Dicembre 21, 2024

154 thoughts on “IN UNA LINGUA CHE NON SO PIU’ DIRE di Tea Ranno (recensione di Simona Lo Iacono)

  1. Intanto un sentito ringraziamento a Simona Lo Iacono, che oltre ad essere scrittrice, nonché l’anima e l’organizzatrice di uno dei più importanti salotti letterari di Siracusa, fa il magistrato.
    Un magistrato (per giunta che si occupa di scrittura e letteratura) che recensisce un romanzo che vede come protagonista un magistrato non è male, no?
    Grazie davvero Simona, per aver accettato la mia proposta!

  2. Mi piacerebbe “dibattere” su questo libro.
    Invito tutti coloro che l’hanno letto a intervenire. Chi non l’ha letto ipuò comunque porre domande all’autrice, che interverrà nel dibattito.
    (Tea fatti viva!)
    Poi apro due “percorsi di discussione” collaterali al libro:
    a) essere magistrati oggi (e mi verrebbe da aggiungere… in Italia; ma mi sembra pleonastico)
    b) la “letteratura del ritorno”

  3. Ragazzi, che recensione! Eccellente – dico senza aver letto purtroppo il libro in questione – eccellente nella personalita’ di scrittura e soprattutto definibile come una ”rinarrazione” vera e propria: Simona Lo Iacono dimostra de facto che la Critica Letteraria di alto livello puo’ esser in alcuni casi definita ”Letteratura Secondaria”, affiancabile alle opere creative senza nulla averne di meno. Vive Congratulazioni, per adesso che e’ notte tarda, ma tornero’ sull’argomento… che mi sta a cuore anche in prima persona (vivo a Lubiana da quasi otto anni). La stoffa e’ stoffa, in Letteratura: bisogna averla dentro, questa… stoffa.
    Sergio Sozi

  4. Di Tea Ranno vi dico che:
    È nata a Melilli, in provincia di Siracusa, dove vi è rimasta fino al 1994, anno in cui si è trasferita a Roma, dove attualmente vive. È laureata in giurisprudenza e ha sempre affiancato allo studio del diritto la pratica della scrittura.

  5. Salve!
    Un bacio a Simona e a tutto il salotto letterario siracusano di cui io faccio parte insieme a Sivana Scrofani, Nunzietta Loligato, Adriana Marciante, Margherita Marotta, Giovanna Cicero e un gruppo di new entries…
    Tutto è cominciato con il corso di scrittura tenuto nella nostra città, così bella e dalle auguste tradizioni culturali ma altrettanto lenta e sorda al bisogno di letteratura e alla fame di storie mia e delle mie compagne di avventura, dalla bravissima Silvana La Spina.
    Poi è seguito il corso di Claudio Fava, che io, Adriana e Simona abbiamo frequentato spostandoci coraggiosamente a Catania sempre più irretiti dalla sirena dei corsi di scrittura. Giuro, è una droga, checché ne pensi Gordiano Lupi… è ai corsi che devo delle belle amicizie, delle letture che non pensavo avrei intrapreso autonomamente, l’affinamento delle mie tecniche di scrittura.
    “Scrivere Donna”, il convegno sulla scrittura declinata al femminile organizzato ogni anno da Emanuele Romeo Editore è stato il passo successivo: l’insegnante del corso di scrittura creativa era… Luigi La Rosa, che poi ci ha fatto conoscere il blog di Massimo.
    Vedete quali fili invisibili riescono a tessere gli appassionati di scrittura?
    Con Luigi stiamo proseguendo il nostro percorso di lettura e scrittura.
    I nostri incontri avvengono all’insegna della cordialità, della buona cucina – di Simona innanzitutto, splendida padrona di casa, e di noi che ci avventuriamo a presentare qualche piatto ai compagni di corso in un vero e proprio convivio in tutti i sensi! – e della condivisione di esperienze di lettura e scrittura.
    Ci scambiamo libri, idee e soprattutto questi incontri sono delle vere e proprie oasi nella nostra quotidianità fatta di impegni familiari e lavorativi…
    Il tempo scorre in modo diverso quando siamo insieme, giuro! Una vera e propria sospensione dell’incredulità, come avviene nelle migliori storie.
    Abbiamo condiviso lo stage a Lipari organizzato dal vulcanico Luigi e tenuto da Francesco Costa.
    Gli incontri con l’autore: il salotto letterario aretuseo è frequentato anche da scrittori come Francesco Costa appunto, Lia Levi, Antonella Cilento e gli allievi romani di Luigi… La febbre letteraria è contagiosa!
    Agli ospiti offriamo anche passeggiate nella nostra città che se è avara di cultura è generosa di monumenti, di mare e sole e cortili e un passìo stupendo…
    Massimo, a proposito: sei il benvenuto! Vienici a trovare…

    @ Simona: complimenti per la recensione, poetica come sempre.
    @ Tea: ti ho scritto quello che pensavo del tuo bellissimo libro. Non voglio toglierti il piacere di parlarcene tu stessa… Un bacio e scrivi qualcosa sul blog. Io magari commenterò il tuo intervento…
    @ tutti: sto provando anch’io a cimentarmi in rete.
    Vi invito tutti a scrivere quello che volete sul mio spazio msn:

    aretusachescrive.spaces.live.com.

  6. Carissimo Massimo, carissimo Sergio, grazie.A te, Maria Lucia, il solito abbraccio da sorelle.
    Innanzi tutto grazie delle belle parole. E poi del vostro esserci dietro questo schermo,come voci che spesso si materializzano e diventano compagne, suggelli di rapporti invisibili ma tenaci.Nella notte soprattutto, quando il silenzio è ovatta, materia avvolgente, apro il blog e vi vedo. Sorrido spesso, vi seguo con allegria, mi sento accompagnata nelle ultime ore della giornata.
    Non saprei proprio da dove cominciare per parlarvi di me , come Massimo mi dice di fare.
    Ho 37 anni, faccio il magistrato presso il tribunale di Siracusa da 11 , scrivo da sempre , sono mamma di un bimbo di otto anni.Ultimamente (da un anno e mezzo) dirigo la sezione distaccata di Avola.
    Queste le notizie …”anagrafiche”, dalle quali sembra sempre che la vita scorra come fiume senza annaspi.
    Invece.
    Invece la crescita è un andare a mani nude, lavate. Non sai mai cosa ti aspetta. Cosa si celi dietro il passo che trotta, dietro la presenza che ti sfiora.
    La letteratura in questo ti è fedele. Segue le tue orme e spesso le precede, ha la stessa capacità di trasformazione della vita, sa adattarsi a tutto, vivere in tutto.
    Almeno , questo è quello che mi è capitato fin da bambina quando ho
    preso in mano una penna e ho cominciato a tracciare volute di inchiostro.Era prodigioso vedermi nascere da quei tratti, accarezzarli, seguirne le ondeggianze e rileggerli.
    Da allora non li ho più abbandonati.
    Come spesso accade in letteratura,ho cominciato dalla poesia.Versi e versi che prima cercavo per assonanze e poi solo per frammenti di pensiero, asaporando la parola come entità, sostanza. Vivendola , poi, dentro di me come musica.
    Allora scrivevo molto ad “orecchio”: avvertivo un suono , poi lo seguivo come segugio.
    E’ una ricerca che non mia ha mai delusa. I versi affioravano da sè, si schiudevano al tocco, aprivano corolle gualcite che io dovevo soltanto lisciare.
    E’ stato un buon esercizio, ma solitario. Mi chiudevo nell’armadio guardaroba e buttavo giù i miei segni, raspature di carta cui avevano accesso i soli familiari, prima fra tutti la mia gemella, Elisabetta.
    A lei, indefessa sostenitrice dei miei scarabocchi, devo le prime letture, il
    primo approccio con la realtà. Ma l’esperienza della condivisione era ancora lontana.
    E’ comnciata un po’ alla chetichella nel periodo universitario, quando frequentavo giurisprudenza a Catania e frattanto ticchettavo sui tasti di una vecchia olivetti rossa, sbraitando se sbagliavo e coprendo tutto col bianchetto.Erano i tempi in cui per scrivere ci si impasticciava, si sporcavano le mani. Poteva ancora sembrare di andare a bottega, di portare in corpo i segni dei pensieri, di divulgarli – i pensieri – rendendone visibili le cicatrici.
    Ma una bottega si materializzò per davvero. A Catania cominciai a frequentare un giornale di cultura varia e letteratura, diretto da un ex giornalista in pensione, innamorato della poesia e della pittura, Aldo Motta. MI diede carta bianca. Mi affidò recensioni, racconti, “reportage”. Facevo tutto:dalle foto alle interviste, dalla raccolta di sponsor alla distribuzione.
    Devo a lui un apprendistato serio, felice, mai volgare. Il signor Motta credeva nell’assoluta onestà dell’uomo e della pagina, nella trasparenza dei toni , nella morbidezza dei versi. Impastavamo generi letterari diversi , ordivamo storie e linguaggi, e soprattutto ci incontravamo nella redazione del giornale, in Piazza Verga, insieme a uno strampalato gruppo di sognatori e studenti, parlando e parlando di sogni, dell’arte, della scrittura. Non lo sapevamo, ma credo costituissimo un gruppo di scrittura creativa. Il sgnor Motta ci guidava, ci dava suggerimenti, tagliava e ricuciva. Ma sempre con tatto e maestria, sempre nel rispetto della nostra voce, della nostra personalità. Poi la laurea. L’approdo a Roma, per gli studi del concorso in magistratura. Frequentavo la scuola del professore Galli ma nei tempi morti leggevo Flaubert, Hugo, Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Tolstoi. Mescolavo e imbastivo le prime storie che venivano su da sè, guidandomi e invadendomi, tanto che nel periodo di preparazione del concorso nascondevo l’Olivetti per non avere la tentazione di perdermi tra le righe, di essere assorbita dal mondo che più di ogni altro mi rappresentava, dava corpo alla mia anima.
    Superato il concorso il primo incarico è stato a Catania, dove sono tornata in sede con vesti nuove, non più da studentessa.
    Faticavo, in verità,a pensarmi magistrato.
    Ero entrata in magistratura col grande sogno del tribunale minorile anche se lo studio del diritto civile era, per la sua componente di riflessione e meditazione, molto simile alla mia natura. Allora il tribunale dei minori non offriva, purtroppo, posti liberi e così iniziai il mio lavoro da uditrice, iniziando ad accostarmi al processo civile.
    Che dire. All’inizio mi sembrò una baraonda. Testi, avvocati, cancellieri, volti e volti che si assiepavano intorno al giudice richiamandolo, spintonando, assemblando fascicoli polverosi e consunti. Un carnevale di umanità e bisbigli. Un assedio.
    So che spesso della magistratura si ha una visione cristallizzata e dolente, quella che rimandano i telegiornali. So che è ormai calato sulla figura del magistrato un velo di incredulità e sfiducia, di sotterranea perplessità. Ma il tribunale è anche quotidiana fatica. Confronto con l’uomo e con i suoi disagi, approdo alle vite degli altri.
    Accanto ai disservizi più banali (la mancanza cronica di personale, di mezzi, finanche di codici aggiornati) si supplisce con buona volontà e coraggio, tentando di fare del proprio meglio e ditricandosi tra cause ereditate e vecchissime in cui solo a malapena riesci a scorgere il bandolo della matassa.
    Eppure.
    Tra i fiati concitati ho spesso colto sguardi diversi. E le carte processuali si sono trasformate. Non mi hanno più detto di articoli e commi. Non vi ho letto più norme e capoversi. Ho trovato storie. Storie vere, di tutti i giorni. Di abandoni. Di lutti. Tradimenti. Ho l’esperienza umana tutta intera innanzi a me, e occhi che rimandano solitudini.
    E’ ovvio. Accanto a questo c’è dell’altro. Il male e il bene che si fronteggiano. Chi cerca giustizia. Chi invoca libertà.
    Ma mi è dato giudicare solo azioni. Non uomini.
    Al di là delle loro vicende, io scorgo lacci fragili, che un soffione o uno sbotto saprebbero spezzare.
    Questo cammino mi ha regalato una voce nuova. E ho scoperto che la parola è niente senza la pietà. A questa pietà mi appello nella vita, non potendolo fare in aula. E da questa pietà nasce il desiderio di confrontarmi.
    Ed eccoci ad oggi. Dell’esperienza coi gruppi di scrittura vi ha già parlato Maria Lucia, con la quale condivido questo percorso. Il nostro obiettivo, col tempo, si è spostato. E la scuola è prima di tutto, diventata luogo di confronto, di complicità, di amicizia.
    Non solo confronto con scrittori e autori, non solo letture – meravigliose e corali – dei capolavori della Woolf, della Mansfield, di Hanry James, ma accoglienza, apertura.I pranzetti di cui parlava Maria Lucia sono questo. Un modo per dire a chi arriva, vedi, ho pensato a te, ho preparato qualcosa che potesse piacerti.
    Se è vero, come è vero, che la letteratura , in quanto creatura dell’uomo, è tanto più alta quanto più gli somiglia, mi piace pensare che anche questi incontri contribuiscano ad arricchirla, a rendercela più vicina e familiare.
    Lo pensa anche mio figlio,che zompetta tra scrittori e poeti proponendosi con racconti inventati e farciti di mostri.
    Non sa, come tutti i bambini, che il suo racconto è appena cominciato ed è il più bello.

  7. Post molto interessante e complimenti a Simona non solo per la recensione, ma anche per la testimonianza di vita che ci ha regalato con il successivo bellissimo commento.
    Cercherò senz’altro il libro di Tea Ranno.
    Smile

  8. Carissima Simona, brava come sempre. La tua lingua sa essere poetica e asciutta a un tempo. Complimenti davvero. Sei riuscita a portarci nel cuore emotivo e pulsante del romanzo, ci hai permesso di penetrare quella dimensione misteriosa e affascinante nella quale, come per miracolo, sembrano mettersi in moto le leggi oscure del romanzo. Il libro di Tea Ranno è bellissimo, ha ampiezza dello sguardo, sentimento del ritmo e soprattutto emotività, passione, forza interiore. Credo che Tea costituisca una delle nuove voci più autentiche, pure e interessanti del panorama letterario contemporaneo. Ho avuto il piacere di conoscerla personalmente, di frequentarla, di diventarle amico, di averla ospite per una serata letteraria ai miei laboratori romani di scrittura creativa. E alla stima per l’artista si è unito prestissimo anche l’affetto per la persona, deliziosa quanto la sua arte. Sono felice di questo connubio: sono felice del fatto che una mia allieva recensisca una mia amica e una collega di penna di grandissimo talento, questo significa creare veri ponti culturali: e tutto ciò non sarebbe possibile senza il lavoro faticoso e instancabile di un operatore culturale come Massimo Maugeri, cui vanno i miei saluti e la mia profonda considerazione. Caro Massimo, grazie davvero del tuo lavoro. Come dice Alda Merini: Chi regala le proprie ore agli altri vive in eterno. Credo che niente possa riassumere meglio questa dedizione, oltre ai grandi risultati che stai ottenendo. Continuate tutti su questa strada, perché giorno per giorno costruiremo per la nostra SIcilia e per la scrittura in genere qualcosa di grande. E anche per chi vive altrove come me e come Tea, la parola costituirà il più dolce dei ritorni.

  9. Carissima Simona,
    grandiosa è la tua recensione! Permetti che ti faccia i miei più sinceri complimenti (tu scrivi proprio in una lingua che “sai” dire, e lo so bene, anche perchè sto leggendo avidamente il tuo romanzo che mi lascia senza fiato per la ricchezza della lingua e le invenzioni dell’intreccio. Tea, scrittrice di razza e donna di forte personalità, non poteva augurarsi recensore più appassionato e sensibile. Ho letto anch’io il libro e l’ho amato. Un romanzo di Tea è ormai per me un appuntamento da non mancare. Le memorie di Lipari tornano spesso a farsi vive in questo gelido novembre: sono stato felice laggiù. Grazie a voi. Scrivo, scrivo, scrivo. Sogno però di rivedervi tutti a Palermo. Questo è forse uno di quei desideri che possono esaudirsi con relativa facilità, o almeno così spero. Un bacio a tutti, Francesco Costa

  10. Desideravo chiedere a Simona Lo Iacono:
    – secondo lei c’è il pericolo che qualcuno, oggi, in magistratura, possa decidere sugli uomini e non sulle azioni?
    – cosa pensa delle attualissime “problematiche” tra magistratura e politica?
    Grazie
    Francy

  11. Francesco, grazie.
    Anch’io rimpiango i giorni di Lipari, la tua voce narrante le pagine di Virginia Woolf, le letture di Petronio a strapiombo su un mare tanto blu da sembrare pietra.
    E poi, il tuo romanzo ancora a metà…quell’anticipo che ci hai letto e che ci ha lasciati in sospeso, sognando ognuno un nostro finale.
    Che i tuoi personaggi ti guidino su spume di mare. Che ti precedano lungo il cammino. Che ti accompagnino come fantasmi benevoli e attenti.
    Noi tutti aspettiamo di vederli tra coltri di parole. Nel tuo prossimo libro.

  12. Cara Francy,
    il pericolo di giudicare l’uomo e non le sue azioni è in agguato per tutti, anche fuori dalle aule del tribunale. E’ in agguato perchè spesso l’azione non viene disgiunta dall’essere umano, dall’errore che può sempre essere affrancato. Devo dire che, forse, in aula è più facile disgiungere le due facce della medaglia. Perchè esiste la legge. Esiste il limite della norma che deve orientarti ed educarti e che, infatti, è pensata sin dalle origini del diritto come limite sacro all’agire, come unzione e separazione tra ciò che è lecito e cio’ che non lo è. Basti pensare che il diritto romano accompagnava al dispositivo della sentenza parole rituali, divine quasi. Poichè l’agire umano deve sempre misurarsi coi propri limiti e con la possibilità – anche – di potersi riabilitare.
    I due profili, dunque, non sono facili da tenere disgiunti e richiedono una riflessione spirituale oltre che giuridica.
    Quanto ai recenti scontri tra politica e magistratura penso che fare bene il proprio dovere in ambiti e riguardo a personaggi pubblici, che in più ricoprono cariche istituzionali, non è mai facile nè scontato. E che intorno a inchieste difficili, defatiganti , dovrebbe regnare più silenzio e più ascolto. Sia per consentire alla magistratura di portare a termine il proprio compito, sia per evitare strumentalizzazioni da entrambe le parti con una sola grande perdita: la fiducia da parte dei cittadini sia nel potere esecutivo che in quello giurisdizionale.

  13. Eccomi qui. Grazie a Massimo per avermi accolta nel suo blog, a Simona per la splendida recensione (e per la splendida amicizia che mi offre) a Luigi e Francesco per le parole bellissime che hanno speso per me e il mio romanzo.
    Cominciamo dal titolo. “In una lingua che non so più dire” è il verso d’una poesia di Stefano D’Arrigo che riassume molto bene il senso della mia storia: Andrea parte, si appropria di un nuovo linguaggio, una nuova cultura (quella milanese) tanto diversa dalla siciliana. E diventa un uomo diverso. Ma quella lingua, che non sa più parlare, all’improvviso irrompe dentro di lui e gli restituisce il mondo di quando era bambino, scatenando la nostalgia e il bisogno fortissimo di tornare. Ecco, la lingua, il siciliano puro – non inventato o annacquato – è uno dei protagonisti del romanzo, insieme a Teresa, Andrea e il Tempo…

  14. Splendida recensione! Leggerò il libro e spero che la Ranno regga il confronto con la Lo Jacono

  15. E’ ovviamente esercizio “spericolato” parlare di un libro che non si è letto, sebbene la recensione di Simona sia decisamente illuminante. Da quello che leggo mi sembra di capire che l’ambiente e l’atmosfera siano un pretesto per raccontare una storia senza tempo.
    Questa, se è così, è una caratteristica che mi colpisce molto. E’ sgradevole prendere in mano un libro e sentirlo “datato” e/o in qualche modo figlio di un certo tempo e di una certa moda.
    Credo che Tea Ranno abbia messo in gioco se stessa e i suoi pensieri per creare qualcosa che trascende dal quotidiano. Se è così, il libro è “immortale” di suo a prescindere dal successo che, ovviamente, gli auguro.

  16. Innanzitutto i miei complimenti a Simona Lo Iacono per la bellissima recensione: se non avessi già letto il libro mi sbrigherei a farlo.
    Permettetemi, però, di concentrare l’attenzione sul libro e sulla sua autrice; un libro che mi ha appassionato, una caratterizzazione dei personaggi, perfino quelli rivisti attraverso la memoria del protagonista che è a dir poco notevole, espressione di quell’arte di cui Tea Ranno dimostra, ormai senza nessun dubbio, di essere dotata.
    Dopo essersi presentata con “Cenere” era normale chiedersi se l’autrice sarebbe stata capace di mantenere il livello nella sua produzione artistica. Mi sembra evidente che con “In una lingua che non so più dire”, pur avendo cambiato completamente il tema, l’ambientazione e le problematiche, l’autrice sia riuscita a creare un degno successore del suo romanzo d’esordio.
    I miei sinceri complimenti a Tea Ranno; aspetto con impazienza il suo terzo romanzo.

  17. Salve a tutti.
    Trovo interessantissimo e qualificato questo blog. Anch’io amo molto i romanzi di Tea e vorrei dire la mia. Dopo il successo di “Cenere”, Tea si è ripresentata al suo pubblico, a distanza di soli diciannove mesi, con un romanzo. completamente diverso, contemporaneo, in cui dimostra grande versatilità di scrittura. Cenere è ambientato nel Seicento e lo stile barocco si identifica con la storia narrata.”In una lingua che non so più dire” racconta di stragi mafiose, di attentati delle Br. Andrea, il personaggio chiave del nuovo romanzo, è un uomo concreto, asciutto, severo, che ha sempre saputo cosa chiedere alla vita. Arriva per tutti il momento di saldare il conto con il proprio destino, umili e potenti, e il giudice si ritrova solo, colto da infarto, a meditare sulla sua esistenza. I flash back della memoria si snodano lucidi a rinverdire gli affetti perduti. Un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca dell’Isola Felice, l’infanzia, la spensieratezza, i rimbrotti benevoli del nonno. E poi Teresa, che incarna i sapori genuini, il profumo delle frittelle, le conserve di pomodoro, gli anni innocenti del liceo. Teresa si erge candida e maestosa come la cima di una montagna imbiancata, un gigante con cui confrontarsi. Teresa è il rimorso, le crisi di coscienza, la polvere che scivola dentro il pugno e non si può più afferrare.
    Le pagine del romanzo scorrono fluide, leggere, sospese tra realtà e sogno. Tea gioca a mescolare rimpianti e ricordi con grande scaltrezza, ha la capacità di trasformare le parole in suoni, sembra quasi di sentirlo lo scalpiccio del mulo, lo stridere del portone arrugginito, il vento che ulula. Anche le balbuzie del nonno sono una brillante trovata letteraria, a rallentare il tempo, a scandagliarne i frammenti ed estrarre da esso tesori inestimabili. E poi il finale amaro, come amari sono tutti i ritorni, quando ci si illude di poter trovare le cose così come si erano lasciate, sperando che le leggi inclementi del tempo non le abbiano scalfite. E invece… Non posso che rinnovare i complimenti a Tea…in attesa del suo prossimo romanzo

    Salvo Zappulla

  18. Interessante l’ultimo romanzo di Tea Ranno.
    Da tempo non mi capitava di leggere di uomini o donne arrivati alla quarta di copertina della propria vita e desiderosi di tornare indietro.
    Si magari ad una certa età un pò di lifting per rallentare gli effetti indesiderati, per darsi ancora un tono, per credere che il tempo se proprio non può essere fermato almeno che lo si rallenti, ma di ritorno proprio no.
    E poi ritorno dove?
    Nella propria terra? Nelle proprie origini? Nell’immaginario dell’esistenza del protagonista?Nei desideri irrealizzati di ogni persona?
    Il romanzo intriga proprio per questo.
    Si prova stupore e meraviglia nella lettura degli avvenimenti descritti da Tea Ranno.
    Stupore per la capacità di intrecciare presente e passato, la vita sociale di oggi e quella di ieri, nord e sud, puzze e odori, italiano e dialetto siciliano.
    Meraviglia per l’architettura linguistica utilizzata che permette al lettore di percepire per ogni personaggio e luogo suoni e visioni anche di un mondo scomparso e consegnato oggi alla memoria della gente o alla penna dello storico, del saggista o, come nel nostro caso, del romanziere.
    La scrittura di Tea Ranno è musicale, ritmica; segue e incalza ogni scena e tutti i personaggi, fluisce nello Stretto di Messina, asciuga al sole di Sicilia.
    I personaggi sono drammaticamente umani e attuali, carichi di desideri, passioni, dolori, speranze, di rabbia, di amarezza e di quella fatalità che avvolge ogni destino.
    duecentoventiduepagine di sana letteratura.
    Alla prossima

  19. Oggi ero in aeroporto a firenze in partenza per Praga quando mi ha telefonato una splendida persona che ho conosciuto con sua sorella mentre era ancora nel pancione , che ho cullato appena nata e che ho seguito dai suoi stentati passi a quelli sicuri di donna…era mia nipote Simona, figlia di mia sorella. Emozionata mi parlava di questo intervento di oggi e velocemente- mi stavo imbarcando- mia ha detto di guardare LETTERATITUDINE su Internet. Sono appena arrivata e subito ho chiesto un computer per connettermi- vi assicuro che la tastiera ceca presenta dei tasti con lettere sconosciute e non é facilissimo scrivere- e con orgoglio ho letto le parole di Simona. Ogni volta che leggo qualcosa di suo mi riempio di orgoglio…una giorno mi ha detto che gli scrittori sono ladri di parole…da magistrato , cara Simo, dovresti autoinfliggerti una pena esemplare perché sei il Lupin degli scrittori…Un abbraccio a Maria Lucia che ho avuto il piacere di conoscere e a voi tutti i piú vivi complimenti . Lori

  20. Cara Tea,
    volevo sapere come è nata la sua vocazione letteraria
    e in che modo i suoi studi di diritto hanno inciso su di essa.
    In riferimento ad Andrea, quanta parte ha avuto nella genesi del suo romanzo “La letteratura del ritorno” (Elio Vittorini)?

    Una grande lettrice di Tea

  21. La mia vocazione letteraria è nata molto tempo fa, quando ero ancora una bambina e inventare storie era l’unico modo “emozionante” per dare senso a giornate altrimenti molto noiose. Il “vizio” mi è stato trasmesso da una nonna speciale, impareggiabile narratrice, i cui occhi azzurrissimi si spalancavano incutendo terrore ogni volta che un orco o un brigante conquistava la scena. Erano racconti strani, mai uguali, reinventati continuamente a seconda dell’umore della bambina che li chiedeva. Quella nonna lavorava un po’ come un alchimista: buttava nel calderone i personaggi più disparati, le ambientazioni più fantasiose, i pericoli più improbabili e, mescolando mescolando, otteneva storie magnifiche, che duravano tutto il pomeriggio e portavano così lontano che poi, tornare a casa era alquanto faticoso.
    Negli anni la scrittura è diventata quell’altrove di evasione che garantiva – garantisce – la felicità.
    Lo studio del diritto ha inciso sulla “vocazione” in maniera profondissima, “a contrario” però, nel senso che, per salvarmi da esso e dalla sua asetticità, ho scritto scritto scritto…
    Elio Vittorini – insieme a Tomasi di Lampedusa, Stefano D’Arrigo, Quasimodo, Sciascia, Lucio Piccolo – è presente nel mio romanzo, ma non come spunto per l’elaborazione di esso, quanto, piuttosto, come espressione di una letteratura che riassume le esperienze di altri, di cui Andrea è intriso e che formano il suo personalissimo album di ricordi.

  22. “In una lingua che non so più dire”si può estendere per interessi e geografia all’intero nostro paese, e forse non solo. Non so se leggerò questo libro così assolutamente siciliano, o meglio non so se lo farò correndo il rischio di non comprendere quel siciliano puro – non inventato o annacquato – protagonista del romanzo, insieme a Teresa, Andrea e il Tempo…
    Comprendo invece perfettamente lo spirito, la nostalgia che ci riporta ai luoghi, alle nostre origini e che ci sovviene quando l’età si fa molto matura. Il titolo è significativo, e da solo può essere occasione di virtuali incontri su questo stesso blog: il dialetto vive? E’ ancora strumento di conoscenza e di poesia ?
    Complimenti all’autrice, Tea Ranno e a Simona Lo Iacono per la sua presentazione. Miriam Ravasio

  23. Una mia amica piemontese, Silvana, dopo aver letto il libro mi ha detto: “Ho risentito l’odore di casa mia, del mio paese; ho rivissuto la mia infanzia. E questo anche se tu racconti la tua Sicilia”.
    Il dialetto puro è usato solo in alcuni brevi dialoghi, ma non pregiudica assolutamente la comprensibilità del testo.

  24. Grazie per i vostri commenti.
    Li ho letti con piacere e devo dire che la maggior parte di essi valgono quanto vere e proprie recensioni.

    Ne approfitto per salutare gli amici vecchi e nuovi.
    Tra i vecchi un saluto particolare ai cari Luigi La Rosa e Francesco Costa.
    Grazie mille a voi.

  25. @ Simona:
    Ti fanno i complimenti anche da Praga? Ammazza!
    Un saluto a Loredana 😉

    Simona, volevo chiederti un po’ diinformazioni su questo tuo romanzo a cui accennava Francesco Costa: il titolo, l’argomento, l’editore.
    Perché non ce ne parli? Te lo chiedo e ti autorizzo. Non credo che la nostra Tea se ne risentirà.
    A proposito, Simona. Grazie davvero per i tuoi commenti successivi alla recensione. Soprattutto per quelli in risposta a Francy. Belli e molto interessanti.

  26. Domanda per Tea:
    c’è una componente autobiografica in questo tuo libro? E fino a che punto?
    Il desiderio del “ritorno” di Andrea è anche, almeno in parte, il tuo desiderio?

  27. Domanda per Tea e per tutti.
    Cara Tea, tu – riferendoti alla “letteratura del ritorno”, come l’ho definita io – chiami in causa Elio Vittorini,Tomasi di Lampedusa, Stefano D’Arrigo, Quasimodo, Sciascia, Lucio Piccolo.
    Secondo te, e secondo voi, la “letteratura del ritorno” ha davvero una così forte componente siciliana? E se sì, perché?

  28. Domani sera mi piacerebbe aggiornare il post inserendo, subito dopo la recensione di Simona, un brano del libro. Un brano che tu stessa, Tea, reputi particolarmente significativo.
    Sei d’accordo?
    Ne approfitto per chiedere l’autorizzazione alla E/O. Mi rivolgo ad Anita ed Ester dell’Ufficio Stampa.
    Si puo?

  29. A questo punto, care Simona Lo Iacono e Tea Ranno, non potete piu’ tirarvi indietro: dobbiamo avere uno stralcetto delle vostre opere!
    Cordialmente
    Sergio Sozi

  30. Caro Massimo,
    il romanzo di cui parla Francesco è un lavoro che ho appena terminato e che lui e Luigi stano leggendo prima di affidarlo ad un editore. Si intitola :”della parola e delle solite sue figliolerie” ed è la storia di un’esposta del 1600 che viene bruciata sul rogo come una strega perchè “ruba” parole. Solo parole belle, però.Quelle che -secondo lei, e in base a una serie di eventi gravi e storicamente reali – hanno il potere di sviare la morte e di guarire.
    E’ un romanzo sulla bellezza della parola e sul suo tremedo potere di suggestione .E’ un romanzo giuridico, anche, perchè ho ricostruito il vecchio processo dell’inquisizione soto un profilo tecnico e mascherandolo poi sotto la forma di una grandiosa e burlesca farsa.
    Accanto a Francisca, la protagonista, si muove un brigante che sarà affascinato e respinto dal potere evocativo delle sue paroe:il Pilosa, anch’egli-come Francisca del resto -realmente esistito e tratto dalle cronache di Luigi Natoli.
    Ho un po’ giocato sul suo nome “Pilosa” con una spiegazione visionaria e fantasiosa e ho pensato che si chiamasse così per via di una testa “pelosa”, cioè di un copricapo di coniglio che gli oscillava sempre sulla testa. E’ anche la parafrasi della sua essenza:metà animale e metà uomo, capace di grandezza e di bassezza, come tutti noi, purtroppo.

  31. Caro Massimo,

    scusa se ogni tanto mi salta qualche lettera dalla tastiera.Ho visto, rileggendo, che spesso salto la t, la n, e qualche altra…sarà il caso di cambiare il computer, eh?

  32. Cara Simona, la ringrazio molto per le sue risposte e auguro le migliori fortune al suo romanzo che sembrerebbe molto interessante.

  33. Caro Massimo, in effetti mi piacerebbe leggere una paginetta di questo romanzo di Tea Ranno. Se riesce a matterla on line gliene sarei grato.
    Francy

  34. Vedo con grande piacere che s’è acceso un bel po’ d’interesse intorno al mio romanzo e ringrazio tutti coloro che stanno partecipando al dibattito.

    Passo a rispondere alle domande di Massimo:

    La componente autobiografica, anche se assolutamente velata, credo stia in ogni opera di uno scrittore: si pesca nella propria esperienza, nel proprio vissuto, si restituisce quello che si è assorbito nel corso degli anni. Certo, da quando vivo a Roma la Sicilia mi appare come un luogo d’incanto, trasfigurato dalla nostalgia, per cui mi viene in mente, di essa, solo la sua parte migliore.
    Io torno spesso, ogni volta che mi è possibile, faccio incetta di sicilianità e quando rientro a casa mi sento appagata. Le scorte non si esauriscono in un lampo, riesco a farmele bastare fino alla volta successiva. Il rimpianto, però, è “una brutta bestia”, mi arriva alle spalle in certe giornate nere in cui il senso di solitudine vanifica ogni attività, e allora è davvero difficile fare a meno della grande bella famiglia che si è lasciata laggiù.

    Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Piccolo, Quasimodo, D’Arrigo, fanno parte, come ho detto prima, di quel tessuto di memorie letterie che sostengono il magistrato Andrea e gli restituiscono il senso di un luogo nel quale egli, per quarantadue anni, si rifiuta di tornare. Sono il sottofondo, la fantasia, un ripercorrere parole e narrazioni che – spostando la Sicilia sul piano del sogno – tentano di sostituirsi alla realtà.
    La letteratura del ritorno credo appartenga all’uomo in quanto tale. Sono convinta, infatti, che nella vita di ognuno c’è un momento in cui si desidera tornare all’origine, al luogo dal quale si è partiti, anche solo per verificare che esista ancora e, se esiste, quanto sia cambiato.

    In quanto al brano del libro da inserire, forse le pagine sul traghettamento. E’ lì, infatti, che Andrea prende consapevolezza di tante cose: del perché della sua fuga, del senso del suo ritorno.

  35. Cari amici
    avendo letto il libro credo che ci sia l’inbarazzo della scelta della pagina da condividere nel blog

  36. La letteratura del ritorno nasce con la letteratura stessa, dunque, come scrive Tea Ramno, con l’uomo in quanto tale.
    Gilgames ritorna ad Uruk non recando con sè la pianta dell’immortalità, bensì la sua esperienza che trascrive in forma di storia su una stele. L’uomo non può possedere l’immortalità, ma può raggiungerla mediante la sua vita conservando nella memoria ciò che in forma di parola scritta non può finire. Ulisse dopo Gilgames sarà un altro eroe del ritorno, del ricordo e della sua narrazione. Altri ne sono venuti.
    Noi tutti oggi possediamo un cervello rettile, una coscienza che deriva da quella letteratura.
    Nulla di nuovo nel significato. Tutto assolutamente nuovo nella forma. L’uomo nella sua manifestazione animale, dunque primordiale, non può vivere se non sperimentando nel movimento stesso la sua vita.
    Nel viaggio, superando la propria connotazione materiale, egli cerca la dimensione del divino e non essendone cosciente la trova nell’esperienza stessa del viaggio.
    E’ la memoria a preservare la sua immortalità. E’ la parola a darne ragione.
    La letteratura del ritorno deriva dal bisogno del viaggio e raramente si trovano storie che non raccontino di esso. Chi parte davvero, forse ha più storie dentro di sè. Non ha importanza che il viaggio abbia percorso uno spazio geografico o dell’anima.
    Il ritorno è la forma più compiuta di tale esperienza, è il viaggio che completa un percorso per incominciarne un altro. La nostalgia ci ricorda l’importanza di questo passaggio, li piacere della narrazione già ci proietta nel prossimo viaggio, nel futuro.

    Ringrazio Massimo e le sue gentili ospiti per questa ulteriore conferma.

  37. Cara, Tea, ho letto il libro. In principio mi ha lasciata un pò perplessa, poi a mano mano mi ha preso per mano e mi ha portato con se. Mi ha molto colpito la figura di Teresa. In qualche modo ci rivedo me stessa, ad esempio nella sua curiosità letteraria, nell’andare a conoscere un autore nell’intimo di ogni sua opera e poi mi è piaciuta la figura della “camicia abbottonata storta” …… quanto è vero tante volte in ognuno di noi… Ho anche apprezzato lo stile linguistico e il modo in cui hai deciso di scrivere questo libro e a tale proposito consiglio a tutti di leggere anche il tuo precedente romanzo “Cenere” per poi riparlarne ancora tutti insieme ….. Grazie a questo blog per l’opportunità avuta e un augurio a te di continuare sempre così. Antonella.

  38. Cara Simo, sai che sono la tua più grande ammiratrice oltre che il tuo manager. Per cui non accettare proposte senza che prima ti abbia adeguatamente consigliato sul tuo cachet che, ovviamente, dopo questa recensione bomba è salatissimo.
    firmato:
    la prima lettrice di “povero cane”

  39. Cara Tea,
    che ne dici, sempre che la casa editrice sia d’accordo, di pubblicare la ballata in cui Teresa viene avvertita dal “tempo” dei pericoli cui andrà incontro? E’ una parte altamente lirica che offrirebbe ai lettori del blog un altissimo esempio del significato più profondo del tuo romanzo.Un abbraccio dalla tua Simona

  40. cara Titta
    per ora nessuna proposta . Visto che sei il mio manager, datti da fare!!!la scrittrice di “povero cane”

  41. Cara Simona,
    se dovessi obbedire alle regole (difficilissime da rispettare soprattutto durante le presentazioni) secondo le quali non bisogna svelare nulla della trama, allora dovrei azzardare un “no” alla tua richiesta, perché quelle pagine rivelano troppo e tolgono al lettore la sorpresa circa le sorti di Teresa. Se, invece, fossi libera di scegliere, sarei la prima a indicare proprio quelle pagine come rappresentative del romanzo. Non so. Lasciamo ai lettori la possibilità di scegliere?

  42. @ Giulio Prosperi:
    complimenti per la tua poesia, ma sarebbe preferibile restare nel tema del post. Per pubblicare o segnalare propri lavori ho creato un’apposita sezione del blog: “Iperspazio creativo”.
    http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2006/11/02/iperspazio-creativo/
    Ho inserito la tua poesia per te (visibile anche tra i commenti recenti). La prossima volta ti prego di usare questa sezione. Lo dico a te, ma ne approfitto per lanciare il messaggio a tutti.

  43. @ Tea:
    Ho sentito oggi per telefono Anita Pietra. Aspetta il benestare dell’editore per mandarmi un brano estratto dal libro.
    Credo che potremo publicare il suddetto brano non prima di domani sera.
    Però, Tea, perché non contatti direttamente tu Anita ed Ester… così lo scegliete insieme.
    Che ne dici?

  44. Sempre per Tea:
    hai qualche aneddoto particolare legato a questo libro che ci puoi raccontare? Magari nella fase di scrittura o riscrittura e nel corso di una delle presentazioni.

  45. Cara Simona,
    attendo con ansia e interesse di vedere pubblicato il tuo ”Della parola e delle solite sue figliolerie”. Ovviamente avremo modo di parlaren su questo schermo.

  46. Un aneddoto?
    Ma quello relativo al tortino di sarde, che ha stuzzicato non poche persone.
    Dunque, il primo a parlarmene fu Giorgio: “Ah, quel tortino, è davvero magnifico! Ma tu sai che quando ero piccolo e c’era la guerra, mia madre mi mandava al forno con una teglia in cui era preparato appunto un tortino di sarde? Questa tua versione siciliana, però, è davvero particolarissima (Giorgio è romano). lo cucinava tua madre? Tua nonna? E’ un piatto tipico del tuo paese?”.
    Rimase costernato quando gli rivelai che era frutto di purissima invenzione: mai cucinato, mai assaggiato, mai visto cucinare a mamme, nonne, zie o cugine.
    Dopo Giorgio, Antonella: “Eh, quel tortino. Ma tu dimmi, chi ti ha insegnato a farlo?”.
    “Nessuno, me lo sono inventato”.
    “No, non è possibile”.
    Poi mia zia, sicilianissima: “Senti, ma quel tortino… Io non ricordo di averlo mai visto cucinare a mia madre, né di averlo assaggiato. Chi ti ha dato la ricetta?”.
    “Nessuno. E’ finto, non l’ho mai neppure provato”.
    “Impossibile”.
    Poi Maria Rita: “Senti, ti invito a cena, però cucini tu: me lo fai quel tortino di sarde?”.

  47. Aneddoto molto divertente, Tea.
    Solo che adesso mi hai fatto venire voglia di mangiare un tortino di sarde.
    Che faccio?
    C’è qualcuno qui che ha la più pallida idea di come si fa un tortino di sarde?
    Quando si dice: “fame di letteratura”!

  48. Ciao Tea, ti ho conosciuta al Convegno di “scrivere donna”,mi chiamo Margherita e frequento il gruppo di scrittura di Simona.Ultimamente discorrevamo circa il tuo recente libro: mi ha particolarmente colpito la figura del nonno balbuzziente, me ne parleresti? Grazie, ti aspettiamo da Simo.

  49. Ciao Margherita, verrò volentieri da Simona, è un appuntamento al quale non posso mancare.
    Rispondo alla tua domanda:

    Il nonno balbuziente è l’espressione massima della tenerezza di cui può essere capace un nonno. Quando me lo sono ritrovata davanti, pronto a infilarsi tra le mie pagine, era già così: balbuziente e spudoratamente di parte, capace di giocare col nipote e concedergli tutto, assecondando capricci e desideri. Non so il perché della balbuzie, Salvo Zappulla, nella sua recensione per La Sicilia, l’ha considerata una sorta di escamotage per rallentare il tempo. A me è sembrato, invece, un elemento fortemente caratterizzante. Una debolezza che diventa forza, un “difetto” che fa di Pietro un “bambino” in grado di capire Andrea (altro bambino) e di entrare in simbiosi con lui.

    Il tortino di sarde proveremo a cucinarlo qualche volta, magari in occasione di una bella festa siciliana in cui ci si può incontrare e conoscere personalmente. Che ne dici, Massimo?

  50. Caro Massimo,
    il tortino di sarde si fa così:
    procurati un kg di sarde belle fresche, odorose di mare. Aprile dalla parte del ventre, togli testa e lisca centrale, lasciando le due parti unite al dorso.Fai tostare a parte un po’ d’olio , 8 cucchiai di pangrattato, nel quale incorporerai, mescolando con una spatola di legno, 2 spicchi d’aglio tritato, 1 cucchiaio di prezzemolo profumato e sempre tritato, 70 gr di pinoli, 70 di uva sultanina fatta ammollare in acqua tiepida, sale, pepe. Se il composto si asciuga aggiungi altro olio.Quando questa mstura sarà ben amalgamata spandila sulle sarde aperte, disposte su una teglia d’alluminio oliata a dovere. Ricopri con un altro strato di sarde e con altro composto.Abbi cura di alternare di tanto in tanto una foglia d’alloro.Lascia in forno 15 minuti a fuoco moderato.
    Poi ricorda quello che diceva mia nonna sull’argomento: di la sarda e lu sturneddu, si mmi gusta lu vudeddu!
    Quando verrai da noi te lo farò assaggiare…

  51. Complimenti a Tea Ranno, della quale leggerò presto il libro, spinta dalla curiosità che il dibattito su questo blog ha suscitato in me. Lo leggerò dunque, per curiosità, per “affinità siciliana” e perchè “da quando vivo a Roma la Sicilia mi appare come un luogo d’incanto, trasfigurato dalla nostalgia, per cui mi viene in mente, di essa, solo la sua parte migliore”.
    Mi sento anch’io così, Tea, nelle tue parole mi ritrovo tutta intera.

    @ Simona
    La tua bellissima recensione è preludio di qualcosa che sono certa non mi deluderà. Come le cose belle che non ti aspetti, quelle che qualcuno tratteggia e dipinge per te, ma che non puoi capire fino in fondo se non le tieni tra le mani.

  52. Idea.
    Ogni lettore appassionato di cucina prepari il tortino e lo degusti accompagnato dalla lettura del brano di Tea Ranno, annotando su apposito taccuino le proprie senzazioni olfattive, visive, di gusto e di retrogusto.
    Per il vino consiglio un buon bicchiere di bianco freddo delle cantine Planeta o Firriato.
    Buon appetito a tutti e attendo vostre impressioni.

  53. Tea, aspetto con una certa impazienza e molta curiosità il brano estratto dal tuo libro (che in ogni caso comprerò a prescindere).
    Smile

  54. Che bellezza, ragazzi, vado fuori per mezza giornata, torno e trovo tutti questi messaggi! Potenza del tuo blog, Massimo, grazie.
    Dunque.
    Complimenti a Simona per la ricetta del tortino, molto puntuale e argomentata, conferma del fatto – come ribadiscono gli amici – che a casa sua si mangia benissimo.
    Nel mio romanzo, il tortino inventato da Maria per Andrea è molto più fantasioso, ci sono dentro anche melanzane e frittatine di patate. Andrea lo mangia nella sala addobbata a festa solo per lui. E, intanto che ingoia, gli sembra di riavere accanto tutti coloro che hanno abitato la sua infanzia: il nonno, suo padre, sua madre, Maria, le ragazze, e Teresa, soprattutto. Così, quel tortino, innesca il ricordo di un passato che non può più tornare, quel “tempo lieve” proprio della felicità: “ché quando la vivi non te ne accorgi e quando la cerchi non la trovi più”.

  55. Per Stefania:

    Ho impiegato più o meno un anno per scrivere la storia, anche se poi è rimasta a “dormire” per circa sei anni: l’ho scritta tra il 1999 e il 2000 (prima di Cenere, che ho cominciato nel 2001). Durante la fase del “sonno”, ogni tanto tiravo fuori il manoscritto e aggiungevo, toglievo, modificavo qualcosa. Il romanzo ha assunto la sua forma definitiva nell’estate dell’anno scorso, quando ho inserito alcuni capitoli relativi alla vita di Teresa dopo la partenza di Andrea.
    E’ una storia che mi sono portata dentro per tanto tempo, un po’ come ha fatto Andrea con Teresa. E’ cresciuta piano piano, diventando sempre più nitida, sempre più evocativa.

  56. Non ho mai osato cucinare le sarde, però gli spaghetti alla Norma sì!
    Battute a parte, i viaggi di ritorno meritano le nostre riflessioni. “Il ritorno è la forma più compiuta di tale esperienza, è il viaggio che completa un percorso per incominciarne un altro” ; copio e incollo da Eventounico. Per quanto mi riguarda, il mio viaggio di ritorno è iniziato con il lavoro nelle scuole, i progetti di educazione all’immagine formulati fra storia, storia dei luoghi e arte. Muovendomi fra le montagne, della mia piccola valle, ho riscoperto le “mie origini” e il senso dell’uomo, della sua fatica operosa e immaginifica per affermare il valore della sua stessa esistenza: fra acqua e rocce. Dalla finestra vedo i miei monti ma fino a pochi anni fa ero impermeabile ai pensieri e alle considerazioni. Ora invece mi sento come al centro di un goniometro; mi giro nei trecentossenta gradi e rivedo la mia infanzia e i miei anni di formazione. Ho riscoperto il dialetto, una lingua viva, ricca e materica, pensieri che si traducono in immagini, una comunicazione poetica che non imbarazza, che permette l’esternazione senza denudare l’anima.
    Potrei continuare ma non voglio rubare spazio alla presentazione del libro.

  57. Direi che questo post diventa sempre più appetitoso. Dopo le sarde gli spaghetti alla Norma di Miriam (Miriam, bello il tuo intervento).
    Per Tea.
    Hai già in mente un nuovo libro?
    Smile

  58. cara signora Tea,
    il mio incontro con lei -letterariamente parlando – è avvenuto con Cenere, un romanzo che ho letto e riletto, consigliato agli amici, assorbito con intensità e dolore. Perchè Cenere è la storia di un cambiamento, di una metamorfosi dall’oscurità alla luce, dal bene al male, e anch’io sono un uomo trasformato.
    Non mi attendevo un altro libro, e così complesso peraltro, a distanza di tempo tanto breve. Non le nascondo che quando l’ho visto in libreria ad occhieggiarmi come una vecchia conoscenza mi sono sentito chiamato, forse perchè con gli scrittori molto amati è così: ci si aspetta sempre di vederli tornare.
    L’ho quindi letto d’un fiato e devo dire che , sebbene i toni e la narrazione abbiano accenti diversi dal suo primo lavoro, la trama scorre come una potente evocazione, un lungo richiamo, un canto dolente e per molti versi amaro che però riscalda il cuore per la potenza della memoria ritrovata. Che dirle. Ancora una voltra mi ha tenuto compagnia. Ancora una volta le sono grato, perchè anche il tema del ritorno mi appartiene. Forse perchè ho un’età “consistente” e i ritorni sono ormai diventati una vecchia abitudine.
    Porgo anche alla signora Lo Iacono i miei più vivi rallegramenti. Ha reso il tono del libro con maestria e grande slancio poetico. Anch’io come gli altri mi auguro di vederla in libreria al più presto e di leggere tra le varie pagine di questo bel sito anche un estratto della sua opera.
    Congratulazioni ad entrambe,
    Angelo Moltisanti

  59. @ Silvia Leonardi. Grazie. Anche le tue parole sono un dono inaspettato e meraviglioso. Le conservo nel cuore.

  60. Per Miriam:

    Io ho riscoperto il dialetto quando sono venuta a vivere a Roma. Prima neppure vi prestavo attenzione, mi sembrava una cosa “normale”, come il paesaggio, la buona cucina, certi odori, un certo modo di scandire la giornata. Andando via, mi sono accorta, invece, di quanto all’improvviso mi mancassero proprio quelle cose che “normali” non erano affatto, anzi, erano preziosissime, e io le avevo sprecate per così tanto tempo… Perciò mi è sembrato indispensabile usare il dialetto come elemento dirompente, quel qualcosa che colpisce Andrea all’improvviso, una mattina che sta passeggiando a Milano per piazza Duomo, e quasi lo tramortisce, sfaldando la crosta delle abitudini e restituendogli, intatto, il mondo di quando era bambino. Sono le voci che scatenano la nostalgia, e le voci, come sirene, cominciano a incatenarlo a un’idea di ritorno che egli all’inizio, rifiuta terrorizzato.

    Concordo con Eventounico nel dire che il ritorno è un viaggio che completa un percorso per incominciarne un altro. Nel caso di Andrea, però, il ritorno assume immediatamente il senso di una irrevocabilità, di una resa dei conti. E questo perché il giudice ha un po’ barato con la vita, ha cercato di prendere da essa tutti i possibili vantaggi senza curarsi troppo dei sentimenti altrui. E allora arriva il momento di fare i conti: la vita ci mette davanti alle nostre responsabilità obbligandoci, una buona volta, a farcene carico, con tutte le conseguenze.

    Per Angelo:
    La ringrazio moltissimo per le sue parole e sono contenta che i miei romanzi siano riusciti a emozionarla, a farle trascorrere un po’ di tempo in buona compagnia. Credo che non ci sia soddisfazione migliore per uno scrittore. In fondo, scrivere storie significa rendere gli altri partecipi di una propria visione, e farla vivere loro con una intensità così perfetta da indurli a non distinguere più tra realtà e finzione. E’ vero, Cenere è un romanzo sul cambiamento, sulla forza dell’intelligenza che riesce a trasformare un essere meschino in una persona degna di rispetto. E’ la storia di una donna che manda a morire un’altra donna per ragioni futili e poi, gira e rigira, si trova accusata dello stesso crimine col quale ha mandato a morire la sua vittima. Questa di Andrea, invece, è una vicenda che intreccia tanti temi: l’amore, il rimpianto, l’abbandono, la vita che certe volte s’impenna e ci porta dove non avremmo mai voluto giungere.

    Per Elektra:
    Beh, sì, l’idea per un altro libro c’è già: la storia di un padre e di una figlia…

  61. Dopo cotanto senno non mi rimane molto da dire… Come disse Holmes in “A Study in Scarlet”, dopo Tea e Simona – e i dottissimi e appassionati commentatori – non rimarrà molto da fare per un terzo!!!
    Ma a Simona non posso dire di no. Mi ha chiesto un intervento da “proffi” sul ritorno in letteratura…
    Andrò a braccio, a ruota libera, sull’onda delle suggestioni di Tea e delle emozioni scatenate dal blog.
    Il tema del ritorno è un classico della letteratura, anzi un TOPOS, un luogo così comune da sembrare scontato e non credo di sbagliare se credo che connoti l’esperienza della letteratura occidentale.
    Tutte le storie più importanti sono storie di ritorni: pensate ai fiumi d’inchiostro sui ritorni da Troia, di cui Ulisse è l’esempio più famoso.
    NOSTOS, il ritorno, la nostalgia appunto per qualcosa che si è perso ma forse non definitivamente e si desidera e nello stesso tempo si teme di ritrovare per paura che il ricordo ci tradisca. Ma siamo noi ad essere cambiati…
    Ritorno è quello di Edmond Dantès, che si ritrova maturo, saggio e favolosamente ricco: conte di Montecristo e non più ingenuo marinaio innamorato…
    Ritorno è quello dalla morte, come nel caso di Euridice ed Orfeo, che si volta indietro perdendo la sposa per sempre, di Ade e Persefone, condannata a tornare sei mesi all’anno negli Inferi…
    C’è poi la TASKA, parola russa che mi ha fatto scoprire la bravissima e dolce Anna Pavone. TASKA è la nostalgia per qualcosa che non si è vissuto. Direi che è voler tornare dove non si è mai stati. Per esempio io ho nostalgia di qual passato che mi raccontano mia madre e mia nonna e che tento di riportare in vita scrivendo poesie in dialetto, raccogliendo brani di canti, mozziconi di proverbi come a tessere una rete di parole che salvi tutto questo passato forse mai esistito come lo immagino io e come mi è stato narrato…
    Se ci facciamo caso, letteratura stessa è ritorno. Ritorno ai ricordi, ritorno alla parte di noi che tace, ritorno del verso che come l’aratro riga la terra e torna indietro per scrivere un nuovo solco.
    Credo che la letteratura italiana e soprattutto la sua lingua siano un disperato ritorno verso una patria idealizzata e idale che forse non è mai esistita se non nel sogno profetico di Dante, Petrarca, Machiavelli, Foscolo…
    Il romanzo è Bildungsroman, ciè è spesso romanzo di formazione, ed un topos del romanzo è il ritorno dell’eroe al punto di partenza. Ritorno è chiudere il cerchio, fare i conti col passato per non naufragare nel presente e annegare il futuro.
    Pensiamo al disastro esistenziale di ‘Ntoni Malavoglia, che era partito militare, aveva assaporato una vita diversa da quella stentata che si viveva ad Acitrezza. Ma giunto alla fine della parabola amara della sua famiglia, ‘Ntoni capisce che per lui non c’è più posto nella casa che ha violato nella sua essenza di focolare domestico, di piccola patria, di santuario domestico. Dovrà andarsene.
    La Sicilia ha scritto forse le pagine più dolenti della letteratura del ritorno: un siciliano se non emigra perde spesso amici e parenti lungo la strada d’acqua che porta via dall’isola… Tea Ranno raccoglie il testimone di tutta una lunga serie di partenze e ritorni (im)possibili.
    Pensiamo a Mattia Pascal: si può tornare in Sicilia solo da morti viventi?
    O ai personaggi vittoriniani, sempre in treno sul binario dell’utopia, del sogno, di un possibile riscatto sociale, morale, esistenziale, “umano”.
    Camilleri ci descrive un commissario così siciliano, così legato alle sue radici da non riuscire a partire per Boccadasse, terra straniera benché patria della pur amatissima Livia: fuori dal triangolo del Mito, della magia, della letteratura si sentirebbe come l’ulivo la cui agonia straziante Camilleri ci fa vivere, facendoci piangere per quei rami al vento come il Montalbano affranto che sceglie di assistere l’albero fino alla morte.

  62. Bravissima, MariaLucia!!!
    Ottimo intervento, il tuo. Hai rilanciato il post portandolo sul percorso della “letteratura del ritorno”, che poi è quello che segue anche l’ottimo libro di Tea.
    Simona ha fatto proprio bene a stimolarti.

  63. Cara Tea, caro Massimo,
    se permettete vorrei dirvi chi è Angelo Moltisanti. E’ lo pseudnimo di un vecchio e noto barone siracusano che vive qui in Ortigia e che ebbi ad intervistare anni fa per il giornale catanese in cui scrivevo. Si occupa di araldica e di storia medievale e vive in un palazzo in prossimità del Castelllo Maniaci, dove consuma i suoi occhi stanchi e afflitti dalle catarratte studiando e leggendo.
    Ha sempre contato sull’aiuto e sull’appoggio di uno “scrivano” come lo chiamava lui, Don Saru, che gli ha meticolosamente letto ogni pagina che lo potesse interessare, non ultimo Cenere e In una lingua che non so più dire.
    Quando il barone ha saputo che Tea avrebbe scritto per il blog mi ha trascinata in un internet point e mi ha dettato le parole che voi avete letto.
    Questa volta Don Saru non l’ha potuto aiutare .
    E ‘morto venti giorni fa.
    Ma io lo voglio ricordare chino sulle pagine dei libri più amati. Bravissimo a dargli voce e a interpretare i personaggi.
    Ciao Saru!

  64. Grazie a MariaLucia per il suo intervento estremamente competente e appassionato. E’ vero, i ritorni hanno sfaccettature diverse, ma tendono a porre “colui che torna” davanti a una meta che è mette in discussione ciò che egli è stato il modo, in cui è vissuto. Chi torna cerca spesso – finalmente – un luogo d’approdo, ma non è sempre così.

    Ieri sera, quando ho letto il post di Angelo Moltisanti, non ho fatto che interrogarmi sulla sua possibile identità. Pensavo, chissà, di averlo incontrato a una qualche presentazione, di avere magari scambiato qualche battuta con lui: le sue parole mi erano sembrate un regalo perché mi avevano fatto capire che i miei libri li aveva letti davvero ed era riuscito a coglierne lo spirito più profondo.
    Adesso che leggo il post di Simona, mi capita di provare un certo turbamento al pensiero di quanto la letteratura possa giocare d’anticipo. Quest’estate, scrivendo un pezzo su Siracusa per una rivista con la quale collaboro, avevo immaginato la figura di un uomo anziano, vestito di bianco, accanito lettore, che mi avvicinava a piazza Duomo e mi conduceva per i vicoli di Ortigia chiacchierando di libri. Precisamente di quelli di Tomasi di Lampedusa. Era un discorso sulle case siciliane (che il Gattopardo evoca nei suoi Racconti), sul loro essere – talvolta – straordinariamente evocative e capaci di suggestionare. Quel personaggio, che ho chiamato Angelo, è diventato uno dei protagonisti del mio nuovo romanzo.
    Vorrei tanto incontrarlo il barone Moltisanti, cara Simona, perché dalla descrizione che ne fai e dalle parole che ti ha dettato, mi sembra di conoscerlo già da molto tempo. E il fatto di poter parlare con lui non potrà che arricchire questa conoscenza.
    Mi dispiace per la morte di Don Saru. L’immagine di lui, chino sulle carte per leggere i libri a un amico che non può farlo, è indimenticabile.

  65. Ringrazio di cuore Maria Luisa Riccioli per aver reso “visibile” un contributo che altrimenti sarebbe passato invano. Non tanto per chi lo ha scritto quanto per il tema che merita a prescindere dalla penna. Alla fine l’obiettivo è stato raggiunto: leggere un commento dell’autrice su questo tema.

  66. @ Massimo: grazie come sempre…
    @ Simona: sei sempre tu. Unica! Un bacio grande a Lori: anche per me è stata una gioia conoscerla!!!
    @ Tea: grazie per averci permesso di parlare di ritorni, di Sicilia, di bellezza…
    @ eventounico: grazie!

    IL RITORNO 2 (LA VENDETTA!!!)

    La vicenda del barone Moltisanti è molto bella e commovente…
    Lui e don Saru sono due personaggi da romanzo!

    Tornando ai ritorni…
    Penso a Giuseppe Fava e ai ritorni problematici e intensi di certi suoi personaggi… Adriana Marciante, che frequenta il salotto letterario di Siracusa, ha scritto anche lei di un ritorno in Sicilia da quel nord che ti offre lavoro e forse affermazione sociale ma spesso non calore né “casa”…
    Si aspetta “Il ritorno parte terza”!!!

  67. Ah! Qui si parla di siracusa! Allora e’ piu’ forte di me l’impulso di parlare del mio Euterpe Santonastasio, capitano dei carabinieri siracusano trapiantato a Trieste… Perdonatemi se mi cito, ma qualche riga del suo diario – dove costui parla di una sua trasferta nella citta’ simbolo della modernita’ italiana, Milano – devo leggervela:
    ”Sono tornato, oggi ventisette febbraio, a Trieste, portandomi dietro una grigia coda di sensazioni milanesi… infatti li’ ho freneticamente visitato dei miracolosi studi policromi, incontrando compiaciuti artefici di prodigi visivi – o meglio ottico-catodici: gente molto giovane, talvolta, ma sempre e comunque impalpabile, rivestita ossia di quel sottile velluto che l’eccessiva fede in un lavoro sostituisce alla grassa e fragile epidermide umana.”
    Dove sara’ stato, l’amico Friz?
    Bah… comunque una descrizione del Nord questa lo e’, anche se parla di cose… ”videistiche”!
    Saluti Cari
    Sozi

  68. @ Sergio:
    E una descrizione del sud? Ce la fai? Magari usando sempre il diario di Euterpe Santonastasio?

  69. Ah! Qui si parla di siracusa! Allora è più forte di me l’impulso di parlare della mia “Jessica, la strusciabidoni”, consolatrice di cuori (chiamiamoli così sennò Massimo rompe) solitari, trapiantata sul marciapiede di Borgata Finocchio.
    Ogni volta che scende da una macchina nella quale ha consolato un cuore, racconta alla sua collega d’esercizio: “Sono tornata portandomi dietro la puzza di quell’animale e forse anche un erpes. La tappezzeria di quella macchina era davvero policroma, nel senso che nessun colore si abbinava all’altro. Ma lui non era impalpabile, anzi, mi ha chiesto spesso di palparlo in ogniddove della sua disumana epidermide”.
    Sergio, ti voglio beneeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
    🙂

  70. ehm… ci dev’essere qualche ”pirata informatico” che si e’ intromesso nel nostro descrivere umane (e non bestiali) vicissitudini. Va be’… dopo ci faro’ i conti – tanto ormai sono abituato a lavorar di pallottoliere.
    Alla care Maria Lucia, Tea e Simona:
    CERTO!
    Eccovi qua l’onirico Sud di Euterpe Santonastasio. Il quale sta vivendo questo sogno ad occhi aperti sul Lago di Pilato (Monti Sibillini, fra l’Umbria e le Marche), cosi’ comparando l’appenninico lago con…
    ”E’ acqua dolce questa, eh, certo… L’inevitabile sigaretta sfiaccolo’ fra indice e medio come a voler bruciare certe vaghe ma invadenti rimembranze: gabbiani, sabbia ustionante, luce; forse un gabbiano, sempre quello, siciliano, e una sabbia, sempre quella, avvolgente e materna: la grande madre meridionale con cui bisogna far attenzione a come si guarda, a come si spargono volatili parole e aligere movenze palmari. Perche’, quando uno sbaglio approda all’occhio e alle dita, nel Sud si resta nudi e a niente vale cercar di mascherare la malapensata con scaltre trame di parole, come provo’ a fare – invano – Penelope, che meridionale era par ecsellans. Invece qui, nel nero, folto e profondo pelo degli Appennini, le chiacchiere sostituiscono i nostri gesti rivelatori; chissa’, forse perche’, dicono, il freddo imperversa sugli umani corpi, rattrappendo tutti gli arti eccetto la lingua.”
    Con un baciamano
    Sergio

  71. Cara Simona,
    certo! e’ un poeta-carabiniere e vive solo nelle memorie di un Alceo dolorante e lontano dalla Patria:
    ”Non devi consegnarlo ai guai, il cuore. / Soffrendo, non andiamo avanti un passo, / o Bicchi. La migliore medicina / e’ farci dare vino ed ubriacarci”.
    (Framm. 12, p. 217, trad. E. Mandruzzato, ed. BUR)
    (Ovviamente ho inventato di sana pianta la lontanaza di Alceo dalla sua isola di Lesbo)
    Ed ora dimmi, cara Simona: quale antidoto suggeriresti, alla luce del rimedio ”alceiano”, per guarire certi altri tremendi ”contro-figuri” della Dolce Vita lupanar-letteratitudiniana? Niente. Non esiste cura. La cronaca romana di questo blog deve accettare i reportage del caposervizio Enrico Gregori. Il piu’ simpatico dei nostri condomini ”virtuali” (e diciamolo, va’, senno’ bisogna accopparlo e… be’…)
    Sergio

  72. @Enrico: non ho dubbi: incanta, incanta….
    @Sergio: la migliore medicina è farci dare vino ed ubriacarci….

  73. Dimenticavo di ringraziare Simona per il bellissimo aneddoto.
    Sono d’accordo con Maria Lucia:
    “La vicenda del barone Moltisanti è molto bella e commovente…
    Lui e don Saru sono due personaggi da romanzo!”
    Simo, hai altro materiale per la tua penna! Dico davvero.

  74. Per il barone Angelo Moltisanti.
    Caro barone, la storia che ci racconta Simona è davvero toccante e particolare. Sono sinceramente dispiaciuto per la perdita di don Saru.
    L’unica cosa che mi sento di dirle è che sono sempre stato convinto che chi legge davvero non legge con gli occhi… ma con il cuore e la mente.
    Spero di avere ancora sue notizie.
    A presto.
    Massimo Maugeri

  75. Caro Massimo, in realtà il libro è uscito da poco, dunque l’ho presentato solo due volte: la prima presso il laboratorio di Luigi La Rosa, la seconda al Papyrus Cafè – relatore Filippo La Porta.
    Sono state due esperienze molto diverse, ma ugualmente forti: con gli allievi di Luigi, che si occupano appunto di scrittura, ho “rotto il giocattolo” e sono andata a evidenziare soprattutto gli elementi tecnici del romanzo: struttura, personaggi, ambientazione, intreccio dei diversi piani narrativi, l’uso del flashback come strumento per sfalsare i tempi della narrazione.
    In quella del Papyrus, ho ascoltato Filippo La Porta, che ha messo in luce l’importanza dei miei personaggi (Hai creato un personaggio “memorabile”, ha detto), e ha dato del libro una lettura nichilista, una sorta di “dark” che lo differenzia (e lo salva) dal profluvio di storie mèlo di cui abbonda la letteratura attuale.
    Le presentazioni sono sempre belle, mi permettono, infatti, di avere un rapporto diretto con coloro che hanno già letto il libro – e dunque fanno commenti molto pertinenti – e coloro che devono ancora leggerlo e pongono domande talvolte difficili, dirette a ottenere spiegazioni che spesso, per non svelare troppo della trama, sono costretta a sfumare, a lasciare incompiute (è questa l’unica vera difficoltà delle presentazioni: non dire!).
    Al Papyrus è stato bellissimo parlare del dialetto. A un tratto mi sono ritrovata a fare il verso del venditore di sale: “U sali, u saaaaaali” e a ripetere quel “pugnu cutugnu, a cu ci u rugnu ‘mpugnu…) che è una conta vecchissima del mio paese. E poi a raccontare la storia di Ciccina Circè, dei campanelli nelle sue trecce che con il loro dindin dindin chiamano a raccolta le “fere” (i delfini) che tengono lontani dalla sua barca i cadaveri degli annegati (Paola Pitagora, presente all’incontro, mi ha poi detto di aver recitato quel brano a teatro, a Taormina). Naturalmente le domande su Teresa sono state moltissime, e anche sul giudice, quest’uomo così “inquadrato”, così disperto (alla fine). Si è parlato di nostalgia, di rimpianto, di partenze e di ritorni… e anche di Cenere, della differenza di stile tra un romanzo e l’altro, del diverso modo in cui affronto la narrazione.
    PEr ciò che riguarda altre presentazioni:
    a Siracusa, nel periodo natalizio (dobbiamo ancora fissare la data) Simona presenterà il romanzo al Biblios Cafè (naturalmente siete tutti invitati a venire);
    a Melilli, il 5 gennaio del 2008, il libro sarà presentato da Anna Maria Piccione, in una serata organizzata dal CIF.

  76. caro Massimo,
    il barone si è fatto stampare le tue parole insieme a quelle di Tea e le ha riposte nella sua carpetta personale, di cuoio, vecchia di settant’anni, in cui campeggia lo stemma nobiliare della famiglia.
    Ha ripiegato le pagine con cura e le ha inserite tra la pergamena della sua laurea e le lettere d’amore scambiate con sua moglie, in un abbraccio del tempo e delle circostanze che mescola tutto, affetti e amicizie, e le fa rivivere tutte insieme, come un’unica, grande storia.

  77. Ma possibile che ogni presentazione annunciata su questo blog avvenga in Sicilia?
    Potenza di Maugeri! Già che ci sei candida la Trinacria anche per il Nobel, gli Oscar e i Telegatti. E poi ce lo scassate con l’emigrazione! Siamo tutti noi che dovremmo emigrare per seguire quello che combinate in quell’isola. Prepotenti!

  78. @ Enrico: fai troppo ridere!!! Povera Jessica…
    @ Sergio: grazie, non so se meritarmi il baciamano!!! Interessante il tuo commissario… Io pure sto inventando una storia per il mio… Ho un commissario aretuseo in cerca d’autrice!!!
    Al barone: una storia se passa da cuore a cuore arriva prima!!! Spesso gli occhi ci ingannano e la sua carpetta è un cuore di cartone che rinchiude le cose che hanno contato di più nella sua vita… Che meraviglia!!!
    Io sogno una Sicilia che sia di nuovo un faro di luce, non una mendicante a rimorchio di regioni più… fortunate?
    @ Tea: ti aspettiamo…

  79. Maria Lucia,
    la Sicilia non potra’ mai essere meno di quel che e’ sempre stata e di quel che sara’ sempre – a meno che non cominci a rinnegare se stessa -. Perche la Sicilia e’ uno dei piu’ importanti cuori pulsanti della nostra Italia! Cuore, anima e tradizione. Ma non stravolgetevi mai, attenti: la modernita’ ringhia dietro l’angolo, nel buio della paura di esser ”troppo siculi”, per portarvi via cuore anima e tradizione. Tutto, Maria Lucia, tutto per voi siciliani e per noi italiani tutti.
    Sergio

  80. P.S.
    Il mio CAPITANO DEI CARABINIERI (non commissario di polizia) sta anche in un libro, in vendita in tutt’Italia… e tornera’ forse anche con altre sue bizzarre avventure sul web. Chissa’…
    Sergio Sozi

  81. A Sua Signoria il barone Angelo Moltisanti,
    il mio modesto cuore e’ al Suo fianco, in questo Suo momento di solitudine. L’Universo Mondo conosce ogni Sua stilla di dolore, non ne dubiti.
    Con licenza
    Sergio Sozi

  82. @ Simona:
    Grazie. Salutami affettuosamente il barone e riferiscigli che ho chiuso gli occhi e ho visto la “sua carpetta personale, di cuoio, vecchia di settant’anni, in cui campeggia lo stemma nobiliare della famiglia”.
    Ci sono davvero spunti per un romanzo!

  83. Finale paradossale:
    Bravi, discutete finche’ la lingua non vi si secchera’, pargoli. Intanto Euterpe Santonastasio, che non riesce a prender sonno, vi saluta cosi’:
    ”Puo’ accadere che falsi meriti siano all’inizio vantaggiosi, ma, nonostante tutto, con il trascorrere stesso del tempo si impone con evidenza la verita”’.
    …O era, questa, una cosetta scritta da Fedro?
    Boh. chiunque l’abbia scritta, probabilmente parlava di noi tutti grafomani. Chi pensa parla poco.
    Buonanotte, comunque.
    Sergio

  84. @ Tea, Simona, MariaLucia, Sergio/Euterpe e tutti gli altri.
    E, in particolare, per il barone Moltisanti.
    Su “Tuttolibri” de “La Stampa” di oggi è uscito un bell’articolo di Giorgio Ficara che – tutto sommato – è in tema con questo post. Si intitola: “L’Italia vista dalla Sicilia”. Ve lo propongo perché lo trovo molto interessante.
    Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione in merito.

    23/11/2007 – I VICERE’ E IL GATTOPARDO
    L’Italia vista dalla Sicilia
    Il fascino di un Nord razionale e attivo per un’isola arcana e immobile

    di GIORGIO FICARA

    Ma questi siciliani, raccontano tutti la stessa storia? E la sicilitudine, questa mitica malattia morale di cui ha parlato Sciascia (a proposito di Brancati) colpisce proprio tutti i siciliani, anche quelli più refrattari al virus, cioè al «mito» stesso dell’Isola? In effetti, un tratto comune, da Verga a De Roberto a Brancati a Tomasi a Sciascia, è un certo dispetto, se non rancore, verso l’immobilismo irrazionalistico dei siciliani e un’opposta infatuazione per l’attivismo razionale dei nordici. Come se «troppa» Sicilia, con le sue canicole e i suoi assopimenti e la sua dolcissima uva insòlia, fosse insostenibile per i siciliani stessi, che dunque spesso fuggono via, a Parigi, a Londra, a Torino, dove i «limiti» del luogo coincidono con l’eccellenza delle soluzioni produttive.

    UNA SCONFINATA AMAREZZA
    In un «notturno» magistrale e straziante del Mastro don Gesualdo, Verga ci parla dell’«amarezza» del paesaggio siciliano: «Uno struggimento, un’amarezza sconfinata venivano dall’ampia distesa dell’Alìa, dirimpetto, al di là delle case dei Barresi, dalle vigne e gli oliveti di Giolio, che si indovinavano confusamente, oltre la via del Rosario ancora formicolante di lumi, dal cielo profondo, ricamato di stelle…». Su questa stessa nota si modulano le successive arie siciliane di De Roberto e Tomasi e di tutti gli altri, come se «struggimento» e «amarezza» fossero i termini esatti con cui riferirsi non solo al cielo ma alla mentalità dei siciliani (così astratta, peraltro, così poco psicologica).
    Non uno dei grandi personaggi siciliani, da quelli di Verga a quelli di Sciascia, è immune dalla sconfinata amarezza che sta, prima di tutto, nelle cose intorno, nella vastità stessa dell’arido suolo isolano, nel sole a picco sui sassi o sulle macchie di sugheri e tamerici. Quando, nel Gattopardo, a mezzodì, i due cacciatori don Fabrizio e don Ciccio vi giungono, la cima del monte rivela «l’aspetto della vera Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche e aranceti non sono che fronzoli trascurabili: l’aspetto di un’aridità ondulante all’infinito in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali, delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in un momento delirante della creazione». Il luogo stesso, in cui i due amici riposano, bevendo vino dalle borracce di legno e mangiando «soavissimi muffoletti», è dunque «sconfortato» e «irrazionale». Un elemento di sconnessione e di demenza agita e blocca le onde di quel mare di pietra.

    FARE È UN PECCATO IMPERDONABILE
    La grandezza dei siciliani è davvero in questo a tu per tu con la creazione. Anche la storia, e lo strozzarsi della storia nell’ingiustizia, – argomento dei Viceré di Federico De Roberto – ha a che fare, in Sicilia, con una specie di continuata istanza metafisica e con un’arcana fede: che la creazione non abbia senso e nessuna opera umana, nessuna intelligenza, nessuna diligenza, nessun disegno, nessuna umana cura possa restituire mai ciò che, forse per pura distrazione, originariamente non è stato previsto. L’atroce cupidigia degli Uzeda, nei Viceré, la stupefacente follia imprenditoriale di Mastro don Gesualdo, il disincanto del principe di Salina, nel Gattopardo, non sono, in effetti, che reazioni, più o meno paradossali, allo stesso male. E quando illustra a Chevalley, nel celebre dialogo, l’«irredimibile» paesaggio insulare – mai distensivo, «come dovrebbe essere un paese fatto per esseri razionali» – il principe Salina allude precisamente a quel male: «Il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare». Di fronte al non senso della creazione, e alla sua tangibile evidenza nelle linee irrazionali del paesaggio siciliano, fare o mutare alcunché, è stupido.
    D’altra parte, è proprio da questo cerchio vizioso – nichilismo, irrazionalismo, immobilismo – che il siciliano, contravvenendo alla sua stessa «intelligenza», vuole uscire: il Nord amatissimo è una specie di retroguardia dello spirito insulare, un campanello d’allarme, una scossa nel delirio d’immobilità. Le lezioni di Letteratura inglese, dettate al giovane Francesco Orlando, sono il vero capolavoro di Tomasi, benché a tutt’oggi quasi ignorato: l’autore si muove tra Elisabettiani e Puritani, tra Wordsworth e Jane Austen, come nelle stanze di casa, tra i più cari amici, con la stessa suprema gentilezza, con la stessa arguzia e lo stesso genio dell’ospitalità. E ancora: nelle lettere scritte dall’Inghilterra (raccolte ora in Viaggio in Europa, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e Salvatore Silvano Nigro), «l’incredibile serenità» delle campagne inglesi, i «prati con armenti», i fiumi pigri e «ricolmi», le colline «fastose» come in una pastorale di Sydney sono precisamente all’opposto delle sconfortate e sghembe macchie di carrubi di Donnafugata.

    SEMPRE ESITARE TRA IL NO E IL SÌ
    Ma la mera esistenza di un altro paesaggio, sereno e razionale, non è sufficiente, anche per un siciliano, a postulare addirittura la possibilità d’un altro universo, su cui il non senso del primo si spunti? La sicilitudine, dopotutto, non è un’alta e sempiterna esitazione tra il no e il sì?

    (fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 24 novembre)

  85. Domanda.
    I siciliani che lasciano la propria terra lo fanno perché considerano l’isola “arcana e immobile” e subiscono il “fascino di un Nord razionale e attivo”?

  86. La mia visione della Sicilia e’ quella che ”sento”, non quella che ”so”, non essendo io siciliano. Ma sono altresi’ convinto che la Sicilia, per noi italiani tutti, rappresenti una sorta di ”fenomeno interiore”: una peculiarita’ facente parte dell’italianita’ stessa che anche un lombardo, magari parzialmente, possiede.
    E appunto per questo credo che l’articolo di Ficara – il quale invece trinacrio lo dovrebbe proprio essere, a giudicare dal cognome – abbia centrato l’argomento e l’analisi, estendibile in buona parte all’Italia tutta. Immobilismo, fatalismo e tormentato rapporto di amore-odio con l’iperattivismo moderno e’ cosa formante la metalita’ italiana piu’ generale. Un luogo comune… autentico, che ha, direi al suo apice, la Sicilia.
    Sergio Sozi

  87. @ Massimo: grazie per avermi interpellata personalmente!!!
    @ Sergio: saluti ad Euterpe… dal mio commissario…
    Non credo che i disperati degli anni ’50 e ’60 – valigiadicartonemuniti e con il sale e le arance al seguito – pensassero alla Sicilia “arcana e immobile” e subissero il “fascino di un Nord razionale e attivo”…
    C’era la fame. La fame e basta. Quella fame niura che fa uscire u lupu d”a tana, altro che bamboccioni! Quella stessa fame che nel ’53 si portò una bella fetta della mia famiglia in Argentina, paese che ha riempito lo stomaco ma forse ha svuotato il cuore lasciandolo scartavetrato dal dolore e dal rimpianto degli affetti lasciati indietro, della terra sognata idealizzata mai più riposseduta appieno nonostante i voli intercontinentali.
    Oggi i disoccupati non pensano affatto che la Sicilia sia arcana ma la percepiscono come immobile, o almeno a vent’anni indietro di distanza dal Nord forse irrazionale ma attivo o quanto meno non comatoso come la Trinacria del Gattopardo e dei Vicerè.
    Siracusa, ad esempio. Si sta muovendo ma a passi millimetrici, eppur si muove. La percepiamo però come estrema periferia di un impero reduce da un Big Bang catastrofico. Azzerare le distanze? Internet. I libri. I giornali. i corsi di scrittura con Silvana La Spina e Luigi La Rosa, che sta operando il movimento opposto: dal centro alla periferia. Francesco Costa, Lia Levi, Antonella Cilento a Siracusa… Un meraviglioso sogno, la possibilità di incontrare chi di scrittura ci vive, di chi ce l’ha fatta…
    Tagliare il cordone ombelicale?
    Spersonalizzarsi?
    Se hai bisogno lo fai.
    Nel giro di pochi anni i miei amici più cari sono andati tutti su: Elisa a fare l’infermiera a Como – lavoro, lavoro, solo lavoro, mi manca la mia famiglia, sto perdendo gli anni più belli dei miei nipoti, niente mi lega a questi luoghi e a questa gente – , Maria Francesca a far la precaria come insegnante di sostegno nella scuola media – lei laureata all’Accademia di belle Arti, ottima pittrice – , Pierpaolo a farsi sfruttare nei call center – laureato in filosofia, master…izzato, iperqualificato – , Fabio anche lui a fare sostegno alle medie dopo il diploma da bass-baritono e la SISSIS – …
    La Sicilia è vista come terra di atavico immobilismo, non come landa arcana, no no, è una terra che ti fa capire benissimo la sua ostilità di mater matrigna e ti toglie il seno di bocca per dirti: figghiu miu non ti pozzu dari a manciari…
    Torniamo a Siracusa…
    Questa città si è svegliata dal sogno industriale che l’aveva fatta diventare la raffineria d’Europa per un piatto di lenticchie – qualche posto di lavoro in cambio di un piccolissimo prezzo: tumori, malformazioni infantili, costa e fondali devastati a Priolo, Augusta, Marina di Melilli come ci racconta poeticamente Roselina Salemi nel suo libro “Il nome di Marina” – e ora tenta di riconvertirsi al turismo aprendo hotel a 5 stelle e più… ma i servizi e i collegamenti ancora lasciano alquanto a desiderare… Un po’ alla volta.
    Non vi dico se volete fare arte…
    Il nostro salotto letterario è un’oasi in tutto questo… Io ci spero tanto!
    Sempre per la serie “You may say that I’m a dreamer, but I’m not the only one…”
    Io ci spero ancora

  88. @ tutti i siciliani
    faccio un coming out del quale non mi vergogno. io non ho mai messo piede in Sicilia. ma peraltro nemmeno in Molise. La Sicilia sarà importante quanto la Lucania oppure la Campania e quanto il Piemonte. Mi sono da tempo rotto le palle di valutare una qualisiasi cosa a seconda che arrivi dal Tirolo oppure da Trapani, se sia di destra o di sinistra, se sia etero o sia frocia.
    Essere siracusani vale quanto essere romani. e se qualcuno non fosse mai stato a Roma non lo prenderei per marziano.
    Me ne frego da dove viene un libro o un racconto, mi frega di quello che c’è scritto e se mi colpisce. e voglio riservarmi la libertà di emozionarmi sia se il libro è scritto da un emigrante siciliano quanto da un fancazzista ligure che ha come unico problema quale champagne stappare a cena.
    Me ne sbatto felicemente dei clichè e delle convenzioni.
    Voglio essere sereno (e non tacciato di razzismo) se dico che il libro di un agrigentino mi pare una cacata. Credo che il ragionar per schemi e partiti presi ci neghi almeno un cinquanta per cento di una realtà che ci piacerebbe vedere.
    A scanso di equivoci ribadisco che volevo far vincere la gara ottocentesca da “I Malavoglia”.
    Essere siciliani, credo, ti fa scrivere con atmosfere specifiche di quella terra, ma non trasformerà mai una boiata in un capolavoro.
    Verga, secondo me, era innanzitutto uno che aveva delle emozioni e una profonda capacità di percepire stati d’animo e poi trasferirli nei suoi scritti.
    Rosso Malpelo avrebbe potuto essere ambientato in Cile. Ma se nessun cileno l’ha fatto è perché Verga era un genio….e poi siciliano.

  89. …Insomma, sintetizzando, Enrico: il campanilismo ti sta sui ”cosiddetti”. E anche a me.
    Pero’ non credo che un uomo sia un uomo. O almeno non solamente: un uomo di Torino non e’ uguale ad uno di Nuova York o di Pechino.
    Parlando d’Italia, certo, le differenze non sono abissali all’interno della Nazione, ma internazionalmente… beh… anche il ”colore” dei sentimenti cambia. Un uomo e’ ”ecumenico”, secondo me, solo per poche cose, anche se importanti (come la nascita e la morte, il dolore e il piacere), ma le sfumature spesso sono cosi’ marcate da Paese a Paese da creare dei ”microcosmi umani” difficilmente superabili.
    Dunque il grande Verga era, si’, un grande artista, ma anche un italiano-siciliano. Non si puo’ non tener conto di questo insieme di cose, soprattutto quando si parla di arti.
    Sergio

  90. P.S.
    Pero’ sono con te quando dici che una boiata e’ una boiata. L’ispirazione, la sensibilita’ e la tecnica scrittoria sono prerogative che si hanno dalla nascita o non si avranno mai. Non si impara a scrivere. Si impara a scrivacchiare (come me, per esempio).
    S.

  91. Maria Lucia:
    ma come si chiama l’odiato poliziotto che ti affianca? Ricordati che il mio amico e’ UN CARABINIERE. Comunque diamogli un nome, no?
    Sergio

  92. @ sergio
    sì, il campanilismo mi sta sulle balle. ma non solo. io credo che chiunque e in qualunque parte del mondo viva, se trova interessanti gli scrittori siciliani perché appartengono a una terra di emigranti e, perché c’è la mafia, commette un’ingiustizia nei confronti degli scrittori siciliani medesimi.
    Ovvio che non possiamo non essere influenzati dall’ambiente nel quale viviamo o nel quale siamo vissuti per sempre, ma oltre Palermo, Roma, Bologna e Isernia esiste il mondo che ognuno ha dentro.
    Forse le farò un torto e me ne assumo la repsonsabilità. Ma io ho letto recentemente “Allo specchio”, il romanzo di Silvia Leonardi che è messinese, ma da tanti anni a Roma.
    Silvia certamente scrive come le sue origini (tutte non solo geografiche) l’hanno fatta crescere.
    Ma quel romanzo, il romanzo di una PERSONA incidentalmente messinese, potrebbe secondo me essere stato scritto da un valdostano o da un fiorentino.

  93. …ma non da un iracheno incidentalmente iracheno. Tutti siamo ”incidentalmente” di un posto. E tutti siamo ”incidentalmente anche uomini e non caani o zanzare. Le differenze, appunto, sono una ricchezza, basta non esasperarle fino a farle diventare un muro.
    S.

  94. @ sergio
    Pirandello era siciliano, ma io nelle sue opere non ho mai sentito gli scoppi della lupara o il sapore della cassata.
    L’irakeno risulterà soprattutto “un irakeno” se lui sceglierà di esserlo.
    Fare lo scrittore senza dimenticare di essere irakeno è cosa diversa e, secondo me, migliore.

  95. In Pirandello, come in ogni uomo, allignano sia i modi di essere tipici dell’individuo ”a se’ stante” che quelli della storia collettiva del suo popolo. Analizzando un Pirandello, senza badare a cassate e luparate, lo troveremmo profondamente italosiciliano nel pensiero e nel modo di essere filosofico. E anche magari un po’ mitteleuropeo. Ma non di certo tibetano.
    I popoli, Enrico, si differenziano come modus cogitandi, non solo come peculiarita’ folcloriche.
    S.

  96. P. S. per Enrico
    …Ed oltretutto mi fanno andare in bestia i ”cittadini del mondo” convinti. Poveri pazzi. Vadano a curarsi i nervi. Sei italiano, francese, guatemalteco? Sappi che o lo resterai a vita o te ne devi andare da giovanissimo, cosi’ trovi chi ti fa cambiare – per forza o per amore.
    Questi sono i fatti. Il resto serve come sottofondo musicale mentre ci si gira i pollici.

  97. @ sergio
    so benissimo che è un concetto difficile da spiegare perché la possibilità di dire un’idiozia è malignamente appostata dietro l’angolo. se, in qualche modo, riesco a tirare le somme, quello che intendo dire è che voglio apprezzare Pirandello perché è uno scrittore. In seconda battuta riflettere su quanto la sua sicilianità abbia influito sul suo modo di pensare, camminare, mangiare e orinare.
    “Sei italiano, francese, guatemalteco? Sappi che o lo resterai a vita o te ne devi andare da giovanissimo, cosi’ trovi chi ti fa cambiare – per forza o per amore”, dici e io sono d’accordissimo.
    Laddove non sono d’accordo è (ovemai) ritenere uno scrittore, uno scultore, un pittore geniale perché è guatemalteco. Fermo restando, poi, che è sempre questione di gusti.
    Per fare un esempio in altro campo e secondo i miei gusti, tanto di cappello all’impegno civile degli Inti Illimani e alla loro “cilenità”, ma con quei cazzi di charanghi mi spappolavano gli zebedei e continuavo imperterrito a farmi overdose di Led Zeppelin e Deep Purple.

  98. Essere Siciliani. Già.
    Come può dirvelo una siciliana? Ci vorrebbe qualcuno che ti scruta da fuori, che dalle groppe del vulcano ti lancia un’occhiata e ti percepisce senza velature.
    Ma questo è il punto: senza quelle velature saremmo gli stessi?
    Difficile dirlo. E difficile sottrarre a un’identità di uomo quella dei paesaggi in cui nasce, del sole che manda scaglie, del mare che s’inturbina di occhiature malefiche. Difficile.
    Difficle anche pensarsi sulla terra ferma. Non percepirsi galleggianti e precari. O guardarsi allo specchio fingendo che non traballi per una maccaluba di zolfo, uno di quegli sboffi che spesso ci fanno tremare e temere di perdere la terra sotto i piedi.
    Non so se Pirandello senza la Sicilia sarebbe stato lo stesso, e Verga, e Tomasi di lampedusa.
    Forse è anche quest’identità a pungolarci per venire allo scoperto, senza che necessariamente si debba scrivere della Sicilia.
    Sciascia probabilmente sarebbe sato sempre Sciascia, ma non c’è dubbio che il suo sangue si sia mescolato all’aria che ha respirato e che questa stessa aria abbia a sua volta innescato altri prodigiosi aliti della sua vita.
    Il problema non è essere siciliani per scrivere della Sicilia,o non esserlo, è comprendere quanta parte in uomo abbia il suo vivere in un certo territorio, e quanta assonanza si crei tra il suo modo d’essere e l’ambiente in cui vive.
    Chi “sente” la Sicilia probabilmente non avrà mai bisogno di visitarla, perchè ha già colto lo spirito che pervade l’animo isolano. Solitudini, precarietà, sete e fame. Amarezza di non poter essere altro, neanche volendo.
    Forse è perchè in ognuno di noi covano appartenenze che non sono solo di carne. Ma di sassi, di roccia, di mare.
    In tutti noi, siciliani e non , vive anche un destino che ci ha preceduti, una terra che ha raccolto i nostri avi.
    Lasciarla, andare a nord, non è spesso una scelta.
    Piuttosto una necessità.

  99. @ simona
    se leggi i post precedenti trovi una critica di sozi ai presunti “cittadini del mondo”. In un certo senso concordo con lui. Trovo in effetti improbabile sentirsi a proprio agio in qualunque angolo dell’universo. Credo, però, che faccia bene acquisire dentro se stessi quanto più “mondo” possibile. Per conoscerlo, ovviamente. Accettarlo non è obbligatorio. Domanda: secondo te, è stato indispensabile a Manzoni essere milanese per scrivere i Promessi Sposi?

  100. @ Sergio ed Enrico: BASTA LITIGARE! State dicendo entrambi la stessa cosa anche se non ve ne accorgete…
    Altrimenti chiamo il commissario Blundo e vi faccio arrestare per disturbo alla blogquiete pubblica… 🙂

    Vero è che non si può prescindere da quel che si è…
    Non si può essere cittadini del mondo né scrittori del mondo anche se Omero, Dante, Shakespeare sono degli universali poetici e narrativi perché parlano – ognuno a loro modo e perché erano diversi – a tutti gli uomini e specie alla parte che tutti gli esseri umani hanno in comune: l’anima, l’essenza, la sensibilità, l’ “humanitas”.
    Amo una frase di Terenzio che la scrisse in latino ma latino non era e purtuttavia buca il muro dei millenni:
    Homo sum: humani nihil a me alienum puto.
    Da incidere a caratteri cubitali nei cervelli e soprattutto nei cuori…
    Sono un essere umano: nulla di ciò che è umano mi è estraneo.

    Se Hosseini fosse stato neozelandese avrebbe scritto cose diverse con un modus cogitandi – chi latinu ca parru, ah? – differente. Ma è afghano ed ha narrato una storia afghana da afghano con puntatine nella lingua afghana e nella cultura afghana. L’avremmo letto lo stesso a prescindere dalla contingenza della guerra? La storia narrata avrebbe avuto la stessa presa, la stessa forza?
    Si rischia di fare razzismo alla rovescia.
    Non leggo Camilleri perché è siciliano
    equivale a
    Leggo Camilleri perché è siciliano.
    Come diceva mi pare Sant’Agostino, “Astra inclinant sed non necessitant”…
    Essere nati sotto l’Etna non ti fa diventare Verga ma neanche ti rende uguale a MacEwan…
    E ora, Enrico e Sergio, parate i mignolini e fate pace!!!

  101. Caro Enrico,
    non lo so. Ma concordo con Maria Lucia, non avrebbe potuto scriverlo in quel modo. Forse in un altro. Chissà…forse anche meglio, ma questa, permettimi un’espressione da giudice , è una “probatio diabolica”!!!
    Un bacione e…pace fatta?

  102. @ maria lucia:
    credo di parlare anche a nome di Sergio il quale, comunque, non mancherà di dire la sua anche se in endecasillabi. Nessun litigio e, direi, nemmeno una polemica. Un semplice scambio di vedute nel quale, sono d’accordo con te, stiamo dicendo le stesse cose in maniera diversa. Però io, se almeno una volta al giorno non stuzzico Sozi, mi pare di aver buttato la mia giornata nel cesso
    🙂

  103. Tranquilli, tranquilli… io non sto litigando e nemmeno Enrico. Praticamente, appunto, diciamo la stessa cosa. Quando mi arrabbio sul serio la cosa risulta chiaramente: acquisisco uno stile secco, conciso e tagliente. Non e’ questo proprio il caso. Stiamo fra amici, come al caffe’.
    Bacioni a tutti!
    Sergio

  104. Sono contenta!!!
    🙂

    PAX
    PACI
    PAIX
    PEACE…

    Una rosa è una rosa e anche con un nome diverso conserverebbe il suo dolce profumo…

    Manzoni sarebbe lo stesso a Palermo?
    “I promessi sposi” sarebbero stati gli stessi alla Vuccirìa? Lei magari a fare pizze all’Antica Focacceria San Francesco, Renzo vastaso al porto, don Rodrigo capo mandamento, i bravi quattro portapizzini o riscuotitori del pizzo… Un bel colera al posto della peste per gradire, fra Cristoforo gesuita, la Monaca della Martorana…
    Avanti, va’, forse cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia…
    Però.
    L’illuminismo lombardo, il calvinismo della Blondel, il contadinismo e le fabbrichette così lumbard…
    Come diceva la Serao, la pizza fuori da Napoli è snaturamento.
    Manzoni è Manzoni è Manzoni.
    Siamo esseri umani unici e irripetibili, siamo scrittori nati e viventi in un certo CON-testo (avanti, facciamo vedere che abbiamo studiato la teoria della comunicazione di Jakobson!) e checché se ne dica non possiamo prescinderne.
    Tanto per parlare di oggi, festa di Cristo re, vero è che per chi crede Gesù è Verbo di Dio, seconda persona della Santissima Trinità, Sacerdote per sempre, unico mediatore tra Dio e l’uomo, e via teologizzando…
    Però.
    è stato un UOMO nato e vissuto in un certo tempo e in un certo luogo, pensava e parlava in aramaico, era circonciso e rabbi della sua religione…
    Sono troppo seria?
    Sergio ed Enrico, dai, un’altra accappatina – per dirla alla siracusana – !!!

  105. Posso?
    Senza quei monti a punta che spuntano dal lago, e quell’acqua grigia che quando, a Pescarenico, si stringe e diventa verde e veloce, Manzoni non avrebbe scritto i Promessi sposi. In un altro luogo, avrebbe scritto un’altra cosa. I “luoghi” ci danno il ritmo, lo spirito della narrazione; sono come l’espressione dei visi, le architetture delle chiese, i boschi, le coste del mare: simili, ma ognuno assolutamente autentico. La musicalità de’ I promessi sposi è l’espressione della luce, intensa e fredda, ma anche coinvolgente e intima, del nostro lago che riflette i monti, le dolomie aspre, i boschi, le piccole case dei pescatori. I luoghi vanno difesi, non per paura e nemmeno per amore, ma per l’armonia della vita che anche in futuro, oltre noi, qui, avrà luogo. Condivido con Sergio l’opinione che l’identità dei luoghi , quindi la differenza fra luogo e luogo, è occasione di ricchezza da condividere, da presentare e offrire. Come il pane e il sale

  106. No, Enricuzzo, e’ un romanzo sugli indiani d’America. Il Grande Capo ”No-tengo-nome” si coalizza con il capo’ della tribu’ ispano-americana dei Rodriguez contro gli indifesi Piccola squaw Lucy ed il suo amante Law-rence. Il pavido stregone del villaggio , Reverendo Verymuch (don Abbondio), si rifiuta di aiutare la misera coppia di ispano-comanchi e questi pertanto devono ricorrere allo spregevole leguleo Solvequestion (Azzeccagarbugli), il quale se ne impipa altamente.
    (Segue…)
    Sergio

  107. Maria Lucia:
    cheeee? si chiama ”Blundo”, il tuo piedipiatti-bravo? Co’ ‘sto nome potrebbe giusto fare il ”cane da guardia”, ah! ah!
    Sergio
    (il baciamano lo faccio, adesso, solo per ruffianeria birbantesca)

  108. Ho passato l’intero pomeriggio in cucina a fare una torta (pandispagna, panna, crema, canditi e pesche sciroppate: tutto fatto da me tranne i canditi e le pesche) per i ”regazzini” che hanno fatto un putiferio degno del diario del Cheguevara, e adesso, dunque, mi sfogo con te. Hic! (Ecco: hic sunt leones!).
    Sergiolone

  109. Complimenti, Enri’: questo era proprio un affondo da maestri d’armi.
    Dunque, torniamo a noi. Un giorno, per caso, il pio father Cristopher, durante un giro d’America a scopo conversioni, si trova ad incontrare per caso i due perseguitati ispanocomanchi e legge loro un’esotica poesia:
    ”Galeotto fu il libro e chi lo scrisse…”
    Lucy e Law-rence si ravvedono e diventano trappisti. Lui fugge in eremitaggio sulle Colline del Suddakota e lei scompare nella Monzon Valley – dove incontra una certa Gertrude, candida suora con la quale sodalizza immediatamente.
    S.

  110. @ sergio:
    sì, e invece delle successione del ducato di Mantova si parlerà dei pozzi di petrolio che J.R. lascia al figlio. Mi auguro che si arrivi in fretta all’epidemia di peste così la finiamo. Pietà!

  111. Ma… Enrico, mi stupisco per la tua riprovazione! Le ambientazioni americane oggi, come tu SAI benissimo, vanno di moda!
    Sergio Malignus

  112. @ sergio:
    noto una velata critica al mio libro. va bene, ispirandomi al tuo euterpe santonastasio, ambienterò il prossimo a Roccacannuccia e descriverò le gesta dell’appuntato Mitridate Posalaquaglia. Contento?
    🙂

  113. Sapevo che l’articolo di Ficara avrebbe riacceso il post!
    Vi ringrazio per aver raccolto lo spunto.
    Aspetto Silvia (visto che Enrico la cita).
    E soprattutto aspetto Tea: la protagonista di questo post insieme a Simona.

  114. Eccomi qui. Interessante dibattito con mille sfumature. Credo che qualunque scrittore non possa prescindere da “chi è”, dalle proprie radici e dalla propria terra. Dal tessuto culturale e sociale in cui vive e con il quale si confronta. Se poi mi dite che “I promessi sposi” avrebbe potuto scriverli un altro scrittore, beh…credo di no.
    Così come credo che andiamo solo per ipotesi. Chi può dire quale sarebbe stato il risultato? Migliore, peggiore, probabilmente diverso. Per autocitarmi, è vero che forse il mio romanzo non implica che sia stato necessariamente scritto da una siciliana, ma sono altrettanto convinta che alcuni passi mi riflettano troppo e che un non-siciliano non li renderebbe allo stesso modo.
    Forse meglio, chissà, 🙂 ma non sarebbe il mio libro!
    Anche nel tuo romanzo, Enrico, dentro ci sei tu. Avrebbe potuto scriverlo un altro, senza dubbio. Ma non sarebbe stato lo stesso il sapore di quel “tè prima di morire”. Credo che questo ci renda unici, ti pare?

  115. Cara Tea
    ripensando ogni tanto al tuo nuovo romanzo all’ultima pagina mi è sembrato di stare al al cinema:gli ultimi fotogrammi che riescono a fare sintesi di tutto il film.
    Magari un giorno potremo vedere il tuo romanzo nelle sale cinematografiche?

  116. Ciao a tutti,
    vedo con grande piacere che si è acceso un vivo interesse per il libro di Tea Ranno e partecipo volentieri al dibattito. Faccio parte del laboratorio di Luigi La Rosa e ho conosciuto Tea Ranno in occasione della presentazione del suo libro. Quando Luigi ha detto che sarebbe venuta a una delle nostre serate, mi sono offerta di farle l’intervista, non solo perché avevo già iniziato a leggere “In una lingua che non so più dire” e mi stava piacendo, ma anche perché abbiamo un’amica comune che da tempo mi parlava di lei. Insomma ero davvero curiosa di conoscerla. L’incontro è stato molto interessante perché abbiamo parlato di tecnica di scrittura e credo sia fondamentale sapere certi dettagli da chi, come lei, ha già scritto due libri. La cosa che mi ha colpito molto di questo romanzo è lo spostamento continuo del tempo dal presente al passato, dalla dimensione reale al ricordo. Ricordare per Andrea non è solo rivisitare il passato, ma rielaborare tutto ciò che è successo sotto una nuova luce che in qualche modo cambia anche il presente. Una della parti che mi è piaciuta di più è quella del cimitero, quando Andrea cerca la tomba di Teresa, ed è stato singolare scoprire che proprio da lì quel libro ha avuto inizio. Questo è uno dei dettagli che ho saputo attraverso l’intervista. Esperienza importante perché ho potuto fare proprio quelle domande a cui tentavo di dare una risposta. Avevo un registratore con me e ho cercato di riportare il suo pensiero, così come lo ha espresso quella sera, senza interferire con opinioni personali. Spero di esserci riuscita! A proposito, per chi volesse leggerla i riferimenti sono http://www.parolesullacorda.it (sezione Interviste)

    Un caro saluto a Tea e al salotto letterario siciliano di cui sento spesso parlare da Luigi. Complimenti a Simona per la recensione e un grazie a Massimo per questo spazio. Claudia Mereu

  117. Enrico e Sergio: che duello! Da urlo…
    🙂 Ancora, dai!!!
    I bravi, ex pistoleri solitari della Black Hand – Mano Nera – con a capo il Grey – il Griso – fanno una mala fine tipo Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più, don Rodriguez compreso, e se li portano nel carretto i tipo monatti del West – coordinati da Clint Eastwood de Lecco -, Father Chris rimane a curare i feriti dall’epidemia di cavolate sparate in questo blog, Law-Rence e Lucy si sposano, fanno tanti bambini a cui Rence fa imparare a leggere e scrivere – poi se ne pente perché i bisnipoti iniziano a scrivere su “Letteratitudine” – e il sugo di tutta la storia… lo prepara Sergio!
    O Simona, che è una cuoca da sballo…
    P.S. Providence, la protagonista occulta di questa storia e autrice segreta di tutte le storie del mondo, forse rinnegherà la paternità di questa…
    ENRICO, L’ETILOMETRO DEVE ESSERE RITARATO!!!

  118. @ Claudia.
    Grazie a te per il tuo intervento.

    @ Maria Lucia:
    Dunque l’ottima Simona è una cuoca da sballo?
    Se non ricordo male tu, Maria Lucia, ti occupi di canto (o ricordo male?).

  119. Maria Lucia, questo finale, da te anelato per non lasciare incompiuto l’anonimo romanzo ”The promised cornutons” di tal pseudo-Alex Manzon, me lo ha suggerito stanotte l’anima in pena di Uolter Scott(i). E recita cosi’ (cito testualmente):
    ”I due picoli amanti selvagi si trovarono, dopo il matrimonio e sopratuto l’ennesimo pollo arosto alla gratela consumato in comune, a dover ricorere ai conforti di quelo stesso avocato Solvequestion, il quale, da avocato divorzista, aveva finalmente iniziato a capire come andavano le cose nel mondo. Non per niente, ora cogliero’ l’ocasione per parlarvi piu’ technichamente di una questione legale: la Colona Infeime. Tratatelo giuridico per aprire gli ochi. E statemi bene, ingenuoti!”

  120. @ Sergio: sob!!! Sono ancora una romanticona e volevo che i due cornutons non fossero tali… 🙁
    Però che parodia… Altro che blog letterario: mi sembra piuttosto “Cronache da un manicomio”…
    🙂 Grazie dei tuoi baciamano: attento che mi abituo!!!

    @ Massimo: sì, ho cantato per anni in un coro polifonico, sia in chiesa che in concerto, ho inciso due cd, poi per vari motivi il coro si è sciolto. Ho fatto parte per qualche tempo di un’altra formazione, sempre a Siracusa, canto per i matrimoni – Manzoni mi voleva per la cerimonia di Lucy e Law-Rence – e adesso canto nel neocoro lirico che il maestro Salvatore Pupillo sta cercando di mettere su in una città da sempre refrattaria al bello e alla cultura nonostante le intenzioni… Pupillo ha cantato per quarant’anni come baritono nel coro del “Carlo Felice” di Genova e adesso si è messo in pensione per inseguire il sogno che coltivava da anni: fondare un coro lirico – realtà mai esistita a Siracusa – e intitolarlo alla memoria di Carmelo Mollica, suo primo maestro di canto proprio a Siracusa…

  121. Maria Lucia,
    infine una preghiera in ginocchio: non pubblicizzare con nessun bipede mortale homoabilis quanto hai letto qui sui cornutons. Mi vergogno come un ladro!
    Baciamano ancor piu’ ruffiano
    Sozi

  122. Salve.
    Volevo avvertire che Tea Ranno sarà ospite al Biblios Café – Libreria Caffetteria di Sircausa, in Via del consiglio reginale, 11 alle 19 di giorno 27 Dicembre. Ad introdurre il romanzo sarà Simona Lo iacono.

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