Ipotetica conversazione sul volume “Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida” di Umberto Eco (La nave di Teseo)
Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato sull’ultimo libro di Umberto Eco intitolato “Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida” (La nave di Teseo). Ho già avuto modo di presentare questo libro nell’ambito del post (omaggio) dedicato alla memoria di Umberto Eco, scomparso il 19 febbraio 2016 (all’età di 84 anni). Tuttavia desideravo offrire un ulteriore spazio a questo libro così ricco di occasioni di riflessione. Sono tantissime, infatti, le problematiche che Umberto Eco affronta (partendo dal concetto stesso di società liquida) attraverso la pubblicazione di una selezione delle sue Bustine di Minerva apparse sul settimanale l’Espresso nell’arco di quest’ultimo quindicennio. Problematiche che si evincono già dalla lettura dei titoli dei vari capitoli che compongono il libro (che elenco qui di seguito): “A passo di gambero”, “Essere visti”, “I vecchi e i giovani”, “On line”, “Sui telefonini”, “Sui complotti”, “Sui mass media”, “Varie forme di razzismo”, “Sull’odio e la morte”, “Fra religione e filosofia”, “La buona educazione”, “Sui libri e altro”, “La Quarta Roma”, “Dalla stupidità alla follia”.
Avrei tanto desiderato discuterne con lo stesso Eco. Purtroppo, per via della sua scomparsa, non ne ho avuto l’opportunità.
Leggendo il libro, però, mi sono accorto che all’interno del testo erano già presenti le risposte alla maggior parte delle domande che avrei voluto porgli. A quel punto mi sono tornate in mente “Le interviste impossibili” realizzate nell’ambito di un programma radiofonico andato in onda dal 1973 al 1975 sulla seconda rete Rai, in cui uomini di cultura contemporanei (tra cui lo stesso Umberto Eco) elaboravano interviste (“virtuali”) a persone appartenenti a un’altra epoca (e, dunque, impossibili da incontrare nella realtà). Bompiani, nel 1975, pubblicò un libro contenente una selezione di tali interviste.
È da questo pensiero che nasce l’idea di una mia intervista “impossibile” a Umberto Eco (con la differenza che, in questo caso – come già accennato – le risposte non sono “immaginate”… ma veri e propri stralci del testo medesimo).
Prima di procedere ho ritenuto doveroso consultarmi con Elisabetta Sgarbi (editore de “La casa di Teseo”), la quale – a sua volta – ha ritenuto opportuno chiedere il parere dei famigliari di Eco.
Ne approfitto subito, dunque, per ringraziare Elisabetta e i famigliari di Umberto Eco per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicare gli stralci di testo che leggerete tra le risposte della seguente “intervista impossibile” (che vuole essere un ulteriore omaggio a Eco, al suo pensiero, ai suoi scritti, ma anche alla sua… ironia).
* * *
– Carissimo prof (posso chiamarla così?), intanto vorrei dirle che sono molto felice di poter dedicare a Lei e al suo nuovo libro questo spazio…
Non ho mai potuto sopportare, diciamo dagli ottanta in avanti, che mi si chiamasse “prof”. Forse che un ingegnere lo si chiama “ing” e un avvocato “avv”? Al massimo si chiamava “doc” un dottore, ma era nel West, e di solito il doc stava morendo tisico e alcolizzato.
– Mi scusi, non ero a conoscenza di questo suo fastidio…
Non è che abbia mai protestato esplicitamente, anche perché l’uso rivelava una certa affettuosa confidenza, ma la cosa mi dava noia e me la dà ancora. Meglio quando, nel Sessantotto, gli studenti e i bidelli mi chiamavano Umberto e mi davano del tu.
– Non mi permetterò di darLe del tu e mi limiterò a chiamarla prof. Umberto Eco, o professor Eco…
Ripartiamo dall’inizio: come le dicevo sono molto lieto di questo spazio dedicato a “Pape Satàn Aleppe“. In qualche modo questo suo libro aiuta noi lettori ad accettare la sua scomparsa. Inutile dirLe che ci manca molto e che avremmo voluto che rimanesse con noi per molto altro tempo ancora…
Ricordo che quando ero ragazzo mi dicevo che non era giusto superare i sessant’anni, perché dopo sarebbe stato terribile sopravvivere acciaccato, bavoso e demente in un ricovero per poveri vecchi. E quando pensavo al Duemila mi dicevo che sì, teste Dante, avrei potuto vivere sino ai settanta e quindi arrivare sino al 2002, ma era un’ipotesi molto remota e di rado si raggiungeva quella venerabile età.
– Comunque sia, Lei continua a essere presente tra noi con i suoi libri e con “Pape Satàn Aleppe” in particolare. Parliamo di questo libro. Un libro che deriva dalle sue Bustine di Minerva pubblicate su l’Espresso. Ci racconti di questa esperienza…
Ho iniziato la rubrica La Bustina di Minerva sull’Espresso nel 1985, a lungo ogni settimana, e poi quindicinalmente. Come ricordavo all’inizio, le bustine di fiammiferi Minerva avevano all’interno due spazi bianchi su cui si potevano prendere appunti, e pertanto intendevo quei miei interventi come brevi annotazioni e divagazioni sui vari fatti che mi passavano per la testa – di solito ispirati all’attualità, ma non solo, perché ritenevo d’attualità che una certa sera mi fosse preso l’uzzolo di rileggermi, che so, una pagina di Erodoto, una fiaba di Grimm o un fumetto di Braccio di Ferro.
Molte Bustine le avevo inserite nel mio Il secondo diario minimo, del 1992, un numero considerevole era apparso in La Bustina di Minerva, che teneva conto di quelle pubblicate sino a inizio 2000, alcune erano state ricuperate in A passo di gambero nel 2006. Ma dal 2000 al 2015, calcolando ventisei Bustine all’anno, di Bustine ne avevo scritte più di quattrocento e ho ritenuto che alcune fossero ancora ricuperabili.
– C’è qualcosa che accomuna le sue Bustine raccolte in “Pape Satàn Aleppe”?
Mi pare che tutte (o quasi tutte) quelle che raccolgo in questo libro possano essere intese come riflessioni sui fenomeni della nostra “società liquida”, di cui parlo in una delle Bustine più recenti, che pongo a inizio della serie.
– Le sarei grato se potesse approfondire il concetto di “società liquida”…
L’idea di modernità o società “liquida” è dovuta, com’è noto, a Zygmunt Bauman. Per chi voglia capire le varie implicazioni di questo concetto può essere utile Stato di crisi (Einaudi, 2015) dove Bauman e Carlo Bordoni discutono di questo e altri problemi.
La società liquida inizia a delinearsi con quella corrente detta postmoderno (peraltro termine “ombrello” sotto cui si affollano diversi fenomeni, dall’architettura alla filosofia e alla letteratura, e non sempre in modo coerente). Il postmodernismo segnava la crisi delle “grandi narrazioni” che ritenevano di poter sovrapporre al mondo un modello di ordine; si è dedicato a una rivisitazione ludica o ironica del passato, e in vari modi si è intersecato con le pulsioni nichilistiche. Ma per Bordoni anche il postmodernismo è in fase decrescente.
– Bauman parla di crisi dello Stato. Come si delinea?
Scompare un’entità che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo, e con la sua crisi ecco che si sono profilate la crisi delle ideologie, e dunque dei partiti, e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni.
– Dunque la crisi dello Stato porta con sé la crisi del concetto di comunità…
E con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada di ciascuno ma antagonista, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione nella quale, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono l’apparire a tutti i costi, l’apparire come valore (fenomeni di cui mi sono sovente occupato nelle Bustine) e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo telefonino ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio).
– C’è un modo per sopravvivere alla liquidità?
C’è, ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. Ma il guaio è che la politica e in gran parte l’intellighenzia non hanno ancora compreso la portata del fenomeno. Bauman rimane per ora una “vox clamantis in deserto”.
– Parliamo un attimo del titolo del libro. Perché “Pape Satàn Aleppe”?
La citazione è evidentemente dantesca (“Pape Satàn, pape Satàn aleppe”, Inferno, VII, 1) ma, com’è noto, benché schiere di commentatori abbiano cercato di trovare un senso a questo verso, la maggior parte di essi ritiene che esso non abbia alcun significato preciso. In ogni caso, pronunciate da Pluto, queste parole confondono le idee, e possono prestarsi a qualunque diavoleria. Mi è parso pertanto comodo usarle come titolo di questa raccolta che, non tanto per colpa mia quanto per colpa dei tempi, è sconnessa, va – come direbbero i francesi – dal gallo all’asino, e riflette la natura liquida di questi quindici anni.
– Tra le altre cose, nel libro, affronta la questione della cosiddetta “sindrome del complotto” (tema a me molto caro). Come nasce, intanto, questa “sindrome”?
La sindrome del complotto è antica quanto il mondo e chi ne ha tracciato in modo superbo la filosofia è stato Karl Popper, in un saggio sulla teoria sociale della cospirazione che si ritrova in Congetture e refutazioni (Il Mulino, 1972). “Detta teoria, più primitiva di molte forme di teismo, è simile a quella rilevabile in Omero. Questi concepiva il potere degli dei in modo che tutto ciò che accadeva nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate nell’Olimpo. La teoria sociale della cospirazione è in effetti una versione di questo teismo, della credenza, cioè, in divinità i cui capricci o voleri reggono ogni cosa. Essa è una conseguenza del venir meno del riferimento a dio, e della conseguente domanda: ‘Chi c’è al suo posto?’. Quest’ultimo è ora occupato da diversi uomini e gruppi potenti – sinistri gruppi di pressione, cui si può imputare di avere organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui soffriamo… Quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere, essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali. Per esempio, quando Hitler conquistò il potere, credendo nel mito della cospirazione dei Savi Anziani di Sion, egli cercò di non essere da meno con la propria controcospirazione.”
– Grazie per la citazione di Popper. Ma se volessimo sintetizzare la “sindrome” in una frase comprensibile a tutti?
La psicologia del complotto nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle.
– Ma che utilità ne ricavano, coloro che credono nel complotto?
L’interpretazione sospettosa in un certo senso ci assolve dalle nostre responsabilità perché ci fa pensare che dietro a ciò che ci preoccupa si celi un segreto, e che l’occultamento di questo segreto costituisca un complotto ai nostri danni. Credere nel complotto è un poco come credere che si guarisca per miracolo, salvo che in questo caso si cerca di spiegare non una minaccia ma un inspiegabile colpo di fortuna (vedi Popper, l’origine è sempre nel ricorso alle mene degli dei).
Il bello è che, nella vita quotidiana, non vi è nulla di più trasparente del complotto e del segreto. Un complotto, se efficace, prima o poi crea i propri risultati e diventa evidente.
– Grazie, professor Eco! È stato molto chiaro. I nostri amici lettori che volessero saperne di più troveranno, tra le pagine del libro, ulteriori riflessioni e quant’altro…
A essere sincero, preferisco i neologismi giovanili al vizio adulto di dire a ogni piè sospinto e quant’altro. Non potete dire e così via o eccetera?
– Ha ragione! La prego di scusarmi!
Per fortuna son tramontati attimino ed esatto, per cui l’Italia era diventato il bel paese dove l’esatto suona, ma quant’altro rimane anche nei discorsi di persone serie ed è pareggiato in Francia solo dall’uso incontenibile di incontournable.
– Incontournable?
Serve a dire (udite, udite) che qualcosa è importante (e al massimo è imprescindibile). Incontournable è qualcosa che quando lo incontri non puoi girargli intorno ma devi farci i conti, e può essere una persona, un problema, la scadenza del pagamento delle tasse, l’obbligo della museruola per i cani o l’esistenza di Dio.
– Capisco! La ringrazio molto per l’informazione… incontournable.
Spostiamoci sui libri, professor Eco. So che lei non è molto favorevole all’ebook. In una delle sue Bustine sull’argomento ha parlato di una sorta di pseudoproposta commerciale che pubblicizza una novità. Di che si tratta?
Del Built-in Orderly Organized Knowledge, la cui sigla dà book, ovvero libro.
– Ci spieghi meglio le caratteristiche di questo prodotto…
Niente fili, niente batteria, nessun circuito elettrico, nessun interruttore o bottone, è compatto e portatile, può essere usato anche seduti davanti al caminetto. È costituito da una sequenza di fogli numerati (di carta riciclabile) ciascuno dei quali contiene migliaia di bit d’informazione. Questi fogli sono mantenuti insieme nella sequenza corretta da un’elegante custodia detta rilegatura.
Ogni pagina viene scannerizzata otticamente e l’informazione è direttamente registrata nel cervello. C’è un comando “browse” che permette di passare da una pagina all’altra, sia in avanti che all’indietro, con un solo colpo di dito. Un’utility detta “indice” permette di trovare istantaneamente l’argomento voluto alla pagina giusta. Si può acquistare un optional chiamato “segnalibro” che permette di tornare dove ci si era fermati la volta prima, anche se il book è stato chiuso.
– Mi piace questo Built-in Orderly Organized Knowledge. Credo proprio che lo comprerò.
Rimanendo in tema di libri (e letteratura), in uno dei capitoli del libro parla di Salgari e di Verne. Nella parte iniziale ne parla come se, in un certo senso, questi due autori fossero in contrapposizione…
Quando eravamo ragazzi eravamo divisi in due partiti: quelli che tenevano per Salgari e quelli che tenevano per Verne. Confesso subito che all’epoca tenevo per Salgari, e ora la Storia mi obbliga a rivedere le mie opinioni di un tempo. Salgari, riletto, citato a memoria, amato da tutti coloro che lo hanno vissuto nella loro infanzia, non seduce più (a quanto pare) le nuove generazioni e – a dire il vero – anche gli anziani, quando lo rileggono, o ci mettono un pizzico di nostalgia e ironia, oppure la lettura si fa faticosa, e quei troppi paletuvieri e babirussa vengono a noia.
Per quanti meriti si debbano riconoscere al nostro Salgari, il padre di Sandokan non aveva un gran senso dell’umorismo (come del resto i suoi personaggi, tranne Yanez)…
– Verne, invece?
I romanzi di Verne sono pieni di humour, basti ricordare quelle pagine splendide del Michele Strogoff dove, dopo la battaglia di Kolyvan, il corrispondente del Daily Telegraph, Harry Blount, per impedire al suo rivale Alcide Jolivet di trasmettere la sua corrispondenza a Parigi, tiene occupato l’ufficio telegrafico dettando versetti della Bibbia per l’ammontare di qualche migliaio di rubli; sino a che Jolivet riesce a rubargli la posizione allo sportello telegrafico e lo blocca trasmettendo canzoncine di Beranger. Recita il testo: “– Aoh! – fece Harry Blount. – Così è, – rispose Alcide Jolivet.” E ditemi se questo non è stile.
– Stile e ironia: un bel connubio. Cos’altro le piace di Verne?
Un altro motivo di fascino è che molti racconti di anticipazione, letti a distanza di tempo, quando ormai quello che annunciavano si è in qualche modo avverato, lasciano un poco delusi, perché le cose veramente avvenute, le invenzioni veramente realizzate, sono molto più stupefacenti di quanto il romanziere di un tempo immaginasse. Con Verne no, nessun sottomarino atomico sarà mai più tecnologicamente stupefacente del Nautilus, e nessun dirigibile o jumbo jet avrà mai il fascino della maestosa nave a eliche di Robur il Conquistatore.
– So che, con riferimento a Verne e alle sue opere, teorizza anche un terzo elemento di attrazione. Per conoscerlo i nostri amici lettori sono invitati a (appunto) leggere il libro. E rimanendo ancora nell’ambito dei libri: c’è un capitoletto molto interessante sulla… richiesta di prefazioni. Cosa può dirci in tal senso?
Quello di cui sto per parlare non accade certamente solo a me, ma in genere a tutti coloro che, avendo pubblicato libri o articoli, godono di una qualche notorietà in un campo specifico. Ma non bisogna solo pensare a un grande poeta, a un premio Nobel, a uno studioso emerito.
– So cosa intende. Anche a me, di tanto in tanto, chiedono prefazioni…
Accade persino a chi non è ritenuto né dotto né attendibile, e forse neppure rispettabile, ma che è diventato ormai noto e famoso, magari per essersi esibito in mutande a un talk show televisivo.
– Giuro di non essermi mai esibito in mutande a un talk show televisivo. La prego, ci racconti la sua esperienza. Come reagisce quando qualcuno le chiede l’ennesima prefazione?
Rispondo di solito che (a parte l’impossibilità di leggere tutti quei manoscritti, e il rischio di apparire come prefatore a tassametro), avendo già detto di no ad amici carissimi, dire di sì a un altro suonerebbe per loro come offesa. E di solito la cosa finisce lì.
– E quando il richiedente è un amico?
Perdo tempo a scrivere una lettera più particolareggiata, in cui cerco di spiegare quanto molti decenni di lavoro nel mondo dei libri mi hanno insegnato. Spiego pertanto che il mio rifiuto mira a salvarlo o salvarla da un disastro editoriale.
Io, personalmente (e sarà magari un deplorevole eccesso di hybris, non discuto) non vorrei mai farmi prefare da nessuno – anzi, sono persino contrario al caso del maestro universitario che scrive la prefazione all’allievo, perché rappresenta il modo più letale (per le ragioni sopra elencate) per sottolineare la giovinezza e l’immaturità dell’autore.
– Questo approccio si è rivelato vincente?
Ebbene, di solito il mio interlocutore non rimane convinto, e ritiene che il mio ragionamento sia ispirato a malanimo. Così, a mano a mano che invecchio, molte persone che ho tentato di beneficiare col mio rifiuto mi diventano nemiche.
A meno che si verifichi il caso (che, giuro, si è verificato davvero) del tizio che ha poi pubblicato il libro a proprie spese ponendovi come prefazione la mia cortesissima lettera di rifiuto. Tale è l’umana sete di prefazioni.
– Be’, in un certo senso questo concetto di “umana sete” (legata alla carta) ci riporta quello di “società liquida”.
In chiusura, caro professor Eco, mi piacerebbe che spendesse qualche parola sulla piuttosto recente polemica degli “imbecilli del Web”…
Mi sono molto divertito con la storia degli imbecilli del Web. Per chi non l’ha seguita, è apparso on line e su alcuni giornali che nel corso di una cosiddetta lectio magistralis a Torino avrei detto che il Web è pieno di imbecilli.
– E invece…?
È falso. La lectio era su tutt’altro argomento, ma questo ci dice come tra giornali e Web le notizie circolino e si deformino.
– Ma come è nata questa polemica?
La faccenda degli imbecilli è venuta fuori in una conferenza stampa successiva nel corso della quale, rispondendo a non so più quale domanda, avevo fatto un’osservazione di puro buon senso.
– Quale?
Ammettendo che su sette miliardi di abitanti del pianeta ci sia una dose inevitabile di imbecilli, moltissimi di costoro una volta comunicavano le loro farneticazioni agli intimi o agli amici del bar – e così le loro opinioni rimanevano limitate a una cerchia ristretta. Ora una consistente quantità di queste persone ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni sui social network. Pertanto queste opinioni raggiungono udienze altissime, e si confondono con tante altre espresse da persone ragionevoli.
Si noti che nella mia nozione di imbecille non c’erano connotazioni razzistiche. Nessuno è imbecille di professione (tranne eccezioni) ma una persona che è un ottimo droghiere, un ottimo chirurgo, un ottimo impiegato di banca può, su argomenti su cui non è competente, o su cui non ha ragionato abbastanza, dire delle stupidaggini. Anche perché le reazioni sul Web sono fatte a caldo, senza che si abbia avuto il tempo di riflettere.
– E crede che questo sia sbagliato?
È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee. E alcune scomposte reazioni che ho poi visto in rete confermano la mia ragionevolissima tesi. Addirittura, qualcuno aveva riportato che secondo me in rete hanno la stessa evidenza le opinioni di uno sciocco e quelle di un premio Nobel, e subito si è diffusa viralmente una inutile discussione sul fatto che io avessi preso o no il premio Nobel. Senza che nessuno andasse a consultare Wikipedia.
– Lei sostiene anche che un utente normale della rete dovrebbe essere in grado di distinguere idee sconnesse da idee ben articolate, ma – dato che non è sempre detto – sorge un altro problema: quello del filtraggio…
Che non riguarda solo le opinioni espresse nei vari blog o via Twitter, ma è questione drammaticamente urgente per tutti i siti Web, dove (e vorrei vedere chi ora protesta negandolo) si possono trovare sia cose attendibili e utilissime, sia vaneggiamenti di ogni genere, denunce di complotti inesistenti, negazionismi, razzismi, o anche solo notizie culturalmente false, imprecise, abborracciate.
– Come filtrare?
Ciascuno di noi è capace di filtrare quando consulta siti che riguardano temi di sua competenza, ma io per esempio proverei imbarazzo a stabilire se un sito sulla teoria delle stringhe mi dica cose corrette o meno. Nemmeno la scuola può educare al filtraggio perché anche gli insegnanti si trovano nelle mie stesse condizioni, e un professore di greco può trovarsi indifeso di fronte a un sito che parla di teoria delle catastrofi, o anche solo della guerra dei trent’anni.
– E dunque?
Rimane una sola soluzione. I giornali sono spesso succubi della rete, perché ne raccolgono notizie e talora leggende, dando quindi voce al loro maggiore concorrente – e facendolo sono sempre in ritardo su Internet. Dovrebbero invece dedicare almeno due pagine ogni giorno all’analisi di siti Web (così come si fanno recensioni di libri o di film) indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni. Sarebbe un immenso servizio reso al pubblico e forse anche un motivo per cui molti navigatori in rete, che hanno iniziato a snobbare i giornali, tornino a scorrerli ogni giorno.
– Lei stesso, però, sostiene che per affrontare questa impresa un giornale avrebbe bisogno di una squadra di analisti, molti dei quali da trovare al fuori della redazione…
È un’impresa certamente costosa, ma sarebbe culturalmente preziosa, e segnerebbe l’inizio di una nuova funzione della stampa.
Speriamo che i responsabili dei quotidiani prendano in considerazione questa sua saggia proposta.
Grazie per le sue parole, caro professor Eco. E grazie per essere ancora qui con noi.
© [Per gentile concessione degli eredi di Umberto Eco].
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