodurrò i suddetti interventi (e le relative traduzioni) tra i commenti di questo post… qui di seguito…
“My Life as a Parcel” di Lia Mills
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When I was a child, we had a kitchen drawer where we kept all the random things that my mother – who’d lived through more than one war – couldn’t bring herself to throw away: sheets of brown paper and lengths of twine; broken pencils and worn elastic bands; my father’s glasses, with the one cracked lens; my grandmother’s teeth. You never knew when these things might come in handy.
When parcels came to the house, it could take ages to unravel the knots from the strings that tied them. We never cut that string, no matter how tight the knots, or how impatient we were to discover what was hidden inside the layers of brown paper. There might be a coat, or a good wool cardigan outgrown by a cousin; christmas presents from America; sweets from England, if we were lucky: Spangles and Mars Bars, Opal Fruits and Mints. Sometimes we got packets of seeds. We planted these with enthusiasm, but since no one remembered to water them, they rarely made it above ground. We preserved the wrapping paper. When the time came to use it again, we’d turn it, so the writing faced inwards, fold it around whatever we were posting away in our turn, then tie it up as tight and fierce as any package that ever came to us. Those parcels smelled of scorched ink, secrets, adventure.
Because of the way things were (dead father, working mother, too many children), arrangements for looking after us were complicated. School terms were simple enough, we were dispatched to different boarding schools. But holidays were a problem. Relatives, friends and strangers had to be roped in to look after us from one week to the next, until we were old enough to look after ourselves.
This is how it was: you never knew where you’d find yourself next, or with whom. You’d wake up one day in a room with a half-door that opened to a beach in Wicklow. Then you’d be in the west of Ireland, surrounded by people speaking a thrilling language you didn’t understand. Black-shawled women would stop you in the road to send you for rashers and tobacco in a shop where men leaned over pints of stout at the counter all day long. In Kildare you learned how to foot turf and save hay, and in Meath you fell asleep in a barn listening to horses warm the air beneath you with their velvety breath. You went to american wakes in the west, went fishing in leaky boats around the coast, and in the midlands there were cattle marts, where you pitied the soft eyes and low voices of calves calling for their mothers. You were sent to the well for water, made whistles out of grass, harvested stones from every beach you ever walked on. You learned to loathe jellyfish and to love the feel of dried cow-dung on the hardening soles of your feet. You were always on the move, you met too many people, you didn’t know where you belonged.
And this is what you learned: how to be chameleon. How to enter a building, a family, a group of strangers, and bide your time. How to tell who was safe, and who wasn’t. You could read the history of a house in the lumps and hollows of a mattress. You knew the smell of trouble, you could hear the wind change before it happened. You discovered the nine ways to soften anger and the several tastes of grief. You learned that every place has its codes, its secrets and its rhythms, and that you will never find them out by asking. It dawned on you that stories are the currency of friendship. Stories are what you gleaned from all these people, all these places. Stories and the elements of stories: the colour of light before it fails, the curved lines of a song, the taste of the sea, the weight of an ocean, the smell of love before it turns and after. You knew the heat of a fire on your face and the feel of the wind at your back. You absorbed the rhythms of other people’s lives and learned to read them. You carried them with you in the only constant that you knew, your own imagination.
You learned very early how to hide in plain sight. People would see you curled up in a corner with a book and be relieved that you were behaving yourself and quiet. They didn’t know that you were gone. You’d slipped between the lines to roam desert islands, scale cliffs, explore other worlds. You were planning resistance or open war, making every kind of trouble. You carried this contradiction like a secret, that you were solitary and spent long hours alone, yet your imagination was crowded, loud with characters jostling for space, looking for a way out.
You sometimes felt like a parcel left against a wall, waiting for the next person who’d happen to pick you up and bear you away in strange cars and vans, by bus or by train. Like a parcel, you got tattered and crinkled and sometimes tore, your twine frayed and came unravelled. You were holding together, but only just.
Sometimes you had to wait a long time to be collected. There was always a chance that, this time, you’d fall through a crack in other people’s plans. You dreamed up other lives, just in case. You’d be like a spore released by one of those unwatered, ungerminated seeds, and ride the wind to places no one else had ever been. When someone finally came for you, you filed those thoughts away for the next time. Instead of a layer of your wrapping being torn away, the way it is in the party game, you worked on adding new ones in different coloured inks, new scripts, other languages. You knew you’d never get lost because you carried your maps inside you, maps that, once unravelled, would take you back to where you’d find more paper, the stump of an old pencil, and a spare set of teeth if you needed them.
(A version of this essay was published in Writers Wanted, Edited by Heather Lynch)
“La mia vita da pacco” di Lia Mills
(Traduzione di Federica Sgaggio)
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Quand’ero piccola, avevamo un cassetto della cucina in cui tenevamo tutte le cianfrusaglie che mia madre – passata attraverso più di una guerra – non riusciva a buttare via: fogli di carta marrone e pezzi di spago; matite spezzate e fettucce elastiche allentate; occhiali di papà con una lente crepata; i denti della nonna. Non si poteva mai sapere quando una di queste cose poteva tornar buona.
Quando arrivava a casa qualche pacco potevano volerci secoli a disfare i nodi dei fili che li chiudevano. Non tagliavamo mai gli spaghi, noi, non importa quanto stretti fossero i nodi, o quanto impazienti potessimo essere di scoprire cosa nascondevano quegli strati di carta marrone. Poteva essere un cappottino, o un bel cardigan di lana che andava piccolo a qualche cugina; regali di Natale dall’America; se eravamo fortunati, dolcetti dall’Inghilterra: le caramelle Spangles o le barrette di Mars, le caramelle morbide alla frutta e le mentine. A volte ricevevamo confezioni di semi. Li interravamo con entusiasmo, ma poiché nessuno si ricordava di dar loro da bere, raramente accadeva che da quei semi spuntasse qualcosa. Conservavamo la carta dei pacchi; e – quando arrivava il momento di reimpiegarla – la giravamo di modo che la faccia con le scritte rimanesse all’interno, la avvolgevamo intorno a quel che dovevamo a nostra volta spedire, e poi la legavamo stretta e forte come tutti i pacchi che ci arrivavano a casa. Questi pacchi profumavano di inchiostro secco, di segreti, di avventura.
Per il modo in cui stavano le cose (padre morto, madre lavoratrice, figli in sovrannumero), gli incastri per fare in modo che fossimo sempre sorvegliati da qualcuno erano complessi. Durante l’anno scolastico, venivamo spediti in vari collegi, e le cose erano relativamente semplici. Ma le vacanze erano un problema. Parenti, amici ed estranei venivano arruolati per prendersi cura di noi di settimana in settimana, fino a quando non fummo abbastanza grandi da diventare autosufficienti.
La faccenda funzionava così: che tu non potevi mai sapere dove e con chi saresti capitato. Una mattina ti svegliavi in una stanza con una porta che, divisa in due in larghezza, si apriva su una spiaggia della contea di Wicklow. Poi ti trovavi nell’ovest dell’Irlanda, circondato da gente che parlava una lingua vibrante che non capivi. Donne avvolte in scialli neri ti fermavano per strada per mandarti a comprare la pancetta e il tabacco in un negozio dove, al banco, gli uomini stavano piegati sulle pinte di birra per tutta la giornata. Nella contea di Kildare imparavi a camminare sulla torba e a mettere da parte il il fieno, e nel Meath ti addormentavi in una stalla sentendo il respiro vellutato dei cavalli intiepidire l’aria sotto di te. Nell’ovest partecipavi alle veglie d’addio per quelli che se ne andavano a emigrare in America, andavi a pesca qua e là lungo la costa in battelli che imbarcavano acqua, e nelle Midlands c’erano i mercati delle mandrie, dove gli occhi mansueti e le voci basse dei vitellini che chiamavano le mamme ti spezzavano il cuore. Venivi mandato al pozzo per prendere l’acqua, facevi fischiare i fili d’erba, raccoglievi sassi su qualunque spiaggia ti trovassi a camminare. Imparavi a detestare le meduse e ad amare la sensazione del letame secco sotto le piante dei piedi. Eri costantemente in movimento, incontravi troppe persone, non sapevi a quale posto appartenevi.
E quello che imparavi era questo: come diventare un camaleonte. Come far ingresso in una casa, in una famiglia, in un gruppo di estranei, e aspettare il tuo momento. Come capire chi era innocuo e chi no. Eri in grado di leggere la storia di una casa nei bozzi e negli avvallamenti dei materassi. Riconoscevi l’odore dei guai, riuscivi a sentire il cambio di direzione del vento prima che si verificasse. scoprivi mille modi per sbollire la rabbia, e i diversi sapori del dolore. Imparavi che ogni luogo ha i suoi codici, i suoi segreti e i suoi ritmi, e non lo scoprivi mai per averlo chiesto a qualcuno. Ti diventava chiaro che le storie sono la moneta corrente dell’amicizia. Le storie sono quello che racimolavi da tutte queste persone, da tutti questi posti. Le storie e gli elementi di cui le storie sono fatte: il colore della luce prima che si affievolisca, le linee arcuate di una canzone, il sapore del mare, il peso di un oceano, l’odore dell’amore prima che arrivi e dopo che è finito. Conoscevi il calore del fuoco sulla tua faccia e la sensazione del vento alle tue spalle. Assorbivi i ritmi delle vite degli altri e imparavi a leggerli. Li portavi con te nell’unica presenza che costantemente ti era compagna: la tua personale immaginazione.
Imparavi molto presto come nasconderti pur rimanendo perfettamente in vista. La gente ti vedeva rannicchiata in un angolo con un libro e si rasserenava per il fatto che il tuo comportamento era tranquillo e composto. Non sapevano che te n’eri andata. Eri scivolata fra le righe per vagabondare su isole deserte, scalare le rocce, esplorare altri mondi. Stavi progettando la tua resistenza o una guerra aperta, facendo ogni tipo di disastri. Portavi con te questa contraddizione come un segreto: che eri solitaria e trascorrevi lunghe ore in solitudine, e tuttavia la tua fantasia era affollata e vociante di personaggi che si spingevano l’un l’altro per conquistare spazio, alla ricerca di una via d’uscita.
E tu a volte ti sentivi come un pacco lasciato a ridosso di un muro, in attesa del primo che passando di lì ti raccattasse, portandoti lontano in strane automobili e furgoni, sull’autobus o sul treno. Come un pacco, venivi sballottata, spiegazzata; e a volte ti strappavano, il tuo spago veniva sfilacciato e i suoi nodi sciolti. Tu riuscivi a tenerti unita, ma solo a malapena.
Certe volte ti toccava aspettare a lungo prima di venire raccolta. C’era sempre la possibilità che, in quella specifica occasione, tu finissi per cadere in una crepa che s’era aperta nei progetti degli altri. Ti fabbricavi a tua misura le vite degli altri, per ogni eventualità. Eri come una spora che si librava per aria da uno di quei semi che non germinavano perché nessuno li innaffiava, e attraversavi i venti fino a raggiungere luoghi in cui nessun altro era mai stato. E quando alla fine qualcuno arrivava, tu archiviavi questi pensieri tenendoteli buoni per la volta successiva. Invece di farti strappare uno strato della tua carta, come succede nei giochi che si fanno alle feste, tu ti davi da fare aggiungendo nuovi strati con scritte di colori diversi, nuove calligrafie, altre lingue. Sapevi che non ti saresti persa perché le tue mappe le portavi dentro di te; ed erano mappe che, una volta che il pacco si fosse aperto, ti avrebbero riportato al luogo dove trovavi dell’altra carta, il mozzicone di una vecchia matita, e un’arcata spaiata di denti, se per caso ti capitava che potessero tornarti buoni.
(Una versione di questo articolo è comparsa in “Writers Wanted”, “Cercansi scrittori”, con l’editing di Heather Lynch).
“Reflections on a Journey” – Niamh MacAlister
–
It is the kind of thing that’s hard to explain; the curve of a lover’s body, the shape of a line on the page, the route of the path the word travelled on, the shape of my own life because of it.
It is as difficult to find the moments of peace to sit down and write as it is to put the actual word on the page. And yet without that moment, or the search for it, there is no peace.
These are some of the things that made me stay at the inn for too long – a destructive relationship, an unshakeable lack of believe, rejection upon rejection upon rejection, work, laziness, the fear of never being the kind of writer I dream of being, life.
And what is that intangible thing that makes you put one foot in front of the other?
The whiteness is as vast as any black hole or galaxy. It is the shapeless mould of my dreams.
But it is as much about what goes unsaid as what is said. As the words etch
themselves out into the white space that surround them it is the shape they make, that they themselves create, that is the journey.
The initial idea is revealed. Then it must be chipped away until a smoother shape starts to appear. The shape of a poem on the page or a character’s memories must then be carved, sanded and polished until finally there is nothing else that can be done and it must be left where you found it.
Practice (n) the actual application or use of an idea, belief, or method, as opposed to theories relating to it, regular exercise of an activity or skill is the way to become proficient in it.
Then there is the inevitable disappointment that whatever has been written doesn’t quite capture what you meant to say.
It’s so easy to see just how insufficient language really is. And so you start again because this will be the one. The next one will definitely be the one.
Riflessioni su un viaggio – di Niamh MacAlister
(traduzione di Barbara Gozzi e Federica Sgaggio)
–
È il genere di cosa difficile da spiegare; la curva del corpo di un amante, la forma di una linea sulla pagina, l’itinerario del percorso che la parola ha attraversato, e, di conseguenza, la forma della mia vita.
Trovare i momenti di pace per sedersi a scrivere è difficile quanto l’atto effettivo del mettere le parole sulla pagina. Eppure, senza quel momento, o senza la ricerca di quel momento, non c’è pace.
Queste sono alcune delle cose che mi hanno fatto stare in un albergo per troppo tempo – una relazione distruttiva, un’irriducibile mancanza di fiducia, un rifiuto dopo l’altro, il lavoro, la pigrizia, la paura di non arrivare mai a essere il tipo di scrittrice che sogno di essere, la vita.
E qual è quella sostanza immateriale che ti fa mettere un piede davanti all’altro?
Il biancore è grande come qualunque buco nero, come qualunque galassia. È lo stampo informe dei miei sogni.
Ma si tratta tanto di ciò che viene taciuto quanto di ciò che si dice. Poiché le parole si incidono nello spazio bianco che le circonda, si tratta della forma che esse creano, della forma che le parole si creano da sole: il viaggio è questo.
L’idea iniziale è una rivelazione. Poi deve essere frantumata fino a quando non comincia a rendersi evidente una forma più arrotondata. La forma di un poema sulla pagina o i ricordi di un personaggio devono a quel punto essere scolpiti, levigati e lucidati finché, alla fine, non c’è nient’altro che possa essere fatto, e tutto dev’essere lasciato dove l’hai trovato.
Pratica (sostantivo): l’applicazione fattuale o l’uso di un’idea, una convinzione, o di un metodo, in contrapposizione alle teorie che la riguardano; l’esercizio abituale di un’attività o di una capacità è il metodo per diventare esperto in quella pratica.
Poi c’è l’inevitabile delusione per il fatto che qualunque sia la cosa che è stata scritta, essa non riesce a esprimere esattamente quello che intendevi dire.
È così facile rendersi conto di quanto il liguaggio sia effettivamente insufficiente. E così si comincia daccapo, perché questo sarà quello giusto. Il prossimo, assolutamente, sarà quello giusto.
The Creative Journey – Celia de Fréine
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It’s thirty years now since I translated The Midnight Court, a poem of around 1,000 lines, written in Irish by Brian Merriman in or around 1780, in which the sexual mores of the day are debated. At the time I didn’t realise that this was the beginning of a creative journey; had I done so, I might have turned on my heel and fled.
Looking back on the ten years that followed, it’s as though I’d entered a quagmire where bogland dragged me down at every turn and mastiffs snarled anytime I tried to gain entry to any establishment where recognition or support might be on offer.
During this time I wrote several plays, all of which were performed in venues which, for the most part, no longer exist. Critics did not smile on my efforts, and submissions to theatrical establishments, often accompanied by notes of invective, found their way back to my letter box as surely as a homing pigeon returns to its loft.
This was thirty years ago when writing was not the industry it is today: classes and workshops were few and far between and the support of peers was unheard of. But I kept on fielding the insults and going back for more – the need to suffer most likely the result of my Catholic upbringing.
I should mention that at this time I was teaching also – working with Travellers, in the prisons and with women’s group. Myself and a friend and colleague, Phyl Herbert, put together a volume of short plays Literacy, Language and Role Play geared towards the adult learner such as those we were working with.
Each play was accompanied by exercises on how to develop language skills, involving basic questions such as: what happens next? or write a letter to the paper about this situation. Scenes of jubiliation took place throughout the city of Dublin the night our book was launched, not as a result of the radical nature of our joint enterprise, but because the Birmingham Six had just been released from prison.
Although this half-volume didn’t open any doors for me in the literary establishment, it did well in the role for which it was intended and helped shove me almost to the far side of the quagmire. Feeling that I had almost arrived, I reached out and grabbed a clump of foliage so that I could haul myself the rest of the way when, suddenly, a boulder shifted to one side and I found I had been turfed down into a labyrinth – the place where poetry was manufactured or, at least, where one could manufacture it without the danger of being swallowed whole or having a mastiff gnaw one’s ankle.
And so my journey continued. This time editors, competition judges and publishers smiled as I ventured along, but I encountered distractions along the way. These manifested themselves in the form of a shepherd’s crook, not unlike those that shoot out from the wings during a pantomime, dragging off the the fat lady who has overstayed her welcome. The wings in which I found myself were ante-chambers in which genres, such as television, film, prose, opera and, even drama, were manufactured. And, although each time I entered one, I was on a detour from what I really wanted to do, I was there, in part, of my own volition.
By this stage the art of writing had finally come out of the closet and I was surrounded by friends and colleagues, though foes lurked along the route as well. The odd bucket of invective continued to be hurled in my direction but, when it did, friends supported me and told me I would be foolish to heed such nonsense. As for foes – more of that anon.
One of the biggest challenges I faced as a poet was that of language – having to choose whether to write in Irish or English. Every now and then a sprite would leap out from between the rocks and hiss: ‘choose’. It took many years before I had the courage to dismiss these creatures. I would not choose: I would continue to write in both languages: the path I would follow through the labyrinth would be a parallel one, one that was almost impossible to locate.
As for foes? – these are the writers who have, without a by-your-leave, borrowed my stories, poems, plays – sometimes in part, sometimes complete – and appended their own name to them. Down the years, writers and critics have commented on this problem: some describing it as ‘borrowing’, others as ‘stealing’. Colton’s quote that ‘imitation is the sincerest form of flattery’ is regularly bandied about in this context.
If someone stole my clapped-out Toyota and said that they wanted to imitate the way I drove along the bohreens of Connemara, that would be a criminal offence. But it when it comes to writing, daylight robbery seems to be fine
We read of high profile cases involving millionaire writers, such as JK Rowling, but these cases tend to be about money rather than the ‘lifting’ of intellectual property. Seminars are organised regularly on all aspects of writing, research into writing and criticism, but rarely is plagiarism discussed. When it’s mentioned informally it’s usually met by protests from those responsible, denying they’ve ever engaged in it, or by others, who insist that, if work exists in the public domain, it’s there to be hijacked.
It would make a change the next time I see a version of one of my poems in print, or of one of my plays onstage with someone else’s name appended to it, were I to be recognised as the original conceiver of the work in question. The word ‘after’ can look well on a poem, i.e., this poem is after someone else’s, or an acknowledgement such as ‘thanks to so-and-so who gave me the idea’.
And now that I’m back on track after that matter which has, down the years, lain heavy on my heart, no harm in mentioning a strange occurence that befell me in recent times. Some years ago, as renovation work occured overhead in the land of quagmire and mastiff, a small chamber became dislodged and was sent hurtling into the labyrinth below: The Midnight Court, in all its splendour, had landed before me.
When I first began work on this project I was living in the suburbs of Dublin in a house which had a small part missing from its chimney, causing smoke to billow into the room as I laboured at my task. At the time I commented on how it helped me identify with Ireland’s eighteenth century poets, most of whom were blind as a result of living in unventilated, smoke-filled hovels.
Today I’m writing in the Casa da Escrita in Monsanto, the holy mount of Portugal. Soon my translation of The Midnight Court will be published by Arlen House, along with my play Meanmarc, an imagining of the time in Merriman’s life immediately before he wrote his masterpiece, along with Cúirt ar a Camchuairt, a play about the sexual mores I think would be up for discussion, were a similar court to be convened today.
It seems as though my journey has come full circle. All the same, I can’t wait to beat my way out of this chamber and head off once more in search of that parallel labyrinthine path.
Il percorso creativo di Celia de Fréine
Traduzione di Valeria Lo Forte
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Sono passati oramai trent’anni da quando ho tradotto Il tribunale di Mezzanotte, un poema di circa mille versi scritto in irlandese da Bryan Merriman nel 1780 o giù di lì, nel quale si discute dei costumi sessuali del tempo. All’epoca non compresi che questo era l’inizio di un percorso creativo, e se lo avessi fatto probabilmente avrei girato i tacchi e sarei fuggita.
Guardando indietro ai dieci anni che seguirono, è come se fossi entrata in una palude dove la melma mi faceva rallentare, mentre dei mastini mi ringhiavano contro ogni volta che tentavo di accedere a qualsiasi istituzione in cerca di riconoscimento o sostegno.
In quel periodo scrissi parecchie commedie, tutte rappresentate in luoghi che, per la maggior parte, non esistono più. I critici non guardarono particolarmente benevoli ai miei sforzi, e le mie richieste alle istituzioni teatrali tornavano alla mia cassetta delle lettere, dritte come un piccione viaggiatore torna alla sua piccionaia, spesso accompagnate da commenti offensivi.
Questo accadde trent’anni fa, quando scrivere non era quell’industria che invece è oggi: corsi e seminari erano pochi e rari, e il sostegno degli altri scrittori era straordinario. Ma io continuavo a prendermi e riprendermi insulti – il bisogno di soffrire molto probabilmente era il risultato della mia educazione cattolica.
Devo accennare che in quel periodo stavo pure insegnando – lavoravo con i Travellers[1], nelle prigioni e con gruppi femminili. Io e un amico e collega, Phyl Herbert, mettemmo insieme un volume di brevi commedie, Leggere e Scrivere, Linguaggio e Gioco della parti, adatto sia allo studente adulto, sia a coloro con i quali stavamo lavorando.
Ogni commedia era corredata di alcuni esercizi mirati a sviluppare le abilità linguistiche, di altri riguardanti questioni basilari come: “e dopo cosa accade?”, oppure, “scrivi una lettera al giornale riguardo questa situazione”. La notte in cui il nostro libro fu lanciato ci furono scene di gioia per tutta Dublino, e non per la nostra straordinaria impresa congiunta, bensì per la notizia del rilascio dei sei di Birmingham.
Anche se questo libro a cui ho collaborato per metà non mi ha aperto alcuna porta nel gotha letterario, esso ha assolto tuttavia con efficacia ai compiti per i quali era stato ideato, ed è stato utile per un mio avvicinamento alla lontana sponda della palude. Sentendo che ero quasi arrivata, mi allungai e afferrai un ammasso di foglie, in modo da farmi trascinare per il resto del percorso, quando, all’improvviso, un macigno si spostò da una parte, e mi ritrovai coperta di zolle erbose giù in un labirinto – il luogo dove la poesia fu creata o, per lo meno, dove uno potrebbe crearla senza correre il pericolo di essere inghiottito tutto intero o di ritrovarsi con la caviglia rosicchiata da un mastino.
E così il mio percorso continuò. Questa volta editors, giudici di gara ed editori arrisero al mio coraggio, tuttavia incontrai delle distrazioni lungo il cammino. Queste si manifestavano assumendo la forma di un bastone da pastore, non dissimile da quelli che escono fuori dalle quinte durante una pantomima, trascinando via quella grassa signora che si è trattenuta più del dovuto. Le quinte nelle quali mi trovavo erano le anticamere nelle quali i generi, come la televisione, il film, la prosa, l’opera e anche il dramma, venivano prodotti. E, nonostante ogni volta che entravo in una di esse si trattava di una deviazione rispetto a quello che veramente desideravo fare, tuttavia mi trovavo lì, in parte, proprio per mia volontà.
A questo punto, l’arte dello scrivere finalmente era uscita fuori dall’armadio, ed io ero circondata da amici e colleghi, nonostante i nemici si appostassero comunque lungo la strada. Di tanto in tanto il secchio delle offese continuava ad essere lanciato nella mia direzione ma, quando ciò accadeva, gli amici mi sostenevano e mi dicevano che sarei stata pazza a tener conto di queste sciocchezze. E ai nemici… arrivederci!
Una delle più grandi sfide che ho affrontato da poetessa è stata quella della lingua – dover scegliere se scrivere in irlandese o in inglese. Di tanto in tanto uno spiritello tenta di uscire dalle rocce e sussurrare “scegli” . Ci sono voluti anni prima che avessi il coraggio di allontanare queste creature. Non vorrei scegliere. Vorrei continuare a scrivere in entrambe le lingue: il sentiero che vorrei seguire attraverso il labirinto sarebbe un sentiero parallelo, un sentiero quasi impossibile da individuare.
E i nemici? – questi sono gli scrittori che, senza alcun “con il vostro permesso”, si sono presi in prestito le mie storie, le mie poesie, le mie commedie – a volte in modo parziale, a volte integralmente – e ci hanno appiccicato sopra il loro nome. Negli anni questo problema è stato commentato da scrittori e critici: alcuni lo hanno definito “prendere in prestito”, altri “rubare”. La citazione di Colton secondo cui “l’imitazione è la più sincera forma di adulazione”, viene dibattuta ogni volta che si tratta la questione.
Se qualcuno rubasse la mia Toyota usata e dicesse che desiderava imitare il modo in cui io guidavo lungo le strade di Connemara, si tratterebbe di un’infrazione penalmente perseguibile. Ma quando si tratta di scrittura, una rapina in pieno giorno non fa neanche notizia, a quanto pare.
Leggiamo di casi di un certo livello che vedono coinvolti scrittori milionari, come JK Rowling, ma questi casi tendono a sottolineare la questione del denaro più che il furto della proprietà intellettuale.
Regolarmente si organizzano seminari su tutti gli aspetti della scrittura, con analisi sulla scrittura e sulla critica, ma raramente si discute del plagio. Quando in modo informale si fa riferimento ad esso, vi si oppongono le proteste dei responsabili, che affermano di non averci mai avuto a che fare, o di altri che insistono a dire che, se l’opera è di dominio pubblico, è lì perchè qualcuno se ne possa appropriare.
Sarebbe diverso se, la prossima volta che vedessi stampata una versione di una mia poesia o una mia commedia rappresentata con la firma di un altro, io fossi riconosciuta come colei che per prima ha concepito l’opera in questione. La parola “ispirato a” può stare bene in una poesia, ad esempio, “questa poesia è stata scritta ispirandosi a qualcun’altro”, come pure un riconoscimento tipo “grazie a tizio o caio che mi ha dato l’idea”.
E ora che ho ripreso il cammino nella giusta direzione dopo quella faccenda che, negli anni, ha gravato pesantemente sul mio cuore, non vedo nulla di male a raccontare uno strano episodio che mi accadde di recente. Alcuni anni fa, quando nel paese della palude e del mastino si fece un’opera di ristrutturazione, una piccola stanza fu rimossa e fu spedita con grande fracasso nel labiritnto giù di sotto: Il tribunale di mezzanotte, in tutto il suo splendore, era approdato davanti a me.
Quando iniziai a lavorare a questo progetto, vivevo nei sobborghi di Dublino, in una casa con una piccola zona priva di camino, il fumo che si levava a ondate nella stanza mentre lavoravo. All’epoca commentai come ciò mi aiutasse a identificarmi nei poeti irlandesi del diciottesimo secolo, la maggior parte dei quali era cieca proprio perchè viveva in topaie senza ventilazione e piene di fumo.
Oggi sto scrivendo nella Casa da Escrita sul Monsanto, la montagna sacra del Portogallo. Presto la Arlen House pubblicherà la mia traduzione del Tribunale di mezzanotte , assieme con la mia commedia Maenmarc, un tentativo di immaginare la vita di Merriman immediatamente prima che lui scrivesse il suo capolavoro, assieme a Cúirt ar a Camchuairt, una commedia sui costumi sessuali dei quali sarebbe interessante discutere, nel caso in cui un simile tribunale dovesse radunarsi oggigiorno.
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[1] Irish Travellers , popolo nomade di etnia irlandese che mantiene lingua e tradizioni autonome. Vive per la maggior parte in Irlanda, ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti
On the Road Again: Thoughts on the Creative Journey
by Anthony Glavin
‘The end is nothing, the road is all. In fact, the road and end are literally one.’ Death Comes to the Archbishop, Willa Cather
‘Lately it occurs to me what a long, strange trip it’s been’.
‘Truckin’ by The Grateful Dead
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I’m not sure it’s possible for me to pinpoint the inception of something like a ‘creative journey’, but let’s say it begins on a Greyhound bus pulling out of its Boston depot on Tuesday, July 5, 1966. Being a Virgo, of course, I’d even noted the time—8:45 p.m.—on the first page of a soft-cover, thread-bound, reporter-style, notebook that served as a journal on that first, storied, road trip all those years ago. Proud possessor of a $99 Dollar/99 Day Bus Pass, I’ll spend the next ten weeks both bussing and hitch-hiking some 8,500 miles around the continental USA, along with a short trip north of the border into Canada, via ferry to the lovely town of Victoria, on Vancouver Island, British Columbia. I am nineteen, utterly clueless in most every way, but apparently adventurous, and adventures I’ll find aplenty.
The first page or two of that journal are given over to describing fellow bus passengers, “a small cowboy in violet shirt particularly obnoxious” and “a 25-year-old African-American, off to Chicago to start a new life”, together with a notation that ‘Ohio and Indiana are all fields, barns and big cloud-filled sky”. My first stop is a lakeside resort in Wisconsin, where I plan to spend the weekend visiting Clement, a university pal who has a summer job washing dishes there. However, I fall head over heels for Linda, a waitress at the resort, “auburn hair & fantastic laugh”, so signing on as a temporary bus boy, I clear tables for ten or twelve days, before I say goodbye to Clement and Linda both, and thumb a lift to the Greyhound bus station in Milwaukee. Pulling out my magic $99 Bus Pass, I then ride all the way to Billings Montana, where I hop off and hitch down to Yellowstone National Park, where I camp for a couple of nights, noting down a “rather large black bear passing within 12 feet of where I was unrolling my sleeping bag’.
I take note in my journal later that week of the majestic sunset—“dark purple clouds with a pink fringe” on the “golden mountains” at Lake Solitude in the Grand Tetons, whose 10,000-feet altitude makes me “feel high, 3 or 4 beers worth anyways”. In fact, the light and colour show moves me to tears, and I recognise the next year at university some of what I was feeling that evening upon encountering what the English poet Wordsworth wrote about the sense of “the sublime” that he and the other Romantic poets experienced upon first visiting the Alps.
I could continue to quote happily from that 42-year-old notebook here on my desk, lines of a close encounter with a rattlesnake while climbing out of the Grand Canyon in Arizona. Or of sleeping on the beach a few weeks earlier in Northern California, or another night in a small bar in the North Beach neighbourhood of San Francisco, where I hadn’t the wit yet to know about the poet Lawrence Ferlinghetti, otherwise I’d have visited his City Lights bookshop there, though who’s to say (certainly not my inner fantasist!) that Ferlinghetti wasn’t also in the bar that night? However, I remind myself how I’ve always come to everything late, not discovering Jack Kerouac’s On the Road till three years later, in a paperback edition in Costa Rica, where I am serving in the US Peace Corps, and as it happens, hitch-hiking the Pan-American highway one afternoon on a trip from my rain forest village into the capitol, San Jose. And, yes, keeping another journal, only by this time, I know that I too want to write.
I don’t do much about that wish for the next four years, which are spent teaching ESL and English literature back in my old Cambridge, Massachusetts secondary school, while thumbing to Indiana on school holidays to see my girlfriend, Debbie Sue, and journeying south of the border over several summers, some of it by thumb, through Mexico, Central America, and as far south as the northern shores of Lago Titicaca in southern Peru. However, I’ve also discovered Ferlinghetti’s poetry by now, wonderful poems like ‘I Am Waiting’ and ‘Autobiography’, which I give my high school students to read, while trying to scratch out a rough draft of one or two short stories myself. I also, of course, keep a journal, pecking out its entries with two fingers on a Smith-Corona portable typewriter, and putting the pages in a 3-ring-binder inside a manila folder.
Then, in 1974, I decide to call my own bluff—this feeling I’ve had about wanting to try to write. Fiction, that is—as unbeknownst to me, I have in fact already been writing, ever since I opened that first notebook on a July evening in 1967. And so I throw up my permanent & pensionable teaching job, and come to Ireland for fifteen months to see if I can in fact make a go of it. I do, after a fashion, and now, decades later, more than thirty journals sit on my study shelf, annotating everything from daily life down the years in Boston, Donegal and Dublin, to road, air & sea trips around Europe, and two or three times back to my native America. One small, black, hardback journal recounts a first trip ever to Italy in the summer of 1967, driving with that same classmate Clement, from Chamonix-Mont Blanc through Switzerland: “the black, drizzling crags evolving out of the mist as we neared the Italian border, the fog lifting enough to show occasional, weather-worn stone houses, some built halfway into the slope… the rocks wet, and mist everywhere with small pines scattered on the ledges…we entered Italy and camped off a small road, above Spresa on Lake Maggiore”.
What’s not on the shelf is a notebook I foolishly left behind on the plane returning from six breath-taking days in Rome in March, 1999, where my Adrienne and I stayed in 16th-century digs, at No. 147 Via Giulia to be exact, just around the corner from the Piazza Farnese , and not far from the Piazza Campo de’ Fiori, whose wine bar ‘La Vineria’ our late friend, and brilliant writer, Nuala O’Faolain had recommended, saying how it had also been frequented by Aurelio Zen, the Italian police inspector protagonist of the late British crime fiction writer, Michael Dibdin. We didn’t spot Zen (or Ferlinghetti for that matter) on the several nights we dropped by, but were utterly charmed by the tiny place, and how the gorgeous glass of merlot fell in price each successive evening we called in.
I managed to hold onto the journal in which I wrote of our last trip to Italy in June 2006, which included a lovely day trip by boat to Venezia, “just stunning as you approach it by water…we sit for a time on a bench in the shade of a large tree in Campo San Paolo, drinking our bottled water and people and pigeon watching, the courting display of one male (among the latter) highly diverting as he sweeps the ground with his outspread tail-feathers and circles his intended”. A further entry describes another quiet quarter-hour spent on another bench, this time in the Campo Maria Formosa, which will lend itself to fiction a few years later, a short story in which the narrator tells of a conversation he had with a friend Noreen in a Dublin park about the last trip he took with Detta, his recently deceased wife :
She’s sound, Noreen is; no longer pushes anywhere as hard about how am I doing as she did in the first months after Detta’s death, though still very much to the fore of the handful of friends who circled round….. As I left the canal behind, I thought of how she had called by that February to insist I accompany her over to the Northside for a walk in St Anne’s Park. A day of bright sunshine, and mild enough for us to sit for a spell on some stone steps down where the park meets the Howth Road, a tiny waterfall at our backs, a small pond in front, and all of Dublin Bay stretched out beyond. Noreen had remarked on all the water when we sat down and had spoken something about its correspondence with the emotions when we left, the kind of spiritual-speak stuff that I’m not keen on but have learned to let go by unremarked the odd time I encounter it. But I won’t deny that I broke down entirely on those steps, after I had finished telling Noreen of the September weekend Detta and I had grabbed in Venice, between radium treatments, and before we knew which way her illness might be heading. Describing for her the small square across the Ponte di Rialto where we had sat for an hour on a bench by a narrow canal, watching the gondolas pass by at eye level, the pale yellow sunlight on the wall of an adjacent church like fresh paint on old stone.
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‘One of Those Stories’ by Anthony Glavin/New Irish Short Stories (Faber, 2011)
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Which brings me full circle, or near enough, for my purposes here. Which is to say, I’ll be taking a hard-bound journal, not a laptop with me next month to Verona and Nogarole Rocca. What a long, strange, marvellous journey it’s been!
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Writer, editor, critic and journalist Anthony Glavin is the author of a novel, Nighthawk Alley, and two short story collections, One for Sorrow, and The Draughtsman and The Unicorn.
Di nuovo sulla strada: riflessioni sul percorso creativo di Anthony Glavin
(Traduzione di Valeria Lo Forte)
Il traguardo non è nulla, il cammino è tutto. Di fatto, il cammino e il traguardo sono letteralmente la stessa cosa.
La morte viene per l’arcivescovo, Willa Cather
Ultimamente mi viene in mente che lungo strano viaggio è stato
Truckin dei Greatful Dead
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NON SONO CERTO di poter definire esattamente cosa sia l’inizio di “un percorso creativo”, ma diciamo pure che esso ha avuto inizio su un autobus della Greyhound[1], partito dalla sua stazione di Boston martedì 5 luglio, nel 1966. Essendo io della vergine, naturalmente, ho annotato addirittura l’ora – 20.45 – sulla prima pagina di un’agenda dalla morbida copertina, rilegata a filo, nello stile dei reporter, che faceva da diario a quel primo, mitico viaggio sulla strada, tutti quegli anni fa. Orgoglioso di avere in mano un biglietto per l’autobus 99 dollari / 99 giorni, avrei passato le successive dieci settimane in autobus e in autostop per girare 8.500 miglia di America continentale, più un breve viaggio in traghetto a nord del confine, in Canada, verso la deliziosa città di Vittoria sull’isola di Vancouver, in British Columbia. Ho diciannove anni, sono totalmente sprovveduto, quasi in ogni senso, ma apparentemente avventuroso. E di avventure ne troverò un bel po’.
La prima pagina o le prime due di quel diario sono state dedicate alla descrizione dei compagni di viaggio trovati sull’autobus, “un piccolo cowboy in maglietta viola particolarmente sgradevole” e “ un venticinquenne afroamericano diretto a Chicago per cominciare una nuova vita”. E c’è anche un’annotazione, “Ohio e Indiana sono tutto un susseguirsi di campi, capannoni e cieli pieni di grosse nuvole”. La mia prima fermata avviene in un resort presso un lago nel Wisconsin , dove programmo di trascorrere il fine settimana per visitare Clement, un amico dell’università che qui ha trovato un lavoretto estivo come lavapiatti. Comunque sia, mi innamoro perdutamente di Linda, una cameriera che lavora al resort, “capelli castano ramato e risata fantastica”. Così, impegnandomi a prestare servizio come aiuto cameriere temporaneo, pulisco tavoli per una decina o una dozzina di giorni prima di salutare entrambi, Clement e Linda, e poi faccio l’autostop per la stazione degli autobus Greyhound di Milwaukee. Con il mio magico biglietto dell’autobus da 99 dollari viaggio verso Billings in Montana, qui salto giù e trovo un passaggio per il parco nazionale di Yellowstone, dove mi accampo per un paio di notti e prendo nota di “un orso bruno piuttosto grande a circa 12 piedi dal posto in cui sto srotolando il mio sacco a pelo”.
Più tardi quella settimana scrivo sul mio diario del maestoso tramonto – “nuvole color porpora scuro con una frangia rosa” sulle “montagne d’oro” presso il lago Solitude nel Grand Teton, i cui 10.000 piedi di altezza mi fanno sentire “alticcio, in ogni caso degno di 3 o 4 birre”. In realtà, lo spettacolo della luce e dei colori mi commuove, e l’anno successivo, all’università, imbattendomi in ciò che il poeta inglese Wordsworth spiegò sul senso del “sublime” che lui e gli altri poeti romantici sperimentarono alla loro prima visita delle Alpi, riconosco parte di ciò che avevo provato quella sera.
Potrei continuare a citare allegramente, da quel mio diario di 42 anni fa che sta qui sulla mia scrivania, annotazioni su un incontro ravvicinato con un serpente a sonagli, mentre mi arrampicavo fuori dal Gran Canyon in Arizona. O di quando dormii in spiaggia qualche settimana prima, nella California del Nord. O di un’altra notte, trascorsa in un piccolo bar nel quartiere North Beach di S. Francisco, quando non ero ancora abbastanza acuto da conoscere il poeta Lawrence Ferlinghetti, viceversa avrei visitato la sua libreria City Lights, anche se, chi potrebbe dire (certamente non il mio fantasista interiore!) che Ferlinghetti non fosse nel bar quella notte? Ad ogni modo, ricordo come io sia arrivato a tutto sempre tardi, scoprendo Sulla strada di Jack Keruak solo tre anni dopo, in un’edizione in brossura in Costa Rica, dove prestavo servizio nel Corpo della Pace degli Stati Uniti, e, come avviene, mentre percorrevo l’autostrada panamericana in autostop, un pomeriggio, in viaggio dal mio villaggio nella foresta pluviale alla capitale, S. Josè. E, sì, tenendo un altro diario, solo allora mi rendo conto che anche io voglio scrivere.
Non faccio molto per seguire quel desiderio per i successivi quattro anni, che ho trascorso insegnando Inglese come seconda lingua e letteratura inglese nella mia vecchia scuola secondaria a Cambridege, nel Massachusset, andando a trovare, durante le vacanze scolastiche, la mia ragazza Debbie Sue in Indiana in autostop, e viaggiando a sud del confine per numerose estati, a volte in autostop, attraverso il Messico, l’America Centrale, e le coste sud e nord del lago di Titicaca, nel Perù meridionale.
Con tutto ciò, ho anche scoperto oramai la poetica di Ferlinghetti, poesie magnifiche come “Sto aspettando” e “Autobiografia”, che dò da leggere ai miei studenti delle superiori, mentre io stesso cerco di cavare fuori un grossolano abbozzo di uno o due brevi racconti. Naturalmente tengo anche un diario, picchiettando annotazioni con due dita su una macchina da scrivere portatile Smith-Corona, e mettendo le pagine in un raccoglitore a tre anelli dentro una cartella di file manila.
Poi, nel 1974, decido di scoprire le carte – questa sensazione di voler provare a scrivere. Romanzi, proprio questo – nonostante a me sconosciuti. Infatti avevo già iniziato a scrivere, fin da quando aprii quel primo diario una sera di luglio del 1967. E così, pianto il mio lavoro di insegnante, un posto fisso e con pensione garantita, e vengo in Irlanda per quindici mesi, per vedere se effettivamente posso farecela. Ce la faccio, in qualche modo, e ora, decenni dopo, più di trenta diari stanno sullo scaffale nel mio studio, pieni di appunti su ogni particolare della vita quotidiana sugli anni di Boston, Donegal e Dublino, su viaggi sulla strada, in volo e per mare lungo l’Europa e due o tre volte indietro, nella mia nativa America. Un piccolo diario nero con la copertina rigida racconta anche un primo viaggio in Italia nell’estate del 1967, mentre stavo guidando con lo stesso amico Clement da Chamonix sul Monte Bianco attraverso la Svizzera: “i neri dirupi piovigginosi che emergevano dalla foschia mentre ci stavamo avvicinando al confine italiano, la nebbia che si alzava quel tanto da mostrare, ora qui ora là, case di pietra logorate dalle intemperie, qualcuna costruita nel bel mezzo di un pendio… rocce bagnate e foschia ovunque con piccoli pini disseminati lungo le cengie… entrammo in Italia e ci accampammo a fianco di una piccola strada sopra Stresa, sul Lago Maggiore.
Quello che manca dallo scaffale è un’agenda che stupidamente dimenticai sull’aereo di ritorno da un viaggio mozzafiato di sei giorni, nel marzo del 1999, a Roma, dove io e la mia Adrienne alloggiavamo in una camera con arredi del sedicesimo secolo, al 147 di via Giulia per essere precisi, proprio all’angolo con Piazza Farnese, non distante da Piazza Campo de’ Fiori, dove c’era l’enoteca “La Vineria”, che ci era stata raccomandata dalla nostra povera amica e brillante scrittrice Nuala O’Faolain: ci aveva raccontato come qui bazzicasse Aurelio Zen, l’ispettore di polizia italiano creato dal defunto giallista inglese Michael Dibdin. Non scorgemmo Zen (o Ferlinghetti se è per questo) nelle numerose notti che trascorremmo là, ma eravamo incredibilmente affascinati dal posticino minuscolo, e da come il magnifico bicchiere di merlot diminuiva di prezzo sera dopo sera quando chiedevamo il conto.
Sono riuscito a conservare il diario in cui scrissi del nostro ultimo viaggio in Italia nel 2006, che comprendeva una deliziosa gita in barca di un giorno a Venezia, “semplicemente sbalorditivo quando ti avvicini via mare… restiamo seduti per un po’ su una panchina all’ombra di un albero in Campo S. Paolo, bevendo la nostra bottiglia d’acqua e osservando persone e piccioni, un maschio (fra questi ultimi!) si esibisce in un corteggiamento, divertentissimo quando spazza il pavimento con le piume della sua coda spiegata e gira intorno alla sua fidanzata”. Un ulteriore appunto descrive ancora un buon quarto d’ora trascorso su un’altra panchina, stavolta presso il Campo Maria Formosa, e qualche anno dopo tornerà buono per un romanzo, una breve storia nella quale il narratore racconta di una conversazione avuta con un’amica, Noreen, in un parco di Dublino, riguardo l’ultimo viaggio che egli fece con Detta, la moglie mancata da poco:
Lei è affidabile, Noreen; non mi pungola più dovunque così vigorosamente per sapere come sto, come faceva nei primi mesi dopo la morte di Detta, seppure, in effetti, mi spinge ancora con forza verso la disponibile manciata di amici che mi circolavano intorno…
Quando oltrepassai il canale dietro di me, io pensai a come mi aveva chiamato, non più tardi di quel febbraio, insistendo che l’accompagnassi per una passeggiata nel parco di St. Anne, su a nord.
Una bella giornata di sole, e una temperature mite quel tanto da consentirci di sedere per un poco su alcuni gradini di pietra, giù dove il parco incrocia la Howth Road. Una cascatella dietro di noi, un piccolo laghetto davanti, e, oltre, l’intera baia di Dublino.
Noreen aveva fatto dei commenti su tutta quell’acqua quando ci sedemmo e, quando ce ne andammo, disse qualcosa su come essa corrisponde alle emozioni. Il genere di discorsi spirituali che non mi appassionano molto, ma che ho imparato a lasciar passare inosservati, quelle poche volte che mi ci imbatto.
Non negherò tuttavia che su quegli scalini crollai completamente, dopo che ebbi finito di raccontare a Noreen del week end di settembre che Detta e io riuscimmo a prenderci a Venezia, fra una radioterapia e l’altra e prima di sapere in che direzione sarebbe andata la sua malattia. E accadde raccontandole della piccola piazza al di là del Ponte di Rialto, dove ci eravamo seduti un’ora su ua panchina vicino a un canale, a guardare le gondole che passavano davanti a noi, e il pallido sole sul muro di una chiesa lì accanto, come appena dipinto sulle antiche pietre.
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‘ “Una di quelle storie” di Anthony Glavin/New Irish Short Stories (Faber, 2011)
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E questo mi riporta al punto di partenza, o quasi, per quanto riguarda gli scopi che qui mi ero prefisso. Ovvero, affermare che porterò con me un diario con la copertina cartonata, e non un portatile, a Verona e Nogarole Rocca il mese prossimo. Che lungo, strano, meravigilioso percorso è stato!
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Lo scrittore, editore, critico e giornalista Anthony Glavin è l’autore di un romanzo, Nighthawk Alley, e di due raccolte di racconti brevi, One for Sorrow, e The Draughtsman and The Unicorn.
Questi, i contributi pervenuti…
Sul post, invece, potrete leggere il contributo di Catherine Dunne in lingua originale e la traduzione dell’ottima Federica Sgaggio (che, insieme a Barbara Gozzi, come già anticipato, darà una mano nella traduzione simultanea online dall’italiano all’inglese e viceversa).
Vi invito a leggere tutti i contributi pervenuti con la massima calma e con il tempo necessario che richiedono.
(Tanto, data la complessità e l’impegno di questo post, non credo che vi proporrò altri dibattiti nei prossimi dieci giorni).
A questo punto, ne approfitto per riproporvi le domande del post, ispirate dal pezzo di Catherine Dunne (e volte a favorire il dibattito)…
1. Qual è il problema principale che sorge all’inizio di un “viaggio creativo”?
2. Quali, tra questi elementi, possono contribuire di più ad avviare il processo creativo di una storia? Una visione, un incipit, il ricordo evanescente di un sogno? O cos’altro?
3. Quali altre domande, oltre al «what if?» («cosa accadrebbe se?») potrebbe accompagnare lo scrittore nella prosecuzione del suo viaggio creativo?
4. Quali sono i principali ostacoli che deve affrontare uno scrittore nella prosecuzione del suo itinerario creativo?
Queste alcune possibili domande (ma inserite le vostre riflessioni anche a prescindere da esse)…
Scrivete in lingua italiana e in inglese (o in entrambe, se volete).
E rivolgetevi pure ai nostri amici irlandesi che (auspico) parteciperanno alla discussione.
(E sarebbe bello se – lo dico a Federica e Barbara – i nostri amici irlandesi potessero interloquire anche tra loro… oltre che con i lettori/frequentatori del blog).
Per il momento chiudo qui.
Auguro a tutti voi una serena notte.
Per ora… buongiorno!
Direi di iniziare lentamente, caffè?
Mentre mescolo lo zucchero nella tazzina ringrazio Massimo che ha sognato assieme a noi e ci sta dando, ora, l’opportunità di confrontarci e condividere qui davvero ‘tante cose’… forse la discussione sembra già infinita, non c’è fretta. Ci sono cinque interventi secondo me interessanti, che racconto del ‘viaggio creativo’ ognuno a modo loro e che sono tante gocce nel mare deila creatività.
Nei prossimi giorni avremo modo di raccontarci per bene, con calma appunto e – se vi va – virando tra argomenti, progetti e idee.
Secondo me la creatività è ovunque, esattamente come ognuno ha i suoi talenti, le difficoltà iniziano quando le necessità (anche pratiche), le scelte, e le realtà con cui ci confrontiamo, mettono a tacere ciò che ci attira, quelle unicità appunto creative che possono andare dal riuscire a dipingere a mano fino a scrivere, fotografare, cucinare… whatever.
E’ un post bellissimo. Un’iniziativa stupenda. Un “doppio sogno” : quello di Babelit e quello del festival letterario italo-irlandese.
Grazie!!!!!!!
Ci tenevo a dirvelo.
Naturalmente leggero’ tutti gli articoli e poi se avrò qualcosa di interessante da dire parteciperò al dibattito.
Intanto grazie!!!!!
sto già iniziando a leggere. per il momento aggiungo i miei complimenti a quelli di annamaria. un post (e un posto) davvero notevole.
@ barbara gozzi – Federica sgaggio
vi avevo già sentite nel programma radio di maugeri. il vostro progetto e’ bello e lodevole. vi auguro ogni successo.
Salve, seguo questo blog da qualche mese ormai. Mi sono finalmente deciso ad intervenire perché stimolato dall’articolo di Catherine Dunne, di cui ho letto un paio di libri nella versione italiana pubblicati da Guanda.
Premetto che non scrivo, sono cioè un semplice lettore affascinato dalle belle storie. In ogni caso, il percorso creativo, o il viaggio creativo, come scrive la Dunne, mi interessa moltissimo, perché è l’itinerario che permette a me lettore di mettermi sullo stesso piano dello scrittore che leggo.
Ci sono vari punti dell’articolo di Catherine Dunne che mi piacciono molto. Ho fatto seguire qualche riflessione nella speranza di non annoiarvi.
Il primo è questo.
La Dunne scrive: «ogni viaggio creativo comincia con un “problema”»
Questa considerazione iniziale, che può sembrare banale, in realtà mi ha spiazzato. Non ho mai pensato infatti che il processo di scrittura di una storia potesse iniziare con un “problema”. Per me lettore, nel momento in cui acquisto un libro e comincio a leggerlo, la “tavola è già imbandita”. Cioè, per uscire dalla metafora, è già tutto pronto perché io viva quell’esperienza di lettura. Ma non avevo mai riflettuto abbastanza sul fatto che quel risultato finale nasce con un “problema” iniziale che lo scrittore si trova a risolvere per me, che poi ne sono il fruitore.
Secondo punto.
«cosa accadrebbe se?». Questa domanda accompagna lo scrittore sin dall’inizio del suo viaggio creativo, così scrive la Dunne. Dal punto di vista del lettore, invece, la domanda si trasforma. Non è più «cosa accadrebbe se?», ma diventa : «cosa accadrà adesso?». E’ una domanda implicita, sotterranea, che mi pongo ogni volta che leggo un romanzo. Magari ottengo notizie dalla lettura della quarta di copertina, o del testo riportato nel risvolto. E mi dico : “ok, mi interessa. Voglio leggere perché voglio vedere cosa accadrà”. La soddisfazione di questa mia domanda, dipende dall’esito della risoluzione della domanda iniziale che si pone lo scrittore.
Terzo punto.
Ogni storia comincia dalla prima risposta che lo scrittore dà al suo «cosa accadrebbe se?». Ma poi la domanda, almeno così credo, si ripropone ad ogni passo della storia, ogni volta che si pensa di aggiungere un nuovo anello, un nuovo fatto, di far comparire un nuovo personaggio.
«cosa accadrebbe se?». Naturalmente le risposte possibili sono potenzialmente infinite. E io da lettore, aspetto di vedere gli esiti pagina dopo pagina. Forse il gusto vero della lettura è proprio questo.
Quarto punto.
Catherine Dunne scrive: “Ho la padronanza del processo – sì – ma è un processo che slitta e si modifica con ciascuna nuova storia. E non diventa affatto più facile: diventa più difficile, invece. Come scrittore, vuoi fare di più, meglio e in modo diverso”.
Questo aspetto, quello cioè della scrittura e del processo creativo come sfida è pure molto interessante. Per la verità non avevo mai pensato, ragiono sempre da lettore, che per chi scrive il percorso creativo potesse essere visto come una sfida. Una sfida, intanto, verso se stessi. L’assunzione di questa consapevolezza fa aumentare la stima nei confronti dello scrittore e mi spinge a rispettare ancora di più la storia che mi è stata consegnata, il viaggio che mi è stato offerto.
Spero che queste riflessioni non risultino noiose o banali.
Termino con il ringraziare Catherine Dunne per il suo articolo, Federica Sgaggio per la traduzione ( non conosco benissimo l’inglese, purtroppo ) e Massimo Maugeri per avermi dato questa possibilità.
riccardo, anch’io -da lettore- non posso che condividere le tue considerazioni.
Grazie a Massimo.
Grazie a chi è intervenuto.
Grazie a chi interverrà.
Questo progetto mi riempie l’anima e il cuore da mesi. Sono felicissima di poterne parlare qui con tutti voi.
Qui sotto, alcune cose che mi son venute dopo la lettura dell’intervento di Catherine Dunne.
Poi lo posto anche in inglese, scusandomi per gli errori.
***
La cosa che ha scritto Catherine io l’ho «bevuta».
Ho percepito fisicamente ognuna delle cose che ha scritto.
Ha assolutamente ragione, ho pensato.
Il problema più l’ispirazione uguale il «cosa accadrebbe se?».
Mi piace il modo in cui ha descritto l’«eruzione» di Patrick, e il bisogno di sentirsi separata – forse in una specie di situazione di conflitto – dai suoi personaggi: non si può costruire una storia di finzione che non pensi a te stesso come a qualcosa del tutto altro dai tuoi personaggi, indipendentemente da quanto tu possa amarli o da quanto profondamente tu li conosca, e viceversa.
È forse una questione simile alla «madrità» di cui Catherine parla nel suo intervento?
Raccontare una storia è un viaggio, certo, perché è qualcosa insieme alla quale tu ti muovi attraverso, contemporaneamente e in sintonia.
Non si tratta solo di muoversi da A a B. Ha a che vedere con l’aprire le tue percezioni, i tuoi sensi, la tua mente, il tuo cuore alle vite nuove che «sgorgano»; alle nuove vite che tu effettivamente riesci a vedere; con le quali ti mescoli.
Ecco perché ogni volta è diverso; perché tu sei diverso; la tua vita procede; non puoi guardare alle cose perpetuamente con gli stessi occhi.
Mi è capitato di fermarmi recentemente a pensare alle ragazzine di adesso.
Stavo guardando le compagne di scuole di mio figlio.
Portano collane; si fanno la French manicure dalla stessa estetista da cui va la madre; portano lunghissimi capelli pronti a velare i loro volti bambineschi con uno strato di sensualità. Vanno di corsa lungo la strada della loro femminilità.
Sono belle, naturalmente. Molto più belle di quanto io non fossi alla loro età.
Esattamente come le mie compagne, a me bastava essere una ragazzina, per il semplice dato di fatto che ero una ragazzina che stava cercando in modo combattuto la sua strada verso la trasformazione nella donna che sarebbe diventata. Mi bastava quell’attesa. Non mi pareva di aver bisogno d’altro.
Non credevo di aver bisogno di qualcosa per esaltare la mia femminilità. Ne avevo paura, anzi. E probabilmente stavo prendendomi il mio tempo. Ciò che alle ragazzine di adesso il nostro mondo feroce non sa concedere.
Se adesso posso dipingermi le unghie o indossare scollature ampie, o camminare sui tacchi perché il mio corpo ha modificato la sua forma, perché il lio orizzonte ha cambiato il suo profilo. In breve, perché ora mi serve di più per essere femminile. Ho dovuto alzare l’asticella, come ha scritto Catherine. Ho dovuto, allo stesso modo, ridisegnare la mappa, perché la vita ti insegna un’enormità di lezioni.
(Ecco perché ho una qualche preoccupazione per queste ragazzine: quale asticella saranno in grado di alzare, quando si tratterà di maneggiare la materia delicata del conflitto latente fra femminilità e maternità, per esempio?).
Questo per dire che non si guarda alle cose sempre con gli stessi occhi, e che il viaggio creativo ha a che vedere anche con la propria vita.
E che non si può non pensare che anche la scrittura in sé – e non solo il singolo libro – sia un’altra storia, a sua volta; che racconta di noi, delle asticelle che abbiamo alzato, e delle volte che ci siam passate sotto perché ci parevano troppo alte.
English version (sorry for my mistakes, guys).
Many many thanks to Massimo.
Thanks to whom has commented already. To whom will comment something.
This project has been filling my soul and heart for months. I am very very happy to have the chance to discuss it with any of you.
These below are some comments on Catherine’s intervention above.
***
I drank Catherine’s words.
I have been sensing every single word Catherine wrote.
She is perfectly right, it has been like a light suddenly flashing inside: yes, she’s right!
The problem plus the moment of inspiration equals the what ifs, though maths are out of all of this.
I love the way she described the eruption of Patrick, and the need of being separated – maybe in some sort of conflict – with her characters: you can’t make a fiction of your story if you don’t think of yourself as completely other than your characters, no matter how much you can love them or how deep you are into them and viceversa.
Is it similar to the “motherness” she write about?
Telling a story is a journey, yes, because it is something you move along with, through and together with.
It’s not simply a matter of going from A to B. It’s opening your feelings, senses, brain, heart and pores to new pouring lives you actually see and mix with.
That’s why it is always different; because *you* are always different; your life goes on; you can’t see the same all the way.
I have been recently thinking for a while of girls nowadays.
I was looking at my son’s female schoolmates.
They wear necklaces; they have French manicure done by the same beautician as their mothers; they have long long hair which are ready to veil their childish faces with a layer of sensuousness. They are running down the alley of their femininity.
They are beautiful, of course. Much more beautiful than I was at their age.
I – just like my schoolmates – was satisfied with my being a girl because of the simple fact that I was a girl struggling to become a woman. I was satisfied with this expectation; I wasn’t in need of anything else.
I didn’t think I was in need of something to enhance my femininity. I was afraid of it. I was taking my time, maybe. Which is exactly what our ferocious world isn’t willing to allow the girls to take.
Now I can varnish my nails or wear a low-neckline shirt, or walk on high heels because my body has changed its shape, because my horizon has changed its profile. In one word, because now I need more things to be feminine. I had to raise the bar, as you write. I had to redraw the map as well, because life teaches you a lot of things.
(That’s why I am concerned for those girls: what bar will they be able to raise, when it comes to their femininity and its latent conflict with motherhood, for instance?).
I am telling about this eccentric issue just because I would like to enlighten this point, that you can’t see the same all the way, and that your creative journey has to do with your own life.
And that you can’t help but thinking that the act of writing – not just the single book or story you are writing – is another story in itself; a story which tells about us; about the bar we raised; and about the times we passed below the bars we saw as too high.
trovo che il commento di federica sgaggio sia bellissimo. affronta anche temi delicati e importanti.
sarebbe bello leggere la replica di catherine dunne.
pero’ dovete tradurre. io sono una capra con l’inglese. 🙂
scherzi a parte (anche se davvero non mastico granché l’inglese), mi e’ molto piaciuta questa frase di federica sgaggio “Questo progetto mi riempie l’anima e il cuore da mesi.”
credo ci sia tanto bisogno di gente ancora capace di farsi riempire anima e cuore dai bei progetti.
grazie anche per questo.
Grazie a te, Giacomo.
Il cinismo a volte sembra la più importante fra le doti «civili» minime richieste in questo Paese.
Questa cosa mi fa stare malissimo.
(Giacomo, above, says he would like to read Catherine Dunne’s reply to my comment…).
mi piace leggere il mio nome nel contesto di una frase in inglese.
it’s cool!
ecco, ho esaurito il mio repertorio.
🙂
Caro Massimo, che bello vedere il ritorno di Babelit. Un caro saluto alle scrittrici Irlandesi che sono intervenute e allo scrittore.
Noto con piacere che c’è una prevalenza femminile in questo post. 🙂
Provo a rispondere alle tue domande, da semplice lettrice anch’io.
Prima voglio fare mie le parole di Giacomo nel ringraziare Federica Sgaggio per il bel progetto del festival. Può essere che riesca a fare un salto.
Le mie risposte….
Ooops, ovviamente le parole di ringraziamento per Federica vanno anche a Barbara ed agli altri organizzatori.
1. Qual è il problema principale che sorge all’inizio di un “viaggio creativo”?
Il mio pensiero, da semplice lettrice, è che il primo passo per iniziare a scrivere una storia sia l’idea giusta. Un’idea di partenza che può dare il la a tutto il “viaggio creativo”. Immagino che in assenza di questa idea non si vada da nessuna parte.
2. Quali, tra questi elementi, possono contribuire di più ad avviare il processo creativo di una storia? Una visione, un incipit, il ricordo evanescente di un sogno? O cos’altro?
Secondo me, ancora prima della scrittura ci dev’essere un’idea (come dicevo prima) o una immagine. La scrittura viene dopo. Perciò un buon incipit che non discenda da una buona idea rimane fine a se stesso. Credo che il primo step (così uso una parola inglese 🙂 ) della scrittura avvenga con l’immaginazione e non con la penna.
3. Quali altre domande, oltre al «what if?» («cosa accadrebbe se?») potrebbe accompagnare lo scrittore nella prosecuzione del suo viaggio creativo?
Secondo me, come del resto ha precisato la stessa Catherine Dunne, in chiusura del suo articolo, è necessario porsi domande sul tipo di linguaggio da adottare, e chiedersi se la trama regge e se la storia mantiene un suo equilibrio ed una sua coerenza. Per esempio, qualche altra domanda che uno scrittore potrebbe porsi è: quel che ho scritto è verosimile? è funzionale alla storia?
4. Quali sono i principali ostacoli che deve affrontare uno scrittore nella prosecuzione del suo itinerario creativo?
Parlo sempre da lettrice, incuriosita dal processo di scrittura creativa che deve seguire uno scrittore (ho pure letto qualche manuale). Secondo me uno degli ostacoli potrebbe essere il pensare alla storia nel suo complesso come una matassa difficile da sbrogliare. Questo potrebbe creare un “effetto scoraggiamento”, tanto maggiore quanto più lunga e ambiziosa è la storia che si vuole scrivere. Meglio affrontarla per fasi, penso.
Ma sono le umili riflessioni di una lettrice…
Un saluto a tutti e tanti in bocca al lupo per il festival letterario italo/irlandese.
Spero di riuscire a farvi una visita.
Ciao a tutti, io ringrazio Massimo Maugeri per la gentilezza e l’attenzione con la quale ha accolto il progetto dell’associazione ònoma. Hai un blog interessante, carico di contenuti. Ho letto buona parte degli interventi, me ne riservo uno alla fine del percorso tra le bellissime frasi che ho raccolto qui. Per adesso dico soltanto: creatività, viaggio, libertà, stare bene, ottima compagnia, fiducia nel futuro, comprensione, vicinanza, apprendimento.
Un caro saluto
Per quanto mi riguarda il processo creativo non ha regole mai – con me intendo.
Negli anni mi è capitato di ‘vedere’ una storia mentre guidavo (ho lavorato per tredici anni in un posto fisso e avevo circa un’ora da passare al volante, a volte di più). Ma anche mentre facevo cose banalissime come tirare fuori i panni dalla lavatrice o infilare la chiave nella toppa della porta.
Ho una certa necessità di ‘contaminazione’ o comunque di associazione tra musica, odori, sapori, colori e luoghi. Ognuno di questi elementi, in maniere e modi diversi e inaspettati, ha contribuito a portarmi verso un personaggio, un intreccio, un dialogo, una tematica… a volte mi è capitato di sentire una musica mentre scrivevo – la sentivo nella mia testa, evocata da chissà quale logica e accomunanze con quello che stavo impastando.
Mi è anche capitato – ma me ne sono accorta molto dopo, le consapevolezze tendono ad avere velocità tutte loro – di raccontare scene, ambientazioni, atmosfere, dettagli (come vasi, sedie o letti) andando ad acciuffare frammenti del mio passato (anche di quand’ero bambina) perchè, in fondo, registriamo sempre, anche quando non ci pensiamo o non lo facciamo con una qualche finalità predefinita. E ogni registrazione può finire sommersa dalle altre, chiusa in chissà quale cassetto delle memorie e lì lasciata, oppure a un certo punto – innescata o meno da qualcosa o qualcuno – la registrazione pretende attenzione, inizia a bussarci dentro ed entra in quello che stiamo visionando o scrivendo.
C’è comunque un tempo in cui si crea, e un tempo per lasciar sedimentare. Può capitare che i ‘movimenti’ si ripetano anche in ordine sparso, ma per me è centrale ascoltare, respirare, vivere poi, o nel frattempo, assecondare le visioni, seguire le storie che si compongono silenziosamente e solo dopo, molto dopo, prendere a dare una sequenza alle parole.
Ma non credo che sia così per ogni forma d’arte.
E ovviamente le soggettività, le esperienze, le inclinazioni, i caratteri e le percezioni fanno di ognuno di noi, anime diverse con diverse proponsioni.
Mi è capitato, negli ultimi anni da quando ho iniziato a cedere alla passione (assolutamente non professionale) per lo scattare foto, di accorgermi di quanto avessi bisogno di ‘fissare’ immagini, anche a caso, senza una ragione palesata durante lo scatto, o senza premeditazioni per le inquadrature in sé, o gli altri elementi. Scattare, scattare, provare, riprovare. Dopo, anche a distanza di giorni e settimane, ritrovare le fotografie e ‘vederle’ con un occhio meno vicino, meno umorale. Allora riesco a scegliere, e intervenire sugli scatti, solo quando ‘dentro’ mi sembra di sentirci o trovarci ‘qualcosa’.
Anthony Glavin ha scritto:
“NON SONO CERTO di poter definire esattamente cosa sia l’inizio di “un percorso creativo”, ma diciamo pure che per me ha avuto inizio su un autobus della Greyhound, partito dalla stazione di Boston martedì 5 luglio 1966. Essendo io della vergine, naturalmente, ho annotato addirittura l’ora – 20.45 – sulla prima pagina di un’agenda dalla morbida copertina, rilegata a filo, nello stile dei reporter, che faceva da diario a quel primo, mitico viaggio sulla strada, molti anni fa”.
Mi ritrovo molto in queste parole perché ho sempre avuto l’impressione, rispetto ai miei piccoli percorsi quanto ascoltando i racconti e le riflessioni altrui, che non solo non esistono regole, ma che ogni volta è diverso anche per ognuno di noi.
Sono anch’io della Vergine – ebbene sì – e sono anch’io afflitta dalla tipica forma di precisione e puntualità sotto cutanea, per cui ricordo quasi tutti gli ‘inizi’ ma non li saprei catalogare o definire se non come percorsi differenti tra loro, innescati in momenti che più diversi non potevano essere nella mia vita e che ad oggi vedo quasi come ‘narrazioni essi stessi’.
Ricordo il primo quaderno a quadretti su cui scrivevo storielle mentre preparavo l’esame di maturità. Era l’epoca di S.King, della fantascienza, dei corpi ancora da capire e della alchimie misteriose tra le persone. Ricordo che la copertina era chiara e alcune pagine si erano arrotolate. Le bic nere con cui ho scritto si sono, lungo i mesi, rotte o consumate. Il quaderno invece era piccolo, lo tenevo in cartella, ma anche nella tasca del giubbotto quando andavo a Modena nelle corriere blu dal paesello in cui vivevo.
Ultima annotazione, per ora, rispetto al «cosa accadrebbe se?»
Secondo me, la domanda «cosa accadrebbe se?» non andrebbe mai dimenticata in nessuna fase del processo creativo, nemmeno quando si è conclusa la prima stesura della storia e nemmeno se si è certi di tutta una serie di decisioni prese (stile, registro, ritmo, sviluppo della trama, descrizioni, tratti dei personaggi, ecc.).
Perché è fondamentale mantenersi sempre il più possibile “open/aperti” anche rispetto a qualcosa di nostro, creato e definito da noi.
«cosa accadrebbe se?» è un modo come un altro per non dimenticare che le porte le chiudiamo solo noi, solo quando decidiamo noi e solo se davvero lo vogliamo – ma anche che le possiamo riaprire se le abbiamo chiuse troppo in fretta o anzi tempo, rispetto a quanto possiamo e vogliamo dire e raccontare.
‘Chiudere’ a volte è un problema, mi è capitato in diversi contesti professionali lavorando con autori che erano certi di determinati elementi laddove invece, discutendone assieme, proponendo nuove angolazioni, successive immaginazioni a quanto già scritto, sbucavano “dal cilindro” dello stesso autore novità che potevano essere semplici elaborazioni quanto scene aggiunte o tolte, personaggi che hanno mostrato altre parti di sé, luoghi o dinamiche narrative efficaci in modo diverso o addirittura in grado di mostrare la stessa storia sotto ‘riflettori’ e sensibilità che non sembravano prossibili – nei primi intenti dell’autore.
«cosa accadrebbe se?» andrebbe vissuto come quesito per stimolarci a carezzare i limiti del lavoro, della fase creativa, e vedere se davvero ci sono dei confini o se c’è ancora margine in cui concentrare sguardi, ascolti e annotazioni.
Con «cosa accadrebbe se?» ci si preserva anche dalla tentazione di sentirsi ‘arrivati’ dentro la stessa storia, perché spesso non lo siamo affatto ma abbiamo bisogno di fissare uno ‘stop’ e questo accelera il processo creativo, forza le immaginazioni e, a volte, ci fa perdere briciole importanti.
Naturalmente, a un certo punto la fine arriva e la storia lì finisce, non è detto che ‘la fine’ sia però quella che noi abbiamo deciso nella nostra linea temporale.
Vi è mai successo di dire ‘è finita’ rispetto al legame con una persona, poi di rivederla anche a distanza di anni e capire che la fine ancora non c’era stata? Con le storie e le creatività funziona allo stesso modo, secondo me. Non sempre, ovviamente, ma va messo in conto.
Cari amici, vi ringrazio di cuore per questi primi commenti pervenuti.
Ne approfitto per salutare e ringraziare: Annamaria, Giacomo Tessani, Riccardo Morini (benvenuto a Letteratitudine), Amelia Corsi…
Ancora una volta un grazie di cuore a Federica Sgaggio e Barbara Gozzi: grazie per questi vostri primi commenti, per le traduzioni, e per il vostro sogno del festival letterario italo-irlandese.
A proposito del Festival…
ne approfitto per ricordare che si svolgerà dal 3 al 6 maggio 2012 a Nogarole Rocca e a Verona.
Trovate info qui: http://letteratitudinenews.wordpress.com/2012/03/28/festival-letterario-italo-irlandese/
e sul sito dedicato al festival: http://italireland.net/
@ Luigi Grimaldi
Caro Luigi, grazie per essere intervenuto e complimenti anche a te per il lavoro che state svolgendo.
Naturalmente grazie mille anche ai nostri amici irlandesi (che spero possano intervenire direttamente qui, dialogando anche tra loro).
Grazie dunque a (thank you very much to): Catherine Dunne, Lia Mills, Anthony Glavin, Niamh Mac Alister e Celia de Fréine.
@ Catherine Dunne, Lia Mills, Anthony Glavin, Niamh Mac Alister e Celia de Fréine
Dear friends, thank you very much for your participation and for your articles. I’m very happy you be here…
I really hope you can write directly here (in english language), so that you can express further ideas about “creative journey “.
It’s should be great if you can exchange your impressions about it.
Lascio la conduzione del post nelle mani di Barbara e Federica… 😉
In ogni caso conto di tornare domani sera.
Per il momento auguro a tutti voi una serena notte.
Bellissimo dibattito. Complimenti a tutti!
Il nuovo romanzo di cui parla Catherine Dunne mi incuriosisce parecchio. Ma quando uscirà in Italia? E’ già in corso di traduzione?
Saluti cari.
Massimo, sei il più grande viaggiatore della epoca computerizzata perchè fai viaggiare le idee.
Per andare al tema vorrei dire che ci sono almeno due tipi di viaggio: uno di cui si conosce la destinazione e quindi si elabora un progetto. Si prende una valigia e si mettono dentro tutte le cose utili per quella destinazione.
E c’è il viaggio per caso. M’inoltro nella boscaglia, attraverso fiumi, non mi accorgo neanche dell’acqua che mi bagna. Viaggio, attraverso città, mi perdo in luoghi fumosi e sconosciuti, osservo, intereagisco con persone e cose e soltanto alla fine mi accorgo che sto viaggiando e mi fermo. Ricordo.
Sono entrambi bellissimi viaggi interessanti, ma quel che li rende raccontabili è il linguaggio pertinente, la capcità di far sognare il lettore su una parola, su quella parola che ha il potere di esprimere sogno, desiderio e realtà.La storia che il viaggio sviluppa è importante per il lettore sotto l’ombrellone, ma le parole sono importanti per chi cerca il significato della storia perchè soltanto in quel momento la narrazione diventa letteratura ossia qualcosa che attraversa lo spazio ed il tempo. Ne abbiamo l’esempio anche nella letteratura irlandese, in quellUlisse che ha viaggiato tanto pur restando fermo nel suo luogo.
Goodmorning!
Grazie a Massimo e a tutti voi che siete intervenuti o magari lo farete in futuro… 🙂
Ciao Laura,
il nuovo romanzo di Catherine è proprio ‘appena nato’, non so sinceramente se sono già in corso accordi per la pubblicazione in Italia, penso comunque che a breve se ne avranno notizie. Come ogni ‘appena nato’ ha bisogno di prendersi ‘tempi tecnici’ per iniziare a girare il mondo… 😉
Ne approfitto per segnalare che a brevissimo, questione di giorni, sarà disponibile un altro inedito di Catherine Dunne, si tratta di un racconto lungo che verrà presentato la sera del 5 maggio 2012 a Verona, nell’ambito del festival italo-irlandese.
Il libro intitolato ‘Moving on’ sarà bilingue, in inglese e in italiano, con traduzione di Federica Sgaggio e revisione alla traduzione di Ada Arduini. E avrà una copertina molto significativa pensata e donata dal maestro Mimmo Paladino.
Il lavoro di tutti coloro che hanno contribuito all’edizione è stato donato.
Ci tengo a precisarlo perché è un aspetto importante, che racconta della voglia comune di sognare e dell’intenzione di unire le forze.
I ricavati andranno interamente a finanziare le attività e i progetti concreti dell’associazione ònoma che cura anche il festival.
Se qualcuno volesse maggiori informazioni sul libro:
http://italireland.net/2012/04/arriva-moving-on-una-storia-di-catherine-dunne-copertina-di-mimmo-paladino/
Mentre tutti i dettagli aggiornati sulla giornata del 5 Maggio 2012:
http://italireland.net/2012/04/variazione-programma-di-sabato-5-maggio-2012-iten/
Mi è venuto in mente di segnalare che su italireland.net, c’è una rubrica secondo me molto carina, ‘suggested by’: gli artisti irlandesi segnalano ‘cose’ che usano abitualmente, che fanno parte della loro vita quotidiana da un ristorante al produttore di vasi, un fotografo o uno scultore, un tipo di saponette… ci piaceva l’idea di condividere alcuni di quei piccoli gesti giornalieri, quella abitudini che dipendono dal carattere e le opportunità di ognuno perché sono tutti elementi che raccontano di noi, di chi siamo e come stiamo vivendo. Troverete così le segnalazioni di Catherine Dunne, Niamh Mac Calistar, Nia Mills, Anthony Glavin, June Caldwall, e Celia de Fréine.
Rinnovo il mio buongiorno, a presto!
Con il caffè in mano prima di avventurarmi in macchina verso Bologna, vorrei ringraziare un po’ di persone che hanno contribuito e contribuiscono tutt’ora alla realizzazione del festival nonché di altri progetti e i sogni collegati.
Barbara Damiano e Nestore Novati, che gestiscono la piattaforma mammafelice.it e trashic.com nonché da alcuni mesi titolari di NexNova snc: grazie al loro aiuto è stato possibile ‘dar vita’ al sito italireland.net che è un po’ la lavagna dei post-it per tutto ciò che riguarda ‘the bridge’, ‘il ponte’ tra Irlanda e Italia.
Francesco Facchini, presente a Dublino lo scorso settembre alla prima edizione del festival che con il suo cuore ha smosso diverse zolle di terra e Ilaria Sesana: grazie al loro contributo il festival si arrichisce di riprese e interventi anche video a ‘raccontare’ in altro modo ciò che succede.
Ada Arduini che col suo prezioso aiuto in traduzione e revisione alla traduzione non solo ha contribuito alla realizzazione del libro ‘Moving on’ in due lingue (un racconto inedito di Catherine Dunne con copertina del maestro Mimmo Paladino) ma che parteciperà agli eventi del festival favorendo la comunicazione tra lingue differenti.
Anche Marcus Perryman sarà presente durante il festival, contribuendo così a facilitare la comunicazione nella veste di traduttore.
Grazie anche a Laura Mergoni e alla sua capacità di sognare.
Ancora grazie a Valeria Lo Forte, già citata in questo spazio per le traduzioni a due degli interventi ma che ci ha anche dato l’occasione di ampliare gli orizzonti possibili del festival con due luoghi importanti dove si svolgeranno diverse iniziative (Il circolo dei lettori di Verona e la scuolAleph).
E grazie ai Birkin tree che suoneranno musica irlandese dal vivo la serata del 5 maggio 2012…
Ho di sicuro dimenticato più di qualcuno… rimedierò al pià presto!
Caffè finito, see you soon.
🙂
Have a good day
Cara Barbara, grazie anche a te per le belle cose che scrivi. Buona giornata e buon lavoro. 🙂
Buongiorno, mi chiamo Anna Di Gregorio. Partecipo a questo post insieme alla mia cara amica e collega di università Andreina Rigoni.
Siamo entrambe appassionate lettrici e abbiamo intrapreso un percorso di viaggio creativo nella scrittura da autodidatte.
Credo che questo post sia bellissimo. Così come bellissima è l’idea del festival che unisce due culture e quindi due popoli: quello irlandese e quello italiano.
Molto bello l’articoli di Catherine Dunne, che condivido in pieno. Ma belli anche gli altri.
Secondo che lo scrittore, nel momento in cui intraprende il suo “viaggio creativo”, cioè già dal primo istante in cui pensa ad una storia fino a quando ne scrive la scena finale, deve far uso di tutti e cinque i sensi poiché la propria creatività viene alimentata dalla capacità di tradurre la realtà in modo inedito e dall’abilità di usare la fantasia per rielaborare in modo originale le conoscenze acquisite con precedenti esperienze dirette o indirette (ad esempio di lettura).
Faccio un esempio: Proust, a tale proposito, sosteneva che: ”il vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi”.
Dunque il motore del “viaggio creativo” sono le idee, le quali si sviluppano attraverso due fasi: una divergente, l’altra convergente. Nella prima fase la mente è libera di viaggiare senza confini all’interno di mondi fantastici, possibili e impossibili; nella seconda fase, invece, le idee vengono raccolte, scelte, analizzate e selezionate.
Certo, non bisogna dimenticarsi dello “stile”, altro elemento fondante della scrittura. Le buone idee non vengono ben servite da un cattivo stile.
Ecco che allora il “viaggio creativo” diventa un percorso in cui le emozioni e i sensi si combinano producendo storie che riescono a conquistare per la loro particolarità l’attenzione del lettore.
In altre parole, questo specialissimo viaggio di cui stiamo parlando ;collega il pensiero, le emozioni e le sensazioni (reali o immaginate) di chi scrive con quelli di chi legge attraverso un ponte empatico che ha come punto di partenza la fantasia, la capacità e l’ispirazione dello scrittore e come punto di arrivo l’immaginazione, l’interpretazione e la rielaborazione del lettore.
Mi viene in mente una canzone dei Queen: “It’s a kind of magic” 🙂
Più tardi interverrà la mia carissima amica Andreina, che integrerà queste mie modeste considerazioni.
Ciao a tutti e tanti in bocca al lupo per il Festival!!!
Volevo esprimere le mie condoglianze a Catherine Dunne ed agli altri scrittori citati in questo post, per la morte dell’artista Louis Le Brocquy, uno dei piu’ importanti pittori irlandesi del XX secolo. e’ morto il 25 aprile nella sua casa di Dublino all’eta’ di 95 anni dopo una lunga malattia.
Il presidente della Repubblica d’Irlanda, Michael D. Higgins, esprimendo profondo cordoglio per la scomparsa, ha ricordato Le Brocquy ”per il suo approccio pionieristico all’arte, influenzato dai grandi maestri europei”.
Ovviamente tanti in bocca al lupo anche da parte mia per il festival
Tutto molto bello. Ho letto gli articoli e sentito la puntata radio con Federica e Barbara.
@ Federica Sgaggio
Da dove trae origine il tuo interesse per l’Irlanda? (paese che amo molto).
Qual e’ il luogo irlandese che ami di piu’?
Ciao, Lina.
La prima volta che sono stata in Irlanda era il 2003.
C’era il convegno annuale della Wan, la World Association of Newspapers, che nel frattempo ha pure cambiato nome.
Ero sola, e per me era la prima volta da sola all’estero.
Prima di partire ero terrorizzata: l’inglese, la distanza, l’aereo, mio figlio che era piccolo e io già immaginavo crescere orfano di madre perché il volo mi terrorizza…
Quando sono atterrata è successa una cosa che ha del miracoloso: mi sono sentita istantaneamente a casa, e non saprei dire nemmeno perché.
L’anno dopo, approfittando del Sei Nazioni di rugby, ci sono tornata con mio marito; abbiamo noleggiato un’auto, che aveva il navigatore satellitare rotto.
Be’. Non ce n’era bisogno, abbiamo scoperto, perché per motivi sconosciuti io che sono del tutto priva di senso dell’orientamento riuscivo a capire perfettamente dove fossimo e quale direzione andasse imboccata.
Piccoli segni, forse.
La musica irlandese mi è sempre piaciuta; tanto che al ginnasio i miei compagni mi prendevano in giro per i miei gusti musicali.
Quando mi sono sposata (ovviamente in Comune: altrimenti non me l’avrebbero permesso!) la musica era quella del disco che i Chieftains hanno inciso raccogliendo le musiche popolari dei matrimoni dell’area celtica.
La mia sveglia sul telefonino è Molly Malone cantata da mio figlio…
Per dire quanto sono deragliata!
Poi mi son messa a leggere gli irlandesi meno noti, ho ricominciato a studiare inglese perché volevo riuscire a sentire le parole scritte nello stesso gusto il cui erano state pensate.
Ho realizzato che là mi sentivo me.
Che l’assenza, per esempio, di un codice estetico comune impediva a me e a chiunque io incontrassi di farci l’uno sull’altro idee preconcette, perché un tal modo di vestire qui significa una cosa – il tuo inserimento in uno specifico gruppo sociale, una tua idea di decoro… – ma là è completamente privo di caratterizzazione diversa dal fatto che viene percepito per italiano.
Ho cominciato a fare corsi d’inglese qui e là, a prendere l’aereo ogni volta che potevo, vincendo il mio terrore.
Ho scoperto l’esistenza dell’Irish Writers’ Centre, un giorno, e la mia vita ha preso una direzione che non immaginavo.
Ho frequentato dei corsi di scrittura, disperandomi perché mi pareva di non capire abbastanza, di non saper parlare come avrei voluto; figuriamoci l’idea di scrivere…
Testardamente, ho continuato ad andarci, a frequentare corsi, fino a quando – nel 2010 – non sono finita, del tutto consapevolmente, in un corso tenuto da Catherine Dunne.
Fu un’esperienza magnifica, come quella che l’aveva preceduta di poco, ovvero un altro corso – sull’autobiografia – con Lia Mills, che ora verrà qui a Verona insieme ai colleghi.
Sul modulo di gradimento che ti consegnano alla fine di ogni corso, allo spazio «commenti», scrissi: «Ma perché non organizziamo un’iniziativa di scambio culturale fra l’Italia e l’Irlanda?».
Chiacchierando, poi, con Catherine Dunne, le chiesi se le potesse far piacere venire a Verona a presentare la traduzione italiana del suo ultimo libro.
Con mia enorme sorpresa, invece di dire «be’, devo sentire l’editore e poi ti so dire», la risposta è stata un sì immediato e convinto.
Dopo poco tempo, via mail, mi dice: «E lo scambio culturale? Che facciamo?».
Tutto è cominciato così. Per passione, per affinità, per affetto, per follia, per caso.
L’anno scorso in settembre c’è stata la prima edizione di questo festival, a Dublino. Ora questa, la parte italiana.
In mezzo, un sacco di giri a Dublino; un sacco di aerei; un Dublin Writers’ Festival (e ora ne ho conosciuto il fondatore: mi sembra ancora impossibile!)…
L’anno scorso siamo stati tutti e tre – tutta la famiglia, dico – per qualche mese nell’ovest dell’Irlanda. È stata un’esperienza meravigliosa. Ho partecipato a un corso di scrittura all’università di Limerick, ho vissuto a Castleconnell, un paesotto sulle rive del magnifico Shannon; sono andata al festival letterario di Listowel. Ho girato un pochino…
Semi chiedi qual è il posto del cuore, faccio proprio fatica a scegliere.
Castleconnell, certo. Ci sono tornata in gennaio, affittando un’auto appena scesa all’aeroporto di Dublino. Ma anche Dingle. O Ballybunnion. O Listowel. O Foynes. O Lough Derg. O Waterford. O An Doilin, nel Connemara.
O la parte georgiana di Dublino. O Portobello.
Non so scegliere.
Quando nell’ultimo libro di Ann Enright ho letto un riferimento a Brown Thomas su Grafton Street e al profumo che io compro sempre quando vado là, Sycomore di Chanel, per poco non mi veniva da piangere.
Ecco. Appunti confusi, scusa.
Ma, come dicono in tv, grazie per la domanda.
Grazie davvero.
Grazie a te Federica. Hai scritto delle cose bellissime.
Credo che chi chiunque ti legga non può che rimanere contagiata dal tuo amore per l’Irlanda.
Grazie. 🙂
I am so looking forward to a stimulating festival in Verona and Nogarole Rocca next week. Thank you to all my Italian friends and colleagues for the wonderful organization – and we Irish writers are also very excited at the prospect of meeting other Italian writers – and as many readers as we can!
Dear Catherine, I hope to be in Verona and Nogarole Rocca to see you.
Thank you very much for your books.
Concordo con Lina. Che bello il commento di Federica delle ore 4:51!
Questo post mi piace tantissimo!!!
Solo per dire che la mia amica e collega di università Andreina Rigoni ha problemi di connessione e non riesce a postare commenti. Proverà a farlo domani. Ciao.
Un saluto a tutti, è venerdì sera, non so da voi ma nel bolognese sembra essere arrivata una certa ‘primavera intensa’.
Grazie a chi è passato, spero riternerà, noi saremo qui ancora per diversi giorni.
Dunque nessun problema, cara Anna, leggeremo volentieri gli interventi di Andreina e magari ci confronteremo.
Ci sono molte ‘cose’ che fanno parte di questo dibattito, e che secondo me pian piano usciranno anche. In fondo succede anche ‘live’, dal vivo, no? Ci si saluta o presenta, si prende qualcosa magari, un té, un caffè, qualche stuzzichino… così a poco a poco qualcosa ‘esce’.
Thanks to Catherine, for her presence, participation and the great care in everything she do.
Domani o nei prossimi giorni lasceremo anche qui una piccola novità inedita proprio di Catherine Dunne, che racconta il suo ‘Moving on’ da ‘dentro’.
Nel frattempo il sole tramonta, buona serata a tutti, see you soon, very soon…
🙂
ps: Massimo è in arrivo un grazie coi fiocchi anche per te, non credere! 😉
Sono una psicoterapeuta, razza strane persone che ascoltano e costruiscono storie alternative. Il 4 maggio a Nogarole Rocca parteciperò all’operazione di smontaggio e rimontaggio del racconto che ci farà Fabio Bussotti: http://www.italirelandnet/any-story-is/
Per fare una storia serve un problema?
Eppure per fare una psicoterapia non serve “necessariamente” un problema…Alle persone che mi chiedono aiuto io domando: “Cosa ti ha portato qui?” Non chiedo quale sia il problema, perchè voglio mettere l’accento sulle risorse, su tutto quello che già è stato fatto, non su quello che manca. Questo è quello che voglio fare nel workshop, cercare di stanare le risorse ddei personaggi, le mie, quelle dei partecipanti…non è questa la creatività?
PS: Grazie a Massimo (aver avuto la possibilità di incontrarti è uno dei privilegi di aver partecipato a questo viaggio italo irlandese) e grazie anche a chi vorrà condividere le sue RISORSE (non i suoi problemi) con noi.
Allora iio proporrei di includere i tentativi di soluzione nella definizione di problema…un po’ come nella vita c’è un po’ di morte…
A volte è difficile vedere la complessità del processo, magari perchè si pensa che sarebbe meglio semplificare le cose. Nel workshop del 4 maggio a Nogarole invece noi vogliamo complessificare la situazione, addentrarci nella descrizione multipla, reciproca, opposta, parallela…perchè così è la vita.
Ragazze, grazie a voi, invece.
Un saluto veloce e affettuoso a tutti dal lavoro.
(Anche a te, Barbara! E a Massimo, ovviamente…).
Ciao, Teresa!
Complessificare non è male.
(For our English speaking followers: Teresa used the verb «to complexify». Do we forgive her?).
Questo dibattito si sta evolvendo dando – a mio avviso – ottimi frutti.
Grazie a tutti/e, dunque…
@ Catherine Dunne
Welcome to Letteratitudine, Catherine!
Un saluto speciale e un ringraziamento a tutti i nuovi intervenuti, a partire da Laura e Mela Mondì (grazie mille, cara Mela!).
Grazie mille anche ad Anna Di Gregorio per i suoi spunti.
Benvenuta a Letteratitudine, Anna (aspettiamo anche Andreina).
Grazie anche ad Antonio F. per aver ricordato la scomparsa di Louis Le Brocquy. E grazie a Lina per aver stimolato Federica con ottime domande.
@ Teresa Arcelloni
Caro Teresa, sono io ad essere felice di averti incontrato (d’altra parte Letteratitudine è un luogo d’incontro… come recita il sottotitolo del blog 😉 )
@ Barbara Gozzi e Federica Sgaggio
Grazie soprattutto a voi, mie care… per i numerosi contributi e per le belle cose che avete scritto.
Grazie davvero…
Come sempre, auguro a tutti una serena notte.
Buongiorno!
Sabato di sole – pare – vi aspetta una gioranta di lavoro? O potrete godervi un po’ di riposo?
Qui nel bolognese, mentre mio figlio banchetta con i suoi cereali al cioccolato (e devo stare attenta che non li finisca tutti dentro il latte), ringrazio Teresa per avervi raccontato ieri sera di ‘Any story is a million stories’.
Venerdì 4, in effetti, sarà una giornata interamente dedicate alla storie e a come, con l’affiancamento di professionisti (attore, narratore, giornalista, terapisti sistemici ed editor) è possibile vedere ed entrare in diverse fessure, angolazioni, punti di vista spostando le inquadrature, prendendo una voce, un personaggio, una parte del plot e ascoltandolo seguendone le immaginazioni, lasciando che – proprio la creatività – tiri fuori da ognuno di noi, tutto ciò che era rimasto inesplorato.
Si tratta, in sostanza, di accettare e ascoltare le possibilità, di non percepire più una storia come ‘chiusa’, definitiva, fissa bensì aprirsi interamente – anche fisicamente, lo assicuro, grazie a Fabio Bussotti ci saranno momenti, nel corso della gioranta in cui l’interpretazione mostrerà la forza e l’impatto di ‘essere’ un personaggio e raccontarlo ‘da dentro’.
Ma si tratta anche di prendere coscienza di quanto i linguaggi e le diverse finalità mettono l’accento su aspetti specifici, derivazioni e dinamiche che – necessariamente – partendo dalla stessa storia ne restituiscono molte altre.
Ecco perchè il giornalista lavora sulla stessa ‘materia’ del narratore quanto dei terepisti sistemici, dell’attore e dell’editor.
Il workshop sarà un lavoro che mi permetto di definire ‘declinato’, vario, a mostrare ‘fessure’. Ciò che poi ogni partecipante deciderà di fare – quali fessure seguire, in quale porta entrare, se spalancare o chiudere una finestra… dipenderà esclusivamente da lui, dal proprio estro, da ciò che – di quella storia – vorrà e potrà fare.
Rispetto a venerdì 4, le logiche e le idee alla base del workshop si rintracciano diversi materiali sul sito di italireland.net.
A questo proposito… segnalo anche che nelle ultime settimane sono stati caricati alcuni video – rassicuro tutti, niente di impegnativo, dai 30 secondi ai 3-4 minuti al massimo: si tratta di brevi pillole di alcuni di noi che presi – un po’ a tradimento da me, lo ammetto 😉 – si sono raccontati e hanno spiegato alcuni approcci rispetto ai sogni, il ‘bridge’ Italia-Irlanda, i progetti. Compreso il workshop e l’idea di ‘fondo’.
Nel caso aveste qualche minuto, i video sono reperibili su youtube, dunque dovrebbe essere veloce e facile poterli guardare.
C’è anche Teresa of course! E Massimo Giuliani, Federica Sgaggio, Fabio Bussotti… 🙂
Più tardi, come accennato ieri sera, torno per lasciare anche qui il materiale inedito sul racconto lungo ‘Moving on’.
Volevo lasciare un’ultima annotazione personale sempre rispetto al lavoro ‘attorno alle storie’.
Per me è affascinate ed estremamente intenso, una sfida sotto diversi punti di vista, ma anche un momento di grande energia, il poter lavorare attorno a una storia rivoltandola, ragionando sugli elementi principali del narrare come linea temporale, luoghi, movimenti critici del plot, personaggi, voce narrante, e poterlo fare in libertà.
Di solito, in editoria intendo, ci sono diversi punti fermi quando subentra l’editor, dipende se la casa editrice è già interessata ad esempio alla trama così com’è già delineata, dipende – sempre a mero titolo esemplificativo – se l’autore non è ancora arrivato a una definizione stilistica abbastanza identitaria, ma dipende anche da molte altre variabili che vanno a chiudere quasi in automatico ‘porte’. Dunque si lavora rispetto alle indicazioni che ogni nuovo progetto editoriale implica.
Eppure uno dei momenti più interessanti e, secondo me, anche ricchi di spunti e riflessioni che l’autore può poi riconsiderare per il futuro (anche rispetto a sé e al proprio approccio o scrittura, svincolandosi dalla singola storia) è proprio la fase di dialogo – di solito iniziale – quando s’imposta il lavoro, ed è dunque necessario confrontarsi per avviare un ‘contatto’ che dovrebbe proseguire fino alla definizione della stesura finale (ho scritto ‘dovrebbe’ perché esistono diversi tipi di editing, anche a seconda delle richieste dell’editore, del contratto magari già in essere con l’autore, delle necessità del mercato quanto dei tempi tecnici…).
Non sempre le prime idee rispetto al raccontare sono poi le più funzionali, efficaci e sensate per l’intera storia. Non sempre l’autore riesce ad ascoltare tutte le potenzialità della storia che ha impastato perché come ogni creatura propria è difficile non essere parziali, coinvolti al punto da imporre strade obbligate, percorsi vincolati. Ma, a volte, basta davvero poco. Una virata, l’assecondare un personaggio, il chiedersi – come si diceva anche qui – «what if?»
C’è un tempo per le domande, e questo tempo non è prestabilito né uguale per tutti.
Oltre tutto, può anche diventare un meccanismo che si autoalimenta: più mi chiedo, più entro in ‘zone d’ombra’ e nuove domande s’insinuano…
Any story is…
Buona mattinata!
(ho tolto il sacchetto dei cerali a mio figlio, in tempo per evitare che l’ultimo quarto finisse nel suo stomaco dopo averne già mangiato altrettanto…)
🙂
se non intervengo e’ solo perché non trovo nulla di intelligente da aggiungere. pero’ vi leggo e vi seguo. vi seguo con vivo interesse. e con stima.
ecco. volevo dirvelo.
Due parole sul seminario di venerdì prossimo voglio dirle anch’io.
Credo che nessuno di noi ricordi a chi, esattamente, sia venuta l’idea. Questa è una cosa bellissima, perché significa che il gruppo aggiunge, modifica, elimina, riprogetta, ridefinisce e rimodella in continuazione rendendo collettiva la maternità dell’idea.
È una cosa che nella mia vita ho visto succedere di rado, e sempre e solo quando le relazioni interne al gruppo erano cooperative e non competitive.
In altre parole, nessuno di noi ha detto «giù le mani dalla mia idea».
Smontare e rimontare una storia secondo le tecniche che, consciamente oppure no, ciascuno di noi che lavora con le parole utilizza nello svolgere la sua professione è un esercizio che ha del sublime, del commovente.
A suo modo è rivelatore di curve, salite, discese e tornanti interiori e di pensieri pensati senza consapevolezza, anche.
Abbiamo fatto molte e molte èprove, fra noi, e sempre con storie diverse; ogni volta una sorpresa; ogni volta un modo nuovo per sentirsi gruppo, per tirare fuori parole e storie nuove.
Dopo ognuna di queste prove – che abbiamo fatto a Brescia, a Verona, a Piacenza… – ci fermavamo un momento per capire cosa si dovesse migliorare, cosa funzionasse invece nel modo giusto.
Abbiamo fatto prove e prove anche via Skype, cercando di capire – quanto, quanto tempo! – come funzionavano le chat di gruppo (ancora pago una cosa tipo 8 euro al mese al signor Skype Premium che mi fa andare ogni volta in bomba il computer).
Abbiamo invitato altri ad assistere alle nostre prove, per farci dire le loro impressioni.
È stato un gran lavoro, e molto bello. Ha creato gruppo, vicinanza, affinità. Ha creato entusiasmo. Ha dato a ciascuno di noi un grande coraggio. Ha fatto scattare l’interruttore miracoloso: appena finita la parte verbale, non vedevamo l’ora di metterci a scrivere.
E ogni storia era complementare all’altra e discendeva dalla storia iniziale senza farle violenza.
Bellissimo.
È un’esperienza emotivamente importante e narrativamente sorprendente.
(Questa non la traduco in inglese: l’ho detto già mille volte ai poveri sette…).
Quello che dici, Federica, dimostra che alla base del progetto c’è uno spirito bellissimo. Mi piacerebbe tanto essere dei vostri, ma vivendo altrove vi seguirò a distanza al meglio delle mie possibilità. Grazie per quello che fate.
Altra domanda per Federica.
Qual è la cosa più bella che, secondo te, è capitata nell’organizzazione del festival?
Mi piacerebbe tanto vivere un percorso del genere… creare insieme ad un gruppo di creativi, di scrittori… e poi in Irlanda, una terra che vorrei visitare e che mi incuriosisce moltissimo!
Complimenti per questo esperimento e per il dibattito!
…The joy of language. The elation of story. The making of narrative out of chaos. That’s the creative journey…
CRedo che questo sia il senso di tutto il nostro essere lettori e scrittori: la gioia del linguaggio. La gioia di regalarsi e regalare una storia a qualcuno. Fare narrazione a partire dal caos delle nostre vite individuali e che ci circonda. Questo è il viaggio creativo, certo, perché prima di tutto è il viaggio che percorre ognuno di noi, ogni essere vivente.
Eccomi, del libro ‘Moving on’ ne abbiamo già ‘parlato’ qui.
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Si tratta di un racconto lungo inedito di Catherine Dunne, proposto in un’edizione bilingue, con traduzione di Federica Sgaggio, revisione alla traduzione di Ada Arduini.
La copertina è stata ‘concepita’ e donata dal maestro Mimmo Paladino.
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Di seguito riporto un intervento di Catherine Dunne, a raccontare della genesi di questa storia quanto delle atmosfere e dei personaggi.
In particolare, in quest’intervento ci si avvicina a una chiava di lettura a mio avviso significativa, per la storia quanto per la stessa copertina immaginata ed elaborata dal maestro Paladino dopo aver letto il racconto.
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A un certo punto dell’intervento, fate caso a una frase, questa:
“Even when he disappears, his sandals wash up one by one as Martha waits.
Perfino quando scompare, i suoi sandali riemergono uno dopo l’altro mentre Martha è in attesa”
Ecco, i sandali, l’acqua che se li trascina, lo scorrere delle cose…
‘Inside’ MOVING ON by Catherine Dunne.
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“I wrote this story perhaps six or seven years ago. I was immersed in ideas for a new novel – and this was one of those ideas.
I wanted to explore a female character unlike any other female character that I’d previously explored in fiction. All I had at the start of the creative journey was an image of a Greek island and a very young woman in the company of a much older man. That is where I began.
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As I wrote, it became clear to me that this young woman has been removed from all that is familiar to her. She is out of her ‘comfort zone’ in every sense. She feels the sun only as an unkind, blinding presence – she is suited to a landscape that is not extreme – both an emotional and a physical landscape.
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Martha is a woman to whom things happen: she is more of an observer than a participant in her own life. Her lover manipulates her – in the same way that he manipulates paint on canvas. Even when he disappears, his sandals wash up one by one as Martha waits. She is passive, allowing life to happen, to flow all around her. She has no ‘agency’ – she cannot make things happen in her own life; she has no control over it – because she chooses not to exercise control over those aspects that she could make better, or different.
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The title ‘Moving On’ refers to different things. It refers to the uprooting that happens to Martha and her child constantly, as Anthony forces them to ‘move on’ from one place to another. But to ‘move on’ in an emotional sense is the significant meaning – and this is something that Martha never does. She watches, she waits; she sees the sandals arrive. She allows herself to be taken to the boat by the police. She allows herself to be sent home, without ever finding out what happened to the father of her child.
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She herself never moves on from her reliance on Anthony – no matter how badly he treated her.
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Years later, as an old woman, she still does not understand what happened to her all those years ago. She is ‘stuck’ emotionally – in the same place that she always was. She has never moved on, and she never will”.
‘Dentro’ MOVING ON di Catherine Dunne
Traduzione di Federica Sgaggio
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“Questa storia l’ho scritta sei o sette anni fa, credo. Ero immersa nelle idee per un nuovo romanzo, e questa era una di quelle idee.
Mi interessava esplorare un personaggio femminile diverso da quelli che precedentemente avevo esplorato nei miei lavori di finzione. Tutto ciò che avevo all’inizio di quel viaggio creativo era un’immagine di un’isola greca e di una donna molto giovane in compagnia di un uomo assai più vecchio. Questo è il punto da cui partii.
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A mano a mano che scrivevo, mi fu chiaro che questa giovane donna era stata trascinata lontano da ciò che le era familiare. È al di fuori della sua «comfort zone», in ogni senso. Percepisce il sole esclusivamente come una presenza intrusiva e accecante – è abituata a un paesaggio non così estremo; e parlo di un paesaggio sia interiore che fisico.
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Martha è una donna alla quale accadono cose: è più un’osservatrice che una protagonista della propria vita. Il suo amante la manipola, nella stessa maniera in cui egli maneggia la pittura sulla tela. Perfino quando scompare, i suoi sandali riemergono uno dopo l’altro mentre Martha è in attesa. È passiva, lascia che la vita accada e fluisca intorno a lei. Non ha attivismo; non è in grado di far accadere le cose nella sua vita, di cui non ha controllo, perché sceglie di non esercitare il controllo su quegli aspetti che potrebbe invece rendere migliori, o diversi.
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Il titolo ‘Moving On’ si richiama a varie cose: allo sradicamento di cui fanno costante esperienza Martha e la sua bambina, quando Anthony le costringe a spostarsi, a ‘move on’, da un luogo all’altro. Ma il significato principale di ‘move on’ – ‘muoversi’, ‘spostarsi’, ‘passare ad altro’ – riguarda l’ambito emotivo, ed è qualcosa che Martha non fa mai. Lei osserva, aspetta; vede i sandali mentre arrivano. Consente alla polizia di prenderla e portarla via. Consente che la rimandino a casa, senza nemmeno aver scoperto cos’è accaduto al padre della sua bambina.
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Non si ‘sposta’ mai nemmeno dal suo costante affidarsi a Anthony, per quanto male lui la tratti.
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Anni dopo, da vecchia, ancora non sa cosa accadde tutti quegli anni addietro. È bloccata, emozionalmente, nello stesso identico posto dov’è sempre rimasta. Non si è mai ‘spostata’, ‘moved on’. E non lo farà mai”.
Tutti i materiali, compresa l’immagine realizzata da Mimmo Paladino (in una versione autografata da lui sull’originale), le informazioni tecniche e commerciali sul libro, si rintracciano anche da qui:
http://italireland.net/2012/04/inside-moving-on-by-catherine-dunne-traduzione-di-federica-sgaggio/
Questo post è una vera scoperta e la dimostrazione di come il web, se ben usato, possa offrire grandi occasioni di scambio e di crescita comune.
Non mi dimentico di fare i complimenti per il blog e per l’organizzazione del Festival letterario italo-irlandese.
Se si uniscono energie, idee, passioni, apertura per l’altro e lavoro, si fanno grandi cose, si realizzano grandi progetti.
Mi sembra un buon esempio da indicare.
Grazie a tutti voi.
Mi faccio un caffè.
Ah, Lina: scusa.
Ti rispondo appena ho un tempo sufficiente: di cose belle ne sono capitate molte, in realtà.
Qui ti do solo il titolo: la cosa più bella è probabilmente stata l’acquisizione della consapevolezza che quando le cose si fanno per pura passione, mettendoci entusiasmo e follia, da qualche parte si va.
Nessuno di noi aveva un progetto chiaro in testa: ma avevamo una visione (okay: non voglio fare la «gur-essa», per carità).
Come disse Jack Harte, il presidente dell’Irish writers’ centre, alla fine del primo festival, quello che in settembre si tenne a Dublino: «Questo festival è la dimostrazione di come due persone sufficientemente folli riescano a ottenere risultati grazie al fatto che hanno una visione».
Occhio eh: non ha detto «allucinazioni»!
😉
I risultati magici e gioiosi della “visionarietà”. 😉
i’m trying to put the finishing touches to a ‘flash fiction’ piece i am writing for a competition; a story in 500 words or less.
at this very moment i am sitting on my sofa and looking out at the sunshine. which is a rare thing in ireland and i have guilt for not being outside and making the most of it. but if i was outside i would have guilt for not writing. can a writer ever win in this game?!
i can hear the children playing next door. no matter what languge it seems the writer is always on the outside looking in or on the inside looking out.
i’m very much looking forward to being in my own ‘playful’ moment on the trip to Italy next week. to have fun and get lost in the magic of words in both English and Italian.
Cari amici e amiche visionarie, mi sto preparando al Festival. Sto cercando di fare scorta di buon umore. Ne ho bisogno, in un periodo così critico e depressivo. Alcuni amici miei, coetanei intorno alla boa dei cinquanta, mi chiamano quasi tutti i giorni per cercare una sponda alla tristezza . Per due di questi – i più aggravati- il tema ricorrente è il suicidio. Mi sto stufando. Voglio uscire dalla cappa di angoscia che il caldo improvviso di questi giorni neanche scalfisce; anzi, aumenta. Basta. Tutti a Nogarole e a Verona, quindi. L’appello è per i visionari che reputano insopportabile l’esercizio continuo e ossessivo di guardarsi l’ombelico. Vogliamo invece guardare il mondo nella sua spettacolare complessità. Per questo esiste il Festival. Per allegria e gioia di vivere. E, vi prego, quando saremo a Nogarole o a Verona, non nascondetemi il vino. I need it.
Okay: dopo traduco le cose di Niamh. Ci provo, perlomeno.
Baci a tutti.
(Intervento di Niamh)
Sto cercando di dare le ultime rifiniture a un micro-pezzullo fiction che sto scrivendo per un concorso: una storia condensata in un massimo di 500 parole.
In questo preciso istante sto seduta sul divano e guardo il sole; cosa che in Irlanda è evento raro. Così, mi sento in colpa per il fatto di non essere fuori e non averne tratto il massimo beneficio. Il fatto è che se fossi stata fuori mi sarei sentita colpevole per il fatto di non aver scritto.
Sarà mai possibile che uno scrittore vinca, in questo gioco?
Sento i ragazzi della porta accanto che giocano.
Sembra che uno scrittore, indipendentemente dalla lingua in cui scrive, non possa che trovarsi a guardar dentro dall’esterno, o a guardar fuori dall’interno.
Non vedo l’ora, veramente, di trovarmi nel mio personale momento di gioco, durante il breve soggiorno in Italia della prossima settimana.
Di divertirmi, e perdermi nella magia delle parole, in italiano e in inglese.
L’anonimo di cui sopra sono io: scusate…
Niamh ha ragione: scrivere, raccontare una storia, è una questione di punto di vista, di estraneità, di dislocazione.
Le sue parole mi risuonano come una verità che mi porterà da qualche parte. Da tanto tempo rifletto sulla questione dello sradicamento, che mi sembra la più autentica delle forze vitali.
Niamh mi dà un’altra chiave di lettura di quest’idea della dislocazione: la necessità di essere in un luogo e guardare contemporaneamente a un altrove.
E’ uno stato ovvio, è vero, per chi scrive; per chi racconta.
***
EN (attempt!)
Niamh is right: writing, telling a story, it’s all about the point of view; it’s a matter of feeling stranger where you are, of be “dis-located”.
Her words sounds like a matter of fact which can take me somewhere.
I have been dwelling on this uprooting issue for ages; it seems to me the most genuine among all the life principles.
Niamh is giving me a new perspective to look at this idea of being “dis-located”: the need to be where you are and to be looking elsewhere at the very same time.
To anyone who writes and tells stories, this is – I suppose – nothing but their normal state of mind.
Errori (pescando fior da fiore…)
“of being”
“sound”
“all life principles”
(et cetera)
😉
Anche secondo me Niamh ha ragione. Grazie a Federica per la traduzione.
E domani è domenica. 🙂
Ciao Massimo Buona notte a tutti.
Scrivere una storia, farne un romanzo, esprimere la natura creativa dipende da tante cose.’ Prima di tutto dalla natura stessa dello scrittore e dalla sua personale esperienza.
Luoghi comuni ascrivono allo spirito nordico caratteri come la freddezza, il rigore il distacco ed alla cultura mediterranea un carattere passionale, emotivo accogliente.
Ma anche se diamo per buone queste differenze ci sono caratteristiche che,sempre con le dovute differenze, sono comuni a tutte le letterature e sono quelle del narrataio(non narratore), ossia quelle dell’io narrante, della memoria involontaria, capace di entrare in alcuni meandri del processo narrativo con intimità e radicamento e disporli sul terreno bianco con maturità .( significativo il commento di Teresa Arcelloni).Si tratta di reperti archeologici personali che si ricompongono in immagini di cui si era perduto il significato,ma danno vita ad una nuova originalità. Il narrataio elabora mentre lo scrittore se ne sta nascosto come l’animale della “Tana di Kafka” La stessa Dunne ce lo dice quando ad un certo punto mette in atto la sua madrinità, che è il territorio su cui ogni donna si sente di commisurarsi e di esplorare infinite volte e trovare da dire sempre qualcosa di non detto.
Sembrerebbe che voltando pagina e demolendo il processo di madrinità attraverso il conflitto si navighi in acque diverse, invece il conflitto fa parte dell’io narrante che vuole liberarsi di una madrinità che appartiene alla madre per costruirne una propria sotto la duplice spinta della storia e della cultura contemporanea ma anche conforme alla propria natura.
Per lo scrittore , come per l’architetto, all’origine di ogni opera creativa, dice il danese Arne Jacobsen, c’è la casa. E la Dunne dice “andavamo abbastanza d’accordo”.
Poi naturalmente il processo può imboccare strade diverse a seconda dell’esperienza del narrataio: uno scrittore spagnolo può rispondere ad un’istanza di trascendenza che dà solennità alla forma e ritualità al percorso,uno scrittore danese o irlandese può dare il via al contingente, al domestico, all’intimo, a scenari di vita quotidiana attraverso dispositivi formali che esprimono edonismo,mistero altro.
Tuttavia anche fra i nordici ci sono modi diversi di affrontare la realtà.
Ammiro nei nordici la capacità che hanno di interrogare il silenzio( la Dunne dice di interrogare il caos ossia il silenzio che diventa ronzio) e farlo parlare.
E’ il silenzio che sfida lo scrittore e lo mette alla ricerca dell’incipit, dell’immagine, permette di dare corpo ad un ricordo evanescente. Così i fatti, i personaggi, gli eventi escono fuori dal silenzio alla chiamata dell’angelo, ossia del narrataio.
Mi vengono in mente registi come Bergman e Dreyer nei cui films i personaggi e le cose escono dal silenzio con lentezza e solennità.
Cari amici, mi infilo un po’ in ritardo fra i vostri bellissimi post per portarvi anzitutto una piccola e recente testimonianza dublinese. Rinrgazio per lo spazio Massimo Maugeri e per i contributi tutti voi.
Venti giorni fa il tornado Federica Sgaggio (ancora grazie Federica) mi ha proposto di accompagnarla in uno dei suoi innumerevoli spostamenti italo-irlandesi: una decisione presa in un millesimo di secondo, il tempo di realizzare che la famiglia sarebbe sopravvissuta anche senza di me (cuore di mamma…) ed ero sul sito dell’Aer Lingus, la compagnia di bandiera che da un anno circa finalmente vola da Verona, la mia città, a Dublino. Fatto!
Ho preso la mia giusta dose di pioggia e vento, ma sono stata pure sorpresa da un sole caldo e da un cielo limpido. Ho annusato (e comperato) tutti i tipi di tè in Suffolk Street da Avoca, una catena di negozi che vende deliziosi abiti, caldi plaid in fantasie scozzesi, servizi di porcellana così belli da comprare una tazza per tipo. Ho fatto incetta di liquirizie e jelly belly (li avete mai assaggiati?) da Mr Simms Olde Sweet Shoppe, dove ci sono ancora i barattoloni di caramelle a testa in giù con tanto di rubinetto (una goduria anche per gli occhi), e, come di rito, ho gustato un black berry applecrumble con panna montata da Queen& Tarts, nel quartiere del Temple Bar.
Prese dalla foga di vedere il più possibile (io), e dalla voglia di farmi vedere tutto(lei), Federica mi ha mostrato la sua Dublino in un pomeriggio. Ci eravamo proposte di tornare in albergo presto per riposare e soprattutto per rivedere i nostri appunti – l’indomani avevamo in programma al lussuoso Gresham Hotel di O’Connell Street un’incontro con Catherine Dunne e Fabio Cavalera, inviato del Corriere della Sera, e nel pomeriggio un’impegnativa “cultural conversation” a cui avrebbero preso parte gli scrittori irlandesi, il fondatore del Dublin Writers’Festival Jack Gilligan, il Responsabile dell’Irish Writers’ Center Jack Harte, e Jane Alger, direttrice della Dublin Unesco City of Literature. Bene, alle 21 eravamo ancora in giro e avevamo visto e fatto di tutto, compresa una meritata sosta su una panchina, nel parco St. Stephen’s Green.
Nonostante sia rientrata ormai da qualche giorno e il rientro, come sempre accade, mi abbia catapultata nella realtà quotidiana senza pietà, molte sensazioni, voci, immagini e volti vagano ancora nella mia mente. Assieme ai quadri di Jack Butler Yeats, il talentuoso fratello di William di cui, lo dico sottovoce, non sapevo nulla, allo studio di Francis Bacon, fedelmente riprodotto nel suo indescrivibile e affascinante caos nella Hugh Lane Gallery, e a qualche parola rubata dal mio incespicante inglese ai versi declamati dallo scoppiettante (seppur ultrasettantenne) poeta Eddy Linden, al cui reading abbiamo assistito, un chiodo fisso, un film che ritorna e dal quale non ho voglia di staccarmi.
Un luogo magico con il pavimento in tavole di legno miele macchiate di nero rigorosamente consunte e scricchiolanti sotto la vernice nuova, le pareti dipinte nei miei colori preferiti (grigio, verde salvia, rosso pallido), i soffitti alti delimitati da modanature chiare, le grandi finestre ad arco bianche con vista sulla Parnell Square. Una casa su più piani con gli interni in stile vittoriano, le scale rivestite di morbida moquette dalla quale il rumore del legno esce attutito, e meravigliosi quadri lungo il percorso, dono di un collezionista generoso che evidentemente ha individuato un posto degno dei suoi tesori. Sto parlando dell’Irish Writers’ Center, il punto di riferimento degli scrittori irlandesi, una sorta di casa dello scrittore dove trovarsi, frequentare corsi, ricevere assistenza, stimoli, appoggio. 50 euro all’anno per assicurarsi un nido dove trovare sempre una calorosa accoglienza, incontrare i propri simili, coltivare la passione della scrittura, o semplicemente leggere un libro o navigare sul web in una delle numerose postazioni a disposizione di tutti, sorseggiando un caffè e chiacchierando con altri scrittori o, semplicemente, con i giovani volontari che vi prestano servizio. Qui uno scrittore o un aspirante scrittore si sente anzitutto legittimato a ritenersi tale, cosa non secondaria, ed è supportato, nella ricerca della propria identità, dal sostegno e dalla solidarietà dei suoi pares, che con lui formano una comunità. Qui gli esordienti non si sentono allo sbaraglio né isolati. Qui la presenza di scrittori affermati che, a prezzi ben più ragionevoli rispetto a quanto accade nelle più prestigiose scuole di scrittura italiane, insegnano il creative writing, produce uno straordinario circolo virtuoso. Questa, se esistesse anche qui a Verona, sarebbe certamente la mia casa.
Buongiorno!
Ciao Valeria e grazie per essere passata di qui e per aver condiviso quest’esperienza… quando tornai io da Dublino, lo scorso settembre, ogni volta che raccontavo delle giornate (molto frenetiche in effetti e piene di impegni) e dei piccoli ritagli di tempo passati tra strade, negozi e micro esplorazioni ma anche dei posti come l’IWC, insomma: finiva sempre che sembravo o sotto l’effetto di sostanze ‘moooolto’ stupe-facenti (io poi che sono anche astemia è molto buffo) oppure una che esagera nel ‘dire’ le cose. Meno male che pian piano, a unire le varie impressioni, i racconti e i resoconti, si avvertono atmosfere, energie, eccitazioni, possibilità e aperture comuni!
🙂
Nel bolognese siam passati dalla primavera inoltrata al grigio dell’autunno vagamente nebbioso… strange time.
buona domenica!
Buongiorno a tutti/e.
Qui a Catania il sole splende, la temperatura è calda e la primavera comincia a fare l’occhiolino all’estate (che si prospetta particolarmente torrida).
Sono molto felice per come questo post si sta sviluppando. E questa felicità mi dà l’energia per portare avanti il progetto/sogno che è Letteratitudine. 🙂
@ Niamh Mac Alister
Grazie mille per essere intervenuta, cara Niamh. Benvenuta a Letteratitudine!
(Thank you very much for you post, dear Niamh. Welcome to Letteratitudine!)
Grazie, ancora una volta, a Federica Sgaggio per i suoi contributi e per le sue ottime traduzioni.
E grazie, ovviamente, alla cara Barbara per i suoi interventi dalla postazione di Bologna. 😉
Un caro saluto a Maria Lucia (grazie per il tuo contributo, Mari).
E grazie anche a Giacomo, Amelia, Ruggero Altavilla (grazie per le tue belle parole!)
@ Mela Mondì
Grazie per il tuo intervento, cara Mela. Ma, visto che hai scritto alle h. 3:41 am… sei nottambula o mattiniera? 🙂
Mi sono accorto adesso di un commento di Fabio Busotti che (per i soliti problemi del sistema antispam del sito) era finito in moderazione.
Mi scuso con Fabio, ma il commento adesso è visibile a tutti.
È un contributo importante. Andatelo a leggere…
È stato postato sabato, 28 aprile 2012 alle h. 4:41 pm
Grazie mille anche a Valeria Lo Forte per la sua bella testimonianza.
(E grazie ancora per le traduzioni, Valeria).
Buona domenica pomeriggio e domenica sera a tutte/i.
E buon inizio settimana!
Fabio, non ti nasconderei mai il vino, anche se sono astemia!
Andiamo a prenderci la nostra gioia.
Siamo in buona compagnia.
(Grazie, Valeria.
E grazie sempre e ancora a Massimo).
Caro Massimo, non sono nè l’una nè l’altra, Sono una “vecia” che cerca ancora la bellezza, per cui mi espongo nel cercarla a procedimenti elusivi, come un cacciatore che aspetta la sua preda. Il tuo blog, fatto di giovinezza , pieno di impeto,trasparente, straripante di anime curiose ed intelligenti e di intelligibilità sembra assumersi, nella sua immediatezza, il compito di portarci verso paesaggi inesplorati e fertili territori di conoscenza che suscitano la gioia dell’esserci.
E siccome non ho più l’età per uscire spesso e vedere le vetrine della città, la mia ansia del nuovo viene sedata nell’immettermi nel flusso dei commenti, come davanti a sempre nuovi eventi. Dentro di me ho tante volte pensato che il tuo blog ha in sè la struttura vitale e lo scintillio di una metropoli con i suoi contatti superficiali, gli incontri casuali, il dinamismo e la simultaneità dei commenti, il montaggio e la giustapposizione di frammenti, Adesso mi fermo, ma potrei continuare a lungo.Grazie per l’ospitaltà che mi accordi e complimenti per tutto, ma soprattutto per lo stile umano e competente con cui ti relazoni con i tuoi ospiti.
Buon pomeriggio,
ciao Fabio!! Eccoti!.
E un abbraccio a Mela Mondi, si sente tutto il ‘peso’ e i ‘significati’ della parole che hai usato. E’ vero che qui da Massimo c’è grande entusiasmo, scintillii, aperture e tanti frammenti di passaggi, idee, progetti, storie e… sogni. Proprio vero.
🙂
Mi viene in mente, rispetto alla ‘bellezza’ quanto l’essere ‘cacciatore che aspetta la sua preda’ di una sorta di progetto collaterale che secondo me ha molto ha che fare non solo con la bellezza ma anche con la ricerca dell’odore che mi ci sta addosso, ci rappresenta in un dato momento, che ci fa sentire ed essere.
Si tratta di un’idea che ha avuto Federica, appassionata ed ossessionata di profumi da tanto tempo.
Che gli odori siano tra i ‘detonatori’ di una storia, io credo non sia discutibile, poi certo ogni narratore, ogni artista e ogni storia ha le sue esigenze. A volte l’olfatto è poco coinvolto, diciamo marginale.
Altre volte però innesca meccanismi, richiama mondi, scene, personaggi, atmosfere…
Sempre all’interno del Festival – diciamo come macro guscio – è stato messo in programma un extra davvero interessante.
Dal momento che i voli di ritorno per gli artisti irlandesi partiranno da lunedì 7 nel pomeriggio, prima delle discussioni interne finali anche in previsione della terza edizione del festival italo-irlandese, è stato organizzato un seminario proprio sui profumi.
Orientativamente inizierà nella tarda mattinata, verso le 11.
Sarà curato da Giovanni Sammarco.
E sarà proprio un viaggio tra la storia degli odori e vari assaggi di profumi.
L’ingresso è libero, e non comporta alcuna quota di iscrizione.
Se qualcuno è interessato ed è nelle vicinanze del veronese, lunedì 7, può chiedere maggiori informazioni a Federica, decisamente l’anima dell’iniziativa.
🙂
Più tardi racconterà invece della giornata di sabato 5 maggio che, in un certo senso, è la giornata dedicata interamente agli ‘incontri’.
Tutto il festival è scambio, confronto e incontri, of course.
Ma sabato 5 abbiamo pensato di dedicare alcuni eventi specifici.
A dopo!
ps: che impressione, Massimo, leggere del sole di oggi a Catania, qui nel bolognese persiste il grigio, l’aria fresca sebbene la temperatura si è alzata da stamattina… ormai siamo escursionisti termici professionisti! Ieri c’erano 28 gradi a metà pomeriggio, stamattina 15…
(scusate i refusi! pomeriggio di giochi con mio figlio, sto al computer a minuti alterni!)
(ad esempio era: Più tardi racconterò…
portate pazienza!)
Le essenze sono le parole del linguaggio dell’olfatto.
E il compositore di profumi è uno scrittore che usa strumenti che tutti conoscono ma pochi sono abituati a comprendere.
L’incontro di lunedì prevede una breve introduzione alla storia e alla cultura del profumo, che affonda nella notte dei tempi, seguita dall’ascolto di essenze naturali pure, forme di emozione e ricordo, per comprendere quale possa e debba essere la vera funzione del profumo.
ll profumo infatti è molto di più della boccetta gridata, è cultura, è ricordo, è emozione liquida.
A seguire vi offrirò un assaggio di profumi, naturali e non, per fare notare le differenze.
Nell’attesa di un profumo molto speciale e molto irlandese a settembre.
griffata, non gridata 😀
Grazie Giovanni!
Prima di lasciarvi alla domenica sera, vi racconto un po’ di sabato 5 maggio.
L’intera giornata si svolgerà a Verona, sarà dunque relativamente facile raggiungerci – dipenderà dal vostro punto di partenza! 🙂
Iniziamo alle 10,30 alla ScuolAleph (via Monte Nero, 1, Vr) scaldando i motori con un primo incontro chiuso al pubblico per stabilire un ‘primo contatto’ tra gli artisti irlandesi e un gruppo di professionisti della scrittura e dell’editoria italiana.
Dopo la pausa pranzo, verso le 15 si balla tutti assieme!
😉
Ci si ritrova alla Chiesa di Santa Maria in Chiavica (Via Santa Maria in Chiavica, nr.7 al Vr) con l’incontro – ingresso libero – intitolato ‘La cultura e i libri in Italia e Irlanda’.
Gli artisti irlandesi e i professionisti italiani dell’editoria assieme ad alcuni autori di recente esordio, chiacchierano, si raccontano, confrontano esperienze, realtà e dinamiche editoriali assieme al pubblico presente.
Sarà un pomeriggio all’insegna delle solite parole chiave del festival ovvero ‘open’, ‘easy’ and ‘smile’.
Nessuna scaletta, nessun ordine d’intervento; ognuno potrà – se vorrà – intervenire, condividere o argomentare.
Nell’ottica di proseguire la costruzione del ‘bridge’, del ponte tra Italia e Irlanda, mettendo in contatto operatori editoriali, professionisti dell’editoria e della letteratura. Ma dando anche modo al lettore e a chiunque vuole, di esserci, chiedere, dire e raccontare.
Ricordo che ogni evento ed iniziativa al festival prevede la presenta di almeno un traduttore in supporto della comunicazione tra i presenti.
Nel corso del pomeriggio, durante l’incontro, verranno presentate alcune interviste – realizzate a Dublino nei giorni scorsi – con responsabili di istituzioni culturali pubbliche irlandesi.
La registrazione e la definizione finale delle interviste è stata possibile grazie alla preziosa collaborazione nonchè l’aiuto appassionato di Francesco Facchini e Ilaria Sesana.
E grazie a Federica Sgaggio e Valeria Lo Forte, inviate molto speciali 🙂
Lascio di seguito alcune informazioni su Francesco e Ilaria perché il loro lavoro è prezioso. Spero che nei prossimi giorni potranno intervenire direttamente a spiegare e raccontare non solo il breve viaggio a Dublino dove sono state per l’appunto raccolte le interviste, utili a stimolare gli incontri e a mettere in contatto realtà concrete dell’attuale editoria, ma anche – se vorranno – per condividere anche qui le loro passioni e professionalità.
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Francesco Facchini
Classe 1971, apprendista padre, apprendista scrittore, apprendista giornalista, è laureato in Scienze Politiche e ha scritto tre libri di sport, l’ultimo dei quali è una storia della coppa del mondo vista dai perdenti (Romanzo Mondiale, Wip Edizioni, 2010). Ha nella testa un romanzo che non ha ancora scritto, ha negli occhi una vita che gli ha fatto realizzare i sogni, ha nel futuro i sogni che non ha ancora visto. E cerca, cammina, cerca, vive, sente, parla. A volte troppo. L’unica cosa che sa fare bene è l’imitazione di Bruno Pizzul, lui che di Bruno si vanta di essere un figlio professionale. Sta affacciato al davanzale del suo http://www.francescofacchini.it in attesa di una cosa da dire o di qualcuno con cui chiacchierare.
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Ilaria Sesana.
Nata a Como nel 1981, vivo a Milano da alcuni anni. Laureata in storia alla Statale di Milano (con una tesi sulla Somalia), lavoro come giornalista dal 2008. In questi anni mi sono occupata prevalentemente di inchieste e approfondimenti di attualità legati al sociale, con un occhio particolare per i temi dell’immigrazione. Ho sempre cercato di mettere al centro dei miei articoli le persone che ho incontrato, dando voce alle loro storie, al loro vissuto. Scrivo per “Terre di mezzo – Street magazine“, il mensile “Popoli“, l’agenzia “Redattore sociale“, i quotidiani “Avvenire” e “Lettera43“.
La giornata si concluderà poi con un ultimo evento:
alla 21 sempre alla Chiesa di Santa Maria in Chiavica ci svolgerà “Parole e musica – incontro con gli autori” nel corso del quale verrà presentato il libro ‘Moving on’ di Catherine Dunne di cui qui abbiamo già detto un po’ di ‘cose’.
La serata sarà piena di sorprese, gli artisti irlandesi parteciperanno alle chiacchiere nonché a un reading – ricordo, quanto detto in precedenza, rispetto alla presenza di traduttori – infine ci sarà musica per tutti.
Il gruppo “The Birkin Tree” suoneranno musica tradizionale irlandese dal vivo.
Alla serata sarà presente l’ambasciatore irlandese in Italia, Mr. Patrick Hennessy che ringraziamo per l’attenzione, la cura e il patrocinio a questa seconda edizione del festival italo-irlandese.
Come accennavo oggi pomeriggio: una giornata di incontri.
Con particolare attenzione verso il mondo delle storie e l’editoria.
Una giornata pensata per favorire incontri, scambi, dibattiti e confronti tra realtà editoriali, esperienze personali e analisi dei mercati editoriali.
Sono infatti diversi, i professionisti che hanno accettato il nostro invito e saranno così presenti sabato 5 maggio a Verona e che ringraziamo di cuore per tante ragioni (la settimana successiva c’è la Fiera del libro a Torino e sappiamo quanto sia impegnativo per gli operatori editoriali prepararsi alla trasferta, il periodo è fitto di impegni per tutti nonché ognuno ha le proprie realtà personali e familiari…)
Lascio stasera alcuni nomi tra i presenti agli incontri, un assaggio in attesa del comunicato ufficiale.
🙂
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Ada Arduini. Traduce letteratura e, occasionalmente, saggistica dal 1998. Ha lavorato – tra gli altri – su opere di M.Brennan, J.Crace, Catherine Dunne, C.Tóibín, M.Penkov, De Botton, L.Williams, E.Said, S.Elliott, E.Templeton, Bryher, Maggie O’Farrell per case editrici come Neri Pozza, Einaudi, Guanda, Fazi, ISBN, Il Saggiatore, BUR, Terre di Mezzo.
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Jacopo De Michelis. È stato traduttore dal francese (tra gli altri di Jules Verne e George Simenon), curatore di collane e antologie e consulente editoriale. E’ responsabile della narrativa di Marsilio Editori, è stato tra i fondatori nel 1994 del primo sito letterario italiano, http://www.fabula.it, e il primo in Italia a realizzare un booktrailer come mezzo di promozione e comunicazione editoriale.
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Sabrina Campolongo è scrittrice e traduttrice.
Balene Bianche (Michele Di Salvo 2007), Il cerchio imperfetto (Creativa Edizioni, 2008), Il muro dell’apparenza (Historica Edizioni, 2008), Unessential Dublin (Historica Edizioni, 2010).
Scrive di libri sulla rivista culturale PaginaUno.
Antonio Paolacci, scrittore ed editor. Ha esordito nel 2007 con il romanzo Flemma (Perdisa Pop). Nel 2010 è uscito Salto d’ottava (Perdisa Pop) e Accelerazione di gravità (Senzapatria). Dal 2008 è curatore del premio letterario Lama e trama. Attualmente è direttore editoriale di due collane di narrativa per Perdisa e dirige Perdisa Pop.
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Lucia Ravera. Copywriter per diverse agenzie pubblicitarie, giornalista letteraria per la testata di “Mangialibri”, redattrice della Rivista “Atelier”, ha pubblicato nel 2008 il romanzo: La storia finisce qui (Mursia Editore). Nel 2012 è uscito il suo saggio: Le ragazze della scrittura. Oltre i tabù, la letteratura contemporanea femminile in Italia (Ladolfi Editore, collana Atelier “900 e oltre”, 2012).
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Paolo Zardi, padovano, quarantun’anni. Ingegnere suo malgrado, felicemente sposato, ha due figli. Ha esordito con un suo racconto nell’antologia Giovani Cosmetici (Sartorio), e successivamente pubblicato una raccolta di sedici racconti, Antropometria (Neo), e il romanzo La felicità esiste (Alet).
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Monica Mazzitelli, è scrittrice e filmmaker. Ha curato l’antologia Tutti giù all’inferno (Giulio Perrone Editore 2007). Ha pubblicato racconti, è redattrice di Unonove, La poesia e lo spirito e Slowcult, e collabora con varie testate tra cui L’Unità, Nazione Indiana, Carta, Diario, e molte altre. Ha realizzato un cortometraggio sul copyright The Disney Trap. Ha realizzato booktrailers di romanzi. Dal 2002 al 2009 ha fondato e coordinato il gruppo de iQuindici. Ha anche recitato, fotografato, scritto per il teatro, organizzato festivals, condotto trasmissioni radio, tradotto dallo svedese e dall’inglese. Il suo sito è monicamazzitelli.net.
Ecco qui.
Questi sono alcuni dei professionisti che hanno generosamente accettato di partecipare agli incontri e nel pomeriggio di sabato saranno disponibili a chiacchierare e rispondere anche al pubblico presente.
Nei prossimi giorni vi farò sapere degli altri.
Ne aggiungo anche altri due:
Keller editore, una casa editrice indipendente con sede nelle vicinanze di Rovereto, in Trentino. La linea editoriale, aperta alla letteratura italiana e straniera, è costruita attorno a titoli che trasmettono idee forti, capaci di percorrere e comunicare, nei temi e nella scrittura, la complessità del mondo. Due collane – VIE e PASSI – capaci di delineare, con semplicità, lo scorrere dello sguardo sul mondo proponendo letteratura, narrativa e saggistica italiana e da tutto il mondo.
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Gianluca Mercadante è nato nel 1976 a Vercelli, dove vive e lavora. Ha pubblicato “McLoveMenu” (Stampa Alternativa, 2002; Premio Parole di Sale), “Il Banco dei Somari” (NoReply, 2005), “Nodo al Pettine – Confessioni di un parrucchiere anarchico” (Alacràn, 2006), Polaroid (Las Vegas, 2008), la fiaba illustrata per bambini “Il giardino nel recinto di vetro” (Birichino, 2009) e “Cherosene” (Las Vegas, 2010). Molti suoi racconti sono apparsi in antologie, riviste di settore e per il Giallo Mondadori. Scrive di critica letteraria per “La Stampa”, “Nella Nebbia”, “Orizzonti”, “Pulp” e “Satisfiction”.
Buona serata a tutti!
Grazie sempre a chi passa di qui, a chi ha voglia di partecipare.
Grazie a Massimo!
E grazie a chi ci verrà a trovare al Festival, ma anche a chi si è interessato o s’interesserà ai nostri sogni, i progetti, le diverse idee che fanno parte del ‘bridge’.
Good night.
mi avete fatto venire una pazza voglia di venire al vostro festival. ma quel che e’ peggio e’ che mi avete fatta venire una pazza voglia di andare in irlanda.
se quest’estate mi ridurrò a fare l’autostop in direzione dublino, la colpa sara’ vostra.
mannaggia a voi! 🙂
Quale sorpresa, Barbara! anche per me il linguaggio della bellezza è il suo profumo.
Al festival sicuramente la materia tenderà ad evaporare in una fragranza che probabilmente giungerà fin qui.Intervenite , argomentate, profumate, ballate e cantate anche per me l’lreland’s call e l’Inno di Mameli. Grazie.
Buongiorno e buon lunedì.
Forse alcuni oggi ‘fanno il ponte’… ci raccontate dove siete? Week end lungo? Qualche posto di montagna? Città d’arte? Mare… ? O relax in casa, why not? (Io se potessi opterei per quest’ultimo… )
Qui nel bolognese per ora sembra essere tornato il sole, vedremo!
Volevo segnalare un errore dovuto a una mia errata interpretazione: nell’intervento di Niamh Mac Alister
“These are some of the things that made me stay at the inn for too long – a destructive relationship, an unshakeable lack of believe, rejection upon rejection upon rejection, work, laziness, the fear of never being the kind of writer I dream of being, life”.
La traduzione corretta è:
“Queste sono alcune delle cose che mi hanno fatto rimanere al coperto per troppo tempo – una relazione distruttiva, un’irriducibile mancanza di fiducia, un rifiuto dopo l’altro, il lavoro, la pigrizia, la paura di non arrivare mai a essere il tipo di scrittrice che sogno di essere, la vita”.
Grazie a Giacomo e a Mela.
E buona giornata a tutti!
🙂
Ciao Barbara. Ciao a tutti. Oggi e’ prevista una passeggiata romana, con un giro in centro. E’ da molto che non lo faccio. Speriamo che il tempo regga. E’ variabile ed e’ prevista pioggia a meta’ mattinata. Meglio dunque munirsi di ombrello.
Ovviamente sto seguendo affascinata tutto il dibattito. Complimenti a tutti.
I’m really interested in that sense of being disjointed from reality. I am always drawn to characters that seem to be on the fringes of society. To me (maybe because of my own experiences) their story is interesting because it is from the outside looking in. What can they tell us about ourselves? What do they see that we can’t see in ourselves and what can we learn from that reflection.
ehm… traduzione, please 🙂
Premettendo che non sono traduttrice a nessun livello, rispetto alla ‘comprensione generale’ l’intervento di Niamh suona così:
“Sono molto interessata a quel sentirsi dissociato dalla realtà. Sono sempre attratta da personaggi che sembrano stare ai margini della società. Per me (forse a causa delle mie esperienze personali), la loro storia è interessante perché la guardo da fuori. Cosa possono dirci su di noi? Cosa vedono che non possiamo vedere in noi stessi e cosa possiamo imparare da questa riflessione?”.
thank you, barbara.
(ehi, il mio inglese migliora a vista d’occhio) 🙂
🙂 Giacomo
Have a good day!
Buona giornata
I’ve just finished re-reading (and admiring!) the strong contributions of several of my fellow Irish writers–Catherine, Lia, Niamh, and Celia, and am thinking that my own “take” on the creative journey was a more literal recounting of a long-ago, transcontinetal bus trip on which I first began to keep a notebook or journal. That said, however, I think that “journey” in all its senses, including an actual jaunt, sojourn, skite, ramble or flight, is especially tied up with my own writing practice. Meanwhile, I can only envy Lia Mills’ kitchen drawer, which serves as both a repository for actual memoribilia and as a trope for “memory” itself. I’d like to also offer a few thoughts on what can spark a story–whether a vision/dream/memory–as introduced in Catherine’s piece, and in the questions for this debate as posed by MassimoMagueri. However, our plane to Italia departs the day after tomorrow and I have’t yet nailed down everything at work or home, never mind begun to pack. However, before I go pull a suitcase out of the closet, let me at least say that Niamh MacAlister’s thought that she “is always drawn to characters that seem to be on the fringes of society” echoes precisely what the Irish writer Frank O’Connor argued in his brilliant study of the short story, The Lonely Voice–that short stories by their nature deal with submerged populations; that they are most properly about lonely outcasts, while the characters of a novelist are more representative figures. In fact, O’Connor goes so far as to say that all great short story tellers speak as private individuals with a lonely human voice. And human loneliness is their primary subject……… Ciao, Antonio
Caro Massimo,
rientrato oggi dall’estero, ho appena letto sui quotidiani L’Arena e Il Giornale di Vicenza la pagina scritta da Federica Sgaggio per presentare il festival italo-irlandese, titolata “L’Irlanda racconta”.
Complimenti a lei per la pagina, chiara ed esplicativa, ma soprattutto per l’interessante e impegnativa iniziativa del festival, intrapresa senz’altro per sviluppare la conoscenza profonda e reciproca della cultura letteraria e degli autori – tra cui la grande (e utile) Catherine Dunne, – che si impegnano a dare una risposta ai mille interrogativi della vita e del quotidiano. Detto senza piaggeria.
Complimenti anche a Barbara Gozzi sia per il lavoro letterario sia per gli interventi effettuati anche in questo post.
Cordialmente, A. B.
Passaggio veloce stasera, un saluto a tutti.
Di seguito lascio un intervento che June Caldwell ha inviato per questa discussione… considerando le giornate frenetiche e il festival che s’avvicina, per ora lascio il testo in lingua originale. I’m sorry…
My Creative Gauntlet by June Coldwell.
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I despised journalism. I’m assuming a lot of would-be writers make the same mistake: confusing writing with ‘journalism’ to the detriment. Fourteen years down the line, I have to concede that writing for the print media is not ‘creative’ at all. It has little to do with making up stories (unless you work for a tabloid!) or putting the imagination to good use. Yes, you have to string words together (very often not in the way you would like to) and yes, your name is published as an ‘author’ in newspapers and magazines, but in truth journalism is sour distraction, an inelegant disruption from the real challenge of being creative. In retrospect I was mortally afraid of following my [day] dream.
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In 1997 I started penning ‘human interest’ features for various trade magazines and women’s magazines. I moved on to ‘feature writing’ for newspapers and eventually, for online publications and blogs. I covered everything from the plight of emergency services crews dealing with the Omagh Bombing in 1998 to business articles, property specs, politico rants, social issues, consumer complaints, personal profiles and arts interviews/reviews. During those years, I made an ‘OK’ living: I was able to pay a mortgage, bills, and put cheap food in the cupboards and still have enough left over for a few glasses of wine at the weekend. But it was a hard living and during the entire time, I didn’t take holidays and rarely took time off. I was on a hamster wheel I hated and swallowing sawdust for a living. Something had to give. In 2005 I wrote a book In Love With A Mad Dog, a socio-political biography about notorious Northern Irish terrorist Johnny Adair’s mistress Jackie ‘Legs’ Robinson. The story was about her personal struggle falling in love with a dangerous man and breaking away from the relationship as the Troubles in Ireland came to an end. It half killed me to write (and is a lousy book, in my opinion). I only had a few weeks to ‘do the research’; six weeks to write 87,000 words and the subject matter of the book was not very forthcoming with the facts. I [correctly] worked out that this venture didn’t even pay as much as the normal writing did and from that point on, I fell out of love with ‘writing for a living’, given that I hardly ever got to write what I wanted.
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In 2007/8 I enrolled in an MA in Creative Writing in QUB. Ironically I had to freelance my way through a course that was supposed to teach me how to write. How very Irish!? I was so caught up with paying for the course, I couldn’t enjoy the course. I wrote a few stories and tried my hand at some poetry, but it all felt a bit stiff. The ‘switch’ form journalism to creative writing was harder than I ever imagined. When I finished up at Queen’s University, I managed to get an Arts Council of Northern Ireland grant for a novel. In 2009, I returned to Dublin, both my parents got sick, so it was almost impossible to concentrate on the novel. I became an unintentional ‘carer’ for two elderly people (and a brother of mine got sick at this time too) so it was really just a case of getting through the days and putting all the ‘writing on hold’. I began volunteering at the Irish Writers’ Centre around this time, as a means to stay focussed. I was asked to write for the women writer’s blog: The Anti-Room in mid-2010, which was a great focus [during a recession-ridden period of unemployment] and it became a means to experiment with creative non-fiction. The response to my articles (particularly the unintentionally funny personal rants!) was immense. I got a lot of ‘followers’ online and was greatly encouraged to write more creatively. A year later I won ‘Best Blog Post’ at the Irish Blog Awards for a piece I wrote about depression. I decided to write about this taboo topic, because, well, no-one ever does. The win was another shove in the right direction although at this stage, I found out my brother was dying (I wrote a blog about that too! http://junecaldwell.wordpress.com/2011/11/04/my-lovely-brother-is-going-to-die) and was still looking after elderly parents, I got back to the business of writing creatively. I’m currently working on a batch of short stories and have got back to the novel [at weekends!], giving myself a year to complete both.
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Writing, for me, is more than mere ambition: it’s a compulsion, an addiction, as necessary as air and as crucial as falling in love. I have no idea if I’ll ever ‘make it’ but I’m more than willing to keep pulling my hair out till the death. If I end up riddled with neurosis in a bijou cottage on my own in the West of Ireland somewhere – a mangy cat for company & no money in the bank – it will be my idea of accomplishment.
Ieri sera ho raccontato un po’della gioranta di incontri di sabato 5.
Lascio altri nomi di professionisti che parteciperanno e – come sempre – che ringraziamo.
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Angelo Andreotti vive e lavora a Ferrara, dove attualmente dirige i Musei d’Arte Antica e Storico-Scientifici. Ha pubblicato: Polaroid, Ferrara 1999; Porto Palos, Book, Castel Maggiore 2006; La faretra di Zenone (disegni di Riccardo Biavati), Corbo, Ferrara 2008 – finalista al premio Caput Gauri 2010; Nel verso della vita (pref. di P. Vanelli, disegni di G. Cestari), Este Edition, Ferrara 2010; Parole come dita, Mobydick, Faenza 2011. Dal 2011 cura la rassegna “I Poeti dei poeti” a casa Ariosto di Ferrara.
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Luigi Bernardi è nato nel 1953 in provincia di Bologna. Ha creato e diretto case editrici (L’Isola Trovata, Glénat Italia, Granata Press, Perdisa Pop), riviste (Orient Express, Nova Express) e collane di libri (EuroNoir, Vox, Stile Libero Noir). Ha tradotto decine di fumetti e alcuni romanzi francesi. Attualmente è narratore, sceneggiatore e drammaturgo. Ha scritto alcuni libri sui rapporti fra crimine e contemporaneità, fra i quali: A sangue caldo (2001), Pallottole vaganti (2002), Il male stanco (2003). Come narratore ha pubblicato un libro per ragazzi, i romanzi Tutta quell’acqua (2004), Atlante freddo (2006), Senza luce (2008), Niente da capire (2011) e quattro raccolte di racconti, la più recente delle quali è Maddalena e le apocalissi (2011). Per il teatro ha scritto: Colpevole (2003), La conta (2005, nuova edizione 2008), Gaijin! (2006, ripreso anche in un libro illustrato da O.Catacchio) e I tempi stanno per cambiare (2007), quest’ultimo insieme a R.Palazzolo. Per il fumetto ha sceneggiato Fantomax/Non temerai altro male, disegni di O.Catacchio (2011) e Carriera criminale di Clelia C., disegni di G.Lobaccaro (2011). Vive e lavora a Bologna, di cui ha raccontato storie e memoria in: Macchie di rosso (2002). Il suo sito internet è http://www.luigibernardi.com.
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Claudia Boscolo è dottore di ricerca in Italian Studies presso la Royal Holloway University of London dove ha insegnato lingua e letteratura italiana per tre anni. Ha insegnato inoltre presso University College Dublin per due anni. Attualmente è docente di lettere in Italia. Ha curato un numero monografico del Journal of Romance Studies dedicato al New Italian Epic e pubblica regolarmente saggi sulla letteratura italiana del Trecento e contemporanea. Scrive su vari blog.
Roberto Ferrucci è nato a Venezia (Marghera) nel 1960. Ha pubblicato i romanzi Terra rossa (Transeuropa, 1993) e Cosa cambia, (Marsilio, 2007), tradotto di recente in francese da Seuil. Sentimenti sovversivi è stato pubblicato in Francia in edizione bilingue da Meet (Maison des écrivains étrangers et des traducteurs). Nel 2011, ‘Sentimenti sovversivi’ è uscito anche Italia (Isbn).
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Francesco Forlani, nato a Caserta nel 1967, a sette mesi, vive tra Parigi e Torino. Ha collaborato e collabora a riviste come Baldus (Milano), Atelier du Roman (Parigi), News from the Republic of letters (Boston), Reportage, Alfabeta2; è stato direttore artistico, dal 1995 al 2000, del magazine Paso Doble (Parigi); ha diretto la rivista letteraria Sud. Ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano tra i quali: Autoreverse; Métromorphoses; le chat noir; Il manifesto del comunista dandy. Direttore editoriale. Presente in Rete come redattore del più importante blog letterario, Nazione Indiana. Poeta, cabarettista e performer, conduttore insieme a Marco Fedele del programma radiofonico, Cocina Clandestina (radio Veronica One).
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Elisabetta Nepitelli Alegiani, romana, ha lavorato per diversi anni con compagnie di teatro di ricerca, tra cui Rossotiziano di Napoli, con cui ha organizzato tra l’altro i Festival de I teatri di Napoli. Ha fondato poi con Peppino Mazzotta e Francesco Suriano la compagnia Teatri del Sud. Attualmente è socia della Soc. Neraonda a r.l., di cui è direttrice artistica e Presidente della Associazione Culturale Artifici. Collabora con Ecoradio per la quale ha realizzato il programma di cultura e spettacolo Retroscena. E’ responsabile della rubrica Dramma del Mese sul sito http://www.dramma.it
Anna Mioni è nata a Padova, dove vive. Si laurea in Italianistica contemporanea a Padova nel 1995 e consegue il master in Traduzione letteraria dall’inglese a Venezia nel 1997. Ha tradotto più di cinquanta volumi di narrativa e libri sulla musica rock (Tom McCarthy, Lester Bangs, Sam Lipsyte, Daniel Handler, Edith Wharton, Jon McGregor). Nell’ultimo decennio ha lavorato nelle redazioni di Alet edizioni e Franco Muzzio/Arcana. È stata segnalata al Premio Monselice per la Traduzione nel 2008 e nel 2009. Insegna traduzione dal vivo e su internet. Dal 2011 lavora alla costituzione di AC 2 Literary Agency, un’agenzia letteraria internazionale che vuole rispondere in modo rapido alle esigenze sempre più vorticose di un mondo che cambia.
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Loredana Rotundo. Dopo anni trascorsi a tradurre, e dopo aver frequentato il corso di scrittura creativa con Raul Montanari e i corsi di traduzione con Tullio Dobner e Olivia Crosio, fonda nel 2004 l’Agenzia Letteraria. Si occupa della ricerca di autori italiani: sono numerosi gli esordienti che hanno visto le proprie opere pubblicate grazie alla sua analisi attenta e scrupolosa e all’individuazione delle case editrici più adatte, dalle piccole alle grandi. I diritti di traduzione vengono venduti in altri paesi europei (in Francia con Gallimard, in Portogallo con Sextante Editora, in Spagna con Tropo Editores). Editor professionisti e collaboratori esterni rendono possibile il grande lavoro di squadra dell’Agenzia Letteraria con sede a Paderno Dugnano (MI) e la partecipazione alle maggiori fiere del libro internazionali.
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Ida Ferrari è nata e vive a Brescia. Ha frequentato per due anni un corso di scrittura creativa alla Holden di Torino. Ha al suo attivo sette racconti su riviste femminili a diffusione nazionale (Donna – Madre), ha partecipato ai romanzi collettivi TRIBU’ per Coloradonoir e “Chi ha ucciso Lucarelli?” Bacchilega ed. E’ stata finalista a vari premi tra i quali Lama e Trama 2011. Ha scritto un romanzo giallo che uscirà a giugno sotto pseudonimo e ne ha in stesura un altro. Ha collaborato con la rivista Economy (Mondadori) e collabora saltuariamente con il portale Blogosfere cultura e l’Angolonero. Lavora part-time in banca.
Buon primo maggio a tutti, abbraccio a Massimo, grazie a Federica per il grande lavoro che sta facendo in questi giorni preparatori di incontri, reading, iniziative e dialoghi.
Good night!
Grazie a te, cara Barbara. Un abbraccio a Federica e un caro saluto ai vostri ospiti (peraltro molti di loro li conosci personalmente… dunque: salutatemeli! 🙂 )
Ne approfitto per ringraziare e salutare tutti gli altri intervenuti… a partire da Anthony Glavin.
@ Anthony Glavin
Thank you for your participation, dear Anthony.
Ringrazio anche June Coldwell per il suo contributo.
@ Barbara e Federica
So che siete impegnatissime. Del resto la data dell’inizio del Festival si avvicina.
So che appena possibile tradurrete il commento di Anthony Glavin e l’articolo di June Coldwell… ma se non ci arrivate a farlo adesso, non vi preoccupate. Potremmo rinviare a dopo la conclusione del Festival.
A proposito… ovviamente ci aspettiamo che ci raccontiate tutto, eh!
Rendete partecipi anche noi che fisicamente (non tutti almeno) non potremo essere lì.
😉
Intanto ne approfitto per salutare e ringraziare ancora una volta Giacomo Tessani e Mela Mondì…
E grazie anche a Niamh MacAlister (che è tornata a intervenire) e a Caterina Orsini.
Infine, un affettuoso saluto al caro Ausilio Bertoli.
Buona serata e buon primo maggio a tutte/i!
Ciao a tutti. Che straordinario salotto letterario, questo! Ho letto i vostri commenti, ho centellinato pareri, ho riflettuto. Quante verità ne sono uscite! Il percorso della scrittura dal punto di vista di Catherine Dunne e via via tutti gli altri autorevoli pareri mi hanno aperto porte nuove.
Credevo che il mio percorso fosse molto più semplice. Forse lo è. Io parto da un frammento, da un’immagine, da un flash. E’ il mio primo punto nel cerchio che poi si allarga. Un bel problema, è vero, quel puntino. Perchè in genere immagino l’inizio e so quasi per certo come sarà la fine. Prologo ed epilogo si costruiscono in modo sequenziale nel mio pensiero. Già, ma in mezzo?
Come ha detto una volta Sepulveda, in un’intervista, è facile scrivere l’inizio e la fine, il problema è creare qualcosa di interessante nel mezzo.
Anche se poi, in genere, sono i personaggi che si fanno padroni di loro stessi, che si caratterizzano e si trasformano sotto l’impulso di idee, pensieri, identità vere e immaginate. Non sempre in modo semplice. Il percorso spesso si lastrica di fatica e frustrazione.
Grazie a Federica, Barbara, Massimo Maugeri e un caro saluto a tutti coloro che incontrerò e conoscerò nel corso del festival.
Buon primo maggio a Massimo ed a tutti.
Un saluto speciale a Barbara ed a Federica ed a tutti gli altri che sono impegnati nell’organizzazione del festival.
Massimo, ciao.
E ciao a tutti che passate per di qua e lasciate tutte queste belle parole.
Massimo, scusa se non abbiamo ancora tradotto Anthony e June: lo facciamo appena possibile; scusateci anche voi che passate…
Al momento, dopo aver finito di tradurre i racconti e i frammenti che i colleghi irlandesi leggeranno nei due reading che sono in programa nel festival (una parte delle traduzioni la sta curando Valeria Lo Forte), stavo preparando il testo che potrebbe fare da base alla discussione prevista nei due incontri del 5, sabato, di cui più sopra parlava Barbara.
Scusate, ho infilato la testa nelle cose da fare per forza e ho lasciato colpevolmente passare in secondo piano, momentaneamente, il piacere di discutere qui con voi.
Appena ho finito la versione italiana e inglese del testo per il 5 torno qui e mi butto a tradurre Anthony.
Un caro saluto a tutti (ciao, Ida! Ciao, Ausilio!), e a fra poco.
Buon primo maggio, peraltro.
E ancora grazie a Massimo
(Mamma mia, divento noiosa).
Il mio tentativo di traduzione dell’intervento di Anthony Glavin (che si firma amabilmente Antonio!)
Ho appena finito di rileggere (e con ammirazione!) gli interventi intensi di molti dei miei colleghi scrittori irlandesi: Catherine, Lia, Niamh e Celia, e sto pensando che il mio personale «lancio» a proposito del viaggio creativo era un resoconto più letterale di un viaggio transcontinentale in bus di moltissimo tempo fa; un viaggio durante il quale cominciai a tenere una specie di diario di appunti.
Detto ciò, comunque, penso che il «viaggio» in tutte le sue accezioni – inclusi una gita, un soggiorno, una scappata, una passeggiata o un volo – sono inestricabilmente legati alla mia scrittura.
Nello stesso tempo, posso solamente invidiare il cassetto della cucina di Lia Mills [me ne ricordo uno simile anch’io: leggere il pezzo di Lia mi ha stretto il cuore, mi ha commosso, ndF, ovvero “nota di Federica”], che funziona tanto da reliquiario di autentici memorabilia quanto da luogo metaforico della memoria in se stessa.
Piacerebbe anche a me buttar giù qualche pensiero su quel che dà la scintilla a una storia: se una visione, un sogno, un ricordo, come viene discusso nel pezzo di Catherine e nelle domande poste da Massimo Maugeri per stimolare il dibattito.
Sia come sia, il nostro aereo per l’Italia è ormai in partenza e io non ho ancora sistemato le cose di casa e di lavoro, figuriamoci le valigie.
Ma prima di andare a prendere il borsone nel mobile, lasciatemi almeno dire che il pensiero di Niamh MacAlister – ovvero che lei è «costantemente attirata da personaggi che sembrano essere ai margini della società» richiama con precisione ciò che lo scrittore irlandese Frank O’Connor sostiene nel suo brillante studio sul racconto, “The Lonely Voice”: e cioè che le storie brevi trattano per loro natura di gente sommersa; che sono particolarmente adatte ad occuparsi degli esclusi, mentre i personaggi dei romanzi sono figure più rappresentative dell’uomo medio.
In effetti, O’Connor si spinge fino al punto di sostenere che tutti i grandi autori di racconti parlano come individui con una voce umana solitaria.
E la solitudine dell’uomo è l’oggetto primario del loro interesse…
Ciao
Antonio
Grazie, Federica.
E questo è il mio tentativo di traduzione dello splendido – veramente splendido – intervento di June Caldwell.
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“My Creative Gauntlet” by June Caldwell
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Disprezzavo il giornalismo. Credo che un sacco di aspiranti scrittori facciano lo stesso errore: confondere lo scrivere con il fare giornalismo, a detrimento di quest’ultimo.
Quattordici anni dopo, devo ammettere che scrivere per la carta stampata non è assolutamente un atto creativo.
Ha gran poco a che fare con costruire storie (a meno che tu non lavori per un tabloid!) o con l’impiego positivo dell’immaginazione.
Certo, devi mettere in fila parole (e molto spesso, non nel modo in cui ti piacerebbe farlo); e certo, il tuo nome è pubblicato come quello di un «autore» in giornali e riviste; ma in realtà il giornalismo è una distrazione acida, un’inelegante interruzione dalla vera sfida: essere creativi [June, può essere che io ti ami, ndF, sempre “nota di Federica; June, maybe I love you]. A guardare le cose in retrospettiva, ero spaventata a morte dall’idea di seguire il mio sogno.
Nel 1997 ho cominciato a scrivere pezzi di varia umanità per alcune riviste di settore e giornali femminili. Mi sono spostata sui pezzi raccontati, nei quotidiani, e – alla fine – sulle pubblicazioni online e i blog.
Ho coperto qualunque argomento, dalla situazione delle squadre di soccorso per le bombe di Omagh nel 1998 fino agli articoli finanziari, speculazioni immobiliari, tirate di politica, istanze di rilievo sociale, reclami dei consumatori, ritratti di personaggi e interviste e recensioni artistico-culturali.
In tutti questi anni, mi son guadagnata da vivere in modo decente: ero in grado di pagare le rate del mutuo, le bollette, e di mettere nei piatti cibo a buon mercato conservando abbastanza da potermi permettere qualche bicchiere di vino nei fine settimana.
Ma era un modo di vivere pesante, e lungo tutto quell’arco di tempo non mi son presa vacanze se non, raramente, un minimo di tempo per me.
Correvo su un’odiata ruota da criceto e per vivere ingoiavo segatura.
Da qualche parte doveva esserci un modo.
Nel 2005 scrissi un libro, «In Love with a Mad Dog» («Innamorata di un cane pazzo», ma «Mad Dog» era un soprannome, ndF), una biografia socio-politica su Jackie «Le Gambe» Robinson, l’amante del famigerato terrorista nordirlandese Johnny Adair.
La storia trattava del suo travaglio vissuto nella storia d’amore con un uomo pericoloso e nella sua decisione di chiudere la storia quando i Troubles in Irlanda arrivarono anch’essi a conclusione.
Mi ammazzai per scriverlo – e secondo me è un libraccio.
Ebbi poche settimane per dedicarmi alle «ricerche»; sei settimane per scrivere 87 mila parole, e le rivelazioni del libro non erano nemmeno così sensazionali. Correttamente, compresi che questo esperimento non aveva prodotto un ritorno economico paragonabile al mio scrivere «normale», e da quel momento in poi – visto che non m’era praticamente mai capitato di scrivere quel che mi andava – mi appassionai all’idea di mantenermi con la scrittura.
Nel 2007-2008 mi iscrissi a un master di scrittura creativa alla Queen’s University di Belfast. Per ironia della sorte, dovetti trovare da sola la mia strada per venir fuori da un corso che si supponeva dovesse insegnarmi a scrivere. Ah, quant’è irlandese questa cosa! Ed ero talmente stretta coi soldi, e preoccupata dalle tasse universitarie, che nemmeno riuscii a prender gusto dal corso. Scrissi un po’ di storie e mi cimentai con la poesia, ma quel che scrivevo aveva un’aria inamidata.
La formula per passare dal giornalismo alla scrittura creativa era più dura di quanto avessi immaginato.
Quando finii alla Queen’s University, riuscii in qualche modo a ottenere un finanziamento dall’Arts Council nordirlandese per un romanzo.
Nel 2009, tornai a Dublino, i miei genitori si ammalarono entrambi, e divenne impossibile per me concentrarmi sull’opera narrativa.
Diventai l’involontaria badante di due persone anziane (senza contare che uno dei miei fratelli si ammalò anch’egli giusto in quel periodo): sicché non c’era altro da fare che arrivare a sera e mettere in attesa tutta la faccenda della scrittura.
In quel periodo cominciai a fare un po’ di lavoro volontario all’Irish Writers’ Centre, giusto per rimanere attaccata alla scrittura in qualche modo. A metà 2010, mi chiesero di scrivere per un blog di donne scrittrici, The Anti-Room: la cosa mi diede una positiva centratura (durante un periodo di disoccupazione in una fase recessiva), e diventò un modo di fare esperienza di scrittura creativa non-fiction.
La risposta ai miei articoli (specialmente alle sfuriate personali involontariamente comiche) fu smisurata.
Mi guadagnai un mucchio di seguaci online e fui molto incoraggiata a scrivere in modo più creativo.
Un anno dopo vinsi il premio per il miglior post di blog all’Irish Blog Award, per un pezzo che avevo scritto sulla depressione.
Decisi di scrivere su questo tema considerato tabù perché nessun altro lo faceva.
Il premio fu un’altra spinta nella direzione giusta, anche se a quel punto – scoprii che mio fratello era sul punto di morire, scrissi un post anche a proposito di questo! http://junecaldwell.wordpress.com/2011/11/04/my-lovely-brother-is-going-to-die e stavo comunque continuando a fare da badante ai miei genitori anziani – tornai sui miei passi, all’idea di scrivere in modo creativo, finzionale.
Sto lavorando, ora, a una raccolta di racconti e mi son rimessa sul romanzo (nei fine settimana!), concedendomi un anno per finirli entrambi.
Per me, scrivere è più che una semplice ambizione: è un obbligo, una tossicodipendenza, necessario come l’aria e findamentale come innamorarsi.
Non ho idea se mai «ce la farò», ma sono ben più che semplicemente disposta a strapparmi i capelli fino alla morte.
Se mi ritroverò per conto mio, sfracellata dalle nevrosi, in un cottage delizioso da qualche parte nell’ovest dell’Irlanda – un gatto rognoso a farmi compagnia e neanche un soldo in banca – be’, questa sarà la mia interpretazione del successo.
È bello o no, l’intervento di June?
E adesso voglio dire due cose io.
Con enorme fatica, perché sono distrutta dall’enorme lavoro organizzativo, materiale e cerebrale, che sta felicemente consumando noi tutti che ci stiamo dedicando a questa creaturina nata appena a settembre dell’anno scorso.
Perciò, facciamo che se qualcosa sembrerà sconclusionato saraà colpa della fatica!
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Il problema, chiede Massimo: «quali sono i principali ostacoli che deve affrontare uno scrittore nella prosecuzione del suo itinerario creativo?».
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Il principale – per me, ma credo per molti – è il nodo della legittimazione di sé come scrittore, come raccontatore di storie.
Nel nostro Paese il talento – se il termine è giusto, e non saprei – è sciaguratamente sopravvalutato.
Non c’è università che si dedichi all’analisi del testo scritto se non a livello critico; non c’è corso universitario che si occupi della scrittura come un’arte che si può imparare.
Certo: se non c’è predisposizione naturale (che orribile formula; ma non è che «talento», al singolare, mi piaccia di più), è difficile che si riesca a imparare un’arte.
Ma se non c’è l’esercizio, se non c’è la lettura, se non c’è la conoscenza della tecnica, se non c’è la capacità di prendere per mano se stessi dicendo al proprio cuore «sì, puoi fidarti; puoi lasciarti andare», la scrittura è secrezione.
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Il risultato di quest’assenza, secondo me, è duplice.
Da un lato vieni lasciato da solo a cercar di dar risposta alla domanda più insensatamente peregrina che si conosca. Questa: avrò o no talento? «Meriterò» o no di scrivere? Sarò o no uno di coloro che sono baciati dal dio della scrittura?
Dall’altro, mentre tu cerchi di dare una risposta a queste domande, intorno a te prende forma una grande quantità di opere letterarie che – essendo scritte da persone di talento – sembrano splendide sinfonie che si elevano al cielo, e poi non hanno niente da dirti.
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Lo so: sto radicalizzando la questione. È verissimo.
Però mi capita di non riuscire a sopportare il manierismo di molta scrittura.
Quell’idea che noi bravi, noi dei, le parole le scolpiamo nella roccia, cara mia, mica come voi che state lì a pensare alle storie, o alle relazioni, o alla vita. Noi siam qui che viviamo nell’iperuranio, e costruiamo sinfonie. Voi, giù nella morchia, fate gli esercizietti.
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La prima conseguenza di cui dicevo porta dritta dritta alla questione della legittimazione.
Ebbene: ho una piccola risposta. Ma – mi raccomando – che rimanga fra noi.
La legittimazione non ce la dà nessuno.
Ce la dobbiamo prendere da soli.
Può essere che le cose che scriviamo facciano schifo, e in quel caso, amen: al mondo c’è posto anche per quelli che scrivono cose schifose. O no?
A chi facciamo male, se le cose che scriviamo vengono giudicate schifose?
A nessuno, credo.
Anzi: facciamo un piacere agli dei, a quelli veramente bravi, a quelli che abitano ai piani alti della letteratura, perché li facciamo splendere in contrasto all’opacità del metallo vile di cui siamo costruiti noi poveri raccontatori di storie, cercatori di relazioni umane.
*
Quanto alla seconda conseguenza, essa credo ne produca un’altra: ovvero, l’invenzione di marchi-brand.
Mi spiego: esistono scrittori che, in virtù del loro inserimento nel circuito che conta (probabilmente perché se lo meritano, in virtù del fatto che essi sono veramente bravi; su questo non ho proprio niente da eccepire, anche se ciascuno ha un suo gusto personale, e alcuni di quelli che vanno per la maggiore a me sembrano a volte tromboni magniloquenti) finiscono per diventare uomini e donne d’affari che amministrano la propria azienda, gestendo la somministrazione del proprio «talento» (espressione alla quale preferisco il plurale «talenti», al mondo degli incolti) a tariffa oraria o chilometrica.
*
Ecco.
*
E – per tornare un pochino indietro – la legittimazione riusciamo a darcela solo se ci confrontiamo con chi non scrive solamente, ma vive anche.
Dice: ma vivono tutti, Federica!
Sì, vivono tutti.
Ma avete letto sì o no le cose che scrive June?
[La parentesi andrebbe dopo «talenti»; e «il mondo degli incolti» sarebbe il complemento di termine di «somministrazione del proprio “talento” a tariffa oraria o chilometrica». Chiedo scusa].
Carissima Federica,
grazie di cuore per le tue traduzioni e per i tuoi ottimi interventi.
Aggiungo questo. Il fatto che tu (come so bene) – nonostante sia piena zeppa di impegni organizzativi e non, per via dell’inizio del Festival (ormai ci siamo: il 3 maggio è dopodomani), abbia trovato il tempo di intervenire qui… be’, mi riempie di tanta (tanta) gioia.
Grazie. Grazie davvero!
Ne approfitto anche per salutare e ringraziare Ida Ferrari.
(E Amelia Corsi).
Spero che abbiate potuto trascorrere un buon primo maggio.
A tutti voi, una buona serata e una serena notte.
@ federica sgaggio
grazie anche da parte mia federica. belli gli articoli che hai tradotto, così come le tue considerazioni.
Many thanks for your kind regards, dear Massimo, and a Happy 1st of May to all! Ciao, Anthony/Antonio
Anthony, what the hell are you doing round here?
It’s high time you go and pack!
(Anthony, che diavolo ci fai ancora in giro da queste parti?
È ora che vada a fare la valigia!).
Massimo, non posso più dirti grazie! Mi sento scema per tutti i “grazie” che ho detto, ormai!!!
Too true, Federica! Worse yet, I had to go around to our “local”–slang/idiom for the pub nearest to your dwelling that you also frequent, as opposed to a pub nearby that you never go into. What’s more, it was on a account of yourself & Catherine Dunne that I had to make that visit in lieu (yes, one of those French words that has made its way into English) of packing. Cryptic, yes! but all will be revealed over the next six days. Must go start packing now!
Eccomi ad augurare a tutti buona notte.
In effetti sembra quasi incredibile a dirsi, ma ormai ci siamo, ho iniziato a riempire la mia valigia viola ruote-munita, che comunque fino a domani pomeriggio resterà sul chi-va-là.
E ha ragione Federica: ringraziare esce dalla pancia, per il calore, l’appoggio e l’ascolto che c’è qui… ma ormai siamo noiose!
Gli ultimi giorni sono ‘spuntati’ draghi imprevisti come ogni pre iniziativa che si rispetti, solo che ho combinato i soliti pasticci perché coi primi caldi ho messo via quella pesante e i ‘draghi’ mi hanno beccata proprio mentre cercavo l’armatura leggera, da bella stagione.
Scherzi a parte, non si nasce imparati e in certe cose, secondo me, bisogna lanciarsi e vedere che succede, eventualmente farsi la conta dei liviti e le sbucciature. Ma scoprire che succede può stupirci. Poi certo, studiare, studiare, chiedere, ascoltare, imparare, imparare, impegnarsi, sempre impegnarsi, essere pronti a virare, risolvere, tentare e anche accettare dei limiti che magari non si conoscevano.
Ogni viaggio, in fondo, è anche questo.
Domani prendo un treno, il solito per la verità, perché la tratta Bologna-Verona ormai l’ho fatta spesso negli ultimi anni, eppure ogni voltà i sapori e gli umori hanno ‘perchè’ diversi.
Per ora buona notte a tutti.
Sulla ‘legittimazione’ si è dibattuto tanto, e il confronto con un’altra realtà, un altro paese, accentua proprio quei punti che si credevano fermi, immobili e inossidabili. L’ho scoperto sulla pelle a Dublino il settembre scorso.
‘Night
Good packing Anthony!
🙂
E così, giusto per dire, da una mezz’oretta è già il mio anniversario di matrimonio!
auguri di cuore per il tuo anniversario di matrimonio, federica.
che tu e tuo marito possiate festeggiare in serena allegria con una cenetta in un irish pub 🙂
Auguri anche da parte mia, Federica. Buon anniversario!
Un passaggio qui tra una corsa e l’altra oggi, per scusarmi con due partecipanti agli incontri di sabato 5 maggio che non ho citato in precedenza:
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Laura Liberale è nata Torino il 15.05.69, si è laureata in Filosofia con una tesi di Religioni e Filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente. Dopo la laurea ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Studi Indologici. Dal 2006 tiene corsi e seminari di Scrittura Creativa (per adulti e per studenti di elementari e medie). Autrice di saggi indologici, insegnante e bassista, ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e narrativa. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo, Tanatoparty (Meridiano Zero, Padova) e la silloge poetica Sari – poesie per la figlia (d’If, Napoli). Nel 2011 è uscita la raccolta di poesie Ballabile terreo (d’If). A breve l’uscita in un’antologia Einaudi di poesia femminile contemporanea. Il suo secondo romanzo è in attesa di pubblicazione.
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Heman Zed ha 45 anni, vive a Padova con Laura e Sari. Ha viaggiato per l’Europa, lavorando come dj, importatore di abbigliamento fetish e anelli per body-piercing. Suona la batteria ed è appassionato di storia contemporanea. Ha esordito per Il Maestrale nel 2007 con La cortina di marzapane, che ha ricevuto la Menzione Speciale all’XI edizione del Premio «L’Albatros – Città di Palestrina». Hanno fatto seguito il romanzo satirico La Zolfa(Il Maestrale 2009) e Dreams ‘n’ Drums (Il Maestrale 2010). È presente nel Dizionario affettivo della lingua italiana (a cura di Matteo B. Bianchi e Giorgio Vasta, Fandango 2008) con il lemma «Sfiato» e nell’antologia L’occasione (Galaad 2012) con il racconto Ultima chance. Un nuovo romanzo è prossimo alla pubblicazione (Guanda 2012).
Buongiorno. Scusate il ritardo del mio intervento, ma come aveva scritto la mia amica Anna Di Gregorio, ho avuto problemi con la linea telefonica che mi hanno impedito la connessione.
Ho letto tutti gli interventi e sono rimasta molto colpita dai molteplici spunti e riflessioni che sono stati offerti sul tema del “viaggio creativo”. Molto bella anche l’idea della discussione in doppia lingua (inglese-italiano). E trovo altrettanto bella l’idea del festival letterario tra Italia e Irlanda. Uno scambio che si rivela già molto proficuo.
Seguono alcune riflessioni sul tema del “viaggio creativo”, cioè alcuni aspetti di cui lo scrittore deve tener conto nel momento in cui intraprende questo viaggio tra parole e creatività.
Seguono quelle che, in genere, vengono considerate le componenti essenziali di quello che qui e’ stato chiamato “viaggio creativo”.
l’ispirazione creativa:
lo spunto per un “viaggio creativo” può essere colto dalla realtà presente o passata, dalla storia o da un evento immaginario; ma l’ispirazione può derivare anche da un sogno come avveniva per esempio per lo scrittore William Seward Burroughs il quale proprio dalla propria attività onirica ha tratto spunto per realizzare la maggior parte delle sue storie, soprattutto per quanto riguarda l’ambientazione e i personaggi. Il drammaturgo belga, Michel de Ghelderode invece, nel creare i suoi drammi si ispirava molto spesso ai quadri della tradizione fiamminga; la scrittrice Dacia Maraini per scrivere il romanzo “La lunga vita di Marianna Ucrìa” si ispirò ad un quadro esposto a Villa Valguarnera a Bagheria.
il linguaggio e lo stile:
la terminologia adottata costituisce un potente mezzo di comunicazione: l’uso di similitudini e metafore contribuisce ad arricchire la narrazione di eleganza così come gli elementi denotativi e connotativi delle parole aggiungono stile ed efficacia alla narrazione stessa. Lo stile è inoltre fondamentale per rendere vivido il racconto stesso, carattertistica centrale della narrativa, che non significa realismo ma una buona percezione da parte del lettore delle scene e dei fatti descritti. La parola quindi, costituita dagli aggettivi, avverbi, nomi e preposizioni è la vera padrona di casa di tutto il tessuto narrativo.
i personaggi e l’ambiente: l’intreccio fondamentale della storia nasce dall’interazione dei vari personaggi all’interno dell’ambiente narrato; esistono opinioni diverse in merito all’ordine in cui nascono i personaggi e l’ambiente. Alcuni scrittori sostengono che la storia abbia origine da un contesto all’interno del quale debbano essere dipinti e narrati i personaggi, altri scrittori invece sostengono che viceversa i personaggi con le loro peculiarità e caratteristiche comporranno e sveleranno lo sfondo e l’ambiente in cui essi stessi si muoveranno. Già Aristotele aveva affrontato la questione dando priorità all’ ambiente e affermando che “i personaggi non svolgono l’azione scenica per riprodurre i caratteri, ma attraverso le azioni essi assumono i caratteri”. “Inoltre, senza azione non sussiste tragedia, ma può sussistere senza caratteri”. I personaggi inoltre rappresentano un vero veicolo liberatore di creatività: essi vengono concepiti, modificati, caratterizzati e rimangono all’interno della mente dello scrittore fino a quando non sono veramente reali e pronti per essere inseriti e calati nella storia. Di essi, poi, vengono dipinti, attraverso una mirata distribuzione di dettagli durante tutto il racconto, i tratti fisici, psicologici e caratteriali che vanno a comporre e a svelare la loro personalità.
spazi e luoghi: delimitano l’habitat all’interno del quale si muovono i personaggi e si sviluppa la trama; possono essere reali o di fantasia, ricchi di dettagli e con riferimenti a luoghi e paesi ben precisi oppure più generici e meno particolareggiati. La scelta di fornire o omettere questi elementi risponde all’intento dello scrittore di creare le condizioni perché il lettore si immedesimi nella storia stessa oppure la completi con elementi tratti dalla propria soggettività.
la conflittualità/tensione:
è un elemento determinante per catturare l’attenzione del lettore ed è sempre stata una fonte preziosa di interesse che ha nutrito tutta la letteratura. Spesso il conflitto non è solamente uno, ma la storia si arricchisce di intensità con l’introduzione di nuovi elementi conflittuali che si vanno a sovrapporre e a intrecciare a quello di partenza. La bravura dello scrittore consiste nel riuscire a moderare la durata, l’intensità e la frequenza degli eventi tensivi allo scopo di coinvolgere il lettore con un adeguato livello di attenzione e interesse tale da proseguire nella lettura.
suspense e sorpresa: è il modo in cui lo scrittore riesce ad organizzare la storia alimentando ad arte le situazioni con colpi di scena o momenti che tengono il lettore con il fiato sospeso, oppure lo sorprendono con eventi impossibili da immaginare fino alla riga precedente. Nello specifico, la suspense si realizza quando il lettore è a conoscenza che molto vicino nel racconto capiterà qualcosa di negativo ad uno o più personaggi, i quali molto spesso ignorano la possibilità che ciò avvenga; la sorpresa, invece, è l’accadimento di un fatto positivo o negativo ma non immaginabile fino a quel punto né da parte del lettore, né da parte del personaggio che viene coinvolto.
trama: è l’elemento che costituisce la struttura portante del tessuto narrativo e può essere suddivisa nelle seguenti fasi: apertura e ambientazione, susseguirsi della vicenda, apice dell’ intreccio e conclusione. Nella fase iniziale vengono forniti gli elementi necessari per potersi orientare e allo stesso tempo una parte di elementi misteriosi per stimolare la curiosità del lettore; con il susseguirsi della storia e il conseguente sviluppo si arriva alla fase cruciale e centrale che è costituita dalla fabula, cioè dalla vicenda raccontata secondo un ordine temporale e dall’intreccio cioè dal susseguirsi vero e proprio dei fatti e degli eventi. L’apice della vicenda è il momento determinante in cui l’attenzione e la curiosità del lettore raggiunge il livello più intenso che lo porterà, attraverso una calibrata modulazione di vari momenti, alla conclusione o soluzione della vicenda narrata.
tempo della narrazione: in genere il tempo narrato non coincide con il tempo reale e spesso proprio per esigenze temporali l’autore può scegliere di accelerarlo o di rallentarlo; in entrambi i casi inoltre si può scegliere di non raccontare tutti i passaggi ma di lasciare parte di essi alla fantasia o alla deduzione del lettore. I fatti che non vengono narrati si chiamano “ellissi” mentre quelli che vengono dedotti si chiamano “inferenze”.
Spero di aver dato un piccolo contributo. Ciao a tutti.
Andreina, grazie mille.
Leggo stanotte, mi sa.
Grazie, non vedo l’ora.
Tanti auguri di buon anniversario, cara Federica. A te e a tuo marito. 🙂
@ Federica e Barbara
Basta con i ringraziamenti.
E comunque sono io che ringrazio voi.
E in questo blog mi spetta l’ultima parola. 😉
E invece voglio ringraziare Andreina Rigoni per i suoi ottimi contributi…
Buon lavoro a tutte/i coloro che stanno lavorando per l’organizzazione del Festival letterario italo/irlandese.
Domani è “the day”.
E, naturalmente, come sempre, una buona serata e una serena notte a tutte/i.
A proposito di “viaggio creativo”. Secondo voi e’ piu’ bello e piu’ fruttuoso quando si conosce la destinazione fin dall’inizio, o quando si segue un itinerario che fino all’ultimo non sai bene dove ti porterà ?
In bocca al lupo per il festival e complimenti per il dibattito.
Non so se riuscite a vedere questo formato web di foto:
http://instagr.am/p/KJBeJuPnif/
http://instagr.am/p/KJChjIvni2/
http://instagr.am/p/KJCzWNvni9/
http://instagr.am/p/KKI6UXPntF/
http://instagr.am/p/KKIxwOPntD/
Abbraccio da tutti qui a Nogarole Rocca!
🙂
Ciao Barbara. Grazie per le bellissime foto. 🙂
@ Valentina Farnese
Poni domande giuste e interessanti. Dovrebbe risponderei chi scrive, mentre io sono una semplice lettrice. Secondo me pero’ non c’è una regola fissa. Dipende, credo, dalle “abitudini creative” dello scrittore e dal tipo di storia.
Cara Valentina, grazie per le tue domande. In linea di massima, concordo con quanto detto da Amelia.
Un ringraziamento a Barbara per averci linkato le belle foto!
Buongiorno a tutti. Vorrei contribuire a questa bella discussione sul “viaggio creativo” della scrittura con alcune citazioni proprio sulla scrittura. Su alcune di queste ci si potrebbe riflettere e potrebbero dare spunti per nuove discussioni.
Chi ha da dire qualcosa di nuovo e di importante ci tiene a farsi capire. Farà perciò tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile. Niente è più facile dello scrivere difficile.
(Karl Popper)
Ci si mette a scrivere di lena, ma c’è un’ora in cui la penna non gratta che polveroso inchiostro, e non vi scorre più una goccia di vita, e la vita è tutta fuori, fuori dalla finestra, fuori di te, e ti sembra che mai più potrai rifugiarti nella pagina che scrivi, aprire un altro mondo, fare il salto. Forse è meglio così: forse quando scrivevi con gioia non era miracolo né grazia: era peccato, idolatria, superbia. Ne sono fuori, allora? No, scrivendo non mi sono cambiata in bene: ho solo consumato un po’ d’ansiosa incosciente giovinezza. Che mi varranno queste pagine scontente? Il libro, il voto, non varrà più di quanto tu vali. Che ci si salvi l’anima scrivendo non è detto. Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa.
(Italo Calvino)
È in ogni uomo attendersi che forse la parola, una parola, possa trasformare la sostanza di una cosa. Ed è nello scrittore di crederlo con assiduità e fermezza. È ormai nel nostro mestiere, nel nostro compito. È fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto a ogni indagine.
(Elio Vittorini)
La scrittura è l’ignoto. Prima di scrivere non si sa niente di ciò che si sta per scrivere e in piena lucidità.
(Marguerite Duras)
MOSSO dalla scrittura fatale, e se il metro sempre futuro incatena senza ritorno la mia memoria, io risento ogni parola in tutta la sua forza, per averla infinitamente attesa. Questa misura che mi trasporta e che io coloro, mi protegge dal vero e dal falso. Né il dubbio mi divide né la ragione mi affatica. Nessun caso, ma soltanto una sorte felice si fortifica. Io trovo senza sforzo il linguaggio di questa felicità; e artificiosamente penso un pensiero tutto certo, meravigliosamente preveggente, dalle pause calcolate, senza tenebre involontarie, il cui moto mi domina e la quantità mi colma: un pensiero eccezionalmente compiuto.
(Paul Valéry)
Ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo d’una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscita a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l’astio che sono qui chiusa a scontare.
(Italo Calvino)
Per me scrivere è tirare fuori la morte dal taschino, scagliarla contro il muro e riprenderla al volo.
(Charles Bukowski)
Penso che la scrittura sia una sorta di identificazione. Soltanto se fai vedere al lettore la scena usando un occhio interno riesci a mantenere la sua attenzione.
(Anne Holt)
Scrivere è trascrivere. Anche quando inventa, uno scrittore trascrive storie e cose di cui la vita lo ha reso partecipe: senza certi volti, certi eventi grandi o minimi, certi personaggi, certe luci, certe ombre, certi paesaggi, certi momenti di felicità e disperazione, tante pagine non sarebbero nate.
(Claudio Magris)
Scrivere, quando è fatto come si deve, (come potete star certi che ritengo di fare io) è solo un modo diverso di conversare: Come nessuno, che sappia il fatto suo, in buona compagnia, si azzarderebbe a dire tutto;—così nessun autore, che comprenda i giusti confini del decoro e della buona educazione, pretenderebbe di pensare tutto: Il rispetto più autentico che possiate dimostrare all’intelligenza del lettore, consiste nel fare amichevolmente a metà, e lasciargli qualcosa da immaginare, a sua volta, al pari di voi.
Per parte mia, non faccio che rivolgergli complimenti di questo genere, e faccio tutto quanto è in mio potere per mantenere occupata la sua fantasia quanto la mia.
(Laurence Sterne)
Scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno.
(Haruki Murakami)
Ciao a tutto.
Non ci siamo dimenticati di voi.
Scusateci tanto, ma sono giornate frenetiche e stancanti, anche se meravigliose.
Il workshop è stato stupendo, Fabio Bussotti è un grande, gli irlandesi hanno un modo splendido di avvicinarsi alle storie, i corsisti erano entusiasti.
Il reading di stasera – in inglese e in italiano, a Nogarole Rocca – è andato al di là di ogni più rosea aspettativa: tantissime persone, tutte contente, allegre, musica bella (grazie, Inisheer!).
Siamo esausti, ma è una cosa bellissima.
Prima di venire qui ho comprato un quadernetto per Barbara; è una di quelle cose fatte a mano, carta speciale eccetera. Sulla copertina c’è il disegni di un cartello piantato nell’erba.
C’è scritto: «È vietato calpestare i sogni».
Ecco: sono giorni in cui nessuno calpesta i sogni; né i propri, né quelli altrui.
Ciao a tutti.
Grazie per essere tornata qui, nonostante la stanchezza, cara Federica!
Invito tutti voi, appena potete, a raccontarci l’esperienza del Festival… ognuno dal proprio punto di vista.
Intanto la frase del cartello piantato nell’erba che tu citi, va evidenziata in grassetto…
«È vietato calpestare i sogni».
Bellissima!
Grazie a Margherita per le citazioni che ci ha offerto.
Un caro saluto a tutti e… buon fine settimana!
Buon inizio settimana a tutti. In special modo ai partecipanti del Festival italo-irlandese…
e allora, come e’ andato il festival?
Caro Massi,
finalmente riesco a connettermi dopo giorni difficili, in cui la rete ha oscillato come un pendolo!
Per prima cosa: mi è mancato questo luogo, e mi è dispiaciuto non poter partecipare a questa meravigliosa discussione (della quale mi complimento di vero cuore con le animatrici) …perchè io ho sempre pensato alla scrittura come “viaggio”….
…ma adesso, arroccata sul mio terrazzo pieno di gatti, con le bandiere di panni che mi sventolano sulla testa, il mare a poppa, la cattedrale di Siracusa a prua…posso infine concedermi la gioia di chiacchierare.
Forse è tardi, lo so….
…Credo che il mito del viaggio costituisca uno dei nuclei piu’ profondi
attraverso cui la civilta’ occidentale abbia narrato il senso della vita,fin dalla letteratura epica,in cui vengono intessuti i significati piu’ antichi ed eroici della ricerca della verita’ e di se’,uniti a suggestioni lontane ,al mistero dell’uomo.
Il viaggio è la metafora del nostro percorso umano, perchè è un attraversamento, un procedere verso l’ignoto, con compagni che muteranno, aumenteranno, diminuiranno. E’ quindi un mistero esso stesso, e , proprio come la vita, va raccontato per essere decifrato, per decifrare noi stessi.
Personalmente quando scrivo, ciò che accende l’immaginazione è sempre la nostalgia, e anche in questo mi ritrovo viaggiatrice come Ulisse.
Perchè è come se la scrittura dovesse sempre svelarmi una promessa simile a un mondo dimenticato. E’ inabissato in me, e so che farlo affiorare, pur con le sue decapitazioni, i suoi mancamenti, le sue fragilità e ferite, equivale a chetare un dolore di perdita.
Una mancanza.
Cerco Itaca, anche se so che non è un mondo ideale. Anche se so che tornare a casa non è mai senza sangue.
Nell’Odissea il tema del nostos, della nostalgia, è davvero paradigmatico. Prende forma dalle parole stesse dell’eroe che si connota quindi come aedo,trasmettendo l’idea della vita come racconto e del viaggio stesso come narrazione,sempre in bilico tra menzogna e verita’. Il viaggio è infatti quella dimensione che tende al futuro,che permette al viaggiatore di guardare se stesso mentre vede,di memorizzare e di gustare il piacere di vedere…
Un atto complesso, liberatorio ed errante.
Un atto meraviglioso…
…ma la cena è sul fuoco, il bimbo vuole mangiare, i gatti miagolano e l’intero vicinato sta per tirarmi addosso le scarpe.
Rientro giusto il tempo di un boccone.
Dimenticavo: il terrazzo è tra i tetti. E i miei gatti, non appena mi vedono, urlano di gioia….motivo per il quale sarà bene affrettarmi a scendere giù…
A dopo!
Eccomi qui. Bimbo e gatti saziati. Tutto tace.
La terrazza resta l’unico posto in cui ci sia un po’ di connessione…e dunque…
…La scrittura è un grande viaggio, come quello di Ulisse. Non è un caso che Joyce riduca l’epos di Ulisse all’avventura di un solo giorno: un giorno che è la vita. L’Ulisse di Joyce si svolge in una sola giornata, quella del 16 giugno del 1904: dei due protagonisti centrali, l’uno, Leopold Bloom, è un ebreo irlandese agente di pubblicità, uomo assolutamente qualunque, l’uomo massa del mondo moderno , l’altro, Stephen Dedalus, è un giovane e inquieto intellettuale.
Come in un’Odissea contemporanea Joyce fa percorrere in lungo e in largo ai suoi personaggi una grande città moderna, Dublino, che può dare una sintesi materiale e spirituale del mondo di oggi.
Segno che i viaggi non hanno bisogno di grandi spostamenti per realizzarsi, nè di grandi eroi….
Cara Simo, grazie di cuore per i tuoi splendidi interventi.
In effetti, senza la tua partecipazione, questo blog si sentirebbe un po’ orfano… 😉
Però mi dispiace che tu sia dovuta salire in terrazza per “postare” i tuoi commenti. In un certo senso hai compiuto un viaggio (creativo) ancora prima di scrivere.
Comunque sia, ho deciso di organizzare un petizione per impiantare un sistema wireless a Ortigia, capace di travalicare le mura di casa tua.
Grazie ancora, cara socia!
Credo quindi che parlando di VIAGGIO e di ARTISTI IRLANDESI non si possa prescindere dalla lezione di Joyce, dal suo percorso creativo e interiore, da quell’intuizione modernissima, che ha fatto del viaggio un simbolo del disorientamento, non solo della rotta.
Dublino assurge quindi a metafora del mondo, dolorosamente e intensamente, lasciandoci un’eredità che sta a noi interpretare, sta a noi porre a base di un percorso di verità.
Un testamento, insomma.
Come forse intuiva Joyce quando scrisse: “When I die, Dublin will be written in my heart”.
“Quando morirò, di Dublino sarà scritto nel mio cuore”.
Buona serata a tutti!
E grazie anche a Giacomo.
Sono certo che, appena potranno, Federica e Barbara ci racconteranno come è andata al Festival!
Ehi, socia, sei ancora lì in terrazza? Rientra dentro: è ora di compiere il viaggio (creativo) di ritorno.
Grazie ancora! 😉
Caro Massi
il mio viaggio in terrazza è una vera epopea e quindi era giusto intraprenderla in occasione di questo post!
Ci siamo incrociati, caro socio! Ne approfitto per augurarti una felice notte (anche da parte dei miei svariati gatti. Miao)
Una felice notte a te e ai tuoi micetti.
Anche se in chiusura, questo post continua a essere frequentato comunque da quattro gatti.
Mica male. Ci metterei una firma anche per tutti gli altri… 😉
Giacomo, appena mi rioriento nel tempo e nello spazio, racconto tutto!
Grazie a tutti, grazie di cuore.
Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile questo piccolo sogno.
Cara Federica, pure io sono curiosa e aspetto notizie 🙂
Ciao!
Sono ancora in tempo per partecipare al dibattito sul viaggio creativo? Spero di sì. Vorrei parlare del viaggio che mi ha portata a scrivere “Il mio mare”, un romanzo che spero venga pubblicato, un giorno.
Scrivo da quand’ero piccola, e ho sempre oscillato tra diversi stili, spesso seguendo il genere che mi affascinava in un determinato periodo. In Irlanda ho frequentato alcuni corsi di scrittura, e ho cominciato a tentare di orientare le mie storie verso un genere che interessasse alle case editrici, pensando sempre alla pubblicazione. Pian piano, la voglia di scrivere che sempre mi aveva accompagnata ha cominciato a scemare – sedermi davanti al computer era una tortura; trovavo scuse per non farlo ma continuavo a dire di voler essere una scrittrice.
Solo dopo un lungo periodo di frustrazione ed autoinflitte torture mentali ho deciso … ma chi se ne frega? Quando ho iniziato a scrivere, da bambina, l’ho fatto forse per i soldi? Per la fama? Niente affatto. Ho cominciato perché ne avevo bisogno – perché la scrittura chiudeva un buco, suppliva a qualcosa di mancante. Perché, per me, era una cura. E i miei lettori erano i miei amici, la mia famiglia, oltre a me stessa.
Quando ho accartocciato le manie di grandezza e sono tornata a questa semplice consapevolezza, la passione è riemersa dal nascondiglio in cui s’era cacciata per paura che la corrompessi. Così ho cominciato a scrivere, per la prima volta in tanti anni, di qualcosa che non brilla, non grida per attirare l’attenzione, non ricorre a trucchi per farsi notare. Qualcosa che racchiude la mia vita – il mio mare. E per farlo sono dovuta tornare alla mia infanzia e adolescenza in Sardegna, chiuse a chiave da tempo in un angolino di me.
Nel romanzo, popolato di personaggi fittizi ma costruito sull’arco temporale della malattia che ha colpito mio padre nell’estate del 2007, parlo di cosa significhi crescere in riva al mare, col Maestrale addosso e una famiglia che ti ama anche se non te lo sa dire e la voglia di scappare da un’isola che ti sembra troppo piccola. Il titolo mi è venuto in mente pensando ad uno dei miei romanzi preferiti, “Piccole donne”: il personaggio di Jo March continua a scrivere delle storie colme di violenza, passioni e colpi di scena perché sa che riuscirà a venderle e pensa che siano ciò che i lettori si aspettano da lei; per questo si offende quando il professor Bhaer le critica dicendole che non riflettono la sua vera natura. Alla fine del romanzo, dopo aver sofferto per la morte di sua sorella, Jo scrive “My Beth”, un poema che, finalmente, rispecchia la sua personalità, la sua anima. E lo stesso, ho deciso, avrei fatto io, seppure in prosa.
Tuttavia, i problemi non erano finiti: in che lingua avrei scritto il mio romanzo? L’italiano è non solo la mia lingua madre, ma anche quella che amo di più; l’inglese però è capace di liberarmi dai tabù e dall’imbarazzo. Ho scritto l’intero romanzo in inglese dal punto di vista di Marco. Poi ho deciso che non andava bene. Normalmente non avrei sprecato del tempo in esperimenti – dovevo entrare il prima possibile nella lista dei best seller, ricordate? 😉 – ma per fortuna, stavolta l’ho fatto. Ho ricominciato a riscriverlo in italiano, dal punto di vista di Sara, un altro personaggio importante. Nah, la voce non funzionava. Finalmente ho provato Marco in italiano, e cambiato delle parti importanti della narrazione. Ed eccola lì: la voce che cercavo risuonava nella mia testa, forte e sincera. Ho scritto “Il mio mare” prima di cominciare a lavorare la mattina, nei minuti strappati al lavoro sul computer dell’ufficio, sull’autobus, durante i fine settimana, in vacanza. L’ho scritto con l’aiuto dei miei diari, dei miei ricordi, e delle potenti voci dei componenti della mia famiglia, dei miei amici. Ed ecco che mi sono ricordata cosa significasse aver bisogno di scrivere. La scrittura ha lenito le ferite di quell’estate e mi ha aiutata a fissarla per sempre nella memoria, insieme alla mia infanzia trascorsa in riva al mare.