Dicembre 24, 2024

348 thoughts on “IPERSPAZIO CREATIVO

  1. Vedo con piacere che il tuo blog ha sempre più visitatori. E per un blog così poco (anzi: per nulla) scandalistico e facilone, mi sembra un bel risultato. Da accrescere ancora.
    Ti propongo un piccolo gioco letterario. “Fate cinque nomi di autori che vedreste bene come Nobel”
    Comincio io?
    Mario Vargas Llosa, Philip Roth, Amos Oz, Abraham Yehoshua, la quinta è la scrittrice americana che ha una produzione fluviale e variegata…adesso mi sfugge il nome…accidenti…comincio a perdere memoria?…

  2. Ciao Luciano. Grazie per il contributo. Ti seguo subito.
    In ordine di preferenza…
    Italo Calvino (e non m’importa se non è più tra noi), Don DeLillo, Philip Roth, Mario Vargas Llosa, Gore Vidal. (Caspita: tre americani, un sudamericano e l’italiano più letto in America)

  3. Grazie massimo per lo spazio messo a disposizione.

    Per quanto riguarda il gioco di Luciano farò soltanto tre nomi: Calvino, Coe e Sanugineti, un poeta al di sopra di tutto ed anche di se stesso probabilmente.

    Per quanto riguarda lo spazio creativo direi che possiamo procedere con lo spedire su questo thread i propri lavori o link. Se in seguito la cosa dovesse decollare attiveremo una sorta di mailing list, a cui mi occuperò personalmente di inviare il materiale.
    Se avete proposte fatevi avanti senza timore…

    Giancarlo

  4. Ciao a tutti,questi per me i Nobel che dovevano essere assegnati (e ora come ora solo alla memoria):
    Juan Rulfo – Josè Lezama Lima – Bruno Schulz – Josè Donoso – Witkiewicz
    Erano immensi, che roba ragazzi, che roba…
    Giuseppe

  5. Ciao Francesco, io suggerirei di inviarmi i lavori e successivamente li metterò sul mio sito, in pdf, con un link scaricabile su qualsiasi pc.
    Sarebbe anche carino che chi manda del lavoro scriva due righe sul proprio lavoro.

    Cosa ne pensate della mia proposta?

    Grazie
    Giancarlo

  6. OK, grazie mille per il chiarimento, pereparerò qualcosa da inviarti, ce qualche argomento o tipologia di testo che preferisci?
    Mi sembra un’ottima idea.

    ciao

  7. Riprendendo il “gioco” di Luciano.. io vedrei degni di Nobel: Amos Oz, Giuseppe Bonaviri ed Edoardo Sanguineti.
    Per quanto riguarda la bella idea dell’iperspazio creativo io potrei inviare qualche mia modesta poesia o magari “presentare” il mio libello KORI (del quale parte dei proventi saranno devoluti tramite l’Unicef in favore dei bambini). Fatemi sapere voi cosa e come fare eventualmente.
    Infine..tanti auguri per il premio Martoglio.

  8. Grazie Francesco e Gero.

    Io direi di procedere a ruota libera per cominciare, senza costringerci in alcun argomento specifico. In seguito possiamo cambiare le carte in tavola e creare delle sezioni.

    Mandate pure l’opera in formato word a giancarlo@bifolcus.net e provvederò a pubblicare su questa sezione il link dove leggere l’opera.

    Ogni idea diversa dalla mia è ben accetta. Fatevi avanti.

    Grazie ancora
    Giancarlo

  9. Comincio con l’inviarvi il link ad un estratto del lavoro di Gero.

    Questo è il link al pdf che contiene un estratto dal libro Kori

    http://www.bifolcus.net/iperspaziocreativo/Gero/Miceli_Estratto_cori.pdf

    Inoltre i due link di seguito sono immagini della copertina dello stesso libro, parte dei cui proventi saranno devoluti tramite l’unicef in favore dei bambini del Libano.

    http://www.bifolcus.net/iperspaziocreativo/Gero/kori%20di%20calogero%20Miceli.JPG

    http://www.bifolcus.net/iperspaziocreativo/Gero/Kori%20Unicef.jpg

    Ringrazio Gero per questa prima proposta.

    Si attendono commenti.

    Giancarlo

  10. Caro Giancarlo,
    intanto complimenti per il buon lavoro. Copincollo qui a “Iperspazio creativo” un microracconto riportato da Giuseppe sul post “Romanzi o racconti” (peppeciar@libero.it). Ciao

    CRONACHE DALL’ALFABETO
    Si svegliò nel mar cartico,splendida,a contenere con le sue curve alternativamente concave,due porzioni di informe bianco.Lui la guardava estasiato senza scomporsi, nell’adipe molle a gonfiare le curve,al limite della rottura,talvolta incrinate per i segni del tempo o dell’inchiostro sbadato. T l’Altera,cupo lo sguardo,non potè negare il fascino curvo di S la Splendida e la stizza e la solita smorfia schifata verso O l’adiposo.I l’Imponente si spinse ben oltre le sue possibilità altitudinali,affiancando r il Represso,a far da maiuscola per un poetico “andar”…A la Concreta rideva di quella coppia improbabile e scrutava il gruppo in cerca di una valida alternativa all’occasione sprecata, eh sì…il gemello di O l’Adiposo,incontrato il gruppo “RELT”,non si fece pregare due volte per capeggiare la realizzazione di “OLTRE” sulle istruzioni di un televisore…”Lascia L la Sciocca con noi che “OTRE” meglio si confà col tuo modo d’essere…” Ma il gemello Adiposo non vi badò e l’ipotesi “ARIOSTO” sulla copertina di un libro di scuola svanì,come le porzioni dell’informe bianco che talvolta sfuggono dalle curve di S la Splendida.”Non ti molla il pensiero di “ARIOSTO”? chiese T l’Altera ricordandogli la sua ipotesi “SARTI” e mandar via O l’Adiposo col gemello e il gruppo “RELT” e fatti loro se non fosse servito! …”SARTI”…mica male!,su un’elegante rivista di moda,è arte anche quella,ma tu così realista,tu,con l’arte e la moda,lo stile,tu cosa c’entri? Salutando il tepore morente del sonno, S la Splendida alzò lo sguardo e vide in successione l’Altera,l’Adiposo che la guardava estasiato,il Represso minuscolo all’inverosimile nei confronti dell’Imponente che gli ronzava attorno. E per ultimo vide,pensosa,la Concreta che la fissava. “STORIA”!!!!! urlò A la Concreta…STORIA ripetè S la Splendida senza nulla capire… “ROSITA” ripeteva sottovoce il Represso,col suo desiderio struggente di diventare grande ma col timore dei piccoli a proferir parola…

  11. …ho incontrato questo blog cercando informazioni sul premio letterario Giorgio Falck. Vista l’occasione sarei molto interessato a un giudizio sui primi capitoli che avevo già scritto e che ben si adattano proprio all’argomento della spiritualità verso il quale il libro era già indirizzato di suo.
    http://mjkacat.blogspot.com/

    Grazie mille

  12. Ciao, desideravo segnalare un progetto “poetico” nel quale sono stata coinvolta dal titolare di “Pizzartè” di Catania, un locale giovane e pioniere nel suo genere che permette di gustare una buona pizza circondati da arte e letteratura.
    in sintesi, si è pensato di realizzare all’interno del locale, una ragnatela di fili a cui appendere delle poesie, realizzando così dei “diaframmi poetici” che avvolgano (o intrappolino!!!) i presenti, che nelle serate di pieno sono davvero moltissimi, permettendo così al poeta di essere conosciuto e al consumatore di aprire mente e cuore (oltre lo stomaco)…inoltre, le poesie potranno essere acquistate al prezzo di 1 euro da chiunque ne avesse voglia.
    quindi, in definitiva, questo è un invito a chiunque si senta poeta nel cuore e nell’animo, prima che nella carta stampata che spesso non riconosce il giusto merito al talento, di partecipare ad un’iniziativa che avvicina l’arte figurativa (il locale è anche galleria d’arte) all’arte delle parole e all’arte del cibo!
    vorrei in ogni caso premettere che io sono stata chiamata a collaborare solo in quanto “scrittrice”, ovvero persona inserita nell’ambiente letterario che per questo ha possibilità di contattare i poeti interessati, ma non faccio parte in alcun modo dell’organizzazione del locale, della sua gestione e di qualsiasi altra cosa inerente a guadagni ed altro!
    quindi, in quanto “tramite” sarò felice di raccogliere le risposte di interesse al progetto, (che poi verrà discusso direttamente dagli interessati con il proprietario del locale), mettendo a disposizione il mio indirizzo email annariciputo@yahoo.it nella speranza di veder decollare un progetto che prima di tutto, mette in movimento le menti aperte e vulcaniche dei catanesi che non si arrendono, e in quel che fanno mettono anima e passione….
    grazie tante

  13. Ciao a tutti e grazie per questo meraviglioso spazio.
    Ne approfitto per comunicare l’uscita del mio secondo libro !!!
    Dopo anni di proposte editoriali a pagamento, o a “sfruttamento”, ho scelto di utilizzare la geniale idea di LULU.COM.
    Sono molto contento del risultato e, se vi va, aspetto i vostri commenti…
    Dimenticavo… il mio è un libro un po’ strano… in fondo rimango un poeta… quindi non ci troverete molte parole e concetti molto estesi… il mio modo di scrivere è abbastanza conciso…
    Si intitola ” More than this ” e lo potete trovare qui:
    http://www.lulu.com/content/456195

    Ciao a tutti, Roberto

  14. QUOTA CENTOCINQUANTA 2007

    Vi propongo una specie di gioco/concorso letterario.
    Inviate vostri racconti e candidatevi a essere contestualmente concorrenti e giurati di QUOTA CENTOCINQUANTA 2007.
    Che significa? Significa che concorrerete, appunto, vostri racconti e giudicherete i racconti degli altri. Quindi concorrenti e giurati allo stesso tempo. Nulla di particolarmente originale, lo so. Tuttavia si potrebbe provare.
    Ipotizziamo delle regole di base (modificabili, perché questa è una proposta)
    1) Non c’è scadenza temporale. Il gioco/concorso si chiude nel momento in cui viene consegnato il 150° racconto.
    2) Ciascun autore può inviare al massimo 5 racconti.
    3) Ogni racconto inviato dà diritto a un voto.
    4) Naturalmente l’avente diritto al voto (o ai voti) non potrà dare la preferenza a un proprio racconto. Si possono votare, dunque, solo i racconti degli altri.
    5) Sono assolutamente vietati accordi sottobanco (della serie io voto il tuo, tu voti il mio)
    6) Esaurita la fase di attribuzione dei voti si procede a stilare una graduatoria.
    7) I primi 15 racconti entrano a far parte di una raccolta (che si potrebbe proporre a qualcuno… chissà!)
    Fine del gioco.
    Qualora le adesioni fossero davvero tante potremmo ipotizzare una QUOTA TRECENTO.

    Si potrebbe immaginare un tema. O forse per cominciare è meglio un tema libero?!

    Stessa cosa si potrebbe prevedere per le poesie.

    Che ne dite? Giancarlo, ti sentiresti di organizzare una cosa del genere?

  15. Massimo, l’idea mi piace e non vedo problemi nell’organizzarla. Nei prossimi giorni preparo ogni cosa e scrivo un post per dare a tutte le indicazioni.

    ciao
    Giancarlo

  16. Rispondo all’invito segnalando l’uscita del mio saggio “Leggere Hugo Pratt. L’autore di Corto Maltese tra fumetto e letteratura” http://www.komix.it/modules.php?name=News&file=article&sid=5354 .
    Si tratta di un’agile monografia sul creatore del celebre Corto Maltese, il marinaio anarchico e libertario famoso in tutto il mondo e protagonista di una lunga saga a fumetti. Il libro nasce da una ricerca incentrata sulle ascendenze letterarie nei fumetti di Hugo Pratt, la trattazione ripercorre infatti l’intera produzione del maestro veneziano soffermandosi e approfondendo anche i romanzi in prosa che scrisse negli ultimi anni della sua carriera. Completano il libro dieci schede critiche sulle storie di Corto Maltese corredate da altrettante illustrazioni inedite.
    Buona lettura!
    Giovanni Marchese

  17. Grazie a tutti per i nuovi post, soprattutto quello di Giovanni Marchese su Hugo Pratt (che adoro).

    Raccogliendo la proposta di Massimo ho creato un account di posta

    quota150@bifolcus.net

    dove poter inviare i racconti per un concorso.

    Come regolamento direi di tenere quello di Massimo, che mi pare valido, ed eventualmente integrarlo di nuove proposte.

    Vi prego di inserire anche la mail a cui volete che vi mandi i racconti in modo da poter fare da giurati.
    A tale scopo creerò una mailing list e una specifica pagina sul mio sito dove votare i racconti in totale anonimato.

    fatevi avanti dunque.

    Giancarlo

  18. Saluto FG, Giulio Traversi e tutti gli amici di “E’ tempo di scrivere”. Voi state operando sul territorio catanese, e fate bene. Qui si sta tentando qualcosa “oltreconfine” (figuratevi che Giancarlo, l’animatore di questo spazio, vive a Londra). Perché non fate confluire, se vi va, qualcuno dei vostri racconti qui?

    Per Giancarlo… secondo me (e anche per non farti fare una faticaccia immane) conviene che prima raccogli tutti i 150 racconti (se il numero deciso è questo) poi converti tutti i racconti in formato pdf e mandi il file ai partecipanti… che potranno votare secondo le regole prefissate. Che ne dici? Sennò diventa un po’ troppo pesante per te.
    Ciao

  19. Vi propongo un’altra mia poesia…

    (L’idea di questa poesia mi venne guardando la TV in quei giorni convulsi della morte del Papa.Andò in onda lo spettacolo di un gruppo di clown in sala Nervi di fronte a Lui e la scena mi diede da pensare…)

    “Al cospetto di Papa Wojtyla”

    Per fortuna quel poco di trucco
    che richiede il mestiere
    a coprire la faccia
    ed un largo cappello
    a nascondere gli occhi.
    La sagoma bianca
    di quell’uomo seduto
    sul trono di Pietro
    si piegava dal ridere
    che mai fui tanto scosso
    dal veder felice qualcuno…
    E continuavo
    coi miei due compagni
    i soliti improvvisi di consumati pagliacci
    e l’animo, il cuore ( o cos’altro? )
    paralizzati,
    che la parola di un clown
    può renderne appena l’idea.
    L’uomo vestito di bianco
    si divertiva,
    quasi fosse uno dei mille bambini
    dei nostri tanti serragli.
    E andò avanti per dieci
    interminabili minuti,
    il vortice di strilli,smorfie,
    cadute, colori
    al cospetto dell’uomo ridente.
    Fortuna quel poco di trucco
    che richiede il mestiere
    e il cappello calato!
    Con gli occhi gonfi di lacrime
    per tutti quei dieci minuti,
    ho tradito per sempre il mio ruolo.
    L’uomo bianco rideva
    che sembrava un bambino,
    lui che non aveva bisogno di trucco,
    per emozionare un clown…

  20. posso estendere la tua iniziativa al circolo degli scrittori Iulio T. riveras che organizza È tempo di scrivere, io stesso potrò inviarti un mio racconto. Eppure sono più propenso ad un confronto “reale” e non virtuale. Mi spiego: la mia idea di far incontrare presso una biblioteca in un CERTAME LETETRARIO gli scrittori obbliga a un confronto diretto, senza intermediazioni virtuali, e a un dialogo di presenza sul significato della scrittura e del raccontare storie. capisco che la presenza “reale” non permette a chi vive a Londra di poter partecipare agli incontri. ma l’obiettivo è quello di creare una sinergia locale e visibile. Hic et nunc. Benché ci siano pervenuti racconti anche da roma e milano, tuttavia il confronto “fuori provincia” in un contesto “reale” e “visibile”, lo si potrà ottenere solo attraverso la pubblicazione dei migliori racconti che hanno partecipato a È tempo di scrivere oppure con una trasferta dell’iniziativa. Questo non lo vedo come un limite. Bensì una realtà.

  21. Ciao Francesco,

    parlo per me. Sono assolutamente convinto che un contatto reale faccia bene, ma bisogna anche capire che non tutti gli scrittori vivono nella stessa città. Mi stanno arrivando racconti da moltissime città d’Italia (milano, venezia, firenze, roma, etc etc) e credo diventi difficile metterli tutti dietro lo stesso tavolo. Io vivo a Londra, è vero, ma non avrei problemi nello spostarmi. Il problema è se tutti siano disposti a farlo (sia da un punto di vista economico che di tempo).

    Il fatto di chiudersi dietro quattro mura, sempre le stesse, e sempre con la stessa gente (gli scrittori non proliferano come le margherite a primavera) a me pare un limite evidente. Ma forse mi sbaglio.

    Saluti
    Giancarlo

  22. giancarlo, non frainterdermi. scambiarsi i racconti e leggerseli è bello, divertente e stimolante, quale che sia il modo, virtuale o reale.
    e anch’io parteciperò.
    per quanto riguarda È tempo di scrivere , e al tuo riferimento della “stessa gente” che si incontra, l’iniziativa si rivolge a tutta la gente che vive a catania, è aperta a tutti, e per tutti intendo anche chi non ho mai visto in volto e ne viene a conoscenza tramite altra vie. Se non si è scrittori, si può partecipare come lettori. Puoi partecipare anche tu!
    … solo che poi chi scrive, poi, si guarda in faccia! (possiamo allestire una webcam 🙂 stile Miss POESIA rai futura!)
    Presto ti invierò il mio, di racconto

    ps. per me scrittore è chi scrive, anche l’elenco della spesa. Scrive, punto.
    E sono tanti quante le margherite, buone margherite e margherite strimenzite.
    Poi, se mi chiedi, qual è il Mio scrittore preferito… Be’, incominciamo già ad entrare nel privato :-).

  23. Grazie per le precisazioni Francesco. Per quanto riguarda il vostro lavoro credo che un giorno ne approfitterò per fare un salto a Catania (è una vergogna che io non sia mai stato in sicilia!!!). Sempre che mi ci vogliate vi porto qualcosa di mio da leggere.

    Per quanto riguarda il PS abbiamo punti di vista differenti, ma il mondo è bello perché vario… 🙂

    Saluti
    Giancarlo

  24. Vorrei segnalare una nuova iniziativa.

    Si chiama I Tracciatori ed è sostanzialmente una home page che funge da portale per i siti degli autori che hanno pubblicato sì un libro, magari anche due o tre, ma che ancora non sono conosciuti.
    Con I Tracciatori basta un clic, e ci sono tutti gli autori che aderiscono, il loro ultimo libro e il banner del loro sito. In più c’è un forum, per discutere i problemi che si ritrovano per le mani, che vi assicuro – pubblicando con editori piccini – sono tanti e il più delle volte insormontabili (probabilmente con editori più grossi ci sono problemi diversi, scopriremo anche quelli un giorno).
    L’iniziativa non ha la bandiera di nessuna casa editrice, è aperta a tutti gli autori che vorranno aderire.
    Ci sono due banner ufficiali, e le tracce che abbiamo scelto per rappresentarci sono le Cuevas de Altamira e le linee di Nazca.

    http://digilander.libero.it/Tracciatori/banner2/003.jpg

    http://digilander.libero.it/Tracciatori/banner2/007.jpg

    L’indirizzo del sito Tracciatori:

    http://digilander.libero.it/Tracciatori/

  25. vi invio alcuni file di novità edite da una casa editrice piccola ma degna di nota.
    buon lavoro a tutti
    TITOLO: In the Court of KING CRIMSON – Vol. I 1967-72
    FILE UNDER: King Crimson
    AUTORE: Sid Smith
    PAGINE: 240
    FOTO: 69 in b/n
    FORMATO: 16 x 16 cm
    DATA DI PUBBLICAZIONE: 1 novembre 2006
    EDITORE: Sublime
    COLLANA: Legendiary
    CODICE A BARRE: ISBN 88-902083-2-5
    PREZZO DI COPERTINA: € 18,50

    In the Court of KING CRIMSON è la biografia ufficiale che riporta fedelmente la tortuosa vicenda di una delle band più importanti, longeve e amate dell’intera storia del rock.

    Nella sua minuziosa ricerca che vede parlare in prima persona tutti i musicisti che hanno contribuito a rendere leggendaria la sigla King Crimson, Sid Smith non solo riporta date e avvenimenti – dalla nascita del gruppo ai travolgenti concerti al Marquee, dalle esibizioni a Hyde Park di fronte a 650.000 persone ai disastrosi, sotto il profilo umano, tour americani – ma analizza con tanto fervore quanto appropriato spirito critico il processo di realizzazione di ogni singolo disco del gruppo.

    Partendo da ‘The Cheerful Insanity of Giles, Giles and Fripp’ per arrivare a ‘Earthbound’, cioè lo spartiacque dal secondo ideale segmento storico della vita dei Crimson, ogni album è scandagliato brano per brano, in un arrembante resoconto di particolari inediti, dettagli finora sconosciuti, dichiarazioni dei protagonisti rilasciate in esclusiva e commenti della stampa dell’epoca.

    Non c’è dubbio che Sid Smith, con l’‘alto ‘patrocinio’ di Robert Fripp, ha scritto il testo definitivo sui King Crimson. Un lavoro compilato con cura certosina, coinvolgente e appassionante nella lettura, completo di dettagliata discografia e ‘concertografia’, arricchito di 69 foto provenienti dalle raccolte personali dello stesso Fripp, di Ian McDonald, dei fratelli Giles e di molti altri che hanno lasciato un segno indelebile nella tormentata vicenda del gruppo più importante del Progressive Rock.

    In the Court of KING CRIMSON, Volume I: 1967-1972, è il primo di una serie di tre volumi che completeranno la storia della band inglese.

    http://www.sublime-label.com/
    COLLANA: One Record One Book
    TITOLO DEL VOLUME: The Piper At The Gates Of Dawn
    FILE UNDER: Pink Floyd
    AUTORE: John Cavanagh
    PAGINE: 128
    FORMATO: 12,5 x 16 cm
    DATA DI PUBBLICAZIONE: Settembre 2005
    EDITORE: Sublime
    CODICE A BARRE: ISBN 88-902083-0-9
    PREZZO DI COPERTINA: € 9,95

    PINK FLOYD’s The Piper At The Gates Of Dawn

    Il primo titolo della collana racconta la storia del disco più importante dei Pink Floyd, quel “The Piper At The Gates Of Dawn” che diede la spinta iniziale, in realtà la più vigorosa e geniale, alla lunga corsa della band inglese.

    Ecco cosa dice del libro Rolling Stone, la bibbia americana del rock:
    “John Cavanagh mette insieme interviste con personaggi che facevano parte dell’entourage della band alla prima ora e fatti concreti che riguardano le registrazioni, così da cogliere vividamente il primo e ultimo rigogliare del genio psichedelico di Syd Barrett per quanto riguarda il debutto dei Floyd nel ’67”. – (4 stelle)

    Il libro si avvale della traduzione e delle note di Luca Ferrari, probabilmente il massimo esperto italiano in fatto di Pink Floyd.

    * * * * * * * * * *

    One Record One Book è una collana economica di tascabili che si basa sulla serie che in USA e UK -con il nome di “33 1/3” e oltre 100.000 copie vendute- sta ottenendo grande favore di critica e di pubblico.
    Si tratta di una lista di agili titoli che hanno per soggetto alcuni dischi degli ultimi 40 anni acclamati dalla critica ma anche estremamente amati dai fan.
    Ossessivi nella ricerca, appassionati e creativi nello stile, dettagliati nelle informazioni che forniscono, questi libri dimostrano quanto differenti possano essere i modi di scrivere sulla musica.
    Ciò che accomuna la collana, e che rende vivo ogni volume, è che tutti gli autori -musicisti, studiosi, giornalisti radiotelevisi, scrittori- sono grandi estimatori dei dischi che hanno scelto di raccontare.

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    COLLANA: One Record One Book
    TITOLO DEL VOLUME: Let It Be
    FILE UNDER: Beatles
    AUTORE: Steve Matteo
    PAGINE: 128
    FORMATO: 12,5 x 16 cm
    DATA DI PUBBLICAZIONE: Febbraio 2006
    EDITORE: Sublime
    CODICE A BARRE: ISBN 88-902083-1-7
    PREZZO DI COPERTINA: € 7,90

    “Per i Beatles le sedute di registrazione di Let It Be dovevano essere prove per un progettato ritorno in scena da inaugurarsi con un concerto in un anfiteatro romano della Tunisia. In questo libro ben documentato, Steve Matteo scava in profondità nella storia complessa di queste session. L’autore intervista molte delle persone coinvolte in studio coi Beatles, riportando alla luce un periodo nella carriera del gruppo che fu tanto creativo quanto caotico”.

    Steve Matteo è autore della biografia Dylan. Scrive di musica su numerose testate tra cui New York Times, Rolling Stone, Blender e Spin.

    Cosa ne dice la critica:
    “Matteo ci porta all’interno del processo di creazione dell’album, ricostruendo pienamente il minuzioso negoziare e i compromessi forzati che caratterizzarono l’ultimo tentativo dei Beatles alla piena collaborazione… seppur compatto, il libro è un esauriente resoconto dell’album che vale la pena”.
    – Mike Tribby, Booklist, 15 settembre 2004

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    One Record One Book è una collana economica di tascabili che si basa sulla serie che in USA e UK -con il nome di “33 1/3” e oltre 50.000 copie vendute- sta ottenendo grande favore di critica e di pubblico.
    Si tratta di una lista di agili titoli che hanno per soggetto alcuni dischi degli ultimi 40 anni acclamati dalla critica ma anche estremamente amati dai fan.
    Ossessivi nella ricerca, appassionati e creativi nello stile, dettagliati nelle informazioni che forniscono, questi libri dimostrano quanto differenti possano essere i modi di scrivere sulla musica.
    Ciò che accomuna la collana, e che rende vivo ogni volume, è che tutti gli autori -musicisti, studiosi, giornalisti radiotelevisi, scrittori- sono grandi estimatori dei dischi che hanno scelto di raccontare.

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  26. MASSIMO MAUGERI (PER J. TERMINI)

    “LA GIUSTA VIA”

    Ho ricevuto una e-mail davvero particolare dagli Stati Uniti d’America.
    L’autore è un neo-scrittore italiano residente negli States.
    Vi riporto il testo della mail che contiene anche informazioni sul suo libro. Leggetela: è davvero interessante.

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    Caro Massimo Maugeri ,
    avere saputo che anche tu ….. sei siciliano mi ha fatto davvero cosa gradita. Non gia’ per
    quello spirito di “campanilismo ” tirato di sovente in ballo , quanto per l’innata capacita’ che abbiamo di sapere comunicare e , cosa che di piu’ conta, per il raro dono che possediamo che e’ quello di leggere tra le righe.
    Sarei veramente lietissimo di introdurre “La giusta Via ” e promuoverla ,come frutto del mio diletto, tra le pagine del tuo blog .
    Come stai, caro paesano ? Qui’ di seguito ti diro’ chi sono e per non scrivere
    altro romanzo , cerchero’ d’essere breve. Sono nato a Cassino … nel lontano 1937 da padre Siciliano e da madre Napoletana e i miei primi 24 anni li ho trascorsi a Palermo. Dopo gli studi di agraria mi accorsi che quella non sarebbe stata …”La giusta Via”che avrei voluto percorrere .Rifiutai ogni aiuto finanziario e con i panni del “girovago
    e del barbone” ho girato l’Italia in largo e in lungo e cosi’ anche parte dell’Africa , ponendo fine alle mie scorrerie quando la necessita’ di denaro si faceva impellente. In che modo me lo procuravo? Come sguattero, come benzinaio, come operaio comune sotto 40 gradi di quel nostro sole che, a Catania, mi vide e per mesi tra i campi infuocati durante
    la raccolta delle barbabietole e vincendo qua’ e la’ qualche concorso presso alcuni ministeri e lavorando a Roma , Palermo, Parma e Perugia. In Africa, invece, dove mi trattenni circa un anno a Sidi-Bou Sidi , Hammamet e Tunisi, dando sfogo alla voce di un tempo cantando in diversi locali notturni.L’ultima tappa fu Roma dove ottenni facilmente
    e per la regione Lazio, una rappresentanza “Americana ” di recorders mixer,microphoni e speakers che vendevo agli studi di incisione . Lo scatolo di scarpe ormai consunto e bisunto che era stato il mio compagno di viaggi e di esperienze , quando decisi di porre fine alla vita errante ,lo ritrovai colmo di tanti pezzetti di carta d’ogni colore con migliaia di appunti nati durante il mio vagare. Fu ed e’ da quegli appunti che hanno avuto vita tutte le mie “novelline” i miei pensieri , i miei saggi,le mie frasi senza fine e l’ultimo romanzo gia’ edito e pubblicato. E’ noto che le vicissitudini ti portano dove non sogni minimamente di recarti ma il fato cosi’ decise e alle soglie dei 42 anni …..mi trovai in America.In Florida , poi in Nord Carolina .Adesso sono qui’ ,in un piccolo paese al sud dell’Alabama sposato senza eredi ma…..in compagnia di una gattina che e’ un amore che non disdegna di seguire il movimento delle mie dita quando, ascoltando “la mia musica ” mimo quelle di un pianista o la bacchetta di un direttore famoso.

    Il mio romanzo,”La giusta Via” ha visto la luce ( lucignolo? ) il 27 settembre 2006 edito dalla “Pascal Editrice di Siena” . Alla stessa data e’ stato presentato alla stampa , agli amici , ad un certo numero di invitati presso l’Hotel Borromini a Roma. Alla cerimonia, presente l’editore e la poetessa e critica letteraria Gabriella Gianfelici, e’ intervenuta una troupe inviata da TV/3 che il giorno seguente ha mandato in onda parte della trasmissione.
    Cio’ avvenuto sono ritornato in America .
    Notizie ricevute affermano che il libro , ad oggi, si trova a Roma presso la
    “Manzoni “, a Palermo da “Flaccovio”, intanto che si procede alla ordinaria distribuzione presso altre librerie in altre citta’. Chissa ‘ come andra’? Uno dei personaggi del mio romanzo Bartolomeo Fiorani,che ricopre la carica di ambasciatore presso gli Usa e che ( …e te pareva ?!) e’ “amico degli amici” , a Joe Bonelli, altro principale personaggio esprime il proprio sentire. “……….Il grande vecchio mostro’ di possedere il piglio severo e l’indomabile volonta’ di un tempo. La cena di benvenuto che offri’ al Bonelli sulla veranda della sua villa sotto una frondosa pergola, fu ricca e
    deliziosa : ” Vedo con piacere che non siete cambiato”, gli disse il Bonelli sorridendo.”Certo che lo sono !” protesto’
    il Fiorani ,sfiorando la candida chioma leonina che ,adesso ,gli arrivava fin sulle spalle.”Queste chiome che furono come l’ebano e di cui andai fiero, sono diventate bianche.Ma, per consolarmi, preferisco affermare che sono segno di saggezza e non di evidente decrepitezza.” Caro Massimo,le mie chiome non sono leonine ma mi trovo d’accordo con Fiorani.
    Sono alle soglie dei 70 anni e …. le vanita’, effimere, le ho messe da parte. Il successo se viene sara’ bene accolto , ma se non arrivasse, non sarebbe un problema. Mi ci sono voluti quasi otto anni per scrivere “La giusta Via ” ( che alla fine del romanzo riesco a fare comprendere che era ….quella sbagliata) e ho provato grande diletto e non e’ stata una fatica .
    Ho pianto e mi sono anche sberlicato dalle risate assieme ai miei personaggi e li ho odiati e amati .So bene che comprendi cio’ che affermo.
    Sul sito “Pascaleditrice “, alla voce “Bookmark 365 ” è possibile trovare notizie sul libro.

    J. Termini

  27. Forse non ci azzecca nulla con questo spazio, ma ho partorito sta cosa e ve la propongo…Avverto che solo decise stroncatura potranno rendermi sterile (per la pace di tutti) e…finalmente felice perché sicuro di non essere poeta. GRAZIE fin da ora.

    Ecco l’aborto…ehm…il frutto del parto.
    @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@

    Così è pertanto? Così a lungo fui immerso nel mortale morbo?
    Che stanotte entro nel tuo cielo immenso
    E v’incontro nuvole, nuvole, ancora nuvole…
    E quella stessa bellezza di se stessa a tal punto ignara
    Da contristare ogni cuore.

    Poiché parliamo di temuti distacchi
    E talvolta, io, del morire, mi sta bene.
    Cos’ha la tua dolcezza languida d’amore
    da sperare, prendere da chi trascina con sé il proprio egoico nulla?

    Tu sorgi Stella Oriens, ogni giorno, e vedi e vegli tutte le notti senza segreti
    Tua la luce candida traspare sotto la veste di seta e raso di Damasco.
    Io non dirò che sono “il buio oltre la siepe”
    Contento di lasciarmi trafiggere da un tuo solo raggio
    Uno solo e non altro.

  28. Come si guarda un orologio,
    che non cammina più
    Pensare che il tempo
    e l’ora ancora vanno avanti.

    Si guarda e si ama anche quel volto, di quella che era una donna bella,
    ora non solo è stanca per
    gli anni che passano, ma
    guarda per abitudine
    l’orologio a pendolo,
    che è fermo,
    sempre, a quella stessa ora,
    e si chiede: ma se mi fermo
    adesso, farò compagnia al
    pendolo di casa mia.

  29. L’UOMO DELLA BIBLIOTECA

    Michele guarda l’orologio come fa ogni giorno, con un misto di tristezza ed inquietudine dipinte nel volto. E’ quasi l’ora purtroppo, e lui dovrà come sempre andare. E’ quasi l’ora di chiusura e lui non ha ancora scelto il suo libro, pur essendo lì da molte ore. Ma è fondamentale che ne scelga almeno uno, giusto per poter passare la notte con qualcosa in mano e non con gli occhi rivolti al soffitto e le mani intorpidite sotto la nuca pelata e formicolante. Oggi poi, è più che mai necessario prendere una qualche opera, considerato che ha una gran brutta giornata e dei pensieri neri come la pece che gli vorticano in testa senza alcuna posa. Lui è lì come ogni giorno, dall’ora di apertura, ogni santo giorno com’è sua abitudine oramai da anni e anni. E’ l’unica cosa che fa e che sa fare bene, ma non ricorda più nemmeno lui da quando. “Il povero Michele”, come si apostrofa lui stesso, lo fa e basta, una sorta di rito che è anche vita. Si alza al mattino, più verso le undici o mezzogiorno che verso le sette o le otto, ma non per pigrizia: Michele soffre d’insonnia e non c’è cura al mondo che lo abbia potuto aiutare e guarire da quella patologia. “E per fortuna che non lavoro, pensa che guai sarebbero”, ripete lui stesso, sempre più spesso, all’L.S.U. che lavora lì e del quale è diventato amico. Michele i soldi per le medicine non li ha, come del resto non ha i soldi per molte altre cose necessarie al vivere che un tempo, fintanto che aveva sua mamma, poteva permettersi. Ma la mamma, come il babbo o qualsiasi altro parente non ci sono più. Lui al mattino si alza e fa subito una leggera colazione a base di tè o, a volte, di caffè e latte quando ha gli ingredienti per potersela preparare, con qualche biscotto o con del pane secco con sopra un filo leggerissimo di miele. Ne ha un barattolino da chissà quanto tempo, tutto rinsecchito all’interno, ma quello c’è e va benissimo! Veramente il suo sogno sarebbe quello di fare una buona colazione all’inglese, ma chiaramente non si può, non si può proprio fare. Per perdere un po’ di tempo, prima dell’orario di apertura che è nel primo pomeriggio, lui rassetta la casa, quel po’ che c’è da fare, e poi si ritira nel suo minuscolo bagno. Lì si lava per bene, si rade con una vecchia lametta cercando di non tagliarsi i bubboni che quasi sempre, per una malattia psico somatica, gli deturpano il viso, si lava anche i denti, quelli che ancora resistono, anche se spesso il dentifricio non ce l’ha e sopperisce alla sua mancanza usando delle foglie di salvia che cresce bene e spontanea nel giardino condominiale, o utilizzando delle bucce di limone: lo stesso che gli è servito per il suo tè. La sua casa mignon non è proprio sua, ma in essa ci è entrato da qualche anno grazie all’assistente sociale del Comune: il Comune di cui lui è un “caso”. Ebbene si: Michele è un “caso” del Comune. E’ un caso e, come tale, ha un’unica occupazione: estate o inverno che sia, caldo o freddo che faccia, buio o chiaro all’esterno, lui è un frequentatore. E’ il più assiduo, tenace, onesto e affezionato frequentatore della Biblioteca comunale del paese. La sente un po’ casa sua quella piccola biblioteca e lì, emergendo un po’ alla volta, giorno per giorno, mese dopo mese, anno su anno, ha assunto un ruolo ed è pure riuscito a crearsi delle amicizie e dei confidenti: compreso il direttore. E’ ben vero che quest’ultimo, per la verità, a volte è un po’ burbero con lui e si intuisce che non gli va proprio di averlo intorno, o di vederlo salire sugli scaffali, o scorgerlo nel pulire il tavolo dalla polvere, o sentirlo perdersi in chiacchiere, o intuire che dà consulenze al suo posto, dato che lui, Michele, è in grado di trovare qualsiasi volume senza bisogno di consultarne la collocazione sul monitor. Michele ha una memoria visiva sterminata e la usa spesso, anche quando non è richiesta dagli altri. Ma è il suo modo di fare e, in fondo, è il suo lavoro anche se non retribuito, per cui è bene e necessario chiudere un occhio, e il direttore li chiude spesso, e forse sorride perfino. Il direttore, comunque, a ben dire, gli è anche affezionato a modo suo tanto che l’ultimo Natale gli ha anche portato il panettone e una bottiglia di vino, sapendo che a lui, come a tanti altri, il Comune non avrebbe dato nulla. “Tagli alle spese pubbliche inutili”, hanno deciso nell’ultimo Consiglio comunale e dunque anche agli indigenti che d’ora in poi resteranno senza panettone a Natale e senza colomba a Pasqua. Michele non dà confidenza a nessuno, ma si affeziona sempre a qualcuno, soprattutto ai ragazzini spaesati e ai lavoratori socialmente utili che lavorano lì: gli ormai noti L.S.U., tutti coloro cioè che hanno perso il lavoro anzitempo. Costoro vengono impiegati dai vari Enti, come lui ben sa dato che si è informato, i vari Enti presso cui vengono impiegati fino a che non ne trovano uno nuovo, di lavoro. I più fortunati arrivano, nel frattempo, qualche volta, anche all’agognata pensione. Sarà per questo che lui li adora tutti quei lavoratori particolari, perché in fondo in fondo sono un pochino come lui: persone al limite e senza un futuro certo. E’ anche molto amico, si fa per dire, di una signora che incontra spesso con la sua vecchia cagna, la signora che un tempo faceva le pulizie nella biblioteca e che è stata dimenticata da tutti dacché è andata in pensione dopo trent’anni di attività. Lei gli ricorda sempre, quando si incontrano nei giardinetti comunali, “di quanto era meglio tutto un tempo, quando non c’era nulla, quando si era poveri davvero”. Chissà cosa intende, pensa Michele: peggio di così! E’ tanto gentile, comunque, e a volte gli fa anche una piccola spesa che lui non può non accettare, giusto per non ferirla, dato che sa che quella donna ha bisogno di sentirsi utile perché è sola, forse! Michele è una persona estremamente intelligente, un uomo dotato di una cultura sopraffina e profonda indotta da tanti e tanti anni di lettura. Ma, a un certo punto del suo percorso di vita, circa vent’anni fa quando ne aveva poco più di trenta, lui si è scocciato di prendere ordini e si è licenziato in tronco, senza un ah né bah. Un giorno che si era svegliato particolarmente male, peggio del solito, e non aveva per niente voglia di imparare ad usare il Computer nuovo appena arrivato in ufficio, ha mandato a fare in culo il suo datore di lavoro che lo aveva apostrofato malamente e, da ragioniere provetto qual era, si era ritrovato nulla facente. E in quella dimensione nuova ha continuato il suo percorso, non tanto perché fosse un uomo pigro ed indolente, quanto per una sorta di stanchezza interiore che lo aveva catturato un po’ alla volta fino ad annientarlo e a renderlo schiavo di cattive abitudini, dalle quali non è più riuscito a scollarsi. Fintanto che i genitori ci sono stati lui, senza troppa vergogna, come se fosse una cosa dovuta, ha vissuto con loro e a loro spese ma poi, mancati entrambi, si è trovato solo e senza la loro pensione, non avendo più diritto a nulla di nulla. Così è la vita, no? Ma ecco che il direttore si alza, sta spegnendo il PC ma come sempre, conoscendo bene le abitudini dei tira tardi, chiede se qualcuno deve prendere ancora qualcosa o ha bisogno di qualche consulenza. Michele questa volta è agitato e suda. Vuole il suo libro, ma non sa cosa scegliere tra le decine e decine di novità letterarie appena arrivate e catalogate. E’ come se il luogo che lui tanto ama fosse diventato improvvisamente incandescente. Si mette il suo giubbotto e saluta senza prendere nulla, caracollando sconsolato fino all’uscita, tanto mogio e con la testa talmente bassa da sembrare un condannato a morte. Ma è fatto così: nell’indecisione, che poi ha caratterizzato tutta la sua vita, preferisce la non scelta, probabilmente per timore di fare una cosa affrettata o sbagliata. Dante lo avrebbe di sicuro collocato tra gli ignavi, penserà qualcuno, ma si sbaglia: Michele non avrebbe mai potuto essere diverso da com’è, mai e poi mai e Dante stesso avrebbe capito che la sua non scelta è stata bensì una scelta vera e propria, quella di continuare a vivere al limite delle proprie possibilità perché è giusto così. Michele ha fame e cosa fa? Va da una vicina a chiedere della pasta in prestito o al più esce anche col buio, e cerca le erbe spontanee che crescono in campagna e che lui riconosce al tatto, anche al buio. Con queste si prepara una buona zuppa, sana e al limite della vivibilità, visto che nutre ben poco. Michele ha bisogno di medicine? Se le fa prestare dal vicino anche se non sono quelle che il medico gli ha prescritto. Al più ne fa a meno, sperando che il male passi. Al limite del dolore, al limite di tutto, sempre e comunque. Michele sente nostalgia di una vera casa? Esce e cammina rasentando le casette del paese, in cerca di odori. Spesso si reca in città e lì, nei vecchi vicoli, cerca i ricordi della sua famiglia: l’odore del minestrone, come glielo faceva sua nonna, l’aroma delle melanzane alla parmigiana o del pollo al forno, come quello che mangiava con i suoi la domenica a mezzogiorno, l’aroma meraviglioso della crema fritta o del caffè che lo fanno piangere, ma sentire vivo e in compagnia dei suoi cari fantasmi che prendono forma e lo accompagnano poi fino a casa, dove dormirà solo. Michele vuole un libro, ma non sa scegliere in fretta? Ebbene, lui sceglie piuttosto di stare senza libro: non prenderebbe mai, né mai leggerebbe un libro scadente, e quindi o lascia là, per qualcun altro. Ma stasera come farà? Stasera che ha tanti brutti pensieri per la testa e non c’è neppure nulla da mettere sotto i denti? Stasera che avrebbe una voglia pazza di andare al pub a bersi una birra, ma non ha neppure un amico con cui farlo, e farlo da solo non può perché sta finendo il sussidio mensile di 200,00 Euro: e siamo appena il 22 di febbraio. Il sussidio lo danno sempre più in ritardo e a volte salta pure quel maledetto. Che brutti pensieri e che mal di testa. Scoppia, tanto che deve fermarsi sulle scale e fare in modo, senza volerlo, che il direttore della biblioteca e il suo L.S.U. lo trovino lì abbassato, con la scusa pronta che gli si era slacciata una scarpa. E così escono assieme, facendo ancora due o tre chiacchiere, fino a che le loro tre strade, davanti al Municipio, come tutte le sere, si dividono. Ma stasera no, stasera lui sperava che uno dei due gli chiedesse di cenare assieme, e non per fame di cibo, o che al più gli proponesse di andare a bere una birra fresca dopo cena, la cena che lui non farà visto e considerato che il mal di testa è talmente acceso da non permettergli di sicuro di andare a raccogliere erbe e frutti selvatici da qualche parte. Finalmente è a casa. Ecco, Michele prende subito le gocce che gli ha dato la vicina del secondo piano. Le assume, parecchie, ma non sanno di nulla e allora ne prende ancora, e ancora dopo una mezz’ora, e ancora dopo un’altra ora fino a che le finisce tutte e non capisce come mai le ha sorbite assieme all’unica bottiglia di grappa che tiene in casa da anni e che non ha mai aperto perché non gli piace poi molto. Nonostante lo sfratto esecutivo dell’ATER, appoggiato bene in vista sulla credenza in formica gialla, lui ora si sente stranamente tranquillo, calmo, e quando finalmente precipita come da una montagna alta mille metri sul letto ben fatto e pulito, un ultimo pensiero gli attraversa la testa:
    “ora riposo bene, così domani saprò scegliere per tempo il mio libro…..”

    “MI STA PASSANDO…e magari, dato che ci sono, senza farmi troppo vedere, che so che do fastidio, posso magari dare anche una spolveratina allo scaffale delle novità letterarie…”

    STO BENE, ORA!…………………..domani devo ricordarmi lo straccio…ma senza farmi vedere per carità…..

    Si, domani……non vedo l’ora…che sia…domani…domani………”

  30. L’UOMO DELLA BIBLIOTECA

    Michele guarda l’orologio come fa ogni giorno, con un misto di tristezza ed inquietudine dipinte nel volto. E’ quasi l’ora purtroppo, e lui dovrà come sempre andare. E’ quasi l’ora di chiusura e lui non ha ancora scelto il suo libro, pur essendo lì da molte ore. Ma è fondamentale che ne scelga almeno uno, giusto per poter passare la notte con qualcosa in mano e non con gli occhi rivolti al soffitto e le mani intorpidite sotto la nuca pelata e formicolante. Oggi poi, è più che mai necessario prendere una qualche opera, considerato che ha una gran brutta giornata e dei pensieri neri come la pece che gli vorticano in testa senza alcuna posa. Lui è lì come ogni giorno, dall’ora di apertura, ogni santo giorno com’è sua abitudine oramai da anni e anni. E’ l’unica cosa che fa e che sa fare bene, ma non ricorda più nemmeno lui da quando. “Il povero Michele”, come si apostrofa lui stesso, lo fa e basta, una sorta di rito che è anche vita. Si alza al mattino, più verso le undici o mezzogiorno che verso le sette o le otto, ma non per pigrizia: Michele soffre d’insonnia e non c’è cura al mondo che lo abbia potuto aiutare e guarire da quella patologia. “E per fortuna che non lavoro, pensa che guai sarebbero”, ripete lui stesso, sempre più spesso, all’L.S.U. che lavora lì e del quale è diventato amico. Michele i soldi per le medicine non li ha, come del resto non ha i soldi per molte altre cose necessarie al vivere che un tempo, fintanto che aveva sua mamma, poteva permettersi. Ma la mamma, come il babbo o qualsiasi altro parente non ci sono più. Lui al mattino si alza e fa subito una leggera colazione a base di tè o, a volte, di caffè e latte quando ha gli ingredienti per potersela preparare, con qualche biscotto o con del pane secco con sopra un filo leggerissimo di miele. Ne ha un barattolino da chissà quanto tempo, tutto rinsecchito all’interno, ma quello c’è e va benissimo! Veramente il suo sogno sarebbe quello di fare una buona colazione all’inglese, ma chiaramente non si può, non si può proprio fare. Per perdere un po’ di tempo, prima dell’orario di apertura che è nel primo pomeriggio, lui rassetta la casa, quel po’ che c’è da fare, e poi si ritira nel suo minuscolo bagno. Lì si lava per bene, si rade con una vecchia lametta cercando di non tagliarsi i bubboni che quasi sempre, per una malattia psico somatica, gli deturpano il viso, si lava anche i denti, quelli che ancora resistono, anche se spesso il dentifricio non ce l’ha e sopperisce alla sua mancanza usando delle foglie di salvia che cresce bene e spontanea nel giardino condominiale, o utilizzando delle bucce di limone: lo stesso che gli è servito per il suo tè. La sua casa mignon non è proprio sua, ma in essa ci è entrato da qualche anno grazie all’assistente sociale del Comune: il Comune di cui lui è un “caso”. Ebbene si: Michele è un “caso” del Comune. E’ un caso e, come tale, ha un’unica occupazione: estate o inverno che sia, caldo o freddo che faccia, buio o chiaro all’esterno, lui è un frequentatore. E’ il più assiduo, tenace, onesto e affezionato frequentatore della Biblioteca comunale del paese. La sente un po’ casa sua quella piccola biblioteca e lì, emergendo un po’ alla volta, giorno per giorno, mese dopo mese, anno su anno, ha assunto un ruolo ed è pure riuscito a crearsi delle amicizie e dei confidenti: compreso il direttore. E’ ben vero che quest’ultimo, per la verità, a volte è un po’ burbero con lui e si intuisce che non gli va proprio di averlo intorno, o di vederlo salire sugli scaffali, o scorgerlo nel pulire il tavolo dalla polvere, o sentirlo perdersi in chiacchiere, o intuire che dà consulenze al suo posto, dato che lui, Michele, è in grado di trovare qualsiasi volume senza bisogno di consultarne la collocazione sul monitor. Michele ha una memoria visiva sterminata e la usa spesso, anche quando non è richiesta dagli altri. Ma è il suo modo di fare e, in fondo, è il suo lavoro anche se non retribuito, per cui è bene e necessario chiudere un occhio, e il direttore li chiude spesso, e forse sorride perfino. Il direttore, comunque, a ben dire, gli è anche affezionato a modo suo tanto che l’ultimo Natale gli ha anche portato il panettone e una bottiglia di vino, sapendo che a lui, come a tanti altri, il Comune non avrebbe dato nulla. “Tagli alle spese pubbliche inutili”, hanno deciso nell’ultimo Consiglio comunale e dunque anche agli indigenti che d’ora in poi resteranno senza panettone a Natale e senza colomba a Pasqua. Michele non dà confidenza a nessuno, ma si affeziona sempre a qualcuno, soprattutto ai ragazzini spaesati e ai lavoratori socialmente utili che lavorano lì: gli ormai noti L.S.U., tutti coloro cioè che hanno perso il lavoro anzitempo. Costoro vengono impiegati dai vari Enti, come lui ben sa dato che si è informato, i vari Enti presso cui vengono impiegati fino a che non ne trovano uno nuovo, di lavoro. I più fortunati arrivano, nel frattempo, qualche volta, anche all’agognata pensione. Sarà per questo che lui li adora tutti quei lavoratori particolari, perché in fondo in fondo sono un pochino come lui: persone al limite e senza un futuro certo. E’ anche molto amico, si fa per dire, di una signora che incontra spesso con la sua vecchia cagna, la signora che un tempo faceva le pulizie nella biblioteca e che è stata dimenticata da tutti dacché è andata in pensione dopo trent’anni di attività. Lei gli ricorda sempre, quando si incontrano nei giardinetti comunali, “di quanto era meglio tutto un tempo, quando non c’era nulla, quando si era poveri davvero”. Chissà cosa intende, pensa Michele: peggio di così! E’ tanto gentile, comunque, e a volte gli fa anche una piccola spesa che lui non può non accettare, giusto per non ferirla, dato che sa che quella donna ha bisogno di sentirsi utile perché è sola, forse! Michele è una persona estremamente intelligente, un uomo dotato di una cultura sopraffina e profonda indotta da tanti e tanti anni di lettura. Ma, a un certo punto del suo percorso di vita, circa vent’anni fa quando ne aveva poco più di trenta, lui si è scocciato di prendere ordini e si è licenziato in tronco, senza un ah né bah. Un giorno che si era svegliato particolarmente male, peggio del solito, e non aveva per niente voglia di imparare ad usare il Computer nuovo appena arrivato in ufficio, ha mandato a fare in culo il suo datore di lavoro che lo aveva apostrofato malamente e, da ragioniere provetto qual era, si era ritrovato nulla facente. E in quella dimensione nuova ha continuato il suo percorso, non tanto perché fosse un uomo pigro ed indolente, quanto per una sorta di stanchezza interiore che lo aveva catturato un po’ alla volta fino ad annientarlo e a renderlo schiavo di cattive abitudini, dalle quali non è più riuscito a scollarsi. Fintanto che i genitori ci sono stati lui, senza troppa vergogna, come se fosse una cosa dovuta, ha vissuto con loro e a loro spese ma poi, mancati entrambi, si è trovato solo e senza la loro pensione, non avendo più diritto a nulla di nulla. Così è la vita, no? Ma ecco che il direttore si alza, sta spegnendo il PC ma come sempre, conoscendo bene le abitudini dei tira tardi, chiede se qualcuno deve prendere ancora qualcosa o ha bisogno di qualche consulenza. Michele questa volta è agitato e suda. Vuole il suo libro, ma non sa cosa scegliere tra le decine e decine di novità letterarie appena arrivate e catalogate. E’ come se il luogo che lui tanto ama fosse diventato improvvisamente incandescente. Si mette il suo giubbotto e saluta senza prendere nulla, caracollando sconsolato fino all’uscita, tanto mogio e con la testa talmente bassa da sembrare un condannato a morte. Ma è fatto così: nell’indecisione, che poi ha caratterizzato tutta la sua vita, preferisce la non scelta, probabilmente per timore di fare una cosa affrettata o sbagliata. Dante lo avrebbe di sicuro collocato tra gli ignavi, penserà qualcuno, ma si sbaglia: Michele non avrebbe mai potuto essere diverso da com’è, mai e poi mai e Dante stesso avrebbe capito che la sua non scelta è stata bensì una scelta vera e propria, quella di continuare a vivere al limite delle proprie possibilità perché è giusto così. Michele ha fame e cosa fa? Va da una vicina a chiedere della pasta in prestito o al più esce anche col buio, e cerca le erbe spontanee che crescono in campagna e che lui riconosce al tatto, anche al buio. Con queste si prepara una buona zuppa, sana e al limite della vivibilità, visto che nutre ben poco. Michele ha bisogno di medicine? Se le fa prestare dal vicino anche se non sono quelle che il medico gli ha prescritto. Al più ne fa a meno, sperando che il male passi. Al limite del dolore, al limite di tutto, sempre e comunque. Michele sente nostalgia di una vera casa? Esce e cammina rasentando le casette del paese, in cerca di odori. Spesso si reca in città e lì, nei vecchi vicoli, cerca i ricordi della sua famiglia: l’odore del minestrone, come glielo faceva sua nonna, l’aroma delle melanzane alla parmigiana o del pollo al forno, come quello che mangiava con i suoi la domenica a mezzogiorno, l’aroma meraviglioso della crema fritta o del caffè che lo fanno piangere, ma sentire vivo e in compagnia dei suoi cari fantasmi che prendono forma e lo accompagnano poi fino a casa, dove dormirà solo. Michele vuole un libro, ma non sa scegliere in fretta? Ebbene, lui sceglie piuttosto di stare senza libro: non prenderebbe mai, né mai leggerebbe un libro scadente, e quindi o lascia là, per qualcun altro. Ma stasera come farà? Stasera che ha tanti brutti pensieri per la testa e non c’è neppure nulla da mettere sotto i denti? Stasera che avrebbe una voglia pazza di andare al pub a bersi una birra, ma non ha neppure un amico con cui farlo, e farlo da solo non può perché sta finendo il sussidio mensile di 200,00 Euro: e siamo appena il 22 di febbraio. Il sussidio lo danno sempre più in ritardo e a volte salta pure quel maledetto. Che brutti pensieri e che mal di testa. Scoppia, tanto che deve fermarsi sulle scale e fare in modo, senza volerlo, che il direttore della biblioteca e il suo L.S.U. lo trovino lì abbassato, con la scusa pronta che gli si era slacciata una scarpa. E così escono assieme, facendo ancora due o tre chiacchiere, fino a che le loro tre strade, davanti al Municipio, come tutte le sere, si dividono. Ma stasera no, stasera lui sperava che uno dei due gli chiedesse di cenare assieme, e non per fame di cibo, o che al più gli proponesse di andare a bere una birra fresca dopo cena, la cena che lui non farà visto e considerato che il mal di testa è talmente acceso da non permettergli di sicuro di andare a raccogliere erbe e frutti selvatici da qualche parte. Finalmente è a casa. Ecco, Michele prende subito le gocce che gli ha dato la vicina del secondo piano. Le assume, parecchie, ma non sanno di nulla e allora ne prende ancora, e ancora dopo una mezz’ora, e ancora dopo un’altra ora fino a che le finisce tutte e non capisce come mai le ha sorbite assieme all’unica bottiglia di grappa che tiene in casa da anni e che non ha mai aperto perché non gli piace poi molto. Nonostante lo sfratto esecutivo dell’ATER, appoggiato bene in vista sulla credenza in formica gialla, lui ora si sente stranamente tranquillo, calmo, e quando finalmente precipita come da una montagna alta mille metri sul letto ben fatto e pulito, un ultimo pensiero gli attraversa la testa:
    “ora riposo bene, così domani saprò scegliere per tempo il mio libro…..”

    “MI STA PASSANDO…e magari, dato che ci sono, senza farmi troppo vedere, che so che do fastidio, posso magari dare anche una spolveratina allo scaffale delle novità letterarie…”

    STO BENE, ORA!…………………..domani devo ricordarmi lo straccio…ma senza farmi vedere per carità…..

    Si, domani……non vedo l’ora…che sia…domani…domani………”

  31. All’UOMO DELLA BIBLIOTECA: è un racconto molto bello, bello il soggetto e la caratterizzazione del personaggio. Ne hai scritti degli altri?
    Ciao, Miriam Ravasio

  32. che bella idea, partecipo volentieri segnalando il mio primo romanzo, Eraclito e il muro, ed. GBM. Una storia tutta sicula, nel bello e nel brutto. Troverete i commenti e le recensioni sul mio blog e anche su ibs. Il libro è in catalogo nelle Feltrinelli e ordinabile ovunque. Se volete leggere anche qualcosa di mio vi invito a sfogliare la categoria Parole in regalo, nel mio blog http://www.cochina63.splinder.com

  33. Mi piace molto il racconto di Alessandro Pedrina. Sensibile, accorto, dal taglio realistico, ma delicato. In un mare di mediocrità, questo racconto esprime la solitudine in maniera cruda ma con tocco gentile. Complimenti. Sarebbe bello leggerne altri di lavori come questo. Bravo Alessandro.

  34. ..è sparito il mio commento al racconto di Alessandro Pedrina “L’uomo della biblioteca”…spero che Alessandro lo abbia almeno letto, in ogni caso Alessandro ti rinnovo i miei complimento per aver saputo tracciare un personaggio “borderline” con tanta dolcezza, sensibilità e rispetto. Spero tu pubblichi ancora altri bei racconti o…poesie? chissà magari sei bravissimo anche con quelle! ancora complimenti. Annalisa Massarotto

  35. Bravo Alessandro, il tuo racconto è molto bello davvero. Mi piace il realismo e la sensibilità con cui hai trattato un argomento così delicato e vero. Spero di poterti leggere al più presto. Facci sapere se hai altri racconti da proporrre. Marco Tonelli

  36. La scorsa settimana avevo evidenziato (prima che scomparissero diversi commenti) che non scrivevano mai gli uomini. Che sorpresa. Hai visto Miriam che anche i maschietti leggono e rispondono? Sursum corda!
    Ciao Annalisa, vedrò di accontentarti, inviando altre cose tra un po’. Io ho pronto molto materiale, come molti scrittori, ma nessuno se li fila:) e così si resta nell’ombra. Per quanto attiene i racconti ne ho una raccolta (contiene anche il racconto che hai letto). Si chiama “Al limite : racconti dal limite della vita”. Sono racconti legati l’uno all’altro, non in maniera evidente; un particolare o un personaggio entrano nella storia e condiziona o interferisce con la vita del protagonista di turno (vedi la donna col cane). Spesso le persone si sfiorano, si intuiscono e si condizionano, senza nemmeno saperlo. Molto spesso luomini e donne, anche quelli apparentemente sereni o che hanno tutto, sfiorano il limite di un qualcosa che, spesso, è la loro stessa vita. Ma di questo se ne avvedono soltanto dopo, quando hanno fatto delle scelte da cui non possono rientrare.

  37. Gentile Alessandro Pedrina, ho letto il suo racconto e mi complimento con lei, è veramente bello.
    Ho letto che ha una raccpòta di racconti inediti, le andrebbe di contattarmi a infohistorica@libero.it per discutere dei suoi racconti e di un’originale proposta di pubblicaizone?

    saluti
    Francesco Giubilei

  38. Ripeto per Alessandro.
    Il tuo personaggio è piaciuto alle donne, non solo perché più attente alle parole e, forse, più facili alla comunicazione dei sentimenti. Il tuo personaggio piace perché è un “autistico volontario” che rinuncia “al tumulto e al doloroso godimento” per cercare rifugio in un nuovo grembo materno: i pensieri della Letteratura. E’ un personaggio “forte” su cui dovresti scrivere ancora inventandogli attorno altri personaggi e una storia. Magari con la collaborazione di tutti questi lettori. Perché no? Una nuova forma di scrittura collettiva!
    Ciao, Miriam
    Es. Tu scrivi, poi lanci, noi ti diciamo… e poi si vedrà…

  39. Ciao Miriam, la cosa mi stuzzica, perché no. Ma devo trovare un po’ di tempo, in questo periodo sono un po’ preso dal lavoro (che non manca mai, per fortuna). Ci teniamo d’occhio, va bene? Ciao. Per Marco e Giorgio: grazie, metterò a breve qualche altro personaggio della mia raccolta, sperando di non deludere le aspettative. Buone letture (vi consiglio una lettura veloce: Il profumo della neve di Franco Matteucci – Finalista Premio Strega 2007. Molto particolare, mi è piaciuto, anche se mi sarei aspettato una fine un po’ diversa). Ve lo consiglio, comunque! Ciao

  40. Ciao Alessandro UOMO DELLA BIBLIOTECA! ….sto aspettando la mia poesia….

  41. Annalisa, ciao, in questo periodo sono poco poetico, nel senso che non pratico poesia da almeno un anno. Ho scritto poesie per tutta la vita, ho preso perfino la laurea in filologia per poter meglio poetare, ma poi qualcuno mi ha fatto passare la voglia e la passione. Prima o poi le rileggerò, e magari te ne mando una, o tutte:)
    Buon fine settimana

  42. Per restare in tema di superstione (vedi Colobraro) , di coincidenze, di gente al limite invio altri 2 racconti tratti dalla mia raccolta, legati l’uno all’altro in qualche modo. Spero siano graditi a chi mi ha già letto. Ciao

  43. All’UOMO DELLA BIBLIOTECA: è un racconto davvero struggente. Atipico e poetico il soggetto, così come la specificità del disagio raccontato, attuale e troppe volte ignorato dai più dei nostri tempi. Ho apprezzato anche la leggerezza e fluidità dello stile. Complimenti all’autore: ha scritto ed eventualemente pubblicato altro? Francesca

  44. Ciao Alessandro, i messaggi che mi precedono esprimono pensieri sul tuo racconto che condivido pienamente. Non posso dire null’altro, se non che hai saputo delineare il profilo di un personaggio che mi affascina, mi coinvolge e al contempo mi riempie di rabbia.
    Bravo, continua a far (con)vivere il tuo personaggio!

  45. Beh, trovo il racconto L’UOMO DELLA BIBLIOTECA davvero molto interessante: un tema così sensibile è stato rielaborato con l’uso di frasi quasi sempre semplici, ricche di termini particolari ed appropriati ma troppo spesso dimenticati e sostituiti da vocaboli generici (nei quali noi tutti ogni giorno giocoforza inciampiamo…), legate fra loro da un filo invisibile che ti porta a ‘scorrere’ velocemente il testo per la curiosità di sapere cosa dirà il capoverso successivo!!
    Bravo Alessandro, io che ti conosco personalmente e che ti ho sempre stimato ed apprezzato prima di tutto come persona, non nascondo di essere stata piacevolmente sorpresa da queste tue doti finora tenute (a me quantomeno) ben nascoste!!
    Continua a deliziarci coi tuoi racconti, io aspetto fiduciosa….

  46. in tema di superstizione e di coincidenze invio questi 2 racconti che, forse, hanno qualche attinenza tra loro:) e forse anche un richiamo con L’uomo della biblioteca (in una figura che compare fugacemente)…le persone si sfiorano…si condizionano…spesso senza avvedersene!

  47. CLOCHARD

    Tra tutti i clochard della città, e non sono pochi, Simone si è sempre sentito il più nobile di tutti, e a ragione. Lui, infatti, ha vissuto a Parigi un tempo, una splendida città di cui ricorda ancora i colori, i suoni, i profumi di cibo e il divertimento, oltre all’accozzaglia di tanta gente favolosa di cui non ricorda più il volto, ma tra la quale si sentiva sempre a suo agio. Lavorava bene e tanto Simone in quella città, si guadagnava il pane nel teatro più bello, quello dell’opera, dove si affaccendava in tante piccole mansioni comprese le pulizie dei camerini e del palco sempre polveroso. Proprio lì aveva conosciuto, sia pur di striscio, divi e dive favolosi, respirando un po’ anche lui la polvere del palcoscenico e del successo platinato. Ma poi era tutto finito all’improvviso, e di questo non poteva ringraziare che una persona: sé stesso. Simone, in un momento di estrema difficoltà economica causata dal vizio del gioco che, di tanto in tanto, lo prendeva e lo spossava, oltre che spogliarlo di tutto, aveva rubato dei soldi proprio a teatro, direttamente dal borsellino di un’artista che stava cantando la sua bella romanza. Era stato scoperto ancor prima di prendere una sola monetina da un inserviente. Era rimasto lì in piedi, davanti all’appendiabiti nel camerino ancora polveroso, lì fisso e fermo come un baccalà, con la bocca aperta e senza un suono. Era stato chiaramente licenziato in tronco e, da quel momento, la sua bella vita era cambiata. Aveva così ramingato da una città all’altra, facendo un milione di cose per sopravvivere, compreso dare via il culo in più occasioni quando aveva avuto veramente fame e sonno. Ma poi, finalmente, secondo un rituale ciclico che accomuna spesso e volentieri gli umani, era approdato in quella che un tempo era stata la sua città natale. Sarà stato il richiamo del sangue, chissà, ma ciò che sperava in cuor suo era di trovare non tanto un buon lavoro, quanto qualcuno: qualcuno che potesse volergli un po’ di bene e riuscisse a dargli una mano nel continuare e migliorare la sua oramai miserrima vita. E invece non aveva trovato proprio nessuno ma, per puro caso, un bel giorno si era sistemato lo stesso: diventando una sorta di badante. Nel bar che frequentava abitualmente tutte le sere, per dimenticare la sua miseria in un paio di buoni bicchieri, Simone aveva infatti conosciuto un anziano. Qualcuno, seguendo le superstizioni popolari ancestrali e stupide, aveva detto che avrebbe dovuto baciare il pavimento di quel bar, accendere ceri alla Madonna o a qualche Santo, ma lui non era affatto superstizioso e prendeva i casi della vita come cose naturali che devono accadere, sia nel bene che nel male: è tutto scritto. Quel bar era il luogo in cui Simone si rifugiava dopo aver vissuto al limite della legalità per tutto il giorno. Lui, infatti, viveva rubacchiando, ora da qualche negozio di alimentari, ora da qualche garage trovato aperto per puro caso, ora da qualche casa in cui viveva un anziano non in grado di difendersi dalle sue mani veloci: lui sapeva sempre dove entrare. Di sera, forse per dimenticare, andava al bar e beveva. Ogni tanto Simone trovava pure da lavorare, in genere per gente che lo assumeva più per la sua simpatia che per altro. Lui sapeva essere anche simpatico, non c’è che dire, e la gente gli dava fiducia estrema, anche se spesso quest’ultima si era col tempo rivelata mal riposta. Qualche persona generosa più di altri, gli dava pure vitto e alloggio all’occorrenza, visto e considerato che lui era senza una fissa dimora e non ne aveva mai fatto un segreto. Più la gente sa, più fa si ripeteva, e in fondo aveva ragione. Generalmente dormiva dove capitava. Per un certo periodo Simone aveva vissuto dentro ad una vecchia rimessa abbandonata, sita nella prima periferia della sua bella cittadina, nei pressi del fiume placido e verde che gli dava conforto alla sera col suo suono liquido e rassicurante. Era stata davvero la sua casa finché, un brutto giorno, non l’aveva più trovata al suo posto: svanita come neve al sole. L’avevano abbattuta durante un pomeriggio: al suo posto avrebbero costruito un bel giardinetto per bambini, con tanto di giostrine colorate e baldacchino ambulante per le bibite e le merende. Ma questo lui lo avrebbe scoperto soltanto qualche mese dopo, dopo un periodo che lo aveva visto ramingare di quartiere in quartiere in cerca della sua casa e delle sue poche cose scomparse assieme alla baracca. E poi ecco il miracolo, la vita che finalmente gli dava nuovo respiro. Un anziano che conosceva appena, ma che sembrava invece conoscere tutto di lui, un vecchio apparentemente simpatico e sicuramente abbiente, mentre beveva il suo spritz col campari appoggiato mollemente al bancone unto, gli aveva fatto la proposta di andare a vivere con lui, nella sua casa. Era quello un periodo in cui Simone lavorava a ore come operaio in una ditta di costruzioni edili: guadagnava benino e aveva molte ore a disposizione per lasciare giù il suo camioncino da qualche parte e visitare tutte le bettole della provincia, senza peraltro che il padrone se ne avvedesse. Questo però fino all’ultima sortita! L’aveva fatta di recente, in centro città, e proprio lì nell’osteria che più gli piaceva, mentre tracannava il sesto bicchiere di vino, la manona del padrone gli si era appoggiata sulla spalla. Simone aveva intuito subito che anche quel lavoro sarebbe potuto diventare a rischio, e a ragione. Quindi, non appena il vecchio gli aveva fatto quella strana richiesta, qualche giorno dopo l’accaduto, lui senza pensarci troppo su aveva detto immediatamente di si. In quattro e quattr’otto aveva preso su le sue poche cose, che erano depositate nel capannone dove dormiva, e se ne era andato placido nella casa del vecchietto. Non aveva avuto nemmeno bisogno di riflettere sulla sua proposta, aveva risposto che “si, sarebbe rimasto a fargli compagnia, e qualche lavoretto e qualche buon piattino caldo”. Valeva la pena tentare questa nuova strada e chissà che fosse la volte buona, quella che gli avrebbe portato un po’ di serenità. E così, senza quasi accorgersene, gli anni avevano cominciato a trascorrere. Simone, oltre ad essere diventato il confidente e il lavorante di quell’uomo apparentemente ricco, era diventato poco per volta anche più vecchio: vecchio e acciaccato. Nel corso di quegli anni Simone si era ammalato di malinconia. Per dimenticare la sua vita da servo, a disposizione di un uomo che un tempo aveva volato probabilmente vicino al sole e che lo comandava a bacchetta, per dimenticare la sua solida posizione sociale di un tempo, il tempo in cui era stato un costumista e un aiuto regista all’Opéra de Paris, come lui stesso raccontava in giro, per dimenticare appunto tutta la sua bellissima vita trascorsa, Simone aveva cominciato a bere forte. Talmente forte che spesso si dimenticava di tornare a casa dal suo vecchietto, addormentandosi su qualche panchina o in qualche luogo isolato dove l’istinto lo portava a rifugiarsi per smaltire le sbornie che prendeva nei bar, dove raccontava la sua storia usando parole strane e atteggiandosi in maniera esotica e dandosi un tono. Questo stato di cose era durato per anni, anni in cui lui stesso, spesso e sovente, si dimenticava la sua vera identità per riprendersela quando era nuovamente sobrio e in grado di ricordare i bei tempi: quelli in cui era stato aiuto regista e coreografo a Parigi. “Che tempi quelli”, diceva, “che tempi memorabili”. E parlava, tracannando il suo bianchetto, di luoghi, situazioni e persone che gli altri avventori del bar non avevano mai sentito nominare. In realtà nessuno credeva a Simone, ma lo lasciavano parlare perché era troppo divertente ascoltarlo. Simone beveva tanto, e al contempo mangiava sempre di meno, anche se il suo vecchietto, pur essendo dispotico, non gli faceva mai mancare nulla. Due volte alla settimana, il giovedì pomeriggio dopo le 17.00 e il sabato mattina dopo le 9.00, e sempre prima delle 11.00 per evitare la coda, andavano a braccetto come due sposini a fare la spesa al vicino supermercato: sempre lo stesso per anni e anni. Il suo datore di lavoro era un uomo estremamente parco, ma sul cibo non badava a spese. Dentro al suo carrello riponeva con gusto, oltre alle diverse e molteplici offerte speciali che controllava di settimana in settimana sui depliants pubblicitari che arrivavano a casa, anche moltissime altre cose prelibate: non sapeva resistere e mangiare era l’unica passione che gli era rimasta. Bere non poteva per via della gotta, fumare non fumava da almeno trent’anni, il sesso era un lontanissimo ricordo, che cosa gli rimaneva se non il cibo? Simone era anche bravino quand’era sobrio, cucinava con gusto e passione perché a Parigi aveva fatto anche il cuoco per un certo periodo, almeno questo diceva in giro. Prima di diventare regista e coreografo teatrale era stato anche un ottimo chef, e chissà cos’altro aveva mai fatto: solo che non lo ricordava più, non aveva traccia di nulla. In quanto alla sua abilità culinaria, bisogna dire che lui sapeva cucinare proprio di tutto, ma il piatto che gli veniva meglio era il bollito misto. Lo faceva come gliel’aveva insegnato sua mamma tanti anni prima, con tutte le carni possibili e inimmaginabili: testina, lingua, cotechino, scaramella, e anche un bel pezzo di manzo, anche se non era contemplato nella ricetta originale. Ci metteva pure un bell’osso per dare sapore. Cucinava le carni in pentole diverse, aggiungendo gli aromi: carote, rosmarino, sedano e sale. E cuoceva, cuoceva togliendo con la schiumarola l’eccesso di grasso che si formava. Era molto pignolo perché era una ricetta apparentemente semplice, ma che richiedeva tempo e occhio per rendere la carne morbida e non stopposa. Tra un bollore e l’altro preparava la salsa verde che tanto gli piaceva e che faceva addirittura impazzire il suo vecchietto. Bagnava il pane raffermo con l’acqua tiepida, aggiungeva aceto, sale, pepe, un uovo sodo e qualche spezia: un pizzico di cannella, noce moscata e un chiodo di garofano. E poi prezzemolo a volontà e anche un po’ di salvia. Lui ci aggiungeva anche dei capperini dissalati che davano molto sapore. E poi via: pestava, pestava, aggiungendo olio d’oliva verdissimo, pestava fino ad ottenere una crema densa e deliziosa che poi andava a contornare quella beatitudine di un piatto che avrebbe voluto non finisse mai, anche perché gli ricordava la sua giovinezza e la spensieratezza che caratterizza soltanto quell’età. Gli veniva da piangere quando faceva quel piatto, si commuoveva, ma cercava di farlo egualmente il più spesso possibile perché piangere lo faceva stare bene e lo riavvicinava alle sue radici, alla sua famiglia, perché anche lui ne aveva avuta una, nonostante nessuno gli volesse credere. Non c’era memoria della sua famiglia, nulla di nulla, come se non fosse mai esistita, nemmeno al cimitero. Mentre mangiava il suo bollito misto con la salsa verde accompagnati da una bella bottiglia di merlot, il vecchio gli chiedeva sempre cosa avesse e lui rispondeva: “nulla, nulla, pensieri e nostalgia”. Ma un bel giorno, bello per alcuni a dire il vero, ma tragico per Simone il povero datore di lavoro, mentre Simone si trovava fuori casa per bere, era caduto dalla tazza del WC e si era fratturato un femore. Simone lo aveva trovato per terra dolorante, ma aveva chiamato l’ambulanza dopo circa mezz’ora perché era talmente fatto che non era riuscito a trovare subito i numeri d’emergenza. Era salito su con lui, nell’ambulanza, piangendo e consolandolo, intuendo già quello che sarebbe successo. Infatti il pover’uomo era morto dopo pochi giorni, per delle complicazioni cardiache. Una morte stupida, come avevano commentato in molti al bar, ma comunque sempre di morte si trattava, e non solo per lui. Il destino di Simone cambiò immediatamente, e qualcuno al bar cominciò a parlare di jettaura, vedendo ora in Simone un uomo potenzialmente pericoloso e da tenere alla debita distanza perché tutto ciò che sfiorava, ogni cosa che lui faceva andava a farsi benedire. Era destino che non dovesse trovare mai la pace, era destino che dovesse stare sempre più solo, il malocchio non c’entrava nulla, ma questo lo sapeva soltanto lui, Simone. In ogni caso, l’abitazione del vecchietto era stata venduta assieme ai mobili e lui, che non era nulla e nessuno per quei parenti che si avvicendavano per casa, era stato scacciato come un insetto molesto. Scacciato dai pochi eredi giunti dall’Australia per prendere ciò che era loro, anche se il vecchio non l’avevano mai conosciuto, né mai sentito nemmeno una sola volta per telefono in tanti anni. A dire il vero nemmeno lui li aveva mai corteggiati, ma gli auguri per Natale e Pasqua, da persona educata qual era, non li aveva mai fatti mancare. Simone era un estraneo per loro, un infiltrato, e così aveva fatto la fine che doveva necessariamente fare: in mezzo alla strada. Andare ai servizi sociali come i vecchi o i derelitti neanche a parlarne: non era né vecchio né derelitto lui, era ancora giovanile e qualcosa si sarebbe sicuramente inventato per tirare avanti. E così, quasi senza accorgersene, si era ritrovato a fare l’elemosina per strada e la cosa tutto sommato gli andava anche a genio dato che, senza grossa fatica, riusciva a mantenersi. Ogni giorno racimolava il necessario per mangiare e, soprattutto, per bere e quando non ce la faceva più da solo andava al solito vecchio bar dove il proprietario gli offriva qualcosa da mangiare, o gli dava qualche soldo, o gli faceva fare magari una doccia e lavare i panni, senza bisogno che lui dovesse fare tante scene drammatiche. Lui sapeva che era paura e non buon cuore quella generosità, capiva che gli davano l’obolo e le altre cose per allontanarlo il più presto possibile dal bancone del bar e dai clienti sani. Ma lui non se andava mai subito dopo, lui giocava, si raccontava narrando sempre le stesse cose e favoleggiando dei tempi di Parigi quando lui recitava in teatro assieme ai più grandi nomi e cucinava, nei ritagli di tempo, per i più grandi attori del cinema e del teatro dell’opera. Simone era stato bene per parecchio tempo con la sua elemosina, la sua condizione non lo metteva a disagio proprio per nulla, anzi, e un posto dove dormire lo trovava sempre. D’estate dormiva per strada, sotto le stelle, o in qualche portone se pioveva mentre d’inverno, quando faceva troppo freddo, si rifugiava suo malgrado al dormitorio pubblico, dove trovava anche il modo per radersi e lavarsi. Lì, molto spesso, trovava anche del cibo caldo e generoso e qualche persona che cercava di divenirgli amica. Ma lui no, neanche a parlarne, lui che aveva frequentato ambienti altolocati non si mischiava con quella gente, gentaglia che non c’entrava proprio nulla con lui ed il suo mondo, né lui desiderava averci a che fare in nessun modo. Un saluto, due chiacchiere di circostanza e poi basta: mai dare della confidenza. Ma poi l’altro giorno, all’improvviso, qualcosa si è rotto dentro Simone, qualcosa di irreparabile è successo che ha devastato la sua dignità e la sua voglia di vivere così, facendogli pensare che il fato gli è davvero avverso e lo insegue. Si trovava fuori dal teatro comunale, seduto a terra con la sua bottiglia di vino rosso e il suo hamburger pagatogli da un conoscente. Sedersi a mendicare in quei luoghi portava bene, perché la gente che va a teatro, e lui lo sapeva bene, è gente che sgancia delle belle elemosine, soprattutto se lo spettacolo è di loro gradimento. Avrebbe fatto un bel po’ di affari quella sera, anche se si trattava della prova generale aperta al pubblico. Ma poi è successo tutto all’improvviso e lui ha ricordato tutto, ma proprio tutto della sua vera vita, ed ha visto l’abisso. Ha avvertito un mancamento intenso, come se improvvisamente tutta la sua vita non avesse più motivo di essere e la sua condizione di barbone non fosse nient’altro che la giusta punizione per essere stato un uomo non buono e sempre al limite di tutto. Quella donna, quell’artista imponente e bellissima, la prima donna dell’opera, l’aveva sfiorato uscendo come una pazza dal teatro. L’aveva quasi urtato, e poi guardato con un’espressione di disgusto, come se avesse appena visto un mostro o un appestato, o un porta jella. Ed era proprio lei, l’aveva riconosciuta subito anche se erano passati così tanti anni da che si frequentavano a Parigi. Lei studiava lirica all’accademia e faceva qualche piccola recita, qualche piccolo concertino di tanto in tanto. Lui la guardava e l’ascoltava estasiato, con amore e benevolenza, sognando con la sua scopa in mano: era tanto bellina e tanto brava con la sua vocina finissima e cristallina. E ora che è la primadonna assoluta lei, invece di abbracciarlo e camminare mano nella mano con lui per le vie della città a ricordare il bel passato, l’ha invece snobbato, dimostrando apertamente di provare disgusto alla sua sola vista. Per la prima volta Simone si è sentito tutt’altro che nobile, anzi, ha avvertito un sentimento del tutto nuovo dentro al suo cuore: si è reso conto suo malgrado di essere esattamente uguale a tutti gli altri clochard del mondo: un indesiderato. E ha capito che sarebbe finito, prima o poi, come tutti i reietti, lungo disteso da qualche parte, morto di freddo oppure annegato in qualche fosso fetido e putrido. Simone da quel momento si è visto proiettato nel vero futuro. Il Comune impietosito lo metterà in una fossa comune quando lo troveranno, e la sua famiglia, quella di cui non si ricorda più nessuno, sarà definitivamente scomparsa assieme a lui. E soltanto a causa di una ex collega, una di cui non ricorda più nemmeno il nome, una porca che lo ha fatto sentire sporco e lontano da tutto e da tutti col suo sguardo sgomento. Simone sente che il suo cuore è legato al passato che torna. E’ tornato il passato, e ora non perdona. Non perdona, pensa e sussurra. Ti presenta il conto, e vedi forse per la prima volta quella che è stata la tua vera vita, quella vita che non conosce più ritorno. Via, via indietro nel tempo, fino a farti scoprire ciò che eri veramente, in realtà quello che non eri affatto né potrai mai essere in futuro. Anche se un tempo, tanti anni addietro, un tempo favoloso e irripetibile, tu sei stato di certo uno dei più grandi cuochi di tutta la Francia, un cuoco che ha inventato il gran bollito misto con la salsa verde, un gran piatto come nessuno sarà mai più in grado di cucinare per nessuno. Simone si è poi avviato, il panino sull’asfalto avrebbe nutrito qualche randagio. E ora va, ma la sua strada non la riconosce più, non la vede proprio. Va, anche se non ha più motivo di andare in nessun luogo. Sa bene che entro la fine della notte si fermerà da qualche parte a riposare il cuore gonfio, gonfio di un vuoto nulla, e per colpa di una donna che non gli ha dato nessuna possibilità di redenzione. Va, lentamente, e intanto pensa che vorrebbe tanto trovare i soldi sufficienti per andare a teatro, sedersi e poi urlare a quella bagascia qualche cosa di orrendo, o addirittura fischiarla o gridarle, magari in un impeto di passione improvvisa e di rimpianto per il tempo lontano in cui si erano amati appassionatamente: DIVINA.

  48. IL MI BEMOLLE
    Renata Giardino si guardò allo specchio e quello che vide non le piacque. Le appariva infatti non l’immagine di una donna qualsiasi, dato che lei non lo era più da tanto tempo, ma quella di una “femme fatale” alla quale si era spezzato un mi bemolle sovracuto in gola. La cosa in sé non avrebbe avuto nulla di così drammatico, considerato che la maggior parte degli esseri umani non sa nemmeno cosa sia un mi bemolle ma, dall’altra parte della barricata, la sua barricata difesa da successi memorabili e annosi, quel mi bemolle era stato, è e avrebbe dovuto essere ancora per moltissimo tempo importantissimo, se non vitale. E ciò perché Renata Giardino non è più stata, da troppo tempo, un essere umano qualsiasi: Renata è una delle più grandi cantanti liriche al mondo e vive della sua voce, inseguendo di volta in volta la sua stessa perfezione. Eppure, non meno di mezz’ora prima, davanti ad un pubblico che gremiva il teatro e che pendeva dalla sua bocca come se da essa dovesse fluire il verbo assoluto, intessuto di miele e paradisi promessi Lei stessa, nella parte cruciale della sua cavatina, quella che l’ha resa famosissima nel mondo facendola assurgere, per l’appunto, al ruolo di Renata Giardino, mentre incrociava note velocissime e sempre più squillanti aveva udito qualcosa! Aveva sentito qualcosa improvvisamente rompersi in lei, senza capire come potesse essere vero, come potesse aver preso vita quel suono improbabile. Renata non è mai stata una donna fragile, ha saputo cavarsela sempre nelle varie e diverse difficoltà della vita, ma questo incidente era troppo anche per lei. E in più, non poteva incolpare nessuno: aveva fatto tutto da sola! Questa non se l’aspettava proprio, non doveva succedere, non a lei. Il suono irregolare e spigoloso era uscito dalla sua bocca perfettamente impostata, rotolando sulle prime file gremite dal suo pubblico, per rimbalzare subito dopo nelle file retrostanti e salire poi verso il cielo che accoglieva le persone che più temeva al mondo: i loggionisti. Non era una nota quella che aveva prodotto, era una nota spezzata ed amplificata da tutta la potenza del suo diaframma, spinta verso il sole dai muscoli tesi del suo basso ventre allenato, con una potenza che lei non credeva di possedere e che era uscita proprio in quel momento: assolutamente fuori luogo. “Si è sentito?”, fu la prima cosa che le venne da sussurrare, mentre dalla mano ingioiellata le cadeva la camelia di scena. “Ma certo che si è sentito, fino a Palermo si è sentito, cretina che non sei altro. Ma come hai fatto?”, si era risposta, scrutando nel buio le espressioni e gli sguardi bianchi. Il silenzio era surreale, era irreale la sua posizione al centro del palcoscenico, ed era stato irreale il fischio prolungato che, dopo una decina di secondi da che aveva emesso la sua stecca fragorosa, si era alzato da qualche punto della platea. Un silenzio ed un fischio malvagi, seguiti subito dopo da altri fischi e dal vocio fastidioso di chi rivoleva i suoi soldi. Si erano alzati però anche tanti applausi e tanti incoraggiamenti: “bravaaaaa, coraggioooooo, sei tutti noiiiiiiii”, riprendiiiiiii. Ma lei non le aveva percepite come sue quelle esortazioni tanto buone che avrebbero dovuto scaldarle il cuore e farle capire che, dopo tutto, non era poi così sola. Erano applausi che non avevano alcun motivo di essere, dato che lei aveva sbagliato per davvero, non era stata finzione la sua, ma una vera rappresentazione: quella della sua fine. Questo pensava, mentre il sipario si chiudeva trovandola ancora lì, con il mento puntato verso l’alto, quasi a sfidare quegli dei che sempre l’avevano protetta e ben nutrita e che ora l’avevano abbandonata probabilmente per sempre, senza peraltro che lei ne capisse il motivo.
    * * *
    Il secondo atto era finito proprio con il suo bell’acuto sbagliato e lei era sparita, forse per sempre, dagli occhi dei suoi amatissimi melomani che sembravano implorare qualcosa, e da quelli di coloro che, al contrario, l’avrebbero di certo bruciata quasi fosse una strega. Sapeva che i suoi ammiratori probabilmente imploravano: “Signore, fa che non sia vero ciò che ha fatto”! Ma era anche certa, al contrario, che i suoi delatori stavano pregando forte affinché lei invece sparisse dalla faccia della terra, e per sempre, inghiottita dagli inferi come una novella regina della notte mozartiana. Mentre la sua sostituta chiudeva, assai benino, il primo quadro del terzo atto, dopo che lei stessa aveva fatto dare l’annuncio della sua sostituzione per cause di forza maggiore, Renata si era messa a pensare. Pensava! Aveva l’esatta sensazione, bruttissima a dire il vero, di essere completamente sola al mondo, e proprio in un momento così teso e drammatico che avrebbe invece richiesto conforto e solidarietà. Suo marito era come sempre lontano per motivi legati al suo lavoro, le sue allieve preferite non avevano potuto essere presenti alla sua prima, i suoi pochi parenti non la avvicinavano più da troppo tempo, e gli amici si facevano sentire sempre più raramente. E questo accadeva perché le dee vanno rispettate, adorate, amate, ma tenute alla debita distanza quanto divengono troppo dee, prendendo spesso involontariamente le distanze loro stesse, e per prime, da tutto ciò che era “il prima”. Ma era stata davvero lei a creare quelle barriere spesse e invalicabili? No, non era mica possibile che fosse diventata così arida e piena di sé stessa, così perversamente desiderosa di restare sola! La verità era che, un bel giorno, si era sentita usata e in balia di gente cattiva che si approfittava della sua posizione, compresi gli amici di sempre, questo pensava. E ora c’era anche quella gentaglia cattiva che desiderava la sua fine, per far salire sul podio qualche gallina stonata dei paesi dell’est, pensava. “Ma come può essere successo proprio a me, a me che ho la padronanza perfetta della voce”!, continuava a ripetersi guardando il suo volto alla specchio, senza che una sola lacrima avesse intaccato e lavato via il trucco di scena ancora perfetto ed intonso. Sapeva che non doveva farla quell’opera, lo sapeva, se lo sentiva, non aveva studiato a sufficienza per mancanza di tempo, non ne aveva avuto modo tra una recita e l’altra in giro per il mondo. Ma alla fine non se l’era sentita di deludere il direttore artistico del teatro, un vero amico, uno dei pochi amici veri che conservava e che le erano rimasti attaccati, forse anche per interesse, lo sapeva bene, ma forse nemmeno troppo, in fondo. Le aveva chiesto quel favore immenso, con le lacrime agli occhi: di cantare per lui e col cachet dimezzato. “L’attuale politica finanziaria nazionale ha decurtato i fondi già scarsissimi assegnati alla cultura, e io non so proprio come continuare la mia attività senza avvicinarmi pericolosamente al fallimento dell’Ente lirico”, le aveva detto sussurrandole al telefono, mentre lei si trovava a Parigi per una Sonnambula. E così Renata aveva accettato, era stata generosa come soltanto le vere signore della scena sanno esserlo, quando non possono proprio farne a meno. E poi lei amava quel teatro, e quella cittadina tanto graziosa dove aveva fatto anche della gavetta e tenuto dei piccoli master class per studentelli stonati. Per lei era come essere a casa, tanto che ci tornava spesso non solo per cantare, ma anche per riposare, ritrovare i pochi amici fidati e senza pretese, mangiare e bere bene in buona compagnia. Ma questa volta c’era qualcosa che non girava: aveva una sensazione sgradevole nel petto, da settimane, forse a causa del fatto che quell’opera, l’anno precedente, in quello stesso teatro e con la partecipazione di un’altra prima donna era stata contestata. Forse quell’esperienza avrebbe potuto bloccarla, facendole evitare quel fottuto mi bemolle che la stessa partitura prevedeva libero: o si faceva o non si faceva, era a discrezione del soprano. Ma lei l’aveva sempre fatto, diamine, sempre, e i teatri erano venuti giù a forza di applausi, e bravaaaaaaa, e bissssss, e fiori che volavano ovunque per la divinità che si impossessava sempre del suo corpo. Perché avrebbe dovuto cambiare, pertanto? Continuava a guardarsi allo specchio e, per un gioco d’ombre, il bellissimo vestito che indossava, intessuto di raso rosso, le sembrò lana infeltrita e il diadema tra i capelli una semplice coroncina di cartone. Vide l’immagine, forse per una volontà della sua mente, di ciò che sarebbe diventata a causa del suo famoso mi bemolle: una semplice stracciona tutta sola. E a questo punto le scesero le prime lacrime, ma non tanto per il terrore di poter vivere in miseria e di stenti, no, ma per la paura di poter essere in qualche modo dimenticata del tutto. Scordata e senza avere più la possibilità di essere riconosciuta e additata come la famosa, ineguagliabile e irraggiungibile Dea, Renata Giardino.
    ***
    Doveva immaginarselo che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto, troppi segnali negativi nei giorni precedenti alla recita le avevano suggerito che c’era un’influenza malefica nell’aria. Lei che come tutti gli artisti che si ritengono tali era superstiziosa all’eccesso, e dava un significato ad ogni cosa, doveva saperlo e frenarsi. Renata aveva delle manie, grosse, patologiche, fruscianti, da sempre: e invadevano la sua anima ansiogena. Non ci potevano essere più di tre persone in una stanza che parlassero mentre parlava lei, ad esempio: pura follia. Se il numero era superiore, e ciò accadeva quasi sempre, cominciava a fare dei segni scaramantici, toccandosi al contempo il brillante che portava al dito. “Le malelingue, anche quando parlano bene, ti portano male alle spalle”, le diceva un tempo sua madre, e lei riteneva che avesse una santa ragione e che troppe voci nascondono sempre qualcosa. Lei non vestiva mai di viola, e figurarsi se vedeva qualcuno a teatro vestito di quel colore immondo: diventava una belva. Una volta, nel corso di Norma, aveva cantato la sua romanza puntando il dito, senza mai toglierlo, contro ad una donna seduta in prima fila: era vestita di violetto. Non potendo farla spogliare, o cacciarla dal teatro, le aveva puntato contro il dito come a proteggersi, tramite quel parafulmini di carne, dai malefici di quel colore sbagliato e fuori luogo. Era un gesto che aveva la valenza di un anatema e la signora se lo sarebbe ricordata a lungo, eccome, quella sorta di scomunica: probabilmente non aveva mai più rimesso piede in un teatro. Renata non voleva mai sentire parlare di morte, portava malissimo prima di una recita, né voleva essere presa di mira da persone malate, povere, troppo anziane o reiette: erano il simbolo di quello che le sarebbe potuto capitare nel futuro. Non beveva mai vino rosso la settimana della prima, né mangiava carne o pesce: rosso come il sangue il vino, e carne di bestia morta: “per carità”! Quanto era stramba Renata, lo sapeva da sé, ma non aveva alternative, e non aveva mai nemmeno voluto farsi curare da uno psicologo. Del resto non ne avrebbe avuto il tempo: sarebbe stata costretta ad assumerne uno, e portarlo in tournée con sé. La sera della prova generale, prima di entrare in scena, così come sempre faceva, lei si era truccata un pochino coi suoi prodotti a base di caviale e oro e si era vestita per bene, tutta in gran tiro, ma senza esagerare. Dato che si sarebbe fermata fuori a cena con un’amica, dopo la recita di prova, e l’aria fuori era ancora un po’ freschina, oltre al foulard griffato di seta purissima, messo intorno al collo a proteggere il suo prezioso strumento, aveva indossato anche il suo zibellino, giusto per fargli prendere un po’ d’aria e spolverarlo in faccia a quelle quattro comprimarie che starnazzavano nei camerini attigui al suo: non le tollerava quelle guitte. Renata era amica di tutti, ma non sopportava le divette che si mettevano al suo stesso livello e che la criticavano alle spalle. Lo sapeva che ciò accadeva, criticavano ridendo di lei e mettendo a confronto la loro giovanile avvenenza con la sua perfezione artistica. In questo caso diveniva davvero cattiva, e prima o poi le persone di tal fatta venivano da lei punite, senza peraltro che lei provasse alcun rimorso per il fatto che il suo adoprarsi bloccava sempre la loro carriera, quando addirittura non la estingueva sul nascere. Sapeva aspettare Renata, e si vendicava sempre, questo lo sapevano tutti nell’ambiente, e pertanto la tenevano ben lontana, creandole attorno il vuoto. Aveva fatto una gavetta ventennale in fondo, e poteva permettersi qualsiasi cosa visto dov’era arrivata, non la capiva la gente qualunque quella sua fatica? Cosa pretendevano loro, loro che non erano nulla! Lei le attendeva lungo il fiume della vita quelle smorfiosette, attendeva i loro cadaveri e li vedeva passare prima o poi, sempre. Era uscita quindi fiera e impeccabile Renata, per recarsi al suo teatro. Amava mischiarsi alla gente qualsiasi, messa per bene in fila per comperare i biglietti delle recite. La prima sarebbe stata di lì a due giorni, e quella sera non c’era molta ressa, era ancora presto. Era quello il momento che preferiva, si sentiva sicura, e non temeva possibili errori durante le prove perché, qualora ci fossero stati sarebbero stati anche perdonati, sia dai colleghi che dal pubblico fatto di poveracci e curiosi non paganti. Si sentiva affine a quei suoi ammiratori ora, adesso li amava e avrebbe voluto adottarli tutti, e averli sempre accanto a sé per trovare un po’ di compagnia la sera. Dentro all’atrio, come se fosse una perfetta sconosciuta, con indosso i suoi occhialoni Dior che le nascondevano la faccia rendendola irriconoscibile, aveva cominciato a camminare su e giù, senza meta Renata, avvicinandosi al cartellone. Osservava tutto e tutti e, soprattutto, ascoltava. Ascoltava i segnali che sempre o, generalmente, erano per lei assai positivi. La prova generale è sempre un momento importantissimo per gli artisti e in genere non va mai male, questo si sa, ma per lei era il momento dove si creava, per qualche alchimia, il futuro di tutta la rappresentazione. Queste sue visite in sordina rappresentavano, però, un altro lato debole del suo carattere, lo sapeva, ma si perdonava da sola. Pensava fosse giusto così perché, in fondo, lei era pur sempre Renata Giardino e le si potevano permettere queste piccole debolezze umane, oltre a tante altre sciocchezzuole senza importanza. Piccole debolezze che la facevano tornare in qualche modo tra i mortali, tra tutti quegli esseri normali com’era stata un tempo pure lei, prima di diventare una Dea. Ma quella sera le cose erano andate diversamente tanto che, nonostante la recita di prova fosse andata bene, a parte una stonatura del tenorino, la cena le era addirittura rimasta sullo stomaco al pensiero di ciò che le era successo. Quella sera a cena, non aveva confessato a nessuno i suoi pensieri torvi, pertanto l’acido della paura, addizionato al baccalà con polenta mal digerito e condito da parecchi bicchieri di cabernet franc (cibo e bevande che non avrebbe dovuto toccare) le era rimasto tutto nella pancia tesa come un tamburo. Era rimasta insonne tutta la notte, a pensare a quegli episodi inattesi. Ma era stato poi così grave? Certo che si, chi voleva ingannare? Mentre Renata ondeggiava col suo zibellino nell’atrio, ascoltando tizio e guardando caio o sempronio, ecco che era accaduto l’irreparabile. La prima anomalia che l’aveva turbata non poco era stata la presenza di una donna anziana e mal vestita, davanti al cartellone che riproduceva la sua immagine perfetta con l’abito di scena. Sembrava che avesse raccolto erbacce nel prato quella donnina, era tutta stazzonata e aveva al seguito una cagna bianca e nera, vecchia come lei e dalle mammelle ingrossate come se fosse gravida. In altri momenti quella donna e quel cane le avrebbero fatto una tenerezza infinita, ma non quel giorno, non il giorno della prova generale. Erano troppo vecchie e malandate e non dovevano stare troppo a lungo davanti al cartellone, le avrebbero portato male di sicuro. Probabilmente quella signora non aveva mai visto un’opera, e allora cosa ci faceva lì? Via, sciò sciò voleva dir loro Renata, come se fossero delle chiocce fastidiose e ingorde della sua immagine. Non ce l’aveva fatta a rimanere di fronte a quella visione orrenda, e così si era avviata velocemente dall’altra parte dell’atrio, fermandosi sotto al grande lampadario in stile veneziano, col respiro affannoso e gli occhi doloranti dall’immagine imperfetta che aveva colto. Proprio lì, a pochi passi da lei, un ragazzo con un giubbotto di colore viola stava parlando con un’amica di un episodio spiacevole capitato ad un suo amico. Erano in fila, con la tessera universitaria in mano, quella che fa risparmiare al cinema e al teatro. Parlava, con la voce triste e mesta, di un suo amico senegalese, annegato misteriosamente in laguna nel corso di un inverno freddo e nevoso. “Che tristezza”, aveva pensato Renata, “e che orrore” aveva bisbigliato a sé stessa subito dopo, realizzando con ripugnanza che il giovane che parlava era vestito di viola. Era un giovane squattrinato, triste, aveva perso un giovane amico di colore, ed era vestito di viola. LA SOMMA DI TUTTI I MALI! Si portò le mani alla gola: le sembrava di soffocare. Mentre usciva dall’enorme portone, con la coda dell’occhio aveva catturato l’immagine di un vecchio barbone seduto a terra: chiedeva l’elemosina, con in mano una bottiglia bianca contenente del vino rosso. Con l’altra mano, rovinata dal tempo, stava mangiando un pezzo di hamburger: a terra la ciotolina semi vuota di monete. Lei lo aveva guardato per pochi istanti, le ricordava qualcosa, qualcosa, qualche cosa che la richiamava indietro nel tempo, ma non sapeva che cosa quell’essere rappresentasse e ciò l’aveva spaventata e turbata fin dentro le viscere. Non era nemmeno riuscita a superarlo quel poveraccio, quando lui l’aveva squadrata come se avesse visto a sua volta un fantasma, ed era fuggita dal lato opposto del teatro. “Che orrore, che orrore”, doveva fuggire da tutta quella miseria improvvisa e devastante, dov’era mai capitata, cosa stava succedendo, chi le voleva tanto male? Era entrata in teatro, dall’entrata dei macchinisti, col fiato corto e con la certezza che qualcosa le stesse per cadere sulla testa. Sapeva, in quel momento, che qualcosa di definitivo la stava per riguardare e raggiungere. E proprio lì, come ad attenderla, ecco che un uomo vestito da poliziotto, sicuramente persosi, stava controllando il suo biglietto, probabilmente omaggio, davanti al manifesto che la ritraeva. Era la rovina, davvero! Lei odiava i poliziotti, le portavano sfortuna da quando tanti anni prima, a Parigi, due poliziotti per inseguire un povero cristo che aveva rubato da un camerino erano entrati in palcoscenico proprio mentre lei stava concludendo la sua romanza. Lo spettacolo era stato rovinato da quell’intrusione e lei, da quel momento, si era tenuta bene alla larga da chi vestiva quella divisa nefasta. Renata Giardino vacillava, proiettata verso un baratro di cui non vedeva il fondo. Qualcuno le voleva male, questo era certo. Mentre entrava in scena per la prova, dopo essersi cambiata gli abiti sudati dal terrore appena provato, aveva raggiunto la consapevolezza che qualcuno le avesse fatto il malocchio. “E che malocchio”, aveva sussurrato tra sé, “devo fare qualcosa di eclatante” si era detta, mentre procedeva verso l’orchestra che al suo cospetto si era alzata in piedi come se avesse visto una Madonna che camminava su una nuvola d’oro.
    ***
    Con la testa tra le mani e il trucco un po’ scioltosi sul viso, Renata ora ascolta i suoi colleghi dall’impianto di filodiffusione, quello che mette in comunicazione il palcoscenico con i camerini. Come cantano bene anche senza di me, pensa. Ma allora è tutto vero, nessuno è indispensabile, e il suo pubblico ha già iniziato a sostituirla, a scordarla, ascoltando in un silenzio religioso, che sa di messa cantata, un’artista sconosciuta che non è lei. “Ma come osano”, si dice con voce sommessa, per timore che qualcuno la senta e interpreti le su parole per debolezza umana. Un acuto straordinario, anche se non potente e nitido come i suoi, la desta dal suo torpore. Che cosa sta tentando di fare quell’attricetta da quattro soldi: di rubarle il suo pubblico, urla contro lo specchio che si appanna di colpo. Renata fa l’anamnesi del suo errore madornale di poco prima e, ancora prima che il penultimo quadro del terzo atto sia finito ha riordinato le idee: sa cosa deve fare per fuggire al male che la perseguita. Sa che il suo errore è stato provocato non dalle sue corde vocali perfette, ma da qualche cantatrice invidiosa che ha riempito di spilloni una bambolina con la sua effige. Tutti gli esseri umani hanno delle ragioni, ma Renata che è una Dea ha delle ragioni nettamente superiori a quelle di chiunque altro, e le vuole mettere a frutto prima che sia troppo tardi, pur senza sapere chi sta dietro al suo dramma. Lei sa che non ha più anatemi da giocare, o formule esoteriche che possano in qualche modo proteggerla dagli influssi malefici. Pertanto deve abbandonarle tutte, tutte, dimenticarle, visto che non sono servite a nulla quelle sue manie medioevali. Lei ne può proprio fare a meno di quelle stupide superstizioni e agire con le sue sole forze, come avrebbe dovuto fare sempre, invece di affidarsi a qualche cosa di evanescente e nascondersi dietro ad un dito. Cammina su e giù mordendosi le dita e, tra un pensiero e l’altro, col suo pennello in vero pelo di castoro si risistema il trucco da sola, senza chiamare l’addetta a tale mansione. Si sente in trappola però, si sente al limite di qualcosa che non capisce del tutto, lei che di limiti non ne ha mai avuti. Ma una cosa la sa, ed è certa: deve superarlo quel limite subito! Cammina su e giù, su e giù, e quando il telo in velluto azzurro si alza per rappresentare l’ultimo quadro del terzo e ultimo atto Renata, dopo aver spinto indietro con uno spintone la sua antagonista attonita, incede sul suo palcoscenico, dirigendosi verso il suo pubblico che ora la osserva con la bocca spalancata ed in silenzio religioso. Renata avanza, si sente sicura, si sente una divinità senza limiti e senza confronti, e ciò impregna l’aria. Sa che spingerà la sua voce fino a raggiungere addirittura un la sovracuto, altro che no, strabiliando ancora tutti come sempre e più di sempre. Se la sente che sarà così, ha superato il limite perfino di sé stessa. Camminando impettita, senza un segno di cedimento e con le mani tese verso un ipotetico amante nel cielo, Renata attacca la sua ultima romanza, tra un silenzio generale che la vede nuovamente Dea. Mentre canta e incede perfetta ed imponente nel suo lunghissimo abito di colore viola, qualcuno dal loggione le grida: DIVINA!

  49. Davvero belli. Dovremmo fare in modo che qualcuno li pubblicasse Alessandro. Sarebbe un peccato perderli nel mare delle cose non lette perchè mai pubblicate. Grazie. Marco Tonelli

  50. Conosco Alessandro e la sua sensibilità. Lieto che le sue parole possano giungere anche ad altri. Lieto che lui possa condividere con altri le sue emozioni. Anch’io spero di vederlo presto pubblicato. Giancarlo

  51. eravamo stanchi, entrambi, ma non volevamo ammetterlo. nessuno dei due voleva apparire debole all’altro. così ti venni a trovare.

    eri piccolissimo, a stento riuscivo a vedere la tua pancia che si gonfiava ad ogni tuo respiro. stavi scomparendo. un sorriso, e poi allungasti le braccia.

    tua madre piangeva, non è una di quelle donne forti, come si vedono alla tv, che combattono e reagiscono. quelle donne non esistono, o almeno si disintegrano davanti ad un figlio in quello stato.

    la stanza era come la ricordavo. interi pomeriggi a bere e fumare stesi sul tuo letto. nelle ante dell’armadio c’erano ancora le foto delle modelle nude che incollavamo da piccoli.

    con me avevo una canna, me l’avevi chiesta tu. erano mesi che non fumavi, non potevi farlo. mi sentivo meschino. sapevo che forse quella canna ti avrebbe ucciso, ma come potevo rifiutarmi di portartela?

    non si nega mai l’ultimo desiderio al condannato. però posi una sola condizione

    “quella cazzo di canna la fumi quando io me ne vado merdoso rottinculo!”

    serrai la mascella in un’imitazione obesa del sergente di full metal jacket, ed iniziasti a ridere.

    ecco vedi, vorrei ricordarti così, mentre ridi, o mentre corriamo per strada con le tasche piene di roba che rubavamo al supermarket.

    ed invece no, perchè la vita è cattiva, chi meglio di te lo sa. dovetti vedere la bara che veniva caricata , dovetti vedere tua madre che sveniva. tua sorella rannicchiata sulla panca.

    a volte penso al passato, lo sai? non ho parlato di te a molta gente. quasi nessuno sa che sei stato mio intimo amico. perchè tu sei come una di quelle gemme che bisogna tenere nascoste in un cassetto.

    tu sei.

    ciao

  52. PER ALESSANDRO PEDRINA: posso solo farti i complimenti per quello che ho letto. devi avere un animo molto sensibile per scrivere cio che scrivi! mi auguro e ti auguro che qualche tuo racconto venga pubblicato perche sarebbe un vero peccato tenere tanta grazia chiusa in un cassetto! hai talento per cui non mollare mai!!! ROSY

  53. Un bravo ad Alessandro Pedrina, con l’aggiunta che… non bisogna mai smettere di lavorare sulla scrittura. E sulla lettura.
    Per Giancarlo e Rosy. Ma Alessandro ha già pubblicato i suoi racconti, sebbene online, ma su un sito importante come questo. Del resto se molti, tra cui voi, li hanno letti è proprio perché Alessandro li ha pubblicati in questo libero iperspazio creativo che Massimo ha gentilmente messo a disposizione.
    Per Nico: davvero carino il tuo racconto lilliput.
    Smile.

  54. capisco che pubblicare su un blog sia già un traguardo, ma credo che i due ragazzi intendessero dire soltanto che spesso sarebbe bene anche veder pubblicare persone diverse dalle solite, nuovi nomi, e soprattutto meritevoli. Si ha l’impressione che a scrivere oramai siano sempre gli stessi, a meno che qualcuno non si auto finanzi, cosa che capita purtroppo sempre più spesso. In ogni caso questo alessandro ci sa fare, ha uno stile tutto suo, e sembra conosca personalmente i personaggi che ha delineato, dipingendoli parola dopo parola, quasi a scavare dentro di loro e farne delle persone completamente diverse da qualsiasi altra persona. Non è cosa da poco.

  55. Ho letto i racconti di Alessandro Pedrina con interesse e curiosità. Mi è piaciuto lo scorrere dolce ma intenso dei suoi sentimenti, la pennellata decisa con cui ha tratteggiato i personaggi, mettendoli in risalto sullo sfondo opaco della realtà degli altri.
    Bravo!
    Alessandra

  56. “IL VIOLINO”

    È INTATTA NELLE MIE ORECCHIE
    LA MUSICA DI QUEL VIOLINO
    MI ACCAREZZA L’ANIMA.

    NON È UN DRAMMA
    NON È MALINCONIA
    È SOLO LA FORZA CHE MI MANCA.

    L’IDEA DI NON ESSERE CUSTODITA,
    NEL MIO PENSIERO
    APPARE L’OMBRA DEL MIO ESSERE INGRATA CON LA VITA.

    APPLAUSI NON NE VOGLIO
    MA NEL SILENZIO MI SUSSURRO:
    DAI CI SONO IO.

    IO CHE TI RICORDO QUANDO CANTAVI
    IO CHE TI RICORDO COME BALLAVI
    E POI E POI
    IL TUO SORRISO NON SI PUÒ SCORDARE.

  57. Caro Massimo, grazie ,
    mi permetto di fare omaggio al grande Pavarotti con la mia poesia
    IL violino.

    applausi !!! caterina

  58. Stavo stuprando la mia testa con i Cabaret Voltaire. Gli auricolari facevano convergere nel cervello le note minimali di “Voice of America”.
    La mia donna, invece, mi voleva proporre un esperimento. “Isola dei famosi, proprio no?”.
    “A chi?”, chiesi sorridendo.
    “No, era per dire. Se mai vediamo cos’è, mai possiamo davvero valutare”.
    “Non ho mai visto far ingrassare un’oca fino a farla scoppiare. E poi ammazzarla a bastonate per strapparle il fegato. Eppure so ugualmente che la cosa non mi diverte”.
    “Ma dai, è diverso!”.
    “Sì, ne convengo, è diverso. Ma io non devo valutare. A chi piace, buon diverimento. A me non piace”.
    “Ti prego!”.
    Scelsi dalla discoteca una collection, e dissi: “Compromesso, dai. Guardo, ma non ascolto”.
    “Ma i dialoghi sono essenziali!”.
    “O così o niente”. La spuntai.
    Mentre i naufraghi del tubo catodico si dannavano a pescare con le mani, ad accendere il fuoco con i legnetti e a pulirsi il culo con le foglie di mangrovia, io ascoltavo i Pere Ubu.
    Certo, il rumorismo della band di Cleveland stonava come colonna sonora per quel paradiso artificiale di stelle marine e sempreverdi. Ma, in un certo senso, la cacofonia di “Modern Dance” mi aiutava a sopportare quel reality-vaniloquio.
    Ma fu con i “Suicide” che avvenne il miracolo. Grazie al punk elettronico di Vega e Rev un extra-io si generò da me. E si tuffò nello schermo per raggiungere i famosi.
    “‘Azzo siete?”, chiesi appena planai sulla sabbia.
    “Noi? Noi siamo i famosi!”.
    “Famosi voi?. Mai cacati!”.
    “Drogato!”, mi urlò una sedicente soubrette.
    “Troia!”, sparai.
    “Tu non sei nulla, e sei invidioso”, rincarò un cantante che ormai si esibiva soltanto nelle crociere a media percorrenza.
    “Perchè su lunghe tratte rompi i coglioni”, incalzai implacabile.
    E a quel punto tutto amici e tutti coesi contro l’intruso. La ballerina si abbracciò con la presentarice alla quale cinque minuti prima aveva dato della zoccola,
    L’attore sparito dai cinema spronò un ex calciatore, ma sempre pippone, ad avventarsi contro il maldigerito ospite.
    “Questo è reality – dissero in coro – e tu sei fasullo. Non è posto per te”.
    Decisi allora di concedermi un armistizio. Scelsi l’ombra più grande per adagiarmi e tirar fuori dallo zaino una cartella con inediti racconti di tal Massimo Maugeri.
    “Che roba è?????”, chiese la starlette demolita mentre mangiava tocchi di carne con le mani.
    “Cultura!”, replicai spontaneo.
    “Più di..più di Susanna Tamaro?”, azzardò la velina.
    “Oh sì, quintessenza di cultura. Frammenti lirici che penetrano nel tuo corpo come veleno e miele. Prosa dolce, incantevole. Ma che ti intossica il cuore fino alla dipendenza. Maugeri, insomma”.
    Il boss dei famosi, eletto tale dal gruppo perchè una volta era riuscito a spegnere il fuoco con un peto, agguantò il cellulare d’emergenza e si appellò alla produzione. “L’elicottero cazzo, l’elicottero – urlò – Questo non era previsto. Mangiare poco e male, dormire di merda, pescare i pesci con la punta del pisello…ok. Ma uno che legge no. Questo è troppo”.
    Dopo 10 minuti l’elicottero dipanava scale a pioli per trarre in salvo i naufraghi. E io li vidi ascendere al cielo come gesù cristi dei tele-dipendenti.
    Rimasi solo, e finalmente potevo leggere.
    “Oh…”, era la mia donna da casa. “Hei teso’, ma hai fatto fuggire tutti”!
    “E…che dirti? Non so. Vabbè, troveranno un’altra isola, altri famosi. Ora torno da te”.
    Lei armeggiò con alcuni tasti del telecomando. Schermo largo, sintonia, colore, contrasto….”Asp, teso’, ma lo sai che sei più reality lì che dal vivo?”.
    “Allora resto qui?”.
    “Ma sì, buona idea. Quando avrò voglia di amarti accenderò. Quando non voglio spegnerò”.
    “E cosa c’è di diverso dalla vita?”
    “Che questo cazzo di telecomando passa di mano in mano e, alla fine, non decide mai nessuno. A dopo tesò”.
    Clikke!

  59. E Vespa sia, no?

    Il sogno si interrompe sul più brutto. Mi alzo, mi vesto e me ne esco di casa verso le dieci. Il sole è tondo come il muso impertinente di un gatto, arancio a colate di giallo, riverbera sottile sulla strada che si scioglie.
    Distesa estate, stagione di densi climi, dei grandi mattini, dell’albe senza rumore, ci si risveglia come in un acquario. E tra le pareti di cristallo invisibile mi muovo verso il palo sotto casa. Il mio palo. Dove lego la vespa. La vespa mi guarda, sbilenca adagiata e freme, lo so, perché la porti dentro l’aria dei suoi massimo 60 kilometri all’ora. Nessuno attorno. Se non la scia pastello di un barbone che non ho mai visto. Si trascina verso una pozza d’ombra fitta, una specie di carriola la sua casa, i suoi averi.
    Tu dove sei? Sotto quale ombra stai ridendo di me, del mondo, dell’inverno che è lontano come una stazione minuscola della Bolivia.
    Roma sfrigola, e al telegiornale dicono che un caldo così non c’era da cento anni. Ogni anno dicono così.
    Accendo la vespa, romba cortese. Partiamo.
    Dalla periferia, alti alveari distorti, grigio celeste e rosa pallido, balconi ingombri di cose, case piene di odori fitti, verso il centro. Quale centro? Roma ha migliaia di centri. Roma è l’insieme dei suoi centri.
    Ieri notte di fronte alla birra ho giurato che avrei fatto il turista. Io. Ti rendi conto? Io turista della mia città.
    Affronto i campi desolati di Tor Bella Monaca con fare deciso, me li lascio dietro e vorrei singhiozzare.
    Poche macchine al limite dell’impero. Un anguraio si fa aria con la Gazzetta rosa. Da una radio si prospetta la fine del mondo, nel caldo.
    Tu avrai caldo, sicuramente. Patisci il caldo. Soprattutto quando ti abbracciano senza fiato, stretta, una cascata di braccia sulla tua schiena e sul petto gonfio. O almeno, quando stavi con me gli abbracci li pativi. Sei arrivata a patire tutto di me, anche i fiati.
    Me ne sto a destra, non sforzo il motore, non c’è fretta.
    In piazza della Repubblica vedo le merci ordinate dei cinesi abusivi, i loro volti fissi, sorrisi mesti che sanno di riso in bianco, di smog diluito a pensieri.
    Qualcuno mi grida dietro qualcosa, sicuramente per via del cuore disegnato sulla carena. Quello che hai disegnato tu. Ti dissi, ricordi?, così mi rovini la vespa. Rispondesti sicura: così ti ricordi di me. Come hai potuto pensare che fosse ciò che volevo? Come hai potuto permetterti anche questa cattiveria? Il tuo cuore io non ce l’ho, l’ho mai avuto? E mi resta l’abbozzo gocciolante sul fianco sinistro, un rosso acceso che stride con l’azzurrino della carrozzeria. Ma tanto è che non l’ho ancora cancellato. Non so perché.
    Il colle del presidente manda bagliori verdastri, lame sottili. Inizio a vedere i primi, veri turisti. Spaesati montoni in fila per due che arrancano come il barbone sotto casa mia. In cerca di una bottiglietta da mezzo litro di naturale che qualcuno gli farà pagare due euro. I più patetici sono gli inglesi, con quella loro pelle biancastra che diventa rossa subito, per il sudore e il sole, per l’imbarazzo di stare davanti a tutte le meraviglie decadenti, alla sfrontatezza della gente. Io sono il romano meno romano che c’è, mi dicevi. E me ne vanto. Io, così diverso da tutti i tuoi amici. Loro sì prototipi perfetti di ciò che ci si aspetta dai nipoti di Cesare. Ma ti è mai piaciuto questo mio essere diverso? Me lo chiedo e mi rispondo cacciando un ricordo dietro l’altro, sotto le ruote della vespa che stride intorno al Colosseo.
    Dei giorni identici, astrali, stagione la meno dolente, di oscuramenti e di crisi. Quanto ci vorrà prima che io ammetta il disastro? Quanto per espellere questa rabbia sorda muta e cieca come una scimmia, che a te assomiglia e per te è sorta? Mi fermo al bar preferito, il nostro, ed ordino un caffè lungo. Lo bevo piano, caldo su caldo, tremore su tremore. Un brivido asciutto.
    Felicità degli spazi, nessuna promessa terrena può dare pace al mio cuore quanto la certezza di sole
    che dal tuo cielo trabocca. Il cielo di Roma stamattina trabocca di luce e indolenza, ma non pace. Irrequieto più della mia piccola moto, butto lì l’occhio caso mai tu. Ben sapendo che sei persa con l’allegra comitiva ed io Peck scombinato non ho nessuno da portare a farsi mangiare la mano se dice bugie.
    Dov’è l’errore, dove la madornale offesa? Ognuno dei nostri giorni è una lenta agonia che torna, una fitta allo stomaco, ma forse è la troppa caffeina.
    Stagione estrema, che cadi prostrata in riposi enormi. Sotto le ruote liquide di un furgoncino, riposa o forse muore un randagio spelacchiato. In via del Corso c’è un po’ più di movimento, e alcuni negozi sono aperti. Fin da bambino m’è sempre piaciuto andare a vedere i sempre uguali poster del cinema qua vicino. Prima dell’immancabile monetina luccicante nella vasca dei desideri. Soprattutto Totò, Manfredi, De Niro. Cosa chiedevo lanciando il mio obolo misero tu lo sai. Ma la mia parte nel film importante è finita. Nei tuo titoli di coda di sicuro vengo dopo il tecnico del suono, gli operatori di ripresa. Io che credevo d’essere il protagonista, almeno il cattivo. E’ l’ora della tua pastiglia, che ingoi senz’acqua, è l’ora in cui ti piace fare il bagno. Chi ti sta spruzzando l’acqua addosso non sa che non patisci l’ingresso in mare. Non come me.
    Il mio intento di svagato turismo non sta funzionando. Vedo gli estranei che sono ancora più estranei, e mi rendo conto di non avere una rubrica telefonica all’altezza della mia malinconia. Il cellulare muto sembra un telecomando inutile. E dire che ci sto provando, e con impegno, a vedere queste insegne, i ciottoli, gli angoli, le gonne delle ragazze, i volti taglienti dei negozianti come fossero appena sorti, dal magma appiccicoso di metà agosto, dalla bolla incantata di silenzio che fischia. Come fossero nuovi, ingenui, strani, vergini. Io li ho già guardati e pure tu, insieme li abbiamo slabbrati non c’è niente da fare, da che erano intonsi, forse in un passato di sterminata folgore, noi li abbiamo ribattezzati con gli sguardi e i continui giri in vespa, c’è l’alone del tuo corpo dietro la mia schiena e braccia che mi stringono appena sopra lo stomaco, altro che caffeina. Niente può essere nuovo e niente stupore. Lo stupore è l’addio che gira e gira e non smette, in ogni sorso di respiro affannoso, in ogni tiro di sigarette.
    Dai oro ai più vasti sogni, stagione che poni la luce a distendere il tempo di là’ dai confini del giorno.
    Eppure nella mia mancanza d’appetito, nello scarso sonno, nella tua assenza c’è una sorta di poesia che mi frulla tra i capelli e non è l’aria (immobile, stagnante, ricca di profumi di pietra e acqua di fontane), c’è poesia negli occhi che parlano altre lingue e mi guardano (loro sì che credono che io sia il prototipo del buon romano) e forse hanno simpatia, c’è poesia sulle tovaglie dei ristoranti, tra le macchie di nero dei vicoli, sulle panchine deserte di Villa Borghese, sotto i ponti, a Trastevere che sonnecchia ancora, tra le pagine dei libri che qualcuno dimentica apposta in stazione Termini. E’ la poesia di chi ha vissuto e sta vivendo, il momento peggiore, quello più eterno. Non l’amore che dura pochi istanti e si consuma mentre ridi, ma il ripensarci piano, a lungo, sorsi tiepidi che sconquassano dentro. Ogni sobbalzo sul sellino, ogni frenata ad un semaforo, perfino la coda davanti alla bocca che faccio da solo. E quando è il mio turno, nonostante tutta la mia volontà, la rabbia, la solitudine vischiosa, la mia mano non è monca ed io ti amo allora. A te che sei scomparsa eppure ancora sembri mettere a volte nell’ordine che procede qualche cadenza dell’indugio eterno.

  60. Mi piace il girovagar di Vito. E lo dico (anche) da romano. Laddove Gregory Peck si accompagna con Audrey Hepburn, Vito ha sul sellino posteriore la sua giovane curiosità. Occhi che rubano, spaziano e si meravigliano. La modestia di chi vuole imparare. Pratica insegnata da un giovane scrittore a chi avrebbe tanto bisogno di esser più umile, facendo così miglior figura.
    Ti aspetto a Roma, Vito. E porta la Vespa. Però guido io. Non mi fido di un torinese che scorrazza per Tor bella Monaca e il Trullo. Cerea!

  61. Grazie Enrico per le belle parole! Ma devo deluderti clamorosamente: non possiedo la Vespa, nè un qualsiasi scooter (conosco però Tor bella Monaca in quanto ci è nato e cresciuto mio cognato). Quindi mi dovrò per forza di cose affidare a te. Prometto però che, se vieni a Torino, ricambio portandoti a mangiare gianduiotti e a vedere dove stava niccè. 😉 un saluto!

  62. @ Vito Ferro e Enrico Gregori:
    avete fatto bene a postare i vostri racconti.
    Però, Enrico, la prossima volta che il tuo personaggio capita all’isola dei famosi o in un altro reality, ti conviene portarti racconti di autori un po’ meno carneadi di quello che citi. Chi diavolo è ‘sto Massimo Maugeri?
    Vito, non sarebbe affatto male leggere il tuo racconto con, in sottofondo, la più nota canzone dei Luna Pop. Che dici?

  63. CORPO DI DONNA

    Stavamo in quell’ora tarda
    che la luce impigrisce i gesti,
    smuovevi sassi coi piedi,
    ricordi, dicevi
    – e tu, tu vedi cosa sei diventato? –
    non alzavi quasi mai gli occhi,
    nei soffi di fumo dal labbro
    al cielo, io ci vedevo stanchezza e mistero.
    Soprattutto presagio di cose concrete,
    di lane disfatte, di poche certezze.
    E quelle, tutte scomposte, appassite.
    Ridevo ogni tanto,
    nascondendo il sonoro, replicavo
    – non sono così vecchio –
    ma pensavo a come ci avrebbe visto un ragazzo,
    in quel pozzo di vento, di sbieco,
    disfatti appoggiati al muro.
    Compiuto da molto il misfatto,
    come complici del crimine orrendo,
    cercavamo di spartirci il bottino di libertà,
    che s’era svanito ormai da tempo.
    – E’ così che doveva finire? –
    chiedesti con un ultimo spasmo
    di voce, con una di quelle flebili scosse
    che ti facevano un tempo,
    il viso rossastro più bello.
    Non risposi.
    Guardai soltanto la finta vita
    oltre i cancelli del parco,
    la vita d’oro e sussurri, rincorse
    e ancora anni, ma senza entusiamo,
    anzi quasi maledicendo,
    di dovermici in essa
    sciogliere, finito il nostro incontro.
    – Eppure, fosse anche inferno, sempre meglio
    di questo – masticai curvo, e questo
    eri tu e nient’altro, un corpo di donna
    che una volta ho amato e a lungo stretto.
    Un corpo di donna soltanto.

  64. Quelle che seguono sono alcune mie riflessioni sullo scrivere. Io, in qualità di perfetto sconosciuto con alle spalle la pubblicazione di una (per ora) quasi invenduta raccolta di racconti, “oso” proporvele come spunto di riflessione (o di insulto).

    Scrivere: sedersi davanti a un foglio vuoto e riempirlo. Ma di cosa? A quale scopo?
    Se su quel foglio non vi finisce l’essenza dell’autore ma la mano si limita a vergare parole sulla carta piuttosto di stuzzicare le corde del pensiero (e del cuore), allora ne esce uno scritto.
    Uno scritto è qualcosa che, appunto, è stato scritto. Un’opera, invece, è uno scritto vivo, che “opera” nell’istante in cui viene composto e nell’istante in cui viene letto.
    Un’opera trattiene in sé un mistero profondo, il mistero dell’uomo che l’ha composta, ovvero il mistero umano. È questo mistero che può agire, cambiare le persone, a partire dall’autore, fino al lettore.
    La scelta che si presenta ogni giorno è tra il partecipare e approfondire il mistero dell’umano – e dunque conoscere più a fondo se stesso – oppure raccontare una storia che, per quanto bella, rimarrà solo inchiostro su carta che, tutt’al più, susciterà emozioni (e non è detto che siano quelle auspicate dallo scrittore…).
    Io stesso, che ora batto queste righe, ho prodotto molti “scritti” e poche “opere”, e proprio per questo continuo a scrivere, ogni giorno alla scoperta di un pezzo nuovo di realtà.

    Vi propongo qui di seguito un assaggio di “L’ultimo sole di settembre” (in M. Savorani, “Da un paese lontano”, il Filo, Roma 2007) che ritengo uno dei miei tentativi più riusciti.

    L’ultimo sole dell’anno risplende sui filari per completare la doratura degli acini, senza fretta, svogliato pure lui, non vede l’ora d’iniziare la stagione part-time. Compito del contadino è scegliere il momento opportuno per frapporsi tra i due elementi e ricavarne un terzo. È dall’amore di questi tre elementi – sole, uva, uomo – che nasce la bevanda più nobile che abbia solcato i tavoli di tutto il mondo. Il vino, appunto.
    Quando accaddero i fatti che mi accingo a narrare ero solo ragazzino e molte cose del mondo mi sfuggivano. Come ogni ragazzo all’alba della pubertà, sentii levarsi in me una forza nuova che mi spingeva verso l’altro sesso. Proprio così: ero attratto da quel branco di animaletti piagnucolosi e boriosi che rispondeva al nome FEMMINE. Coloro che avevo osteggiato e combattuto per 12 lunghi anni stavano diventando la mia ragione di vita, e questo era terribile.
    Per fortuna l’estate stava finendo e io ero uno dei pochi scampati all’amore. Ero fiero di me, non avevo ceduto alle tentazioni della carne e tra poco il freddo avrebbe mascherato quelle nuove curve che s’intravedevano sotto ai vestitini delle ragazze. Ero salvo. Eppoi s’approssimava la vendemmia, eterno mistero dell’anno solare. Lo zio Arturo possedeva un discreto terreno, leggermente in salita ma con un’ottima esposizione al sole, che fruttava l’albana migliore del mondo. Ogni anno io, mio padre e mio fratello Tommaso lo affiancavamo nella vendemmia. Per noi era più un piacere che un sacrificio, anche perché ci permetteva di saltare in tronco la prima settimana di scuola. Sarebbe andata così anche quell’anno.

    Mi scuso con i lettori se pubblico solo una parte del racconto ma i diritti sono della casa editrice ancora per qualche anno.

  65. FIORI E FULMINI di Cristina Bove
    (Poesie)
    Prefazione di Renzo Montagnoli

    Edizioni Il Foglio http://www.ilfoglioletterario.it/

    Questa raccolta comprende un centinaio di poesie, solo una parte delle numerose che nel corso della sua vita l’autrice ha saputo creare, senza mai essere ripetitiva. L’animo di Cristina è uno specchio in cui si riflettono visioni che rimbalzano sulla carta pregne di intime considerazioni, una presa di coscienza che solo il confronto fra la realtà e il sentimento trasfigura in messaggi, ora soffusi, spesso silenziosi, e quasi mai in urla liberatorie (dalla prefazione di Renzo Montagnoli).

    Note biografiche dell’ Autrice:

    Sono nata a Napoli il 16 settembre 1942, Vivo a Roma dal ’63 anno in cui mi sono sposata. Da quando mi ricordo ho sempre dipinto, scolpito, letto molto e qualche volta scritto, famiglia permettendo, poichè la mia è stata alquanto numerosa e la mia vita intensa, ricca di eventi meravigliosi come la nascita dei miei quattro figli, la creatività, gli amici, Il miracolo di esserci ancora, sopravvissuta non so quante volte.

    La poesia è stata mia compagna e conforto sempre, perfino nelle ore più buie.

    Mi sento testimone del mio tempo e della mia esistenza.


    Una poesia estratta dalla silloge… E POI


    E POI

    E poi lo deporrò

    questo fardello di domande

    davanti ai tuoi piedi di marmo

    cui non mi inchinerò mai

    per chiederti perdono

    del dolore

    che non ti chiesi.

    E te lo lascerò davanti

    qui

    su questa terra dove regni sovrano

    monolitico assente-presente

    nel tuo regno di pietra

    e solo così potrò giustificare il tuo silenzio

    e il non ascolto

    perché se appartieni alla polvere

    in essa rimarrai

    e ti dissolverai con i tuoi mille nomi

    alla fine dei tempi…

    Io

    se la speranza è presagio d’eterno

    avrò colori di sangue e di vita

    e volerò spargendomi nell’ infinito

    verso equatori siderali

    al margine di cieli

    dove la mia certezza

    sarà l’ aver vissuto.

  66. Poesia di Prosperi non Porta
    (da forum del “Corriere” – “leggere e scrivere” di Paolo Di Stefano)

    E forte sento ché fuori piove, ma fuori soffro al sole se sòli qui gli uni agli altri stiamo,
    sol che a farci raggi in dosso di solitudine in avanzo,

    etuttavia respiri, uno o due vènti poco conta, poi cosa conta voi lo sapete sempre,

    lì così a contare,

    nessun’idea ho io, né averla voglio vista la sostanza questa dell’esser qua caldo,

    allor che vado

    per forza altrui, altrove va, questa che è di massa blu ed acqua di

    sangue-che non scorre

    sta fermo e poi sul cuore si, ferma.

    morto. Mo. Rrrto.

    in una lapide, ancor ché battendo arde! sordo vivi

    te, che sei, ma mai reale, è tutto è solo un soffio dentro, lento, che domanda poi, agli occhi questi

    ch’è dentro nostro prim’ancor chefatto, al fine ignoto;

    allòraqui

    un mondo è inonde

    e naufrago

    ma nuoto.

  67. Nobel?Ormai alla memoria a Stefano D’Arrigo per Horcynus Orca(credo che la bellezza sia intraducible,e questo rende difficilissima la sua diffusione all’estero.)

  68. Giovedì, 15 Giugno 2006

    la scelta (racconto breve)

    E’ una di quelle sere nelle quali la malinconia scioglie le sue trecce e ti si avviluppano i pensieri cercando la fermata d’autobus che ti riporti a casa.

    Lì, forse, getterò i ferri e lascerò che la pelle si strusci all’aria. Lì potrò smettere di inseguire la pietra che attraversa il mio cervello, schiantandosi contro le pareti e tornando indietro senza perdere forza nella sua corsa, rilanciata ogni volta da mille mani.

    La caligine nasconde anche ciò che urtano i miei passi.
    Potrei addirittura dire di avere freddo se solo fossi più sobrio del barbone al quale ho dato il mio ultimo mozzicone.

    E’una di quelle sere che non vorrò mai raccontare perché non saprei cosa dire di più del fatto che fosse sera, una di quelle che la città ti propone quando proprio non ha niente di meglio da offrire.

    Gli ultimi rossi di luce ancora drappeggiavano giù dalle vetrate quando avevo sentito quella voce. La stessa che avevo sognato qualche notte fa, poco dopo aver chiesto ad una di quelle bottiglie incipriate e dalla veste scura di farmi provare cosa significa sentirsi vivi.

    >.

    La voce mi aveva chiesto di usare quel coltello stringendo forte il manico di legno ricurvo e recante un rettile in lotta con i segni dei tanti usi passati. Un oggetto interessante. Poco usuale un coltello come quello per una causa come quella.
    Un manico ricurvo per una questione di una linearità disarmante.

    >.

    Ti rispose con un tono che declinava lentamente verso il sussurro, ma prontamente: >.

    > avevi chiesto.

    Non riuscivi infatti a capire dove avessi sbagliato. Eppure, proprio quell’uomo del quale avevi detto tutto quello che ritenevi si dovesse dire, stava scegliendo quella maniera insulsa per venir meno.

    Al secondo capoverso, a meno di venti righe dall’inizio della pagina, sceglieva. Decideva di avere una fine. Voleva smettere di aspettare che ti ricordassi ancora di lui.

    >.

    Ormai ero sulla strada di casa.
    Avevo camminato cosi’ velocemente che i muri erano diventati familiari senza che me ne rendessi conto.

    Se non fosse stato per quella statua non avrei nemmeno riconosciuto il quartiere.
    E proprio alla sua base, da dove si ergeva a dare nome alla via, lasciai quel foglio riempito per poche righe.

    La carta s’aggrappò al marmo ed alla sua superfice umida fino a far lacrimare l’inchiosto.

    > erano le ultime parole che precedevano il bianco.

    Passerò la notte a ricordare tutti i miei personaggi.

    Non voglio più sentire una voce come quella.
    ________________________________________________________
    http://eventounico.blog.kataweb.it/2006/06/15/la-scelta/

  69. Massimo per favore potresti eliminare il commento precedente ?
    Mi sono accorto che i simboli non fanno comparire parte del testo.

    Ora la posto nuovamente. Mi spiace per l’inconveniente.

  70. la scelta (racconto breve)

    E’ una di quelle sere nelle quali la malinconia scioglie le sue trecce e ti si avviluppano i pensieri cercando la fermata d’autobus che ti riporti a casa.

    Lì, forse, getterò i ferri e lascerò che la pelle si strusci all’aria.
    Lì potrò smettere di inseguire la pietra che attraversa il mio cervello, schiantandosi contro le pareti e tornando indietro senza perdere forza nella sua corsa, rilanciata ogni volta da mille mani.

    La caligine nasconde anche ciò che urtano i miei passi.

    Potrei addirittura dire di avere freddo se solo fossi più sobrio del barbone al quale ho dato il mio ultimo mozzicone.

    E’ una di quelle sere che non vorrò mai raccontare perché non saprei cosa dire di più del fatto che fosse sera, una di quelle che la città ti propone quando proprio non ha niente di meglio da offrire.

    Gli ultimi rossi di luce ancora drappeggiavano giù dalle vetrate quando avevo sentito quella voce. La stessa che avevo sognato qualche notte fa, poco dopo aver chiesto ad una di quelle bottiglie incipriate e dalla veste scura di farmi provare cosa significa sentirsi vivi.

    “Potresti farlo tu per me ? L’ultima sillaba di coraggio l’ho pronunciata anni addietro”.

    La voce mi aveva chiesto di usare quel coltello stringendo forte il manico di legno ricurvo e recante un rettile in lotta con i segni dei tanti usi passati. Un oggetto interessante. Poco usuale un coltello come quello per una causa come quella.
    Un manico ricurvo per una questione di una linearità disarmante.

    “Perché dovrei ?”.

    Ti rispose con un tono che declinava lentamente verso il sussurro, ma prontamente: “ Per aiutarmi a non avere più bisogno di lei. E’ terribile quando va via. Lo fa assai più in fretta di quanto ha impiegato ad arrivare. Se prima erano servite tutte le parole disponibili ad invogliarla, bastano le poche parole rimaste a convincerla ad andare. Ti lascia, mostrandoti le spalle ricoperte di niente”.

    “E’ così grave ?” avevi chiesto.

    Non riuscivi infatti a capire dove avessi sbagliato.

    Eppure, proprio quell’uomo del quale avevi detto tutto quello che ritenevi si dovesse dire, stava scegliendo quella maniera insulsa per venir meno. Al secondo capoverso, a meno di venti righe dall’inizio della pagina, sceglieva.

    Decideva di avere una fine. Voleva smettere di aspettare che ti ricordassi ancora di lui.

    “Non puoi concedere attenzione e poi riprenderla. Non con me. Io sono un personaggio da curare ad ogni passo come l’ultimo arrivato, quello del quale bisogna dire e narrare, annoverando tutti gli inutili particolari che rendono un soggetto compiuto. Voglio arrivare come chiamato e tornare come invocato. Bisogna che ogni aggettivo evochi la mia presenza in maniera determinante. Voglio esserci e non essere solo ricordato. Meglio non essere piuttosto che sperare ad ogni fiato che ci sia memoria di me. Uccidimi dunque.”.

    Ormai ero sulla strada di casa.

    Avevo camminato cosi’ velocemente che i muri erano diventati familiari senza che me ne rendessi conto.

    Se non fosse stato per quella statua non avrei nemmeno riconosciuto il quartiere. E proprio alla sua base, da dove si ergeva a dare nome alla via, lasciai quel foglio riempito per poche righe.

    La carta s’aggrappò al marmo ed alla sua superfice umida fino a far lacrimare l’inchiosto.

    “Uscì, dunque, senza accennare minimamente a quando sarebbe tornato e men che meno da dove. Sembrava quasi che in quel modo volesse cancella re la sua stessa esistenza” erano le ultime parole che precedevano il bianco.

    Passerò la notte a ricordare tutti i miei personaggi.

    Non voglio più sentire una voce come quella.
    _________________________________________________________
    http://eventounico.blog.kataweb.it/2006/06/15/la-scelta/

  71. Silvia, io, con quello che scrivo, ci parlo, ci vivo. A volte ho avuto la sensazione di essere una sorta di demiurgo che può disporre delle vicende e delle esistenze a piacimento. L’ho trovata una fastidiosa forma di onnipotenza. Dunque, per recuperare quella dimensione umana alla quale tengo molto, ho scritto quello che vedi. Non credo che abbia un grande valore, ma a dispetto di ciò che si può pensare e per quanto paradossale possa apparire, è sicuramente autentico.
    Di solito non scrivo cose come questa, dal momento che preferisco la prosa, la prosa poetica e la poesia. Proprio perchè è un testo non nelle mie corde mi ha fatto piacere proporlo. Grazie per averlo letto.

  72. Carissimo eventounico,
    ho trovato il tuo racconto bellissimo, toccante e vero.
    C’è tutto il rapporto tra scrittore e personaggio, quel groviglio strano e indecifrato tra essere sè ed essere altro nel cui spazio si muove la fantasia. E la fantasia, sì , ha una voce. E la fantasia, sì, pretende. Prende. Dà qualcosa in cambio.Spessissimo svola via più in fretta di quanto vorremmo.
    Di certo ci lascia. E quel momento è un lutto.
    E’ un ingarbugliato destino quello dello scrittore. Stare in compagnia degli esseri che più ti commuovono e poi, d’un colpo, perderli per strade che non sai più nemmeno evocare. Sarà perchè anche la solitudine, non solo la fantasia, ha molte pretese.
    In omaggio a Sergio Sozi che me lo ha chiesto con galanteria da vero gentiluomo (pardon: gentilscrittore) e in omaggio anche a questo tuo bellissimo canto, posto di seguito un mio racconto in cui parlo proprio del rapporto tra scrittore e personaggio.
    Stavolta, però, la voce narrante è un po’ inusuale. Si tratta di un’Elsa Morante già ombra, che mi si è presentata così, lasciandomi a tratti la sua storia.
    Mi ha chiamata per nome, ha salmodiato vocette di versi al mio orecchio, infine mi ha messo in mano la penna.
    Non potevo non ascoltarla.
    Grazie del bellissimo racconto e…
    @ Sergio…caro, questo che segue è per te.

  73. “Che il segreto sia qui?Ricordare come l’opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista , cercare soprattutto di ricordare.Chè forse tutto l’inventare è ricordare”.
    Elsa Morante- Roma, 23-1-1938

    Ti avevo detto.

    Ti avevo detto di non darmi età, né nome, né appartenenza.
    Non mi hai voluto ascoltare.
    E va bene, sarò allora per te persona, ombra, ricordo. Ma solo nella parola scritta, perché nessuno abbia a dire che mi hai conosciuta. O che alcuno mi abbia conosciuta.
    Sono esistita, sì, ma senza volerlo, e se proprio devi scrivere di me, fa che sia come di chi si offenda al riguardo, e ammicchi al tuo lavoro con un certo distacco.
    Fingerò, almeno una volta, di essere stata un’altra. E se anche tu vorrai darmi voce, farò in modo che non sia la mia.
    Fingerò che sia la tua.

    Elsa Morante all’autrice

    Elsa ha terminato di mangiare. Quel solito ristorantino a Trastevere, dove lei e Alberto si ritrovano ogni giovedì, alla stessa ora. Una volta la settimana. Come due amanti, lui esce dall’appartamento in via dell’Oca , lei dal suo in via del Babbuino. Mangiano, si guardano, si raccontano le ultime novità. Nessuno direbbe che sono sposati.
    Poi lui scappa sempre per primo, un appuntamento, una pagina da limare,un volto da ingabbiare nelle maglie fitte della penna.
    Non aspetta mai che lei finisca.
    Ed Elsa lo guarda allontanarsi in silenzio, immaginandolo di spalle, la nuca imbrunita di capelli radi, il cappotto che sfiora il marciapiede.
    Immaginandolo.
    Perché , per vederlo andare via, non ha mai voluto alzare lo sguardo.

    **********

    Dove sono nata lo sai, lo sanno tutti.
    Roma.
    Un po’ sud e un po’ centro, un po’ maestà e un po’ paesana pure allora, nel 1912. Non c’era ancora la guerra.
    Fu nella canicola d’Agosto. Nella contr’ora. Fosse stata di Napoli, mia madre si sarebbe voltata dall’altra parte. Alle prime spinte avrebbe sbadigliato, mi avrebbe detto :”Non ora” , perché non c’è niente di peggio di un figlio che vuole nascere nella siesta.
    Ma eravamo a Roma e lei, Irma, mia madre, era ebrea. E per gli ebrei nascere è un dovere.
    Così mi mise al mondo. In un giorno e in un momento inopportuni:Domenica, 18 Agosto, ore 15, 30. Subito dopo il pranzo di famiglia.
    Sarà per questo che nella vita ci sono stata sempre per sbaglio.

    ******

    Ma oggi alza lo sguardo, Elsa. Ha improvvisamente voglia di vedere dove va. Di non immaginare.
    E’ stanca di sognarlo.Di costruire sui suoi silenzi parole che non ha mai pronunciato. Di sovrapporre alle sue assenze gesti che non ha mai fatto.
    Oggi vuole vedere , Elsa.
    E lo segue, prima con tremore e incertezza, poi con ansia, follia, frenesia. Coraggio.
    Non ha mai pensato che non potesse rientrare a casa. Che potesse prendere un’altra strada. Sconosciuta.
    Dietro l’angolo c’è via dell’Oca, dietro il muro c’è il portone, poi le scale, la porta.
    Immagina, immagina via dell’Oca, Elsa, immagina il muro, le scale , la porta. Ma non le vede. Lui non prende quella strada, non volta quel muro, non sale quelle scale.Lui è un’ombra diversa dal sogno, diversa da quella immaginata. E’ un corpo trasfigurato, Alberto, e non è lui quando bacia un’altra, non è lui quando le sorride, non è lui quando si nasconde agli sguardi dei passanti.

    *********

    Quando mia madre mi vide, sporca di pelurie bionde tanto lunghe da poterle raccogliere in una treccia – e treccia era il mio corpo, la mia culla, l’ombellico che pure mi cingeva di spire – disse che ero nata per raccontare.
    Lo dedusse dal fatto che piangevo sempre per gioco, mai per ottenere qualcosa. Latte, sonno, veglia: non reclamavo i miei diritti per vivere. Solo per fantasia. Per il gusto di vedermi sollevata dal cuscino di stoffe pesanti che Irma aggiustava sotto di me, per osservarla china sul mio viso, vicina, sfiorante la mia bocca – calore, afa di grembo, fiato impastato di ricordi.
    Anch’io non rammento un mio solo gesto fatto per necessità.
    Ma necessità era prepararmi ai sogni della notte. Gustarli prima che arrivassero. Prevederli nel solco lasciato dalla vita di quel giorno, unico interminabile giorno dell’infanzia.
    Non date, non momenti, un unico flusso di sensazioni, umori, agitazioni del cuore.

    **************

    Ed ora che l’ha visto , preferisce immaginarlo.
    Preferisce ricordare i sogni, le confusioni, le sovrapposizioni di gesti, sguardi non suoi.Preferisce fingere di non averlo mai seguito, mai ingabbiato nella realtà.
    Ma la finzione non l’ha mai coinvolta, neanche nella scrittura. Ha sempre scritto di sogni. E i sogni sono veri.
    Così, è arrivata all’età matura senza saper dire bugie. Senza mai sospettare che la scrittura è infingimento.

    ************

    Dunque, ero Elsa. Possibile, Elsa? Sì, Elsa. Sei tu, sono io. Grande , e piccola. Un’Elsa che fingeva di fare la bambina. Ma adulta, un’adulta che la sovrastava –mi sovrastava- la rimproverava, rideva dei suoi capricci.
    Elsa del giorno, piccola per gli altri, nascosta, ed Elsa di notte, furtiva, che strisciava allo scoperto…sccc…sccc…che mamma se ne accorge, Elsa, non esagerare, già ci sei, lo so, lo so, ti sento.
    Così ero. Duplice e massiccia. Scissa . Giorno e notte. Piccola e grande.
    Poi scoprii la scrittura.
    Da sola, senza motivo, capii che potevo scrivere. Che i segni immaginari della notte erano lettere, favole, dolori.
    Scrivere era dolore.Cavare fuori da ogni suono una lettera. Da ogni traccia di inchiostro una frase.Pareva di metterle al mondo , le vocali. Doveva essere come partorirle. E luce e ombra come il parto, una gestazione di lacrime e sorrisi che venivano allo scoperto.
    Fin da allora, fin dai tempi in cui scrivere era favola, invenzione, bimberia, il linguaggio emergeva da me quasi avesse vita propria, inabissato,e come se io non dovessi fare altro che resuscitarlo.
    Come un figlio, lo covavo nelle mie pareti, nelle cavità del mio essere – profondità, spasimi, ondeggi della memoria.
    Mai, mai, pensai che fosse una ricerca,un’avventura.
    Lo concepii intatto.Una nascita già avvenuta molte volte che io dovevo solo ricordare.

    ********

    Ma poi si scuote, sobbalza, ci crede. L’ha visto.
    Alberto con un’altra, Alberto che parla con un’altra, Alberto che s’incammina con un’altra verso dove? Ma quegli sguardi sono suoi, sono di Elsa – ricordi, Alberto, Elsa? – quella camminata è sua, quella donna è lei.Con quell’uomo. Quella non può essere una coppia. Perché uno dei componenti le è estraneo, lontano, abbagliante della sua solitudine.
    E non è quella l’ora, non è quello il tempo – rarefatto, immobile, sollevato dagli astri. Non è mai stato di pomeriggio, sempre la mattina, quando le luci si smorzano nei respiri e il letto si riempie di spazi, corpi, braccia.
    E’ tutto sbagliato. Non è quello il momento.

    *************

    Prima di me c’era stato Mario. Ma per un momento – chi può dire, poi, quale sia il momento giusto per venire al mondo?
    Soltanto il tempo di decidere che la vita – quella vera, non quella immaginata, pensata, odorata nel ventre- non faceva per lui.
    Era venuto per questo, Mario.Per dare un’occhiata. E poi se n’era tornato indietro . Morto da eroe, ci disse Irma, perché ci vuole più coraggio a decidere di voltare le spalle alla realtà, piuttosto che tuffarsi in essa credendola sogno.
    Anch’io provenivo da lì. Ma arrivata alla vita da una strada solitaria, diversa.
    Ho sempre creduto infatti che la differenza tra gli esseri umani non stia tanto nel luogo dal quale provengono –identico luogo, identico spazio dell’anima, immoto , invisibile cielo – quanto, piuttosto, dal modo in cui da quel luogo giungono.
    Mario scelse una via breve. Quella dello sguardo.
    Io una strada lunga. Quella della memoria.

    **********

    E adesso non sa cosa fare. Fermarlo. Fermarli.
    O chiamarlo, urlare puttana puttana traditore, o piangere, invocare nomi, dèi del passato? Resuscitare ricordi, quali ricordi?
    Era vero quello che diceva Irma. Ha avuto più coraggio Mario.
    Ancora pochi metri e non li vedrà più. Volteranno l’angolo con passi che sembrano abituali.
    Dunque, è già rito. Già accumulo di strade attraversate, odorate, osservate insieme.
    Dunque è già prenderlo sottobraccio, accompagnarlo nella vecchiaia.
    E’ già memoria .
    Allora è finita, pensa Elsa. Allora è per dolore e per fantasia.Allora è diverso.
    Non solo un accavallarsi di corpi. Ma di ricordi.
    Quella donna dev’essere una scrittrice.

    ***************

    Scrivere è come ricordare. Decifrare voci, richiami che vengono da lontano.
    Stesa sui cuscini della camera di mia madre, o nascosta negli armadi del guardaroba, scrivevo evocando fantasmi.
    Mi ronzavano intorno, mi infastidivano, reclamavano un volto, una vita, una memoria. Non li ho mai delusi.
    Ad ognuno ho dato un’avventura. Per ognuno ho creato un ricordo. Li ho accompagnati nell’oscurità dei miei pensieri, e lì li ho generati come maschere che pian piano scolorivano, diventando persone.
    Li ho amati, li ho fatti miei, li ho pianti quando hanno deciso di lasciarmi.
    Con i miei personaggi mi sono preparata ai lutti.
    Dopo di loro ho imparato che nella vita c’è sempre qualcuno che deve andare via.

    Elsa a Simona nel Gennaio 2006

  74. Purtroppo nel versarlo in rete il racconto ha perso la differenza dei caratteri in corsivo della voce di Elsa.
    Immaginateli voi.
    Anche tra il titolo “Ti avevo detto” , l’epigrafe in alto, e la narrazione c’erano degli spazi che sono volati via.
    Immaginate anche questi.
    Grazie di tutto.

  75. Carissima Simona,
    il tuo racconto mi giunge in un momento di particolare sensibilità emotiva, e non può che colpirmi la poesia di cui è intriso. Un racconto con frasi, parole, ricordi che restano a girare nel cervello e sui quali non posso fare a meno di riflettere.
    Scusami l’ovvietà nel dirti in parole semplici che mi piace molto come scrivi e quello che scrivi. Farò tesoro soprattutto di alcuni passi (non dirò quali), perchè in un certo qual modo e in misura del tutto personale mi appartengono.
    baci

  76. Grazie, Silvia cara. Anch’io mi rifletto molto nel tuo modo di scrivere e di sentire. Mi guardo in te come ad uno…”specchio” (per rimanere nel tema del tuo bellissimo scritto)

  77. Simona,
    è proprio vero che la scrittura, amplificata in questo caso dalla rete, diventa intelligenza e sensibilità collettiva nell’ambito della quale la paternità dei pensieri perde di importanza. Quello che conta è la partecipazione. Un processo di appartenenza, dunque, non un punto di arrivo. Una dialettica dei sentimenti nella quale la voce narrante può essere di chiunque, purchè abbia accordato i battiti del suo cuore. In tal senso mi approprio dei tuoi pensieri, se posso, perchè, come hai scrittto, nel tuo commento al mio breve racconto, essi già vivevano dentro di noi. La scrittura è memoria. Quando un pensiero assume forma scritta esso è già ricordo. Non ha importanza quanto breve sia stata la sua vita.
    Grazie ancora.

  78. caro eventounico,
    sì,la penso proprio come te. La scrittura è un grande percorso di appartenenza e di contatto tra mondi.
    D’altra parte il primo grande incontro, la prima vera appartenenza, è quella tra libro (e quindi scrittore) e lettore.
    Un approccio oserei dire intimissimo, diverso per ciascuno, di trasformazione persino della materia scritta e di adattamento al proprio sentire.
    La cosa meravigliosa è che talvolta sono proprio le parole a venirci incontro. Non siamo noi a cercarle.
    Così è accaduto a me leggendo il tuo racconto. E così spero di essere riuscita a fare io proponendovi il mio.
    Quanto a fare propri i pensieri di un altro….è cio’ che deve avvenire quando si legge. Anzi, io dico sempre che lo scrittore è il migliore e il più raffinato dei ladri, proprio perchè ruba parole (il mio romanzo, ancora in cantiere, parla di una ladra di parole del 1600 che sarà bruciata sul rogo per questo motivo!)
    Grazie per le emozioni che mi hai regalato e per quel tuo personaggio che reclama una voce nella notte.
    simo

  79. Simona, scrittura e tecniche della memoria hanno fatto molta strada insieme, scambiati nella loro unione per pratiche magiche. Sicuramente hanno strizzato l’occhio all’alchimia. Ma fù vera empietà ? Ne ho scritto. Ciao.

  80. A Simona, a Eventounico.
    Che belli i vostri racconti! Bravi, bravi, bravi.
    Per voi, dal cuore, il più grande dei sorrisi.
    Smile

  81. @Elektra
    anche a te grazie di cuore e un immenso sorriso (quello che inaspettatamente sta illuminando la mia giornata).

    @eventounico. No, non fu empietà. Fu amore. Desiderio.Follia.
    Un sorriso anche a te.

  82. A proposito di scrittura e memoria.
    Lo fa meravigliosamente Proust nella recherche.
    La chiamano “memoria involontaria” perchè nascerebbe dal casuale incontro con elementi che richiamano dal subconscio il nostro passato.

    @eventounico:secondo te esiste davvero una memoria involontaria che la scrittura farebbe riemergere? O non è piuttosto la memoria a selezionare inconsciamente il passato?
    Secondo me in letteratura, come nella vita, il caso non esiste.

  83. @simona
    La Recerche è uno dei miei fari. Non si tratta di elementi involontari, bensì di associazione sensoriale. L’olfatto è il più potente, più del gusto (madeleine…). Tuttavia credo che la scrittura, essendo la manifestazione più alta della sensorialità, in quanto concettualizzazione dell’esperienza, può avere una funzione di recupero maggiore. A me è capitato spesso di ricordare scrivendo. Molte volte mi sono svegliato in camere d’albergo nelle quali…

  84. @eventounico. Avviene perchè (altra citazione proustiana) ” L’ordine degli anni e dei mondi è sconvolto”.
    Sì, credo sia la scrittura il senso che maggiormente sollecita la memoria.Forse proprio perchè è gusto, olfatto, tatto, vista e odorato tutto insieme sol che li si doni a un personaggio.
    Abbiamo molto in comune. Anch’io spesso scrivendo ho riesumato folle di ricordi!

  85. @ eventounico:
    quel che ho da dire arriva semplicemente dalla mia impressione di semplice lettore. Non pensare che io parli da chissà quale pulpito perchè i pontificatori mi scassano la fava e non mi dicono nulla.
    Ho letto il tuo racconto. Secondo me (ribadisco secondo me) hai la stoffa. Sei creativo, sai scavare dentro di te e dentro ciò che ti circonda. Sei un osservatore. E osservando, immagazzini, fagociiti e, scrivendo, restituisci.
    Viste le capacità, allora, abbandona gli stereotipi. Non so quanti anni hai, ma a occhio sei giovane. Lo stereotipo, spesso, è il rifugio di chi non ha bagaglio.
    Ci sai fare. Lascia stare gli schemi e spara il cazzo che vuoi, ma spara da qualche parte. Qualcosa colpirai.
    Ti ho scritto con stima e umiltà. E’ un evento unico
    🙂

  86. Cara Simona,
    grazie per il racconto! Me ne accorgo solo ora che sto andando a letto ma ti prometto che domani lo leggero’ senz’altro. Regalo prezioso.
    Buonanotte
    Sergio

  87. Enrico, ecco, sei riuscito a farmi piangere…:-)
    A parte gli scherzi, questa credo sia stata la lettura più gradita che abbia mai ricevuto, proprio perchè i pontificatori ti s.. la fava. Devo confessarti che non me l’aspettavo. In quanto allo sparare, metto continuamente il proiettile in canna, ma poi arriva qualche evento della vita reale, quella nel quale devi portare il pane a casa, che mi fa guardare a terra.
    p.s.
    Non sono così giovane. Mi colloco tra te e Sozi, più vicino a Sergio.

  88. A tutti Voi
    Caro Massimo Maugeri complimenti, e tu sei certamente avvezzo ai riconoscimenti, per il tuo impegno quotidiano che si somma agli anni di ricerca letteraria,narratore tu stesso e abile manager in letteratidudine,se me lo consenti: io personalmente, sono rimasto affascinato da te e dai tuoi amici di scrittura letteraria:proprio una bella compagnia teatrale sarebbe la Vostra,ché si recita a soggetto sempre:Sergio Sozi,Enrico Gregori,Francesco Di Domenico,Eventounico,Carlo S.,Miriam Ravasio, Maria Teresa Santalucia Scibona,Simona il magistrato,Barbara Gozzi,Silvia Leonardi,Renara Ciaravino,e altri amici,altri ancora. Voi personaggi,Voi stessi autori,che cercano altri personaggi per poter esistere dal punto di vista letterario:io vi sto vedendo attraverso un vetro e Voi non mi vedete, e, questo è veramente magico per me; poter assaporare,respirare,recitare le vostre parole scritte nel dibattito più di uno:il Vostro amore per la scrittura prevale, ma, qualcuno di Voi rimane dentro sé a custodire e a difendere legittimamente la propria anima,tutto sommato, senza concedersi molto, e, aprirsi agli altri,certo,dal punto di vista letterario solamente;però, qualcuno di Voi che questo lo fa c’è, senza auto celebrarsi;questo è quello che io ho percepito,se me lo consentite.
    E continuando:pronti tutti Voi, se stimolati dal nostro regista Massimo Maugeri, a salire sul palcoscenico;e così, ognuno di Voi, a prendere il proprio posto, chi seduto e chi in piedi; rivolti al Vostro pubblico che ha riempito tutti i posti a sedere in sala,e qualcun altro mi sembra proprio in piedi,che meraviglia!invece,sul palcoscenico tutti Voi, siete stretti e unanimi, attorno a un’unica anima, questa volta propedeutica, edificante,vivifica,vituperata:la scrittura letteraria:e tutti Voi gli date voce,suono,colore e immagine: così che, si apre il sipario e la Vostra vita narrante continua normale; certe volte con affanno e il più delle volte con la consapevolezza,che il nostro “sé” esiste e conviene lasciarlo andare alla ricerca, nella speranza, di condividersi con tutti Noi!
    Il Vostro pubblico Vi applaude:io rimango invisibile e continuo ad accarezzare le Vostre parole scritte e a farVi dei sorrisi e dei gesti di solidarietà simile a un caldo abbraccio a tutti Voi, attraverso il vetro:lo specchio della mia anima.
    (tratto dal mio copione teatrale 2007:
    ”Un autore alla ricerca dei suoi personaggi”)
    Grazie!
    Augurissimi sentiti a tutti Noi,per le feste entranti,per le nostre famiglie e a tutti quelli che brinderanno alla nostra salute,fine e anno nuovo 2008:una festa bella una cifra,che ve ne pare?
    Ciaoooo,con empatia
    Luca Gallina

  89. @ Luca. la tua idea non è male! Anzi io la modernizzerei, perché non pensi ad un Lost letterario? Conosci quel telefilm, a me piace un sacco! Sì, noi non saremmo male, personaggi traducibili anche in una striscia. Ma non di fronte ad un pubblico, bensì, ognuno di fronte al proprio vetro (come lo sei tu); vetro, schermo, che è bisogno di comunicare, che è specchio per le vanità, che è simpatia veloce da regalare per stare in pace con se stessi, che è conoscenza, capacità, omologazione, che è solitudine….. che è specchio. Insomma, pensaci tu! Il pubblico non c’è più, solo altri milioni di vetri. E a proposito di immagini che si producono all’infinito, conosci Minotaurus di Friedrich Durrenmatt?
    Nei personaggi hai dimenticato Gea (il suo epiteto: la sensibilità che spara); figura centrale e necessaria per ogni rappresentazione.

    Pensaci e auguri anche a te, ma perché così in anticipo, vai già via?

  90. Caro Luca,
    ti ringrazio moltissimo. Sei molto, troppo gentile. L’inico appunto è il seguente! Guarda che anche tu sei un attore della compagnia teatrale di letteratitudine. E di quelli che recita un ruolo importante.
    Ti abbraccio
    😉
    P.s. dedicherò un apposito post per le festività

  91. @ Miriam:
    Idea stimolante, la tua.
    Ne lancio un’altra io. E se Letteratitudine diventasse un libro?
    Sì, un libro. Un libro con tutti voi. Con i vostri commenti.
    Che ne dite?

  92. @gea, a proposito di faccette, il mio computer non fa più nemmeno quelle gialle! Non capisco.
    @Massimo, sì, magari con le immagini !!!

  93. Caro Luca, bel pensiero, bel commento. Mi sento lusingata nel farne parte, insieme a persone che ho imparato a conoscere, scoprire giorno per giorno. Persone, non personaggi. Vere come te e il tuo genuino entusiasmo.
    Il Lost letterario a cui pensa Miriam è veramente rivoluzionario, che idee tirate fuori, ragazzi 🙂

  94. Caro Luca,
    il tuo commento mi ha fatto sorridere.
    Qui siamo tutti un pò attori e un pò spettatori. Il vetro non è infrangibile bensì liquido per come lo vivo io, hai presente il film (poi serie tv) ‘Stargate’? Ecco attraversarlo quel passaggio è alla portata di tutti (qui nello Stargate di Letteratitudine intendo). Per cui io sono senza dubbio comparsa ma soprattutto spettatrice che ascolta, applaude, riflette, magari alzo la mano. E’un non palcoscenico.
    Poi sulla regia, ecco lì direi che c’è una colonna portante. ^ _ ^

    Un abbraccio a tutti,
    gli auguri li lasciò la prossima settima (non mi sembra così vicino Natale, solo una settimana?? ° _ °. Con i regali però sono a buon punto, è un mese che sono posseduta dallo shopping sfrenato on line. Books of course)
    B

  95. Caro Luca nostro, sempre benevolmente analizzatore e bambino, dolce puer,
    Questa mi sembra – ossia la sento come – una grande famiglia. Insieme a te. Io sono colui che risparmia se stesso, hai capito bene. Massimo pure, ma in maniera diversa: io sono un malato (anche) di nostalgia e di bellezza; e pure, a tratti ma spesso, un uomo discontinuo, epidermico e tempestoso, pignolo, affettuoso e collerico quanto autorepresso, franco e schizzinoso, aristocratico nel senso medievale: un grezzo pieno di un paio di sentimenti forti ma incrollabili, insomma un sempliciotto. Massimo piuttosto e’ – mi sembra essere, anzi, che’ non l’ho mai visto in faccia se non a distanza – un giovane complicato, meditativo, mediatore, intelligentemente prudente e rispettoso, intinto nella realta’ del vecchio-nuovo Brutto Millennio, colmo di dubbi e dotato d’indole bonaria e onesta. Un giovane complesso. Io no: un vecchio monolitico ed intemperante. E mi sta bene cosi’, se sta bene al Creatore mio.
    Tuo
    Sergio
    P.S.
    Vorrei dire alcune cose che sento e penso sul soprastante mono-dia-logo della Simona cara. Mo’ lo faccio. Sono carico di emozioni e devo metterle in riga. Perche’ scrivere non e’ chiacchierare. Mai.

  96. Simona,
    questo lavoro nasce mettendo le mani avanti: la Morante si presta ma desidera che tu la tratti da estranea. Un po’ facile per te, moralmente parlando; operazione difficile all’estremo, tuttavia, da un punto di vista recitativo: per il fatto che distinguere tra quel che si vuole dire – quel che TU Simona vuoi dire – e quel che si vuol – che TU vuoi – attribuire alla voce narrante Elsa e’ sceveramento interiore ”difficilerrimo”!
    Guarda: ”Così ero. Duplice e massiccia. Scissa . Giorno e notte. Piccola e grande.
    Poi scoprii la scrittura.
    Da sola, senza motivo, capii che potevo scrivere. Che i segni immaginari della notte erano lettere, favole, dolori.
    Scrivere era dolore.Cavare fuori da ogni suono una lettera. Da ogni traccia di inchiostro una frase.Pareva di metterle al mondo , le vocali. Doveva essere come partorirle. E luce e ombra come il parto, una gestazione di lacrime e sorrisi che venivano allo scoperto.
    Fin da allora, fin dai tempi in cui scrivere era favola, invenzione, bimberia, il linguaggio emergeva da me quasi avesse vita propria, inabissato,e come se io non dovessi fare altro che resuscitarlo.
    Come un figlio, lo covavo nelle mie pareti, nelle cavità del mio essere – profondità, spasimi, ondeggi della memoria.
    Mai, mai, pensai che fosse una ricerca,un’avventura.
    Lo concepii intatto.Una nascita già avvenuta molte volte che io dovevo solo ricordare.”
    Ecco, guarda, Simona: parli di un essere ibrido e scisso. Nel quale si compenetrano il tradimento della vita che sente Simona e il tradimento del marito Moravia che sente Elsa Morante. Ne fuoriesce, anzi ne vien partorito ancestralmente, quasi per partenogenesi, un bimbo-scrittorio, o meglio una fanciulla indefinibile ”Simonelsa” del tutto impreparata alla vita bruta. Alla vita carogna ma sicura di se’.
    Simona: se tu avessi curato meglio il testo ((ehh!) avresti forse rinnegato la melancolica poesia che ne sta immersa. Lo so. Non te ne faccio un cruccio.
    In ogni caso, del buon labor limae sara’ necessario per sistemare cose importanti – nel tuo caso piu’ che mai – come i corsivati e gli interlinea, i grassetti, eccetera. Sgrosserai il testo, pulirai questa attraente epidermide porcina e verace, delicata al contempo come pelle di nobildonna?
    Fallo, se vuoi. Sarebbe tutto di guadagnato per l’ottenimento di quel risultato mitico-narrativo cui potresti aspirare – per buona pace della cara Yourcenar.
    Sergio Sozi

  97. Certo che lo farò, caro Segio. Non è mai facile limare parole che sgorgano da un’esperienza vissuta, dolorosa, ma credo che oltre al testo ci guadagni anche l’anima.
    Ti sono grata di avermi letta con tanta attenzione e cura e ti rinvio al prossimo lavoro.
    grazie, tua Simo

  98. Certo, Simona. Ma se il testo migliora espressivamente, anche l’anima di chi legge migliora la sua assimilazione della tua (di anima). In ogni caso, ho detto diverse altre cose. Pareri personali, certo. Ma dei quali sono convinto.
    Salutoni!
    Sergio

  99. Sergio caro,
    non solo mi hai fatto piacere, ma mi hai commossa per la serietà con cui affondi nella lettura. Una presa di coscienza, la tua, un vivere sulla pelle e col cuore che è raro incontrare. E poi credo che i tuoi pareri siano sempre spassionati e obiettivi. Anche se c’è il richiamo è sempre fatto a fin di bene, per migliorare. E per il rispetto che traspare da tutto il tuo modo di sentire nei confronti della parola scritta.
    Io ti sono debitrice.
    Quanto all’anima…sono d’accordo con te. Lo sforzo di chi scrive è proprio questo. Rendersi visibili e comprensibili.
    Ti abbraccio con molta stima e ti ringrazio ancora per tutto.
    tua Simo

  100. @Eventounico e Simona, devo scusarmi con voi perché non avevo letto i vostri racconti. Anzi, forse sì,o intravisti ma non mi ero soffermata. Ad Evento, tu potresti scrivere la storia su di noi; un bellissimo romanzo di successo, o addirittura la sceneggiatura per un buon film. La sceneggiatura! Sai osservare e comprendere e soprattutto interagire: non un romanzo, ma subito una scrittura da film, originale.
    @Simona, io amo Elsa Morante e detesto Moravia. Ho pensato a quella coppia con frequenza, ogni volta che leggevo i loro libri, immaginavo la loro intimità quotidiana, quella delle abitudini e dei gesti che si ripetono uguali. Il tuo racconto mi restituisce quei pensieri. Anche il tuo lavoro è per parole pronunciate ad alta voce, un teatro alla Marco Paolini per una brava attrice. Però io fermerei l’immaginazione all’abbagliante solitudine, e aggiungerei altre parole su queste figure che si sfuocano, in tempi diversi, per diversa intensità.
    Vi auguro una buona domenica.Ciao, Miriam

  101. @ Eventounico, Sergio, Simona, Miriam:
    “Iperspazio creativo” potrebbe diventare un interessante “tavolo di lavoro”. È questo che mi avete dimostrato.
    Grazie di cuore!
    Massimo Maugeri

  102. Cara Miriam,
    sapessi con quale commozione leggo le tue parole!Anch’io ho spesso pensato alla quotidianità di Alberto ed Elsa.Anch’io ho spesso accarezzato l’immagine di lei come la più cara.
    Affinità di vita, purtroppo. Ma anche di fremiti interiori, di solitudini colmate dalla parola, di silenzi e molto amore soffocato, non detto.
    Anch’io, come te, ho spesso pensato di dilatare la storia e di soffermarmi sui giorni solitari di Elsa, ma non sono ancora pronta. Mi è troppo vicina.Mi somiglia troppo.E Sergio ha ragione: la Morante si presta, ma vuole che io la tratti da estranea. Io, invece, me la sovrappongo con tenerezza, mi struggo dei suoi abbandoni, piango le sue lacrime. Non a caso , proprio all’inizio della storia, è lei a redarguirmi e a dirmi :”ti avevo detto”….non ‘ho voluta ascoltare. L’ho fatta mia. Le ho regalato le mie ore.La mia solitudine, anche.
    Forse un lavoro del genere esige più distacco. Ma mi fa piacere se almeno un poco della sua voce ha tagliato il vortice degli anni trascorsi, ha ribaltato il passato, è giunta a voi, sebbene filatrata dai miei pensieri.
    Vi sono riconoscente per averla amata insieme a me.

    @eventounico. Grazie! Sei davvero molto caro.

    @Massimo.Bella idea quella di pensare a un tavolo di lavoro in questo spazio! E’ quello che facciamo a casa mia nei miei “salotti letterari”!Ci leggiamo a vicenda, tiriamo le somme, ci sosteniamo o ci correggiamo.Il tutto con garbo e molto rispetto per il sentire altrui, per le tracce di vita che ciascuno di noi lascia sulla carta.
    Grazie a te, come sempre, dell’opportunità che ci hai regalato. Quella di avere un angolo in cui riprodurre le atmosfere di una fucina di parole!

  103. Simona,
    io sono un letterato italiano – o meglio: un aspirante tale. Ossia un uomo piccolo che cerca di diventare un uomo grande – sempre nella sua piccolezza. E lo puo’ diventare solo con della gente brava come te al suo fianco. E come le persone che racchiude e ospita questo spazio, questa piazza nella quale c’e’ chi fugge e c’e’ chi si maschera, ma sempre c’e’ chi si manifesta senza paura. Noi.
    Sergio

  104. @Miriam
    Il Minotauro che io non ho letto, considera lo spazio mitico del labirinto che viene accentuato nel suo carattere di isolamento, riflessività e utopia dalla presenza di specchi. Sequenze narrative si alternano a sequenze di monologo, che costruiscono una sorta di dialogo interiore non lontano dalla prosa kafkiana.
    Immaginiamoci per un attimo Noi tutti di letteratidudine;potrebbe darsi che il labirinto mitico sia diventato Internet? Miriam grazie per la tua considerazione d’immagine che hai per me.
    Luca

  105. @Sergio
    sarebbe puerile intendere quelle parole in modo letterale(Croce)
    E’ questo che volevi intendere?
    Grazie,sei sempre forte!Tuo Luca

  106. @ Miriam…Il minotauro di Durrenmatt scopriva se stesso pensando di vedere altri….Infondo anche noi ci scopriamo così, pensando di vedere altri, ma cercando sempre negli altri anche un nostro barbaglio. Mi stupisce che qualcun altro, oltre me, ami il minotauro di Durrenmatt…Cara Miriam. Io l’ho sempre amato per la pietà infinita che traspare dai suoi gesti.Per quel suo travisare i riflessi, scambiandoli per uomini. Consueto errore, il suo.
    La morte del minotauro per mano di Teseo è la morte dell’emarginato, del non compreso, dell’escluso. Ma , forse, anche di chi ha per comagnia i sogni, di chi , infondo, vi si affida con semplicità e cuore di bambino.
    Non so se hai letto un altro “minotauro” edito anni orsono per e/o . Lo ha scritto Benjamin Tamuz, raffinato scrittore israeliano, ed è, anche quella, la storia di cerchi che chiudono una solitudine.
    Per questo mi auguro che Letteratitudine, caro Luca, non sia mai un labirinto. Ma che comunichi apertura e voglia di scrutare oltre i riflessi.
    @ Sergio.Sì, caro. Finchè saremo “noi”, nel bene e nel male, c’è la speranza di arricchirci a vicenda. Sempre rimanendo piccoli piccoli.

  107. @Simona
    Ho apprezzato il tuo intervento indirizzato a Miriam e quello che hai scritto a Sergio entrambi vanno Vs la speranza che il Web possa umanizzarsi,certo quello a Sergio è una sorta di conferma sulle “affinità elettive”,secondo me:ma, attraverso lo schermo del nostro pc,web-came o altre diavolerie non credo sia così!
    Grazie,comunque
    Lex dura Lex sed letteratitudine,se me lo permetti,
    con empatia
    Luca Gallina
    P.S.mi era piaciuto il tuo aneddoto:la signora che si è sfogata con te,raccontandoti di un giudice severo e poi si è,successivamente,presentata al tuo giudizio.
    Ho avuto modo,anche,ti apprezzarti come scrittrice sensibile,raffinata,che sa trattare di letteratura con benevolenza e rispetto dei suoi lettori e non scrivere solo per sé stessa.

  108. Sapete una cosa, amici cari miei, Luca, Simona, Miriam? Io credo che al di la’ della tecnologica stupidita’ del computatore e di Internet, si possa considerare questa bella Letteratitudine come una Accademia fatta di persone amanti delle Lettere che, invece di incontrarsi direttamente e personalmente, scelgono di appendere le proprie opinioni a dei manifesti manoscritti, dei tazebao, o simili (pasquinate?). Io credo che anche sia un po’ sostitutivo e similare ai rapporti epistolari di pochi anni fa. L’estraneita’ del web non la sento.

  109. @ Simona, grazie per la segnalazione, mi procurerò subito il testo di Tamuz. A me di Durrenmatt piace tantissimo anche Romolo il Grande (Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore di Roma). Il bello è, che quando leggo questi testi, m’immagino di interpretarli. Ciao, è bellissimo condividere i gusti. (Domanda, ma tu sei anche una brava cuoca?)

  110. @ Miriam….sono cresciuta in cucina. Con una nonna che mi ha sempre intrattenuta impastando farina, uova, burro.
    I primi giochi sono stati gli gnocchi di patate, da modellare in fome strane, allungate o tortuose come i sogni. E liquori di cannella, arance, mandarini, limoni. Dolci e pasta di casa, intingoli e mandorle essiccate , tostate o sfarinate in granita.
    Col tempo ho capito che era la sua eredità.
    E ho cominciato a raccogliere le sue memorie culinarie (che erano poi quelle di sua mamma e della mamma di sua mamma) arricchendole col gusto – tutto mio – della ricerca letteraria.
    Quindi, ho sempre cucinato. Non c’è stato momento bello o brutto della mia vita in cui la tavola, come condivisione quasi sacra, imbastita di rituali e abitudini consolidate, non mi abbia accompagnato.
    Ancor oggi preparo in casa tutto quello che posso e uso le “dosi” di mia nonna.
    Quando chiuse gli occhi secchi secchi, imbellettata col suo miglior vestito e lucida come una bambina, mi chiamò a parte e mi strinse la mano.
    Non si congedò, così come io pensavo.
    Mi diede invece una “dose” segreta della brioche al prosciutto che per anni aveva taciuto, gelosissima dell’impasto tramandatole da sua madre.
    Custodisco ancora quel segreto e so già che lo rivelerò solo alla fine , a quello tra i miei nipoti che mostrerà di capire -con intuito e devozione – che preparare da mangiare è un atto d’amore.

  111. @ Sergio carissimo…ma lo sai che anch’io ho sempre pensato a questo spazio letterario come agli incontri epistolari di tanti anni fa?
    Io sono sempre stata un’accanita scribacchina di lettere, credo di avere infestato mezza Italia con le mie missive.
    E’ che scrivere mi è sempre sembrato un atto più lungo, più intimo, più corposo della chiacchierata al telefono. E devo dire che i miei primi approcci letterari sono stati col romanzo epistolare.
    Vista così e trasformata con lo spirito dei sognatori credo che l’esperienza su internet si presti solo ad una crescita sana e ad un confronto altrimenti impossibile.
    Un abbraccio epistolare dalla tua Simo

  112. @A Luca…sai che quella vecchietta ogni tanto la rivedo?
    E’ una frequentatrice assidua del tribunale….
    L’accusa è sempre la stessa:truffa. Vende i suoi sogni ad accaniti giocatori del lotto dicendo di ricevere i numeri da Santa Lucia.
    Dopo tanti anni di processi mi ha confusa. Alle volte quasi le credo.
    Grazie a Dio non tocca più a me giudicarla perchè iniziava a farmi una strana simpatia, credo letteraria.
    L’ho infatti inserita in un mio racconto e le ho dato – a buon titolo, mi pare – il nome di Lucia.
    Non si è mai rassegnata al mio rifiuto di accettare di giocare uno dei suoi numeri. Mi dice sempre che ho sperperato una fortuna.

  113. Che scoperta questo iperspazio creativo!!!
    Vi farò leggere qualcosa…
    Sergio, abbi pazienza, perché – ho solo leggiucchiato il tuo racconto – e non ho risposto alla tua richiesta di pareri…
    Mi associo a quanto scrive la carissima Simona e dò un bacio virtualetteratitudinalnatalizio a tutti tutti tutti. Viva la letteratura, i libri, gli scrittori…

  114. Caro Sergio Sozi,ti voglio bene,ma,riguardo l’utilizzo friendly del Web dobbiamo tutti Noi riconoscere, che ci può trarre in agguato all’interno in ogni momento chiunque lo programmi,secondo me: Internet,un nuovo Totem,nel quale ci troviamo a subire “certi attacchi”,o da “identità distorte”,voglio utilizzare il copywriter di Massimo Maugeri,se me lo consente,perché in letteratitudine,siamo più vulnerabili.
    Questo è un esempio,che non deve scoraggiare, bensì,far considerare convenientemente che il rapporto epistolare,oggi,anche, con un e-mail,deve essere privato e non pubblico:quando si va aldilà del confronto letterario,ed entrano in gioco la propria onestà intellettuale e un sentir vero e solenne della letteratura,perché no,dobbiamo ritenere,dopo “certi attacchi” che letteratitudine,per esempio,è aperto a tutti ma non è per tutti.
    Ma se è pubblico il blog,come ci si può proteggere?
    Ora, io potuto valutare in questi mesi,che vi sto frequentando che il problema della modernità:la multimedialità VS la creatività narrativa esiste.Lo dice il mercato editoriale,se ne lamentano gli autori,i lettori sono sempre di più di nicchia:il romanzo è morto e lo scrittore non si sente troppo bene!
    Quando entro,in Milano,in una libreria mi sento circondato da libri di genere diversi:che invocano che la parola scritta non rimanga taciuta,magari per sempre:ho pensato ai giovani autori emergenti che Massimo Maugeri,ha avuto per solidarietà,la comprensione e la soddisfazione di farci ascoltare,ma,ai fini del mercato cosa cambia?
    La nostra è sempre più una società delle immagini,dei suoni,delle colonne sonore,dei colori,delle parole gridate,frammentate e la scrittura letteraria viene vituperata,questo io percepisco semplicemente e serenamente:una realtà virtuale,la nostra, sempre e comunque!
    Ora,per esempio,Vladimir ci ha voluto dilaniare e sconcertare con un video e un testo letterario che rappresenta,e non c’è riuscito,grazie agli anticorpi prodotti da letteratitudine, secondo me:il nichelismo operante,anche,di alcuni giovani esistenziale e di scrittura come Vladimir,ci deve fare riflettere:non credono più nella letteratura stessa di continuità di un pensiero che ci viene affidato nel tempo, una sorta di memoria storica che rifiutano:usando secondo loro l’intelligenza fredda razionale – e non come “critica della ragion pura”- contro l’anima,il sé,che per loro non esiste.
    In parole povere:non vogliono assumersi la responsabilità e l’etica che la scrittura letteraria comporta;secondo me e secondo Voi,cari amici di scrittura?
    Lex dura Lex sed letteratitudine
    Ciao Sergio,mi leggerai sotto,Ciao Miriam,ti dico solo che ho accarezzato,assaporato,respirato,recitato le tue parole scritte e visto nitide le tue immagini,le custodirò e ne farò tesoro,Ciao Simona “il magistrato”,grazie per il tuo senso alto della giustizia fra gli individui non solo in senso letterario,Ciao Enrico,anzianotto,uomo di cultura di idee moderne,disincantato, ma, leale e protettivo con i tuoi amici di scrittura tanto da farli riflettere sorridendo,Ciao Silvia,tu sei una scrittrice che si assume la responsabilità dello scrivere,e mi sono con empatia sentito molto vicino a te,Ciao Renata tu sei una scrittrice che anima i personaggi e l’aziona in teatro,con lucidità rendi la dovuta dignità a una realtà per alcuni senza valori,attraverso la tua scrittura,Ciao Massimo,ho un grande rispetto e ammirazione per la tua persona,riconoscendoti un lavoro enorme generosamente riversato su di Noi,tuoi veri amici di scrittura: grazie pertanto per la tua ospitalità in questi mesi e per la reazione che mi hai suscitato.
    Caro Sergio,ti voglio bene con amicizia e ti confermo,quel che io sono secondo te e quindi divento secondo me:
    “Caro Luca nostro, sempre benevolmente analizzatore e bambino, dolce puer,” e io aggiungo:” sarebbe puerile intendere quelle parole in modo letterale(Croce)
    E’ questo che volevi intendere?
    Grazie,sei sempre forte!Tuo Luca
    Luca Gallina

  115. Salve a tutti i partecipanti di questo meraviglioso blog che ho potuto conoscere grazie allo stimatissimo e gentilissimo Enrico Gregori. Mi chiamo Germano, ho 21 anni e mi piace considerarmi un aspirante scrittore,sgangherato e spesso incostante nei suoi tentavi di esternazione incazzata di creatività. Vi propongo un pezzo tratto dal libro che sto tentando di scrivere e spero di ricevere qualche vostro commento a riguardo.
    Ecco il link del mio pezzo(è breve, tranquilli:-p)
    http://blog.libero.it/badmind/3798026.html
    Buona lettura e complimenti al sig. Maugeri per l’opportunità che offre a chiunque abbia voglia di un sano e proficuo confronto intellettuale;)

  116. Mi ritengo responsabile della presenza di Germano in questo blog. E’ arrivato a me tramite una mia amica. Come ha detto lui stesso ha 21 anni. Immagino che molti saranno portati a pensare “e allora andasse al cinema all’ultima fila a mettere le mani nelle mutande della ragazza”.
    E invece questo giovanotto ha un bel cervello che, semmai, corre un po’ troppo a causa della giovane età. Imparerà a dosare l’acceleratore a furia di sbattere le corna contro il muro.
    Ma Germano ha un bel motore, e non farlo funzionare sarebbe un peccato. Noi cerchiamo di essere disponibili verso di lui. E tu, Germano, non fare troppo il presuntuoso perché non te lo puoi permettere. Questi sono atteggiamenti tipici di Gregori che, per inciso, alla tua età andava al cinema all’ultima fila a mettere le mani nelle mutande della ragazza. Probabilmente se fossi andato meno al cinema, oggi sarei migliore. Come certamente tu, oggi, sei migliore di me quando avevo 21 anni. Ma ormai è fatta. Rimani con noi, se vuoi. Ma non fare lo stronzo!

  117. Ah ah ah…mi sono fatto tante di quelle risate, caro mio…avevo ragione: la simpatia e l’empatia sono due qualita del “maschio Gregoriano”!!! Indovini un po?! Questa sera vado al cinema con una mia amica e giuro che non è una balla(anche se non credo che ci infileremo reciprocamente le mani nelle mutande). Fino a tre mesi fa avevo una ragazza che era la fine del mondo(Grazia l’ha vista in foto e in video e può confermare che sono obiettivo:P). Ora sono nella fase post-traumatica dovuta alla rottura di una storia che ritenevo importante e mi rifugio nella lettura, nella scrittura e nella coltivazione delle mie passioni. Cercherò comunque di non essere nè presuntuoso nè tantomeno stronzo anche perchè, il ruolo del nuovo arrivato, bisogna rispettarlo sempre. Ringrazio di cuore anche Massimo per il suo invito e, che altro dire: data l’accoglienza, di sicuro sarò qui a scartavetrarvi gli zebedei spesso(così che il caro Gregori possa pentirsi di avermi indicato questo ormai non più quieto spazio virtuale).
    Saluti affettuosi a todos
    Ge

  118. Ciao Germano, benevenuto! Immagino che ti sarai già fatto la tua idea sullo “stimatissimo e gentilissimo Enrico Gregori”. Ti avverto in tutta simpatia…stai attentoooooo!! 🙂
    Fuor di scherzo, complimenti per il tuo pezzo. Sei giovane e già tanto creativo. Parli di esternazione incazzata della tua creatività. E perchè poi? A me sembra che le tue parole siano molto “meditate” pur nella loro spontaneità, e che tu le abbia soppesate e coccolate prime di sbatterle su un foglio. L’esternazione incazzata immagino porti a un linguaggio più secco, crudo. Invece tu sei ridondante (non in accezione negativa) di parole che evocano immagini, aggettivazioni che non hanno il sapore di incazzatura alcuna. Semmai di consapevolezza.
    Bravo, continua, e non sentirti mai davvero “Scartato”.

  119. Cara Silvia…prima di tutto, ti ringrazio di cuore per aver letto e commentato il mio breve pezzo che, guarda caso, è proprio uno di quelli che si discostano maggiormente dallo spirito del mio libro e che, come hai giustamente osservato, presenta tratti di verbosità coccolata e molto ponderata. Se vuoi leggere un esempio di “incazzatura”, ti segnalo quest’altro pezzo
    http://blog.libero.it/badmind/3886802.html
    E questo qui(che dovrebbe rappresentare l’incipit)
    http://blog.libero.it/badmind/view.php
    Grazie per la vostra cortese considerazione e per la vostra bella accoglienza…prometto che, dopo quest’altra segnalazione, mi sforzerò di non spaccare le palle per un po’;)

  120. Caro Germano, ho dato un’occhiata all’ultimo link che hai lasciato e devo dire che il pezzo che hai scritto (un po’ graffiante, sì) è però freschissimo e molto ironico.
    Da’ l’idea di un’apparente leggerezza velata, però, da una malinconia sottostante molto sentita, che ho percepito sincera e anche inquieta.
    In ogni caso mettere sulla carta (in seconda persona) la leggerezza e il suo opposto non è facile e, a dispetto della tua giovane età, esige maturità e un percorso. Forse un dolore.
    Bravo!

  121. Cara Simona. Grazie di cuore per aver trovato il tempo di leggere i miei post e per il bel commento che hai lasciato. Devi essere una persona incredibilmente sensibile e una lettrice molto attenta…hai colto ogni singolo aspetto del mio pezzo…mi hai letto nel cuore e nell’anima con una facilità disarmante. Per quanto riguarda percorsi e dolori: beh…posso assicurarti che ho vissuto e sto vivendo un dolore parecchio forte e difficile da sopportare dovuto, guarda caso, ad un percorso tortuoso e difficile.
    Grazie ancora per le tue parole e per il tuo tempo

  122. Germano, ho letto solo oggi, perdonami. Si, è un pezzo di autentica incazzatura, dove quel tu così indefinito sei ..tu, sono io, siamo noi con il nostro quotidiano. Sei uno tosto, altro che. Sei la risultante di strati di vita – ancora poca, per fortuna tua – che hanno già un significato, cose da dire. E guarda che non è da tutti aprire la bocca senza sparare ovvie banalità.
    Solo un minuscolo appunto, ma prendilo come un gusto personale (non sono un critico, figurati), limerei qualche avverbio (vedi “squallidamente spiritoso e sinceramente grato”). Credo fosse una cosa che avevo notato anche nel tuo pezzo precedente.
    sei in gamba, continua a scrivere!

  123. Caro Germano
    la capacità sorprendente dell’arte è proprio quella di trasformare il dolore. Di trasfigurarlo.
    Ogni volta che una parola striscia sulla carta e prende consistenza di sogno, di canto, di storia, il cuore si dilata e respira, la vita ci possiede, il ricordo, anche se struggente, sa evocare una pienezza.
    Ti auguro di affidare sempre alla penna ogni tuo dolore. Di vederlo svaporare tra i fumi dell’inchiostro.
    Sei sulla buona strada. Hai un cuore capace di soffrire e molto talento.
    Coraggio.

  124. @Silvia. Le tue parole mi incoraggiano, mi motivano e, per molti versi, mi consolano. Ho ancora tante corna da rompere contro i muri della vita ma, un numero non indifferente di capocciate dolorose, le ho già date. Ho conosciuto tante persone e sono stato con tante donne…solo 2 le ho amate profondamente per poi vederle svanire, banalmente e altrettanto dolorosamente. Ultimamente, sto tentando di lenire attraverso la scrittura diverse ferite dell’animo. Non posso più urlare alla mia donna che la amo perchè lei ha smesso di amare me da un pezzo e non riesco nemmeno ad immaginare quella che potrebbe sostituirla, un giorno. Eppure, mi dicono che sono giovane, che ne troverò tante altre e io questo lo so…ma, non mi importa…vorrei non cambiare più le persone come fossero telefoni cellulari…vorrei fermarmi, vorrei semplicemente, come recita il testo di una bella canzone:”Dire Ti amo e non guardarmi intorno chiedendomi” “Cosa facciamo” “. Aggiungici poi uni università che mi annoia terribilmente e che, per molti versi, limita le mie letture costringendomi a studiare materie tediose e per me inutili e ottieni il quadro completo. Grazie per il tuo appunto, comunque. Un abbraccio
    Ge
    @Simona. Wow…mi sto innamorando lo sai?! Le tue parole sono come piume che mi accarezzano il cuore…a proposito…dici che il mio è capace di soffrire? Hai indovinato anche questo, probabilmente…è giovane ma già temprato da un bel po’ di delusioni(non solo amorose). Sul talento non so…ti ringrazio per averlo definito copioso, comunque; troppo buona, sul serio…i miei sono solo scazzi vari scritti di notte, quando, per paura degli incubi, cerco di sognare stando sveglio.

  125. @ Germano…Ma sognare stando svegli è proprio quello che si fa quando si scrive! E anche allontanare gli incubi con la fantasia.
    Sogna sempre. Credi nei tuoi sogni. Sono bellissimi.
    Quanto ai dolori…siano per te solo un portico grandioso, un preludio alla tua meravigliosa crescita umana. Quando passeranno e faranno un po’ meno male, ti bruceranno come cicatrici e segni da combattente, ai quali ti affezionerai.
    Saranno anch’essi sigilli di un cuore che vive. Che non si arrende alla sopravvivenza.

  126. @Simona. Hai proprio ragione, lo sai?! Io credo che, il dolori, debbano essere considerati come una sorta di virus dell’anima…dei virus che devono essere debellati ma solo al momento giusto; devono restarci dentro il tempo necessario per ridurci uno straccio, per poi essere distrutti poco prima di ucciderci definitivamente…se si agisce così, la loro azione porta frutto e ci rende immuni, o meglio, più forti. Dal dolore nessuno è mai immune…non è tanto questione di evitare la sofferenza ma di prepararsi a viverla nel miglior modo possibile. Comunque ho in mente un bel post che spero di pubblicare entro domani. Sarà forte, credo tra i più forti che io abbia mai scritto…farà anche esso parte del mio libro Scartato. Sperò che avrai il tempo di leggerlo e di commentarlo. Grazie di cuore per le tue parole!!!
    Ge

  127. Eccomi qui…inserisco direttamente l’altro pezzo tratto dal libro che sto tentando di scrivere. Per chi volesse leggerlo con una formattazione migliore(testo “giustificato” e carattere più grande). lascio il link dove l’ho postato. Buona lettura e grazie anticipatamente per il vostro tempo.
    http://blog.libero.it/badmind/3936323.html.

    Il libro di diritto regionale è rimasto chiuso; anche oggi. Ma non posso farci nulla:ho nella testa “La noyèe” di Yann Tiersen e non riesco a far altro che scrivere, batto sui tasti della tastiera con una disperazione violenta e vedo comparire sullo schermo la tempesta impazzita di idee, ricordi, immagini veloci e freneticamente sostituite…la mia mente è come un diaproiettore impazzito. Cerco di mettere a fuoco almeno qualcuna delle reminescenze e poi la mescolo con l’immaginazione e con il desiderio; ottengo il quadro mnemonico desiderato e trovo sollievo momentaneo quando riesco a descriverlo, attraverso le parole.

    Ricordo l’incontro fortuito con un’amica alla stazione e noi due, qualche mese più tardi, a fare l’amore in macchina con una violenza inaudita. Ricordo i suoi respiri ansimanti e i suoi gemiti e penso agli altri migliaia di orgasmi interrotti che dovrò avere per non diventare prematuramente padre, e alle altre paia di gambe femminili aperte che dovrò vedere prima di essere libero di diventarlo sul serio. Penso che, alla fine, la vita sia troppo breve per non godertela e troppo lunga, se sei fortunato, per evitare di rovinartela.

    Penso al tempo che ho perso guardando il soffitto e a quello che avrei dovuto utilizzare per guardarmi dentro. Penso a ieri a oggi e a domani e tento invano di trovare un punto di contatto stabile e rassicurante che, un viaggiatore onirico del tempo come me, non raggiungerà mai. Penso che, forse, tutto sommato, dovrei pensare di meno ma poi mi dico che non me ne frega un cazzo di quello che dovrei fare a vado avanti così.

    Il ritmo della musica, intanto, è diventato più incalzante: ora mi immagino a camminare con lo sguardo incazzato e puntato verso un punto preciso…mi muovo a passi svelti su mattonelle tirate a lucido dalla pioggia; non so di preciso dove sto andando e il punto verso il quale guardo è ancora troppo lontano per assomigliare a qualsiasi cosa che la mia mente possa riconoscere o anche solo immaginare. Però vado, non mi fermo e con me va la musica…mi prende per mano e mi incita a correre ancora più veloce. E’ buffo…ora non so più se sto correndo verso un punto o fuggendo da qualcosa che mi insegue.

    No: non è la mia ombra; quella mi affianca e, anzi, allungata dalla luce della luna, mi precede. Nel frattempo,le mattonelle lucide, sono state sostituite da esili fili d’erba che, dopo essere stati inevitabilmente calpestati dalle mie scarpe, si rialzano, pian piano e tornano ritti e fieri come prima, ma pur sempre esili. Ed ecco che di nuovo mi fermo e penso; penso che anche noi uomini, forse, siamo un po’ come i fili d’erba; di solito stiamo ritti e fieri e non ci basta un calpestio, anche violento, per spezzarci…alla fine, poco per volta, ci rialziamo e torniamo nella posizione originale, quella precedente al doloro schiacciamento; eppure siamo esili, in balia dei passi imprevedibile del destino(o di Dio, per chi come me ci crede). Forse non siamo altro che un prato calpestato qua e la e qualcuno di noi si sforza, invano, di non farsi calpestare. Non è tanto il doversi chinare a spaventarlo ma, piuttosto, la fatica che sarebbe necessario per rialzarsi.

    La musica però è finita e con essa il mio viaggio; uno dei tanti viaggi che ho fatto senza muovermi di un millimetro.

  128. @Massimo. Per me sarebbe un grande onore ricevere un tuo parere…non mi sono permesso di richiedertelo direttamente perchè immagino che, come tutti gli altri che frequentano il tuo bel blog, il tempo di leggere tutto non ci sia. Attendo con ansia, allora.
    Un abbraccio e grazie per tutto.
    Notte

  129. Caro Germano, come promesso, ti leggo.
    E, come ti ho detto, trovo che oltre il talento ci sia stoffa da sognatore e fiuto visionario.
    In scrittura si comincia sempre da noi. Dal nostro mondo e dall’incompiuto che percepiamo. Come dici tu, dal nostro navigare su selciati lucidi, preceduti dal barbaglio della luna.
    Nel tuo testo c’è forza, malinconia a fiotti, inquietudine e desiderio d’amare.
    Tutti ingredienti che, ben mescolati, fanno di una storia da raccontare la nostra storia.
    Continua così e non scoraggiarti mai. Cerca anzi qualcuno con cui condividere letture, percorsi e scrittura.Sei molto giovane e la parola scritta reclama la tua crescita e la tua tenacia.
    Buona vita!
    SIMONA

  130. Cara Simona. Spero che tu abbia letto il testo inserito al link che ho segnalato e non quello, abbastanza penoso, che ho incollato qui^_^. Per il resto, ancora una volta, hai estrapolato magistralmente tutti i sentimenti contenuti nel mio scritto…li hai elencati proprio tutti,senza trascurarne nessuno come se mi conoscessi da una vita!!!!
    Buona vita anche a te e grazie per il tuo tempo e le tue parole
    Ge

  131. @germano.
    Stai tranquillo. Mi sono collegata al tuo blog e ti ho letto lì, sotto quegli occhi schiusi e pensierosi. Nel nero della pagina e tra i caratteri che affiorano come metallo.
    Bel blog. Davvero. Curalo come il figlio che – per il momento – trattieni in te.

  132. Amore Assassino
    La terra bagnata dalle lacrime del cielo emana un profumo d’abisso.
    China il capo un tulipano ferito dalle gocce di pioggia.
    Rivedo in lui il mio destino medesimo;
    ucciso da ciò che solitamente lo nutre: lui dall’acqua, io dall’amore.

    Cesare Pavese

    Dietro questa poesia c’è una storia molto divertente. Come avrete letto, la firma è di Cesare Pavese ma, in realtà, queste quattro melanconiche righe, non le ha scritte lui ma il sottoscritto. Si si…avete letto bene, la poesia è mia!!!Perchè allora firmarla con il nome di un poeta così famoso?!E qui torniamo alla storia particolare che si nasconde dietro questi pochi versi.
    Correva l’anno 2005, eccelso doveva dare il suo esame di stato e decise di invetarsi un punto di partenza per la discussione della sua tesina che fosse originale(e anche un po’ bastardo:-P). Il mio discorso, infatti, ruotava intorno alla potenza del pregiudizio…bene, a questo punto, dovreste aver già intuito qualcosa, o no?! Ok…non la tiro per le lunghe e vi spiego tutto. All’inizio del mio colloquio d’esame presentai questa poesia alla mia adorata prof di italiano dicendole di leggerla ad alta voce, di modo che potessero ascoltarla anche tutti gli altri docenti presenti. Alla fine la mia prof esclamo:”Eh si…questo è proprio Cesare Pavese”.
    Trattenni la risatina malefica che stava per uscirmi e chiesi a tutti i miei professori di esprimere un giudizio in merito all’opera che avevano appena udito leggere. I giudizio, ovviamente, furono tutti molto positivi e andarono dal:”Molto profonda” al :”Con poche righe ha saputo esprimere moltissimo”. A quel punto il colpo di scena che avevo previsto…sorrido, schiarisco la voce e dico:”Bene, ora posso dirvi che questa poesia non è di Pavese…queste poesiola l’ho scritta io”.
    Silenzio tombale da parte di tutti; la mia prof di ita sarebbe voluta scappare sulla luna(o, in alternativa, avrebbe voluto strozzarmi). A quel punto anticipai ogni eventuale domanda da parte della commissione spiegando il perchè di quella “truffa” e potei partire con il mio discorso sul pregiudizio.

    Questa poesia la dedico proprio alla mia prof di Italiano e Latino; donna buona, dolce, colta e, soprattutto, incredibilmente umile… sperando che abbia perdonato la mia piccola bastardata;)

  133. “BUM-BURUBUM-BUMBUM”…la musica non lascia mai indifferenti.
    Anche questo pezzo di Gregori è così. Ti rimane sullo stomaco come i peperoni alla crotonese e pensi che quanto racconta sia talmente plasusibile da sembrare autentico. D’ora in poi la mattina uscirò ben prima per andare al lavoro. L’affetto coniugale deve pur sostanziarsi in qualche fatto concreto.

  134. Enrico ci tengo a chiarire. Per te non muoverei manco l’unghia del mignolo della mano sinistra, ma quello che scrivi, purtroppo per me, lo trovo interessante e divertente. Che posso farci ? 🙂

  135. Ma Evento, il racconto di Enrico è un saluto al carnevale! Grasso, grottesco e simpatico, proprio come una mascherata. Buon martedì.
    🙂

  136. @ evento:
    ecco, vedi? quando una persona (come Miriam) sa leggere, riesce ad andare al di là delle intenzioni dell’autore. sai, succede agli scrittori che hanno tanto da dire e non a quelli che compongono, compongono e ari-compongono ma, infine, tutto è “come pagina bianca”
    🙂

  137. Bello questo raccontillo!
    Ne devo desumere che John Zorn de prima mattina remerà contro il mio prossimo anniversario di matrimonio… se non il mio prossimo punto.:)

  138. @ zaub:
    fossi in te non mi preoccuperei. uno che ti ha conosciuta, corteggiata e poi anche sposata, ti ama così tanto da non torcerti manco un capello.
    Più probabile, qualora rinsavisca, che afferri la prima cosa adeguata alla bisogna, fosse pure una fila di salsicce, e ci si impicchi al lampadario.

  139. da te numme l’aspettavo enricaccio!
    John Zorn è un fico stellare. Un po’ ostico in cetrti momenti ma stellare e secondo me te lo conosci..

    Ma checazzo ci hai quattro orecchi e ascorteno tutti sciabadabadà sciabadabadà…
    🙂

  140. Propongo questa mia poesia contro la guerra:

    Sento quel grido di rabbia
    Lontano fra le macerie dell’odio
    Sento quel pianto
    Vicino alle bombe umane
    Sento quell’amore
    Dentro ad un corpo squartato dalla guerra

  141. Inserisco in questa sezione un breve testo tratto dal mio libro:”Scartato”. Spero che qualcuno avrà il tempo e la voglia di leggerlo, dandomi un parere.
    Il titolo è “Stacci” narrativi^_^
    Ieri, alla stazione, c’erano un bel po’ di militari. Tutti in divisa, ovviamente; con i loro zaini mimetici, i cappellini e il marchio “esercito italiano” sui borsoni. Marchiati, già…come le vacche prima di essere macellate. In treno, poi, mi si è seduta d’avanti una giovane madre; suo figlio avrà avuto al massimo due anni,ma parlava con una chiarezza sbalorditiva. Lo guaradai sorridendo per qualche istante: era proprio uno scricciolo e aveva una vocina di una tenerezza infinita. Ascoltava il padre per telefono e, ogni tanto, annuiva sorridendo…come se gli stessero facendo chissà quali promesse strabilianti.

    Poi la giovane donna lo interruppe dicendogli: “Dai…adesso saluta papà” e lui, subito: “Ciao Papa”. Ho immaginato quando e se mi sentirò chiamare io in questo modo. Il solo pensarlo, anche se in prospettiva molto futura ( e piuttosto incerta, dati i tempi), mi ha fatto venire i brividi; sentire, dall’altra parte del telefono, una vocina che mi dice: “Ciao Papà” e sapere che è mia, quella voce…che è una parte inscindibile di me e della donna che amo, credo che mi procurerebbe un tipo di emozione talmente forte e sconosciuta, da far fermare tutto il mondo intorno.

    Vabè, il treno è arrivato: mi tocca scendere e tornare nel mondo reale, quello dove c’è un uomo in camice grigio, con un volto tristissimo e le mani piene di calli…sta lavando il pavimento della stazione con uno straccio un po’ malconcio e, probabilmente, ancora più sporco delle mattonelle che dovrebbe lucidare. L’uomo pare rassegnato al fatto che, la sua operazione di pulizia, non servirà a nulla…la gente già calpesta la superficie che lui ha tentato di lavare pochi istanti prima; non alza nemmeno lo sguardo, però: si limita a tenere il bastone con lo straccio ben saldo e a muoverlo, come farebbe con un mestolo immerso in una pentola piena di colla.

    Pare una cosa sola con il bastone, eppure, sono convinto che lo odia, quel bastone…che vorrebbe spezzarlo o lanciarlo, possibilmente colpendo in pieno volto qualcuno dei passanti, o il suo capo, o il centro della terra, o la luna. La luna, in particolare, vorrebbe colpirla solo per il gusto di vederla spaccata in due…si, insomma, per essere responsabile di una catastrofe, per farsi notare. Immaginate i titoli sui giornali: “Un uomo che ha pulito per trent’anni il pavimento di una stazione, ha lanciato un bastone di legno dritto al centro della luna, spaccandola a metà”. “Ah…così niente più serata al chiaro di luna per le coppie di amanti e niente più maree”, deve aver pensato, colmo di rabbia repressa, l’omino dello straccio.

    Non aveva un’idea precisa di come rovinare il mondo, del resto; e così passava il tempo ad immaginarlo, lucidando il pavimento in cerca di un’ispirazione brillante per poter generare il caos. Però, pensandoci, chi mi dice che covasse tutto questo odio, dentro? Magari era felicissimo del suo lavoro, della sua vita, del suo presente e del suo futuro. Oppure no…forse aveva semplicemente smesso di vivere tanti anni prima e, adesso, era solo un ammasso di carne, ossa e bile che muoveva una mazza da sguattero.

    Chissà, chi può saperlo; probabilmente sono stato io a trasferire l’odio che ho dentro all’interno di quell’omino inerte e meccanico che, a distruggere il mondo, non ci pensa proprio. Ma io perché sono incazzato?! Sempre che io lo sia sul serio, ovvio…quasi quasi mi strappo l’anima e la metto per terra, sotto lo straccio dell’uomo in camice grigio. Me la faccio pulire, sperando di non vederla calpestata subito dopo da qualche passante distratto e strafottente.

    ps se volete, potete lasciare un commento anche qui, direttamente sul mio blog
    http://blog.libero.it/badmind/4228126.html
    Grazie anticipatamente per il vostro tempo
    Germano

  142. Nel testo che ho inserito qui, ci sono degli errori( come un inspiegabile “D’avanti”:-P). Quello corretto lo trovate, se volete, sul mio blog…all’indirizzo che ho fornito alla fine del commento precedente.
    Saluti
    Germano

  143. MODENA CHIARA

    in sovrappeso, in sovratormento, ma una persona femmina, un po’ piccola, di cuore stanco e baci aridi, mi manca, un po’ come quella convalescenza, alla fine dell’influenza che dentro al letto, comodo, sei nel mondo, che da te nulla pretende, stai guarendo, caldo e coperto, lontano, non senti, l’abbandono lì fra i suoi capelli rossi, lunghi ed occhi profondi, sommersi appena da un viso in carne; mi manca, esattamente come quando, dopo sesso umido e bagnato , stavamo nudi l’uno all’altra accanto, nello stesso letto, non preoccupati d’esser malati, così affondati nella nostra tristezza di lusso, quella che, stai bene, anzi benissimo, ma vivi il male, così normale, di certo vero; nella stazione anche, lurida e così invadente, fra le industrie lucide della moderna modena, faceva caldo, senza speranza, lì noi due, ad aspettare, guardandoci e parlando, senza conoscersi, o volersi più di tanto, solo l’istante, ed anche, quando, al bel tempo del tutto bene, con una rosa rossa, mi presentavo, arrivando, lei sorrideva, contenta, fino al suo dentro; ora è finita, come lei pianse, di pianto grosso, lagnando, in autostrada, che, ora sì, tanto, non se ne saprà più niente, tranne questo, che è solo acqua, del resto, per chi si vive addosso.

  144. Il testo che voglio condividere con voi oggi, non è un racconto(anche se ha un titolo) o la parte di un libro. E’ la raccolta di alcuni pensieri sparsi che ho deciso di mettere su carta, o meglio, sul web. Lo incollo qui sperando di ricevere qualche parere. Saluti affettuosi Ge

    Vivere di consolazioni così magre da sembrare anoressiche e sentir pronunciare frasi così fatte da doverle disintossicare. Incontrare persone che sono talmente vuote da farti venire le vertigini. La mia vita è diventata un eterno appuntamento con il potenziale; una sorta di attesa infinita per qualcosa che potrebbe accadere ma che, poi, non si realizza mai. E’ come star fermi alla partenza di una gara di centometristi ed essere pronti a scattare; essere anche sicuri di vincere e non sentire mai lo sparo che dà il via.
    Mi sento come un atleta imbalsamato…con i muscoli che vorrebbero essere utili e che, invece, vengono lasciati inattivi, ad atrofizzarsi. Tensione al nuovo e ancoraggio al vecchio: sensazione di strappo imminente ma mai abbastanza vicino per essere rassicurante. Oggi mi sentirei più figo con una sigaretta tra le dita. Non fumo però. Non bevo nemmeno. Mi limito ad essere uno abituato a sognare e costretto, essenzialmente, a limitarsi a vivere. Ultimamente ho la spiacevole sensazione che qualcosa mi stia sfuggendo tra le dita.
    Non so cosa sia, non so se sia vita (wow anche la rima). Il fatto è che riesco a vedere le mete solo a metà; la stessa mia esistenza pare una meta a metà. I libri che scrivo li lascio a incompleti, i lavori che faccio mi stancano quasi subito. Del resto, ogni cosa è interessante se fatta per un po’ di tempo…se la trasformi in lavoro diventa automaticamente noiosa. Persino il mio amore è a metà. Amo una donna a metà, la “quasiamo” e so che lei “quasiama” me. Anche se, per dirla tutta, son quasi certo che il suo quasiamore sia meno forte del mio. Non c’è niente da fare: sono sempre in svantaggio con le donne che mi piacciono. Ma, oramai, mi sono abituato anche a questo. Però non va bene: mi sono reso conto di essermi abituato a troppe cose negative, o comunque neutre; nessun uomo dovrebbe mai abituarsi a qualcosa, figuriamoci se, questo qualcosa, lo fa sentire male.
    E’ che sono stanco dei “potrei” e dei “mi piacerebbe molto”. Vorrei scorrazzare un po’ tra i “l’ho fatto e mi è piaciuto”. Vorrei (oh cazzo di nuovo) smetterla di “zompettare” tra passato e futuro e vivermi un po’ di presente. Alla fine, il poco tempo che abbiamo, ci costringe il più delle volte a vivere una vita di rimandi e…di rimpianti! Se ci riflettete, i “vorrei”, ci mettono poco a trasformarsi in “avrei potuto ma non ho avuto le palle”. Poi arriva, inesorabile, la prima volta che ti dici:”Ho bisogno di una vacanza”. In quel preciso istante, ti rendi conto di essere diventato, anche tu, uno schiavo del tempo, del denaro, del lavoro; di ciò che “va fatto per sopravvivere”. Infine entri nel circolo vizioso delle chiacchiere qualunquiste da bar e, giorno dopo giorno, il mondo ti emoziona sempre meno; tutto diventa più prevedibile e inevitabile.
    I tuoi gesti diventano vecchi, tristemente automatici. I baci che dai ad una donna non ti emozionano più e, anche il mutismo atletico dei tuoi rapporti sessuali occasionali, ti svuota; trasferisce la sordità di quei momenti nella tua anima e la ammutolisce. Lo stare con una sola persona a lungo, può farti stancare di lei, lo stare con tante persone, ti fa stancare di te stesso. Alla fine non hai scampo: in un modo o nell’altro ti stancherai. Tuttavia, sono convinto che, se gli uomini potessero invecchiare vivendo e non limitandosi ad esistere, sarebbero paradossalmente felici nell’incontrare la morte. Al contrario, la maggior parte di loro, si limita ad essere un semplice coito interrotto…un’eiaculazione mancata di vita. Non credo ci sia un modo preciso per vivere la vita, se non quello di desiderare perennemente di viverla in maniera migliore. E io, adesso, da bravo uomo a metà, parto alla ricerca dell’intero. Spero solo che lei deciderà di accompagnarmi nella stesura del libro della mia esistenza, poichè, come scrive Pennac:”L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale”. Ho una voglia di vivere vergognosa ma non riesco proprio a farmi bastare me stesso!

  145. Germano, vivi e scrivi. Scrivi e vivi. Non c’è altro che ti possa consigliare. Io ho 34 anni, un po’ più di te, e so come ti senti perché sono cose che ho provato e che a volte continuo a provare. Scrivi e vivi, vivi e scrivi. E se non ti va di scegliere, di agire, non farlo per forza, per pressioni altrui. Vuol dire che non sei pronto. Non che ci sia qualcosa che non va in te. Capire questo mi ha semplificato la vita. Quando l’allievo è pronto, lo capisce da sé che ha imparato. Ok? Bacio.

  146. poesiola:
    Felicità è la tua lingua
    Felicità è la tua lingua, veloce come lampo
    carezzevole come una farfalla
    estasi i tuoi denti nella carne
    stringono determinati
    ma sanno lasciarmi prima di ferire
    gioia pura il tuo corpo setoso ai miei piedi
    in mille osceni strusciamenti di desiderio
    e ancora la tua lingua, impudica, adesso,
    all’interno delle dita
    oh, baby….

  147. Allora renditi autonomo e dimostra quel che vali, perché vivere in un’atmosfera avelenata non fa bene a nessuno…
    Sorridi, anche a lei. Anche a lui. Anche e soprattutto quando ti costa. Perché essere come loro non rende felici.

  148. Ciao,
    sotto la mia ovvia identitita` fittizia c`e` un narratore esordiente ( o quasi).
    Qualche giorno e` uscito in distribuzione nazionale un mio romanzo:
    Titolo : L`onore della guerra
    Autore : Benedetto Marinuzzi
    Editore: SBC edizioni
    Pagg. 168 costo 14 euro.

    Il link dove potrete trovare ulteriori informazioni e` :
    http://www.sbcedizioni.it
    Potreste trovare la copertina del volume in prima pagina essendo una delle ultime pubblicazioni della casa editrice.

  149. Cosa vale un sorriso. O una carezza. O uno sguardo indifferente. O cadere addormentati sul tappeto polveroso. O stare nella notte come si dovrebbe nel giorno. O leggere un libro noioso con la volontà di un soldato contro un’armata. Io non lo so. Voi nemmeno. Ma forse c’è qualcuno che ha la risposta. Janik, acrobata del circo itinerante di Gadorvsk, Ossezia orientale. Lui sa tutto.

    Dice che un sorriso vale poco, una carezza altrettanto, uno sguardo poco più, il sonno a terra anche; la notte succhiata a giorno una vera disgrazia, il libro noioso oltremodo preoccupante, il soldato, senza dubbio ferito, un vero dramma. Mi ha detto così, Janik. Poi si è rimesso a saltare fra orsi feroci e cerchi di fuoco. E allora me ne stavo andando, ma ho sentito un urlo. Una fiamma lo aveva sfiorato alla coscia. Niente di grave. Stava fermo sulla sabbia, senza poter camminare. Scena ridicola come un uomo che si prende sul serio. Solo che a un certo punto uno degli orsi gli ha preso seriamente la testa con un’artigliata. E gliel’ha portata via. Una cosa orribile a dir la verità. Ma meglio a lui che a me. E quindi, me ne sono andato.

  150. Cari amici di Letteratitudine, io avrei deciso di utilizzare questo ‘iperspazio-creativo’ per segnalare l’opera pittorica di un artista nel quale mi sono imbattuto svolgendo la mia attività di giornalista. Si chiama Giovanni Gasparro, è pugliese ed ha appena 24 anni e credo che meriti l’attenzione del pubblico.
    Pittore colto e sensibile, autore di opere dal carattere sorprendentemente ‘visionario’, è capace di coniugare una approfondita conoscenza delle tecniche pittoriche antiche con uno stile, una sensibilità e dei contenuti d’impronta decisamente contemporanea. Una pittura di grande espressività la sua, a tratti aspra, spesso rivolta ad
    indagare gli aspetti conflittuali dell’esistenza. E’ autore anche di opere di soggetto sacro, dalla grande carica drammatica. Apprezzato da diversi critici, si è fatto notare in esposizioni tenutesi in varie città italiane. Cliccando sul link troverete l’articolo-intervista che gli ho dedicato, insieme a varie immagini di sue opere.
    Saluti a tutti

  151. Caro Massimo, permettimi questi versi visti i moltissimi casi di pedofilia, a danno di minori, da parte del personale della Chiesa cattolica.

    dei figli miei

    è sera
    con gli occhi con la mente
    in te sovrano ed assassino
    s’addormono l’infami tuoi pensieri
    “consacrati”
    dei bimbiil corpo dilaniato offeso
    eviscerato inquisito ripudiato dissacrato
    il sacro latte di tua madre
    quello che hai infangato ucciso
    ma dei figli miei
    quelli che da mostro immondo
    o da infame vivisettore hai stuprato
    quale altro dio dalla croce
    me li depone

  152. Non so se ho ben capito. Postare quì, qualcosa di proprio, di creativo?
    Ringrazio per la disponibilità e rilancio con qualche mio testo tratto dal libro Abitare L’imperfetto (Edizioni La Vita Felice).

    Nel quadrilatero delle carceri le case
    non hanno geometrie verticali
    non hanno torri dipinte d’acciaio
    tetti rigonfi di un seme
    dune assolate

    nel quadrilatero delle carceri
    Giovanni giocava
    alla prima guerra mondiale

    nelle strade si assommavano
    bambini a sassate
    ————————–

    dalle città a nord
    le finestre di terra
    fameliche ululano, contro
    pallidi orizzonti.
    L’imposta trattiene
    l’ombra , la nervatura
    dei colli stremati
    dai combattimenti
    il loro dissenso
    assurge controvento
    elevate trasparenze

    l’illeso, invisibile.

  153. carissimo approfittando di questo spazio vi sottopongo un mio breve racconto, altri se avrete voglia e pazienza potrete leggerli a qusto link:

    blog.myspace.com/vagabondoebbro

    Landmark motor Hotel

    Avrei voluto abbracciarli tutti, prenderli e tenerli per mano insieme in un sogno unico e senza fine. Eppure tutto muore, lentamente, come un urlo che striscia dentro, senza pace. Così finisce un amore soffocato dal silenzio.
    Averci un blues.

    A volte penso che quel silenzio sia una musica così assordante da confonderti le idee. Le schiaccia alle pareti e hai voglia a staccarle e rimetterle in piedi com’erano. A guardarti allo specchio non riconosci che rughe e cicatrici.
    Certi suoni che non avresti mai immaginato, voci distorte e ubriache, lamenti e singhiozzi e sentimentali riff s’accavallano, s’inseguono al ritmo lento e morente di un blues ormai lontano che prima t’accompagna, illudendoti, e poi, senza che tu te ne accorga, senza che tu abbia nemmeno il tempo di sorridere o piangere o che so io bestemmiare, senza tempo né battito ti lascia per terra e se ne scappa via. Blauh!!!
    Silenzio.

    Rimango ferma a rattoppare qualche buco per non far scorgere il calzino stinto e mi nascondo dalle folate che soffiano forti sotto una coperta di lana strappata qua e là e indosso la mia giacchetta. Così carina di seconda mano presa in prestito, la tipa del bar, tutta tette e dolci malinconie, me l’ha data per una foto e un sorriso. Che dirle?
    Rantolo in continuazione che non so fermarmi. Mi copro dal freddo e dallo spiffero impudente. Viene dentro come un orgasmo sottile, sale su per le scarpe sfondate, sapete vanno tanto di moda, ma i piedi non sanno. Ed io non so nemmeno che giorno sia, figurarsi il mese, la stagione, l’anno. E non chiedetemi come mi chiamo che non saprei per nulla rispondervi. Non ho la più pallida idea di quale sia il mio nome.
    Le idee si confondono. Capita a tutti del resto, tutti hanno idee confuse. Basta guardarsi in giro e ascoltare le parole della gente. E tanto più bene parla tanto è confusa, la povera gente.
    Ascoltatela.

    Spegnete le vostre menti per qualche istante, zittite il trillare di telefoni invadenti e nascondete nei vostri freddi garage il rombo delle automobili, acquietate antichi dolori e rinnovate speranze e fermate tra le dita il sibilo di aerei insinuanti, fate tacere le urla dei bimbi che ingombrano la mia povera testa. Fate tacere le urla silenziose dei bambini che scalciano su prati di fango. Nei ghetti si ride per un pezzo di pane trovato per terra, si ride di nulla e si muore per niente e la mia mente oggi è un ghetto.
    Ascoltateli.

    Il tintinnare di monete sonanti scambiate al mercato da serpenti a sonagli, il fracasso di investimenti e azioni, e miliardi sparsi qua e la per nessuna ragione, bruciati da invisibili fiamme, la spranga che stride sul ferro, dolcetti appena sfornati e vitelli squartati, la vanga che sradica l’erba. É il loro mestiere. Sudore e denaro marciscono insieme per le loro pene.
    Ascoltatele.

    Frenetici passi in fondo alla strada, all’angolo, quando il marciapiede svolta nascondendo il cammino e non sai dove andare, all’angolo tra il negozietto alla moda che ti infilza di creme, gonnelline attillate da spezzare il fiato, crampi allo stomaco per culi d’inferno, tormenti e desideri e giochi che volevamo, ma era appena ieri. Quel negozietto di sogni e speranze e la vecchia baldracca che raccatta qualche cazzetto moscio per un caffè e latte. Che fuori dicono faccia freddo davvero quand’è inverno. A malapena in piedi, tra quel posto incantato e la donna che tanto ha ingoiato, e qualche rumorosa cinepresa ci sta questo piccolo hotel che m’abbraccia stanotte. Un volto scrostato dal tempo, ricordo di colori sgargianti vinti dalla pioggia. Nulla rimane com’è. Qualche finestra cadente, una porticina e parecchi mal squadrati scalini da lasciarci le gambe, scricchiolanti più che mai. Anche qui, fuori dal mondo, a quanto pare c’è confusione, e forse più. Da parte mia ascolto e tendo le orecchie a questa vecchia radio e la sua piccola cassa che gracchia, ansimando, più della mia voce.
    Ascolto governanti e papi, dottori e puttane, e madri e padri in balia degli eventi, e piccoli bimbi che gridano sui prati di fango. Tutto è confuso che i miei occhi piangono lacrime asciutte.
    Pensieri confusi e silenzio assordante, ecco quello che sono. Ho scopato fino a sfiancarmi con gente che nemmeno conosco e adesso mi sento come un pensiero confuso in un silenzio assordante. E qualche brivido di paura mi tiene compagnia.
    Non è che ci voglia granché poi per esser confusi. Basta un po’ di solitudine, e un pizzico d’onnipotenza. Quando le tue parole vengono ascoltate ed esauditi i tuoi desideri, allora non ci vuole molto a confonderti le idee. Da non capirci un cazzo davvero.
    Così me ne sto qua a guardare da questa finestrella un po’ sudicia, qualche passante distratto, un’auto scalcinata e un whisky che ballonzola su gambe malferme. Il mio silenzio è claudicante come quell’uomo, va e viene, va e viene dal silenzio nel silenzio.

    Averci un blues da cantare, anche per qualche minuto, allora forse starei meglio, ma le corde le hanno spezzate e nessuno le può cambiare a quanto dicono. Sono andata dal mio amico e gli faccio, “cambia sto’ ponte e metti corde nuove che voglio cantare”, mi guarda e mi dice che non c’è verso. Adesso le corde della mia vecchia chitarra non le fabbricano nemmeno più e quelle della mia gola martoriata s’allentano giorno dopo giorno. Nulla da fare. Eppure sembravano nuove, luccicavano ancora di smalto fresco e avreste dovuto sentire come suonavano. Ma adesso che dire, silenzio intorno, e ritorno a giocare con i polsini della mia camicia bianca unta d’alcol di non so quando. Ma sarà stato di certo d’annata.

    Piangi, piangi piccola, e fai rumore, canta più forte che puoi, con quanto fiato il buon dio t’ha ficcato in quella stretta e fradicia gola che ti ritrovi. Canta che la morte ha paura e rimane li, ferma sulla porta. Mai sia fatto silenzio. Nel silenzio ti prende che neanche t’accorgi. Siamo dunque tutti morti tra le pareti di questo hotel?

    La chitarra freneticamente distorta che ascoltavano qualche passo più in là non suonerà. Hanno staccato la spina. E la lucertola che ballonzolava, sgusciando tra i vecchi tappeti d’arredo, e dribblava le sedie saltellando su una zampa e sedeva accanto a me aspettando che accendessi il camino, beh quel simpatico rettile credo non metterà più il suo musetto fuori. S’è infilato in un buco più grande di lui e non penso ne esca più. Ha perso la coda.

    M’è sembrato per un attimo che il vento mi dicesse qualcosa, come se avesse cercato di parlarmi, di attirare la mia attenzione, richiamarmi alla vita, fuori da questo buco d’albergo. Zitti che non riesco a sentire, un po’ di silenzio signori, grazie. Il vento ha qualcosa da dirmi. Guardate come s’agita e sfronda foglie e rami e piega alberi e coscienze. Ammutolisco il mio cuore per ascoltare meglio, ma, v’assicuro, niente. Non si riesce a capire. Che forse invece di parlare mi stava cantando qualcosa, una ninnananna magari? Che sensazione magnifica essere cullati dal vento verso un sonno pieno e quieto. Come vorrei riposare adesso.
    Averci un blues.

    Lo tratterrei stretto nella mia gola, accarezzandolo dolcemente per poi colpirlo con forza, senza scampo. Lo amerei fino a perdere fiato. Che non mi lasci in silenzio. Lo potrei sussurrare, anche, perché no, ad avercelo tra le labbra, e invece nulla, nulla di tutto questo. Labbra secche e spaccate nel profondo e animi lacerati, ma non importa ch’è tutt’un’altra storia.

    Piangi, piangi, bambina vieni a me e continua a piangere, che non è silenzio per noi.
    Cazzo, averci un blues.

  154. Buonasera a tutti, ho trovato questo blog x caso durante una delle mie tante peregrinazioni telematiche e mi é bastato un rapido sguardo x sentirmi a casa. Non sono una scrittrice ma aspiro a diventarlo e se mi chiedete se ho le carte in regola x farlo vi rispondo che non mi sono mai posta il problema. La mia cultura letteraria é modesta, le mie letture sono perlopiù accademiche e al di fuori di esse leggo solo ed esclusivamente ciò che mi interessa. Tuttavia, scrivere é la seconda cosa al mondo che mi viene più naturale e non farlo sarebbe autolesionismo.
    Certo che a leggere alcuni racconti mi sento come una particella di sodio in un bicchiere di acqua Lete.
    Tuttavia credo proprio che l’ “ipertesto creativo” qui presente si meriti a pieno titolo una citazione nella mia tesi di laurea. L’argomento é “La scrittura creativa con riferimento al dramma della pagina bianca”( avete presente i diari dello scrittore Flannery in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”? Il conflitto é quello).
    Così visto che l’ambiente pullula di scrittori e aspiranti tali vi chiedo umilmente un contributo.
    Vi é mai capitato di sentire il bisogno impellente di scrivere ma di bloccarvi di fronte al foglio bianco?
    Cosa vi spinge a scrivere?
    Leggete quanto scrivete?
    Cosa c’è di diverso in uno “scrittore” rispetto a un manovale o a un semplice insegnante o a un qualunque altro individuo che non senta la necessità di esprimersi?
    Ringrazio anticipatamente tutti coloro che nonostante la mia fresca presenza vorranno fornirmi il loro parere.

    A presto spero.

  155. Innanzitutto, desidero ringraziare Massimo Maugeri per questo prezioso spazio virtuale messo a disposizione di tutti. Poi, cogliendo al volo l’invito che ieri sera, alla festa di un’amica comune, gli ho in qualche modo estorto, posto il link a un mio racconto pubblicato tempo fa dalla rivista letteraria online “Progetto Babele”

    “Soddisfatti o redenti”
    http://www.progettobabele.it/racconti/showrac.php?ID=2601

    Ancora grazie,
    Marcello

  156. Ehilà Marcello,
    bravissimo! Hai trovato subito il sito e capito come funziona “Iperspazio creativo”. Complimenti per il racconto.
    Ti invito a partecipare – se ne hai voglia – ai dibattiti che portiamo avanti sugli altri post.

  157. Volevo segnalare ai lettori di Letteratitudine l’uscita, lo scorso 7 ottobre, di ‘Delitti sotto la cenere’ (Sperling & Kupfer editore) , il secondo libro dello scrittore americano Nathan Gelb che ha come protagonista Raimondo de’Sangro Principe di Sansevero, alle prese, in veste di ‘detector’, con una intricatissima serie di omicidi. La storia avvincente quanto poche altre sembra un vero e proprio rebus, che la mente acutissima del Principe scienziato e alchimista (realmente esisitito) finirà col dipanare, in un susseguirsi di colpi di scena, sullo sfondo di una Napoli settecentesca piena di luci ed ombre. Il romanzo è corredato da una serie di bellissime incisioni d’epoca relative alla città di Napoli e alle sorprendenti invenzioni del Principe di Sansevero.
    Questo romanzo segue quello di esordio ‘Il quadro dei delitti’ che, sempre con protagonista il Principe, invece si svolge tra la Roma papalina di Benedetto XIV e la Francia: al centro un misterioso quadro di Bosch e ovviamente, alcuni misteriosi delitti.
    Intrecci da grande autore di thriller e un uso straordinario della lingua italiana (l’autore ha in parte radici italiane e scrive direttamente nel nostro idioma) sono le principali caratteristiche di un’autore tutto da scoprire, in mezzo a tanta paccottiglia pseudoesoterica.

  158. Buongiorno, posso farvi leggere alcune ‘poesie’? Se volete leggerle nella loro scansione ‘optometrica’ originale andate qui:

    http://giulianojoyce.blogspot.com/2008/11/quando-la-morte-verr-trover-la-morte.html

    🙂 grazie!
    ——————————————————————————————

    ‘Certamente no’

    certamente no
    di me non amo l’immagine
    distorta
    che contrabbando all’anima
    per una solitudine
    di me che non concedo
    a te di non capirmi.
    rimango zitto spesso
    e lascio a spasso i demoni
    dei sogni lungo i passi
    di un uomo morto in strada
    ucciso
    dalle ideologie ammuffite.

    certamente no
    non amo quel che basta
    a sopravvivere
    di nuovo, come muta di serpente
    sfregata contro il sasso di una scelta
    estrema, da cui mutato il corpo
    s’illumina tremante
    come fuoco in una latta
    traforata da proiettili
    per gioco da bambini
    dentro scheletri di case
    abbandonate.

    (2008)

    ‘In me’

    in me la tua voce
    a volte più forte
    del sole accecante
    quando l’asfalto
    cuoce lucertole
    nello sferzante miraggio
    nell’afa di morte.

    in me la tua voce
    lontana nel vuoto
    nel corpo in cui nuoto
    distante dal mondo
    come un fanale
    cui la falena
    si abbevera e sbatte.

    dentro la voce
    che muove il mio corpo
    quando egli urla
    e che strazia alla foce
    del mondo col fiume
    di morte che dentro
    mi porto. un cortome…

    …traggio la tua voce (dentro)
    che recita il canto
    di un agosto meriggio
    bruciante di plastica
    e di sortilegio.

    (2008)

    ‘vivo?’

    mi vien da pensare
    a un caro pier paolo
    consumista all’eccesso dell’anima
    scavato dal volto
    di gente non colta
    nei sentire diversi
    colta nel vivo
    fior fuorilegge.

    sento di essere
    di apparire diverso
    e diverso lo sono
    diverso da me
    che non vedo
    silenzio
    nel roboante frastuono
    di nubi di corsa
    attorno al tuo viso
    a cui chiedo perdono
    e ottengo pietà.

    produci
    predici
    pratichi voci
    in veci di corpi.

    muori.

    (2008)

    ‘1. Una foglia cade’

    C’è un altro mondo,
    oltre prima e dentro questo:
    il cosmo di una foglia rutilante.

    Soltanto casualmente un occhio
    può distinguerne il confine
    e districarne i bordi e i limiti cerchiati
    di birra sopra il foglio:
    inavvertito cado, foglia sul cammino

    vedo un buco sfocarsi… un bar vicino.

    (La vedi, obliqua,
    spirale di volteggio,
    da un non so dove, foglia,
    davanti al tuo
    interrotto viaggio?)

    Ti fermi!
    Trafitto dal bello casuale:
    l’evento del vento che stacca la foglia
    e la scaglia violenta lontana dal ramo.

    Ti lanci a trattenere colla penna,
    l’eventuale danza misteriosa
    impossibile a irretire,
    il tragitto della foglia sul quaderno.

    Forse può un teatro,
    un’elettrica memoria,
    una videopresa della macchina
    a ripetere?

    ma a te,
    coscienza per quell’attimo allargata,
    sai che resta?
    solo il ruvido ricordo di una festa,
    vivido e invadente,
    nello scorrer della gente
    che poco o nulla sente.

    (da “Po-etilica Lucchese”, 13. 10. 2004)

    4

    iride fantastica d’occhi tenui lungo l’orbita cangiante
    rami scricchiolanti teneri germogli fuscelli poco consistenti
    particole di spazio disarmante e lunghe camminate.

    in sintonia discorde con rari avvenimenti
    si distolgono da noi respiri e sguardi
    confusi e senza senso.

    3

    e tacque!

    2

    e sparì così dentro un rinnovato desiderio di morire
    e rinascere in primavere enormi d’oro e rosso e verdi
    e non conoscere di sé mai
    il fantasma che alberga da anni senza mai pagare
    tra stanze strette e mura immacolate di dolore.

    un colore simile al rantolo di una creatura
    agonizzante trafitta da cristalli purissimi di luce
    al bordo polveroso di una strada nerissima e pulita
    così spesso si porta a spasso il proprio straccio
    di illusione: chi lo chiama vita chi lo chiama sogno

    chi lo chiama amore.

    1

    passi stanchi riflessi contro specchi
    gomme lisce acciottolate sugli emisferi dubbi
    ti amo ti amo ti amo
    il sole torrido e freddissimo il semicerchio ovale
    dei tuoi occhi da me che mi allontana.

    mi racconto illusioni e storie che finiscono
    prima o poi
    bene o male
    scende o sale
    un ascensore il destino la ruota che rintrona
    su strade lunghissime e sconnesse
    senza fine
    mi disegno un circuito di macchinine e gare
    chi è più forte?
    mi chiedo
    chi arriva prima chi non arriva mai
    chi naufraga aggrappato al relitto di un nave
    e la tempesta si abbatte su corpi privi
    di calore come una fredda giornata di agosto, dopo un tremendo temporale.

    (da “Le bottiglie che vengono dal mare”, 2005)

    ‘tre’.

    Pericolo d’esserci
    rischiando
    non sapere d’esistere

    l’abbandono del senso
    l’abbondanza di sesso
    tra le tue gambe
    torpore dell’io
    di non femmina
    la tua invidia del pene
    nascosta o palese

    coma di frasi
    la sorte su ruote
    storte

    i pensieri intricati
    rampicanti di fusti
    di bosco
    di aria
    pruriginosa nel sogno
    rompicapo di teste

    corrotte le stelle combattono
    della vittoria la coda è quell’attimo
    battito
    di fotogramma dell’occhio
    batter di ciglia
    gocciola il naso
    trema la terra
    il cuore stanco ne avverte vagiti
    né teme i rincari che rendono piombo
    l’oblio.

    Il punto del centro
    è punto a sua volta
    dal dubbio del cerchio
    dal punto all’esterno
    la stessa fatica
    d’andare e tornare
    rende ogni punto
    un moto
    a tristezza browniana.

    L’eccesso dell’uno
    l’eccesso dell’altro
    decesso nel mezzo
    decesso nell’esito

    contorno del vuoto
    del nulla che al centro
    dirada tentacoli
    simile a luce
    dall’alba alla stanza
    dallo sbadiglio
    al sonno che sveglia:
    carichi s’è
    di sogni pesanti
    sulle vite degli altri.

    Aspetto il calar delle siepi
    tra pochi viluppi
    l’onda è fantastica:
    precarietà
    di tersa amnesia.
    Non puoi coltivare dei fiori
    fuori
    dai vasi
    dai torridi campi del Sud.

    il sangue nel tufo:

    l’acquerugiola
    conta a ogni goccia
    chi muore
    colla buona postura
    o l’amore sgraziato
    di chi fermo resiste
    senza tanto rumore
    con lancinante premura.

    (da “N-essimo quadernone a righe. L’uso della penna nell’epoca della sua riproducibilità elettrica”, 24.1.2000)

  159. @giuliano joyce
    é capitato che leggessi le tue poesie. Parole che trascinano in profondità. Ho sostato alquanto su “in me”.Il tuo dire sulla “voce” mi ha catapultato su voci, che nel tempo mi hanno segnato. E qualche voce ha alimentato la mia fantasia, in tutti i sensi.Il tuo raccontar la “voce”: in modo carnale( accecante…sferzante…); convincente attraverso gli omoteleuti( concludi spessissimo con il suono aperto della e,inoltre vuoto-nuoto etc.); il suono avvincente dell’allitterazione(fanale-falena etc.);l’enjambement trattiene sempre il fiato.Il tuo raccontare per immagini ha il senso della veridicità e dell’intimo rapporto con la natura di cui senti la prossimità e diventi credibile e tocchi l’animo; il tuo sentire la malinconia( e mostri di essere interamente nel campo semantico dell’umbratile=lontana-distante-urla-strazia-morte-bruciante) contamina alquanto(positivamente).Grazie. Mi sono veramente emozionata. Lucia Arsì

  160. ciao lucia,
    grazie per la tua attenzione, credevo scherzassi quando scrivevi che avresti analizzato le mie cose, e invece! sono felice soprattutto per esser riuscito ad emozionarti. sul serio! a questo aspetto ci tengo parecchio, a non risultare indifferente, dico. anche se poi qualcuno non me lo dice, e non è il tuo caso, l’importante è che provi qualcosa. è così difficile, oggi, far provare delle emozioni, soprattutto quando chi ti legge non è un tuo amico o un tuo conoscente. queste tue parole mi rincuorano e mi incoraggiano ad andare avanti.
    a presto! un abbraccio!
    gianluca

  161. @gianluca
    quanta paura per nulla!sei bravissimo nella scrittura, sei profondo nei sentimenti, sei carino nei rapporti umani, ma sei titubante con te stesso. Devi continuare a scrivere. C’é tanta umanità, tanta capacità di condensare in sillabe le tue emozioni, tanto desiderio di comunicare agli altri le tue gioie e le tue pene.Un modo per esprimere il tuo mondo, che potrebbe giovare a chi ti legge. I giudizi feroci lasciamoli agli pseudocritici, quelli che abilmente mercificano le sillabe, sono spesso murati in celle preconfezionate e, cos gravissima, bloccano la creatività di chi potrebbe offrire molto. Ad maiora! Ciao Lucia

  162. Signori miei blogghisti, ma che razza di vista avete? Vi invidio! Non si potrebbe ingrandire il corpo delle lettere, oppure mettere in alto la possibilità di leggere con lettere più grandi in percentuale? Scusate il suggerimento.
    Come mi era stato detto, sono andato su iper-spazio ed ho visto la superba lettura di Lucia Arsì della poesia di Giuliano. Allora vorrei approfittare della sua “scienza” profonda per sottoporle una breve composizione, non oso dire poesia, di quell’estrosa di mia moglie, (impiegata della Asl con la fissa della poesia! Lei scive ancora con la biro! e quindi spero di aver letto correttamente)) che le ho sottratto e ho ricopiato per tutti quelli che intendono dire due parole credendo poco alle sue capacità poetiche. La poesia, che a me, transfuga da altre situazioni, non sembra troppo ricca di contenuto è la seguente:

    La voce del vuoto

    Percuote oggetti sonori la voce del vuoto.
    Eco si sveglia dal lungo sonno.
    Spezza l’incanto.
    Dice fonemi,
    ma non l’intendo.
    Colgo il “fiore meraviglioso”
    con gesto innocente.

    Grazie Lucia, e grazie a tutti gli altri, se volete dirmi due parole. In modo da incoraggiare la mia consorte o no.
    Benedetto Ipsilon

  163. Caro Benedetto Ipsilon,
    ho letto la tua bella poesia accompagnata dall’ultimo recentissimo “Fleurs” di Battiato il quale ascolto adesso per la prima volta. Complimenti per il tuo “fiore meraviglioso”, e complimenti inoltre per la tua passione per un genio che ho avuto la fortuna di vedere a teatro due volte. La seconda volta recitava “I canti orfici” di Dino Campana: non immaginavo che la poesia detta potesse raggiungere tali vastità. Parlo di Carmelo Bene naturalmente. Non sono giorni per lui qui in Italia. Ma un genio non muore. C’è tempo.
    ***
    P. S. Un piccolo consiglio tecnico: come avrai forse notato il commento non riproduce gli spazi delle interlinee che il commentatore digita. Quindi per non fare apparire i versi appiccicati al resto del commento ti conviene scrivere un punto, un trattino o degli asterischi su un rigo vuoto: la poesia apparirà così graficamente più nitida.
    Un abbraccio,
    Gaetano

  164. SOS Massimo Maugeriiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii. Come faccio a vedere la scrittura un po’ più grande senza “trascinare tutto in Word?
    ——————————————

    Caro Gaetano grazie per i tuoi consigli e per il tuo commento ai versi della mia consorte. Le ho chiesto perché avesse messo tra virgolette “fiore meraviglioso”. Mi ha guardata come se non credesse alle sue orecchie e non mi ha risposto. Mah!| Come se non lo sapesse che non pratico la poesia.
    ———————————————————————
    Caro Gianluca, mi chiedi cosa ne penso della poesia di Giuliano. Cosa ti devo dire. Io non ho la profonda competenza di Lucia, però , se posso permettermi, sono solo un orecchiante! devo dire che non mi fa impazzire. Come mai? Non lo so.
    Tento di chiarire a me stesso perché impulsivamente ho detto che non mi piace e allora, sperando che Giuliano non ne tenga conto, vado per punti a) La scrittura mi sembra di tipo ritmico, ma talvolta il ritmo lo tradisce, almeno secondo il mio orecchio. B) le immagini sono molto belle, ma non so dove ho letto che la poesia è ciò che rimane dopo che l’hai tradotta in prosa.
    c) e dopo che ho tradotta in prosa mi sono rimaste molte idee note e arcinote perché, sempre a parere di uno che se ne intende pochissimo, la poesia non è solo immagini snocciolate come fossero rosari, ma “visione”, visione delle cose e la visione delle cose di Giuliano dice il noto. La poesia per me, ma ripeto me ne intendo poco, soprattutto se di un giovane, deve smontare il simbolico e poi riorganizzarlo in modo diverso. D) non noto un profondo lavorio sulla parola. Recentemente ho letto un piccolo testo di poesie di un mio amico che disarticolando la parola appunto dà per ogni poesia quattro piani di lettura. Niente di nuovo sotto il sole, ma almeno lui ci tenta. E) Sveglia ragazzi, girare, girare lo sguardo, vedere, guardare capire, perché a mio parere i poeti si stracciano sempre le vesti e si cospargono il capo di cenere e raramente guardano le cose con occhi vivi, con la voglia di capire cosa si nasconde dietro il linguaggio. Attenti”! dico linguaggio e non espressione. Bisogna, come ho imparato in altri ambiti, tenere separate le due cose e poi unirle nella resa artistica.
    Mi scuso se sono stata “pesante” ma sostengo che s’impara dal meno piuttosto che dal più e comunque la poesia di Giuliano non è brutta.
    Benedetto Ypsilon

  165. grazie benedetto, grazie davvero per le cose che mi dici.
    magari me le avessi regalate senza che te chiedessi il parere. è così difficile scrivere e confrontarsi, sembra quasi elemosinare un occhio di bue sui propri umori. sempre meglio dell’indifferenza.
    grazie di cuore!
    gianluca

  166. ipsilon, ti dono questa.
    p.s. ‘la poesia di Giuliano non è brutta’ è brutta.

    sin est e sia
    trovai riletto
    nel trovarobato del trobador
    mecluan
    niente che si scriva e dica
    niente che si ascolti e mimi
    niente che si annulli e ammorbi
    così di certi uomini
    non digerisco il bilico
    e di altre donne lo statico
    sull’immobile di lampadine
    asciutte.
    sin est e sia
    rimanovrando il consorzio
    della rivoluzione verde

    che dire?
    albette rosee
    sulle pallide palpebre
    che dire?
    di acronimi agri
    su minimi e massimi
    che dire?
    di apicolture
    di ali

    sin est e sia
    con i locomossi peduncoli che strascicarono il verso oltre illimitati campi
    oltresiepi che lucciole incendiarono a stelle e poi? oh… il durevole
    all’eterno il coagire a dismettere il suono a svenire.
    il dunque.

    12 giugno 2007

  167. Gianluca, ti risponderò quando avrò un po’ più di tempo. Il sabato e la domenica sono per me problematici. Articolerò meglio il mio pensiero in relazione a come vedo io i poeti e la poesia. Un caro saluto a tutti
    Benedetto Ipsilon

  168. @ Benedetto Ipsilon
    Per visualizzare i caratteri in dimensioni più grandi potresti provare a fare così…
    Tieni premuto il tasto “control” (Ctrl) e poi premi più volte (lasciando sempre premuto il tast Ctrl) il tasto “più” (+).

  169. Grazie infinite Massimo, adesso mi sento cristiano. Sul mio computer le lettere erano più piccole delle zampe di una mosca. Ora sono come quelle di uno scarabeo gigante. Ah! che goduria!!!!
    Benedetto Ipsilon

  170. ”Un’ombra di Dio nel bosco”

    Dove strazi
    la mia ignoranza
    di te?
    Nel cumulo rumoroso
    di lumache e fibre
    funghi incroci fra bisce
    rami nebbie e foglie?
    Sei nei fili ammalianti
    che usignoli e picchi
    gemelli tendono con
    discordi cori e alate
    ragnatele di viaggi?
    Fluido permei i
    sassosi gomiti
    del rigagnolo vivace?
    Grazie: dal respiro
    che un umano bacio
    inviar possa all’ospitale
    mondo che Tu in eterno
    mostrando taci.

  171. ‘senza titolo non ha senso’

    scivolan
    do re
    sto fermo
    e non ti ascolto più
    poeta mio.
    che sai di te
    che hai di me
    che vuoi di più?
    miti con il mitra
    l’umanità sparita
    il ballo in festa
    il mio ragazzo morto
    intriso di burocrati
    nei denti
    il nero marcio
    della droga
    il mio ragazzo
    morto nella festa
    è ritornato al feto
    della maligna sua
    materna gran puttana
    e sogna, ora:
    uomini uguali
    esseri uguali
    amore pace empatia
    e sogna ora,
    l’utopia.
    …………………………………….

    ciao a tutti.
    un abbraccio a lucia arsì.
    :))))

  172. Come se non bastasse se ne innamorò. Cotto al punto giusto per essere divorato dalla morbida trappola dell’ossessione. Avevano fatto sesso per quasi tre ore, dopo il solito gioco di pedinamenti e sguardi colmi di tutto e nulla. Matteo va spesso alla sauna gay solo per nutrire quella sottile sofferenza che lo coglie ormai quasi tutti i giorni, dalla quinta elementare.
    Un giorno, nell’estate che precede l’inevitabile autunno, si presenta alla segreteria delle scuola media del suo paese per iscriversi in prima media. Il segretario gli chiede lo sanno i tuoi genitori? E Matteo risponde di sì arrossendo un pochino, il volto paffuto, occhi grandi e capelli a caschetto. Un bimbo dolce. Ha un’aria stranita. Non sembra un bimbo. Matteo è già un adulto. Lo è da alcuni anni. Lo ricorda ancora oggi, vivido, netto, senza alcuno sfondo, il momento in cui l’amico lo stringe da dietro contro un muro di recinzione, nel piccolo campetto confinante col boschetto, da cui lo divide un altissimo muro colle fronde dei pini che troneggiano dalla sommità. Matteo fa la terza elementare. Il suo amico fa il primo superiore. Ora il campetto è una proprietà privata che funziona come deposito di ceramiche. Quest’estate è andato a fuoco rischiando di incendiare il boschetto. Passandoci in macchina coi suoi amici per andare al mare, Matteo ha pensato all’incendio della sua vita e al suo amico che lo penetrava. Come si fa a bruciare otto anni di violenza? Gianni in sauna ci va perché a 48 anni ha capito che non occorre mettere paletti, che l’amore con sua moglie e per i suoi figli sono un fondamento della sua bellissima vita ma l’amore erotico con un altro maschio lo serve a rilassarsi. È bellissimo. Occhi chiari. Spalle larghe, gambe sode. Ha una fossetta sul mento. I capelli corti grigio biondi, la fronte liscia. E quel piccolo naso, tenero. Matteo ha i capelli lunghi, lisci e neri, fronte ampia, occhi a mandorla e grandi.
    “Tu sei un tipo insolito” dice Gianni abbracciandolo e sfiorandogli la punta del naso, “Perché sono… insolito?” chiede Matteo, osservandolo come se fosse un sogno.
    ”Sei dolce, affettuoso… non so! M’infondi calma, tranquillità, tenerezza… sei sempre così?” Matteo guaisce stringendolo forte. Lo bacia sulla guancia e lo accarezza come fosse un dono raro. È felice quando si sente amato veramente e per quello che è. Gli altri maschi sono attratti solo dal suo cazzo. Vogliono godere loro e basta. Gianni è diverso. Lo tratta con un rispetto che gli stringe lo stomaco dalla contentezza. Ogni volta che cerca un maschio che lo ami, inconsciamente sta cercando suo padre che non lo ha mai riconosciuto. Cerca di autoconvincersi che gli piaceva essere inculato essere chiamato puttana ricchione davanti a tutta la famiglia la cena di capodanno. A nove anni non capiva bene cos’era quel dolore\piacere e quella rabbia sdegnata del padre che lo vedeva troppo femminuccia. Matteo è maschio. Piace a Gianni che non fa che ripetere“io ho la mia famiglia, una bella famiglia, una moglie splendida e due bellissimi figli.” Matteo sorride ma sente strozzarsi il cuore in gola. Vuole piangere. A vedere quel volto stupendo, quel corpo che lo sta amando con tutta l’anima. Che tornerà a casa. Caldo affetto cena. “Per noi stare in tavola significa discutere, dialogare crescere” fa Gianni e Matteo ricorda i piatti rotti, urla, frosciu, zio ho paura, mamma mamma la mamma muore ed è colpa mia se entro dieci secondi passano cinque macchine non scoprono mai che mi piacciono le persone grandi e la mamma non muore. Però non mi piace quando le persone grandi mi dicono cose brutte o mi fanno male dietro. Però se lo dico alla mamma muore oppure mi picchiano.
    “Mi vieni a trovare in negozio, allora?” fa Gianni mentre si rivestono e Matteo assicura di sì, dispiaciuto e si vede che è confuso.

    Non resisto. Deve rivederlo. Lo scorge dalla vetrina addobbata, discute con un cliente. Dolce e comprensivo. Il cuore mi esplode in gola. La bocca secca sudo tremo, è una freddissima giornata. Si è accorto mi fa cenno di attendere. Anche lui è felicissimo. Meno male. Mi abbraccia e sussurra “amore mio non ci credo prendo il giubbino e andiamo a farci un giro ci pensano loro a chiudere cassa.”

    Un tuffo al cuore. Coincidenze. Gianni parlava del caso e nulla è casuale. Mentre Matteo scrive di loro. Hanno scoperto d’avere troppe cose in comune. Vibra il telefonino. È lui. Risponde. “Cosa?” Matteo muta espressione, lo sguardo cupo. “Grazie, verrò a trovarlo.” Posa il cellulare. Gli occhi umidi. Le righe del racconto appaiono sfocate. Digrigna i denti di rabbia e gli parte un pugno contro il monitor. Gianni non era sposato e non aveva nessun figlio. Matteo lo fissa dall’alto seduto accanto al suo capezzale.

    “Non volevo farti soffrire. Lo sai… come vanno certe cose. Se ti fossi innamorato…” balbetta faticosamente Gianni abbozzando un sorriso. La mano, stretta su quella di Matteo, allenta la presa, il respiro affannoso diminuisce lentamente e infine cessa del tutto. Matteo scoppia a piangere cercando di non farsi sentire come quando era un bambino e aveva paura che la mamma moriva ed era colpa sua e non poteva dirlo a nessuno.

  173. …dove a certo punto si parla di papà:

    […] uno scacciapensieri che risucchiava oggettini per farli riapparire in un angolo qualunque della stanza. Decideva lui dove, visualizzando il punto esatto in cui avrebbe voluto farlo rimaterializzare. Ad ogni sparizione e relativa riapparizione, abbozzava un sorriso ebete, spingendo l’aria fuori dal naso con una scossa leggera del capo, e annuiva, scotendo la testa a destra e a manca. Una divertita rassegnazione. Diceva di sì al vuoto, confermava le pretese del nulla e assecondava la voglia di non fare più nulla. Per sempre. Un sempre velleitario e utopistico. Solo stanchezza. Era una perla momentaneamente sfilata dal filo rovente delle attese. Divorato dentro dall’impossibilità di essere come chiunque altro. Apparire e sparire. Così pensava di poter fare del proprio passato. Strappare quell’episodio bastardo, farlo passare nel congegno di Gualtieri, ricollocarlo in un’altra dimensione. O forse tornare indietro, nell’esatto pomeriggio di tredici anni fa, e sfondargli il cranio con un sasso, a quello stronzo, ora tutto casa e chiesa. No, lui non ci sarebbe mai riuscito, con il senno di poi, a tornare indietro. Non rimaneva che scrivere e reinventarsi una vita che non aveva mai vissuto. Ma la finzione cadeva non appena suo padre apriva bocca, a ricordare tutto il suo disagio per avere avuto un figlio fallito, lui che per tutta la vita s’era rotto la schiena nel cantiere, che aveva costruito la casa in cui lui poteva dormire e mangiare, eccetera. Che ne poteva sapere suo padre della noia, dell’incapacità a vivere, dell’inadeguatezza dei giovani scrittori. Che ne poteva sapere dei mondi che l’anfologrammina gli aveva dischiuso. Dei letarghi della bonaccia mentale dell’oloina, quando c’era, e della bestia furibonda che esplodeva in lui, quando non ne aveva e non c’era, e dei pregiudizi e di tutto il resto. Era questo, in fondo, il massimo premio che gli dei avevano potuto concedergli: la possibilità di scordare tutte le sue complicazioni mentali e chimiche, abbandonandosi, di tanto in tanto, ai racconti di quando aveva conosciuto sua madre, in bici, ricordi in bianco e nero. Quando la vita era semplicemente difficile e ci si aiutava l’un l’altro senza mangiarsi come squali.

    “Al? Al? Oh… ma rispondi? Tieni… è buonissima,” il braccio dritto davanti a sé, teso nella mano chiusa a pugno con le nocche rivolte verso il basso. Sorpresa! :raffaelle entrò quasi di soppiatto, mimando un passo felpato, come danzando sulla punta dei piedi. “Ero convinta che mi avessi sentita entrare,” si affrettò a dire per scusarsi del trasalimento che aveva provocato in Al. Egli era immerso nei suoi pensieri, negli scampoli di riflessioni organiche che presto sarebbero divenute idee prive di senso borghese e lui, travolto dall’orgone della benedetta droga, avrebbe ricomposto la sua indegnità morale sullo sfondo di una lenta disintegrazione psichica. Allungò il braccio e le sorrise: “Non è nulla, pensavo alla mia… vita,” disse porgendole il palmo della mano aperto a conchiglia, pronto a ricevere la dose, imbeccato come un pulcino. Al mandò giù le pasticche mentre :raffaelle, già gonfia, avvitandosi in una piccola, ridicola coreografia, vi si sedette sulle ginocchia e lo abbracciò. L’amore cosmico dell’oloina in questo inferno di persone che sbavano per un posto al paradiso. Come diventava leggera e bella la vita, allora […]

    http://www.nazioneindiana.com/2009/01/09/trevisione-il-mondo-il-al/

  174. Mi intrometto timidamente in questo generoso blog. Sono un giovane scrittore esordiente bolognese, che ha da poco pubblicato il suo primo libro. Si intitola “CHILLIENS (donne)” [ottobre 2008, Editrice UNI Service, Trento]. Nonostante non abbia quasi distribuzione, tra il mio blog, Facebook e altri strumenti Internet sta “sopravvivendo” con dignità, giungendo tra le mani di un pubblico sempre più vasto. Desideravo segnalarlo ai tanti appassionati che frequentano questo (iper)spazio, che trovo geniale. Mi auguro lo leggiate e, soprattutto, mi facciate conoscere il vostro prezioso giudizio.

  175. Mazzucato Francesca. Scrittrice fuori dagli schemi, fuori da ogni compromesso, pur essendo pienamente presente in questa nostra società caratterizzata da superficialità e vuoti egoismi.
    Osservatrice attenta ed efficace dei meccanismi che costruiscono e danno valore al consumismo dilagante, alle contraddizioni manifeste che ci caratterizzano e che rendono così palesi le nostre debolezze, le nostre paure. In “Generazione McDonald’s”, edizioni Marlin Young (2008, euro 13,50), la Mazzucato mostra con stile arguto e con rapidità di intuito tutto lo smarrimento non solo della generazione odierna, confusa e perduta tra i richiami privi di sostanza di una realtà di facciata, ma anche del nostro vissuto quotidiano, del nostro fallimento di adulti, sempre più invischiati nel compromesso e in un perbenismo che sa alzare soltanto palizzate tra persona e persona.
    I suoi personaggi, sebbene giovani e immaturi, sono lo specchio fedele della nostra epoca. Marcello, la Cate, Chierichetto, Scal, Tiki non appartengono soltanto alla finzione narrativa, ma sono simulacri di un modo di essere e di vivere nel quale ciascuno di noi può in qualche modo riconoscersi. Le esperienze del protagonista, Marcello, sono anche le nostre fin da quando inizia il suo apprendistato di vita alla McDonald’s, tra turni massacranti, incontri con gli altri lavoranti, quasi tutti stranieri, comandi e imposizioni di Manager, molto spesso frustrati, si snodano le vicende di un ragazzo che ha grande voglia di crescere, di amare, di costruirsi un progetto di vita, anche se è costretto a districarsi con grande difficoltà di un contesto sociale desertificato e assolutamente privo di punti di riferimento. Mai noioso, ma sempre molto vivo, arguto e coinvolgente, l’intreccio narrativo della Mazzucato procede spedito senza lasciare respiro al lettore e stimolarlo in riflessioni nuove, inaspettate sul mondo che ci circonda, sulle illusioni che amiamo costruire per nascondere un reale mediocre, di basso profilo.
    Nulla è dato per scontato in Generazione McDonald’s, tutto il racconto, che colpisce per la sottile ironia di cui è intriso, si arricchisce di volta in volta di nuove sorprese e di ragionamenti che ci spingono ad abbandonare i nostri preconcetti per assumere una visione più ampia dell’esistenza.
    La Mazzucato si conferma ancora una volta come una scrittrice di primo piano nel panorama letterario italiano, che sa maneggiare le parole con estrema cura e perizia: una scrittrice unica e attenta che non si erge sul piedistallo del giudizio per guardare gli altri dall’alto al basso (errore comune degli scrittori mediocri), ma si immerge totalmente, visceralmente, nelle vicende che descrive offrendo uno spaccato di vita assolutamente veritiero ed originale.

    La frase: “La speranza è il timore che l’occasione scappi, in un mondo dove il lavoro è un lusso, dove le richieste, le offerte e le domande paiono navigare in rotte mai destinate ad incontrarsi”

  176. Berto e Gegè erano amici.
    Anche Titina e Gianna erano amiche.
    Berto era innamorato di Titina, Gegè era innamorato di Gianna.
    Berto non voleva confessare per dispetto il suo amore a Titina perché la aveva vista passeggiare con un altro ragazzo e si era ingelosito; Gegè, pur essendo sempre sicuro di sé con le altre, si sentiva talmente intimidito nei rapporti con Gianna che non riusciva a confessarle di essere stato conquistato da lei.
    Allora i due amici, per risolvere il loro problema, ebbero una brillante idea: ognuno di loro avrebbe confidato alla ragazza a cui aspirava l’altro il suo amore per l’amica, in modo che le due giungessero, sia pure indirettamente, ad aver conoscenza dei sentimenti dei loro pretendenti.
    In questo modo, essendo state messe in grado di decidere, esse avrebbero potuto rispondere con un “sì” o un “no”, ma almeno si sarebbe usciti da quella situazione del fischio.
    Purtroppo, quando Berto si decise a parlare con Gianna, cominciò con le parole: “Io mi sono innamorato…”, ma l’altra non gli diede il tempo di finire perché gli buttò le braccia al collo, dicendo che era da tanto che aspettava che lui si decidesse a parlarle del suo amore.
    Né ebbe miglior sorte Gegè, che sfortunatamente esordì dicendo a Titina: “E’ giunto il momento di dirti quello che sento in cuore…”, al che l’altra lo zittì con un bacio che gli tolse la parola e poi aggiunse che anche lei avvertiva lo stesso trasporto verso di lui.
    A questo punto la cosa era fatta: i due ragazzi si erano messi con le due ragazze, ma, ahimè!, con il non lieve inconveniente che i fidanzamenti risultavano incrociati, né si poteva uscire dalla situazione senza creare una drammatica delusione per le due donzelle.
    I due, perciò, decisero di soprassedere nell’attesa di trovare una soluzione al problema.
    La loro nuova pensata fu quella di creare problemi nelle coppie che si erano appena formate, in maniera da indurre le ragazze a lasciarli e poter quindi riprendere la libertà d’azione verso i loro obbiettivi.
    A questo scopo, pensarono di puntare sulla gelosia che aveva ottime radici nel petto delle due amate: ognuno di loro avrebbe parlato alla sua attuale ragazza facendo delle lodi un po’ spinte della sua amica, in modo da indurla alla rottura.
    I due, però, non avevano ben calcolato la possibile reazione delle interessate: ognuna delle ragazze pensò bene di proporre di uscire insieme all’altra apposta per capire se ci fosse del tenero tra il proprio ragazzo e l’amica.
    La cosa cominciava a complicarsi.
    I due ragazzi, infatti, nell’osservare che le ragazze li spingevano verso l’uscita a quattro, cominciarono a sospettare che esse sospettassero ciò che, in fondo, essi volevano che quelle sospettassero; però, a questo punto, ecco rinascere l’imbarazzo di ognuno nei confronti del vero oggetto del loro amore e la difficoltà di portare avanti la situazione.
    A ciò si aggiungeva la gelosia che ognuno dei due cominciava a nutrire nei confronti dell’altro, visto che, essendo comunque in atto i fidanzamenti incrociati, ciascuno di loro usciva con la ragazza che avrebbe dovuto essere quella dell’altro.
    Giunse così, come arrivò il momento del mezzogiorno di fuoco nel film “Mezzogiorno di fuoco”, anche il momento del tentativo di riappropriazione delle proprie ragazze nel procedimento che si può giustamente chiamare “Tentativo di riappropriazione delle proprie ragazze”.
    Cominciò Berto, che aggredì Gegè dicendogli minacciosamente: “Come ti permetti di uscire con la tua ragazza, che poi invece è la mia?”.
    “Ed io,” gli rispose a muso duro Gegè “che devo vedere che la mia ragazza è la tua, ma che, essendo la tua, devo pensare che non è più la mia? E’ vero che la tua è la mia, però la mia è la tua!”.
    Berto non si arrese: “Ma se la tua è la mia, come puoi dire che è la tua? D’altra parte, devo onestamente riconoscere che, se la mia sembra essere la tua, anche la tua sembra essere la mia”.
    “Sì,” fece Gegè “ma se la tua è la mia e la mia la tua, come farà la mia ad essere la mia e la tua la tua?”.
    Il mistero, ormai, si stava addensando nei rapporti delle coppie e l’incertezza sui pronomi possessivi la faceva da padrona.
    Pur essendo giunte a questo punto complicato, le cose pareva che potessero comunque aggiustarsi, perché ormai i due amici si stavano adattando all’imprevista situazione e, poco a poco, si andavano affezionando alle ex-amiche delle proprie rispettive ragazze che si stavano trasformando nelle rispettive ragazze, ma sembrava che fossero diventate ex-amiche.
    Infatti, adesso erano Titina e Gianna a sospettare reciprocamente l’una dell’altra, in quanto ognuna delle sue temeva che ci fosse una tresca clandestina tra la sua amica ed il proprio ragazzo; anzi, ognuna di loro stava cominciando a pensare di far lo sgambetto all’altra, cercando di sottrarle il ragazzo.
    Una considerazione, però, le fermava: se, prendendosi il ragazzo dell’altra, si fosse realizzato proprio ciò che il ragazzo dell’altra voleva, questo fatto non avrebbe potuto significare una specie di via libera per l’altra verso il suo ragazzo attuale, in considerazione dell’estrema difficoltà, per non dire dell’impossibilità, di tener nascosto questo strano rapporto che non si sa più se definire a due, a tre o a quattro?
    In verità, ad ognuna delle due sarebbe piaciuto mettersi con il ragazzo dell’altra, ma questo a condizione di tenersi anche il suo attuale ragazzo, senza cederlo all’altra.
    In fondo, si trattava come se, alla domanda: “Preferisci l’uovo oggi o la gallina domani?”, ognuna delle due avesse risposto: “Li voglio tutti e due”.
    In realtà, nessuno dei due ragazzi pareva che assomigliasse ad un uovo, né, tantomeno, ad una gallina. Al massimo, si sarebbe potuto parlare di galli, però poi si sarebbe poi dovuto anche ammettere che, come avveniva in natura, ogni gallo avrebbe potuto “conoscere” (in senso biblico) più galline senza che nessuna si risentisse verso l’altra, ma qui stava accadendo esattamente l‘opposto: era ognuna delle galline a pretendere per sé più galli!
    Certo, a considerare che ormai si è passato da un discorso di giovani innamorati ad un rapporto tra animali vien da pensare che qui si siano oltrepassati i limiti e che sia meglio chiudere questo sproloquio: allora, si dirà che quanto segue viene riportato soltanto per i lettori più curiosi.
    Tornando a bomba, si capirà che, qualunque fosse la strada che dovessero prendere le cose, era necessario riunirsi tutti e quattro per prendere una decisione, e poi andasse come doveva andare.
    Cosicché, le due coppie in croce (in tutti i sensi) si incontrarono una sera in una pizzeria per poter finalmente definire tutto quello che c’era da definire.
    Il destino, però, quando ci si mette, sa essere ben strano!
    Chi ti vanno ad incontrare i quattro quella sera in quella pizzeria?
    Altre due coppie di amici, che avevano problemi casualmente simili ai loro e si erano anche loro ritrovati per poter trovare una soluzione comune: si trattava di Enzo e Lorena insieme a Franco e Giulia che, per un curioso gioco del caso, avevano problemi esattamente dello stesso tipo, perché pare che gli accoppiamenti teorici avrebbero dovuto essere Enzo-Giulia e Franco-Lorena. Quest’ultima coppia appare anche più logica per ragioni geografico-monetarie, perché, almeno fino all’avvento dell’euro, era il Franco a correre in Lorena e non certo l’Enzo. In proposito, forse qualcuno potrà obiettare che Enzo sarebbe stato giustificato riguardo a questa azione se fosse stato uno sportivo –ciclista, podista, motociclista, automobilista, insomma uno di quelli che corre!- ma, a questo punto, anche Franco avrebbe potuto esserlo e perciò quest’ultimo torna in vantaggio.
    Qualcuno un po’ prevenuto potrebbe accusare l’Autore di questo papocchio di essere amico del Franco in questione, ma lo scrivente dichiara esplicitamente sotto la sua personale responsabilità, a norma di quella legge lì, che, pur avendo alcuni amici con questo nome, il personaggio di questo racconto non è amico suo, anzi non lo ha mai conosciuto.
    Tra i maschi e le femmine di quelle quattro coppie c’erano state, già in passato, scaramucce amorose, di Berto con Lorena, di Gegè con Giulia, di Enzo con Titina e di Franco con Gianna: ognuno di loro, in verità, non era mai riuscito a togliersi dalla testa l’altro o l’altra.
    Quella sera, perciò, sembrò a tutti che fosse stato il destino a scegliere per loro ed ognuno dei presenti iniziò, senza darlo a vedere, a flirtare con il suo antico ex-amore.
    Si innescò così una nuova situazione, simile alla precedente, ma stavolta a quattro coppie e con complicazioni moltiplicative.
    A questo punto, però, considerando che il racconto ormai si avvia a diventare un romanzo, forse è meglio finirla qui.

  177. ciao a tutti, non sono una scrittrice, ma mi piace molto scrivere e partecipare a concorsi letterari. Volevo condividere con voi questo racconto, che ha partecipato al concorso Racconti in Passerella di un paio di anni fa. Datemi qualche consiglio su come migliorare stile/contenuti!!

    L’amore segreto

    Ci sedevamo sempre sulle poltroncine blu, non so chi avesse cominciato a farlo per primo, ma era diventato il nostro rituale segreto. Dall’ampia vetrata guardavamo la strada, che era sempre affollata a quell’ora del pomeriggio: a me piaceva osservare i cani portati a passeggio al guinzaglio, lei credo “guardasse” più spesso i bambini. Mi sembra di conoscerla da una vita, invece sono solo pochi mesi che la vedo, qui al Bar del Centro. Eppure mi accorgo sempre di più che noi due abbiamo molto in comune: il nostro colore preferito è il verde, quella bella tonalità smeraldo con sfumature ora più chiare, ora tendenti all’oliva. Le donano tantissimo queste tinte. Anche il modo di sedere, sempre nello stesso punto, è tipico di entrambi. Siamo due abitudinari, lo so, ma che vogliamo farci? I piccoli gesti quotidiani mi danno così tanta sicurezza! Ogni mattina mi dico: “Giorgio, finché riuscirai ad andare a leggere il tuo giornale al Bar del Centro, potrai considerarti in salute.” Ed è proprio vero: io non manco mai al mio appuntamento quotidiano, anche se piove. Ricordo una volta, alcune settimane fa, che stava scendendo una pioggerellina sottile: io ero seduto sulla mia solita poltroncina, e osservavo i pochi passanti che cercavano rifugio sotto i portici al di là della strada. Lei, invece, stava su una seggiola appena fuori dal bar, e si godeva le goccioline che le rimbalzavano allegre addosso. In quell’occasione era davvero magnifica: sembrava brillare di luce propria. Che incanto!
    Alcune volte mi è capitato di passeggiare davanti al bar di mattina, quando il sole illumina le ampie vetrate: anche allora lei era lì, a godere dei benéfici raggi dorati. Sembra proprio che i fenomeni della natura avvengano con il solo scopo di renderla ogni giorno più bella.
    Osservandola, ho iniziato a conoscere anche i suoi gusti in fatto di bevande: io sono un bevitore di caffé, mi piace i tutti i modi, liscio, corretto con un po’ di grappa, macchiato… Lei preferisce la semplice acqua, anche se, a volte, l’ho vista dissetarsi con una bevanda color giallino, preparata appositamente dalla barista. Forse si tratta di qualche integratore di sali minerali o vitamine. Mi piace anche per questo, perché ha gusti semplici, senza troppe pretese. Sempre più spesso mi trovo a sospirare guardandola: sono, ahimé, sospiri d’amore, lo ammetto. Ma so anche che è pura follia innamorarsi alla mia età, quando non dovrei far altro che farmi lentamente consumare, come una vecchia candela. E penso: cosa le posso offrire, io, che già non ha? Qui è circondata da tanta gente, può godere di un’ottima visuale sulla passeggiata, i proprietari del bar l’accudiscono con devozione… Io ho solo il mio piccolo appartamentino, che però ha un bel terrazzo: è al quarto piano, lì potrebbe trascorrere tutto il giorno e godere di sole, pioggia e vento. Sarebbe perfetto! Però non oso avvicinarmi più di tanto a lei, per rispetto. Non sono come certi prepotenti che, pur di avere la poltroncina che desideravano, una volta hanno costretto la mia amata a starsene relegata in un angolino, vicino al portaombrelli. Che incivili! In quell’occasione mi sono lamentato con la barista, che ha subito trovato un nuovo posto per il mio tesoro.
    Ormai, però, è da alcuni giorni che non posso più andare al bar: ah, la vecchiaia, che gran brutta compagna! Ho messo un piede in fallo e…Patapam! Piede sinistro ingessato. È davvero triste starsene qui in casa da solo, anche se ho amici che mi vengono a trovare. Però lei mi manca, più ancora del caffé. Allora decido di telefonare al bar: sono cliente da più di dieci anni, me lo potranno pur fare un piccolo favore! Nessun problema, dicono. E infatti, mezz’ora più tardi, ecco arrivare il cameriere: da un lato tiene un bel caffé fumante, dall’altro…c’è lei! La mia amata è qui, per me! Sono così felice che farei le capriole, se potessi. Dico al cameriere di farla accomodare vicino al davanzale, spero le piaccia. Faccio anche aprire un po’ la finestra, so che non le piace l’aria viziata. Il ragazzo mi istruisce su cosa offrirle come cibo: poche cose, lo dicevo che era di gusti semplici. Resterà con me, a tenermi compagnia, finché non avrò tolto il gesso. Che bellezza!
    Rimasti soli, la guardo, ci guariamo, a lungo: che strana coppia che siamo! Io, un pensionato anzianotto e, ora, un po’ zoppo.
    Lei, una splendida Veronica Beccabumga con fiori viola, nel pieno degli anni e della salute.
    Sì, credo proprio che andremo molto d’accordo.

  178. Ciao a tutti sono Tosca Pagliari.
    Sono onorata di poter presentare qualcosa si mio su questo blog che mi sembra molto interessante e ben strutturato. Si tratta di un racconto breve. Grazie per la vostra attenzione.
    .
    8 Febbraio 2009 – Scritto da Tosca Pagliari

    “ANCH’IO SONO UN LIBRO”

    (Un libro racconta la sua storia in un diario segreto.)

    15 giugno 2005
    Sono l’essenza di un libro, sto cercando una mente per insidiarmi ed evolvere come una larva nella crisalide. Ne ho adocchiata una, ma è ancora troppo chiusa, non trovo alcun spiraglio tra i tanti pensieri che fanno da muro al mio essere. Potrei cambiare rotta, sono ancora in tempo, invece sono sempre più attratto da quella mente. Aspetto.
    1 luglio 2005
    I pensieri diventano più leggeri, sarà l’aria di vacanza. Il muro diventa una massa elastica e gelatinosa, facendo pressione invado una zona perfettamente libera. Lì inizio a vivere con sembianze di sparute idee.
    7 luglio 2005
    La mente s’accorge d’avermi concepito e passa il messaggio alla materia. Comincia la mia gestazione.
    9 luglio 2005
    Adesso nuoto tra gli svariati pensieri di chi mi alloggia, cerco di manovrare le mie idee, ma vedo solo con i suoi occhi. Conosco lei e mi spavento! Negli archivi della mia essenza ci sono tutte le informazioni. Come ho fatto a sbagliare? La mia realizzatrice non mi darà mai alla luce, ha ucciso da sempre quelli hanno cercato di nascere prima di me. Non mi resta che sperare.
    16 luglio 2005
    La sento. Ha preso un taccuino. Poteva trovare qualcosa di meglio. Invece proprio quello. Ha iniziato a dar forma alle idee.
    26 luglio 2005
    Ha scritto già tanto, sta per finire il taccuino. L’inchiostro ha cambiato tre volte il colore, non trova mai la stessa penna. Finora mi piaccio. Lei non mi giudica, va avanti e basta, non considera neanche quel che ne viene fuori. Piacerò anche a lei quando mi guarderà? E’ una donna con tante incombenze, indecisa, scontenta, rincorre un lavoro che non si consolida. Che ne sarà di me?
    30 luglio
    Dal taccuino è passata ad un’agenda dalla copertina rossa. Mi sviluppo, sovrapponendomi a date stampate, con una grafia minuta e poco comprensibile. Sarà capace lei stessa di decifrarla?
    5 agosto 2005
    Sto crescendo velocemente tra scarabocchi, asterischi, richiami, rimandi. A volte mi sviluppo a zone, altre volte a castello su un’idea che cresce addosso ad un’altra e c’è tutto un rincorrersi di freccette e annotazioni. Ho paura che non ci capisca più.
    15 agosto 2005
    E’ finita l’agenda dalla copertina rossa. Ne ha trovata un’altra dalla copertina verde, ha strappato le pagine precedentemente usate e mi distende su quelle rimaste. Amo la sua mano che mi plasma. Sono terrorizzato dalla sua mano così lesta a strappare. Che fine farò?
    27 agosto 2005
    Adesso ho più potere, riesco a controllarla meglio, conosco le sue abitudini. Mi scrive prevalentemente al mare. Lo iodio e il sole stimolano la mia crescita.
    30 agosto 2005
    Cresco, cresco, cresco felicemente senza tregua. E’ finita anche l’agenda dalla copertina verde. Sono passato su una serie di fogli riciclati con una facciata già stampata di cose a me ignote, una molletta li tiene tutti insieme. Se ci desse un colpo di pinzatrice starei più tranquillo.
    31 agosto 2005
    Finalmente si è decisa a recuperare un quadernone. E’ a righe di classe prima. Mi rendo conto che ricicla tutto ciò che le è avanzato. Non so se per me è un onore o un disonore. Oppure paura. Non spreca la carta nuova perché tanto mi getterà. Eppure adesso sembra non volermi mai mollare. Ha preso a scrivermi anche di notte. La notte è una grande occasione, solo io riesco a regnare nei suoi pensieri, non c’è nient’altro in quelle ore.
    6 settembre 2005
    Sono sconvolto. Si è messa a riempire il quadernone di post it gialli con su strane indicazioni che rimandano a fogli volanti. Le sue idee si allargano e non c’è posto abbastanza tra le righe già riempite, così ha sperimentato questo lavoro, ma ci si raccapezzerà? O le sembrerà tutto un gran pasticcio da eliminare? Tremo.
    13 settembre 2005
    Lo spazio nella sua mente torna a farsi stretto, mi trovo sempre più rincantucciato, non fa che spingermi indietro presa da qualcos’altro. Ormai sento d’avere i giorni contati.
    18 settembre 2005.
    E’ finita! Ha preso tutto il mio corpo informe fatto di agende, fogli e quadernone strano invaso da post it e lo ha scaraventato in un cassetto al buio. Buio ormai nella sua mente. Mi ha dimenticato, ma non mi ha ancora distrutto. Nella foga di togliermi di torno mi ha lasciato anche la penna incastrata. Una biro nera senza tappo che, dopo avermi a lungo solleticato nel crearmi, adesso mi sta come un peso sullo stomaco. Sto qui inquieto. Un giorno riaprirà il cassetto e toglierà le cartacce per fare piazza pulita. E tutti i miei pensieri che non avrò potuto gridare al mondo? E le emozioni? E le immagini dipinte a parole? Chiuso in un cassetto, in attesa di chissà quale funesto giudizio, dormo in attesa di morire.
    20 giugno 2006
    Mi sono destato perché ho sentito la sua inquietudine, anzi la sua malinconia. Sembra sia sempre lì in procinto di un pianto nascosto. Ha aperto il cassetto. Mi ha preso. Ha iniziato a leggermi come se mi scoprisse per la prima volta. Faccio compagnia alla sua tristezza, forse per questo può ancora tenermi.
    23 giugno 2006
    Gran giorno. Mi regala una nuova dimensione, mi trasforma, mi cuce il vestito nuovo, mi eleva quasi alla mia futura aspirazione di libro già nato. Mi trascrive al computer. E’ lesta sui tasti. Prende un pezzo di me e lo chiama capitolo, lo intitola, mette i numeri alle pagine, mette persino le note a piè di pagina. Gran giubilo! Assaporo la mia prima stampa. Ma ora che fa? Mi legge e mi rilegge. Sento più che mai la sua irrequietezza. Se potessi griderei aiuto. Tra poco mi appallottola, mi strappa, mi butta via, mi brucia addirittura. Stupisco! Mi porta al telefono. Al telefono? Mi legge. Mi legge a chi? Non lo so. Mi legge e questo mi basta. E’ l’onore più grande per un libro, per un quasi libro, un aspirante libro.
    Ora ascolta e sorride. Ha un’aria estasiata. Magari mi ama. Mi ama? Comincia ad amarmi. Ovvìa comincio di sicuro a starle simpatico.
    16 luglio 2006
    Accidenti, come divento lungo! Batte e ribatte sulla tastiera. E’ sempre lì appena può. Il taccuino è stato tutto trascritto ed anche l’agenda rossa. Ho già un corpo di dieci capitoli! Sono quasi un giovanotto e le piaccio.
    10 agosto 2006
    Adesso rallenta. Lo sapevo. Con tutti i garbugli che ha combinato non si ritrova. Traccia linee a solchi profondi sulle pagine già scritte. Ho paura ancora più paura. Tra poco mi vedrò massacrato nella pattumiera o nel water, in passato ha avuto anche di queste idee poco gentili con i miei fratelli non nati. E’ inutile che avanzi illusioni. Invece sì! Invece sì! Sta crescendo un bel plico sulla scrivania ed è tenuto in buon ordine.
    21 agosto 2006
    Buona parte della sua malinconia è sfumata. Non mi legge più al telefono, ma parla di me. Sono il suo eroe, magari mi tiene.
    5 settembre 2006
    La sua malinconia è sparita, ma mi dispiace perché quand’era malinconica si rifugiava in me. Adesso è ancor più irrequieta dello scorso anno in questo periodo ed è tornata a non tenermi in considerazione.
    13 settembre 2006
    Non conto più nulla per lei. Mi ha agguantato mezzo stampato e mezzo ancora scritto a penna per scaraventarmi nel solito cassetto. Dovrei sperare o rassegnarmi? Per quanto mi toccherà attendere il risveglio o la distruzione?
    21 dicembre 2006
    Chi poteva mai aspettarselo, in pieno inverno si è ricordata di me. La notte le sue dita sono più leste che mai, la stampante partorisce pagine e pagine.
    6 gennaio 2007
    Non è andata a letto per tutta la notte, s’è fatto giorno ed ancora è lì con me e l’aria viziata dalla stufa tenuta tutto il tempo accesa. Ho venti capitoli, compresi tra la prefazione e l’epilogo. Mentre in casa cominciava a crearsi il trambusto, svelta svelta ha creato anche l’indice. E il titolo? Oh, sì, è arrivato anche quello. Semplice e incisivo. Lei non ama i preamboli e io mi accontento. Adesso sono tutto intero, alto così, con un malloppo di fogli stampati. Che farà ancora?
    8 gennaio 2007
    Mi duplica, anzi mi triplica! Perchè? Perchè mi sparge in tre diverse case. Non case editrici, mi sarei già montato la testa, case di gente comune. Mani mi sfogliano, occhi mi frugano e sento, come l’inizio di un battito d’ali di farfalla, la loro approvazione. Sono salvo? Vivrò?
    11 febbraio 2007
    Lei non mi ha più toccato, ma mi ha molto pensato ed ha perso tempo al telefono parlando di me. Sembrava molto soddisfatta. Cercavano di convincerla a pubblicarmi, ma non mi pare convinta, dice che non mi ha creato per questo scopo. E’ mai possibile? Come si fa a concepire una creatura, a portare avanti una gestazione con lo scopo di non farlo nascere? E’ strana questa mente,stolto io che mi ci sono intrufolato.
    22 febbraio 2007
    Sembrava soddisfatta, invece no, non era soddisfatta. Sta manipolando il mio quarto io nascente. Cambia pezzi, taglia pezzi, aggiunge pezzi, si allungano le note a piè di pagina.
    5 marzo 2007
    Adesso sono tutto orecchie quando parla di me al telefono. E quel sempre più insistente “Lo devi pubblicare, lo devi fare” mi manda in visibilio. Ma lei non sa come muoversi. Ha sempre distrutto ogni sua creatura ancor prima di preoccuparsi dell’ultimo stadio della nascita. Adesso è impreparata e senza appoggi. Povero me! Povero illuso!
    16 marzo 2007
    Coraggio, si sta interessando. In mancanza d’altro s’appoggia ad Internet. Si entusiasma per un concorso. Scade il 31 di marzo deve decidersi. E’ un concorso per romanzi inediti indetto da una casa editrice. Se dovesse vincere magari pagheranno e mi pubblicheranno? Sarebbe la mia grande occasione di nascere al mondo dei lettori. Aspetto gli eventi, effervescente.
    28 marzo 2007
    Una quinta copia di me è pronta, stampata sulla carta migliore e ad alta qualità. Ho pure una copertina graziosa ed una rilegatura ad anelli. Farò un figurone, sono un bel malloppo, un bel fustacchiotto. Vincerò la gara. Dimenticavo, ho anche un bel biglietto di presentazione, una sinossi d’effetto. Già mi vedo trionfante.
    29 marzo 2007
    Avvolto amorevolmente in cellophane a bolle e deposto con cura in un pacco postale color giallo canarino, viaggio. Lei mi ha lasciato andare con un palpito al cuore, sa che l’aspetta un’attesa di tre mesi. Decide di dimenticarmi per tutto quel tempo. Un po’ offeso, smarrito e anche speranzoso vado verso il mio destino, vado nell’anticamera della casa editrice.
    24 giugno 2008
    Arriva una lettera che parla di me. Sono piaciuto e tanto anche! Complimenti! Complimenti di qua e di là, però, siccome per garanzia, autore sconosciuto, a scopo precauzionale, dovrebbe versare una cifra pari a… (Ma come aveva vinto! Allora che aveva vinto? Non la pagano, vogliono essere pagati loro!) Pari a quanto? Accipicchia e chi ce li ha tutti quei soldi da spendere così? Sono stato concepito da una madre di poche risorse economiche. Povero me! Non ha di che mantenermi, scoraggiata mi butterà via.
    Le solite voci al telefono “Ma lascia perdere con queste case editrici, mandalo a una importante, ne vale la pena” “Figuriamoci, chissà quanti soldi vorrà una casa editrice importante”. Oddio com’è ignorante, non lo sa che le case editrici importanti o non pubblicano o se lo fanno pagano com’è giusto gli scrittori, non si fanno pagare. Ma lei è ignorante e io sono un libro non ancora nato e senza alcuna voce in capitolo, tanto per giocare con le parole. “Lascio perdere”, la sento dire. Sono finito! C’è poco da fare gli spiritosi, lo so che sono compiuto, intendevo finito nel senso di morto.
    1 luglio 2007
    “Conosco un editore, se vuoi te lo presento”. Santa voce al telefono che mi fa tornare a respirare.
    3 luglio 2007
    Cifra accettabile se la valutazione dovesse andare bene. Mi lascia lì da questo che chiede una cifra accettabile. Mi lascia lì tra la speranza e lo sgomento. Sono nel limbo dei libri non ancora nati. E lì mi dimentica per mesi presa da altri pensieri, da altre risorse, dalla gioia di partire per un lavoro che si concretizza, dalla pena di lasciare la famiglia per un bel po’.
    23 settembre 2007
    E’ lontana da casa, molto lontana da casa. Dall’altra parte del telefono la voce dell’editor è compiaciuta. Sono venuto fuori bene, piaccio eccome se piaccio. Si aspetta copia contratto per firma. Comincio ad avere un futuro anche se ancora stento a crederci.
    28 novembre 2007
    Arriva il contratto, lo firma, lo rispedisce. L’ha firmato! L’ha firmato e sono salvo! Non può più uccidermi manca solo la data del parto. In quest’attesa svanisco dai suoi pensieri. Chissà se può ancora fermarmi? E’ meglio non cantar vittoria troppo presto. Sono nel fondo, anche troppo in fondo alla sua mente. Non ha più niente a che fare con me. Morirò di tristezza. No, c’è qualcun altro che ha preso interesse per me. E’ un ragazzo fiero di contribuire al lieto evento della mia nascita e mi prepara la copertina. Ma che avete capito? Non è una copertina di lana fatta ai ferri, non una “little blanket” ma una “cover”, benedetti gli Inglesi che hanno parole diverse per definire le cose, noi Italiani abbiamo troppi omonimi che ingenerano confusione. Tornando alla copertina, il ragazzo sottrae ore allo studio e mi prepara una cosa di lusso, una cosa particolare. Poi manda una mail e, lei che la riceve, vedendo ciò che mi coprirà mi ripensa gioiosa. M’immagina già nato e vestito, pargolo bellissimo del suo ingegno e dell’ingegno della sua discendenza.
    27 dicembre 2007
    Lei torna a casa per le vacanze di Natale, va dall’editore, paga la prima rata e ritira la bozza del mio lay out per correggerla. La mia impaginazione è cambiata, da fogli formato A4 sono passato a formato pagina di libro. Pagina di libro! Ci pensate? Sembro rimpicciolito invece ho ben altro “spessore”. Con la copertina farò un figurone. L’editore però è perplesso. Per la collana di cui farò parte usa mettere riproduzioni di quadri d’autore. Ma poi la guarda, la riguarda, si convince. Avrò la mia bellissima copertina.
    6 gennaio 2008
    Lei non ha dormito tutta la notte. Ha corretto le bozze al computer riscaldandosi con la stufa a gas che ha reso l’aria viziata nella stanza, un anno esatto dalla precedente nottata insonne. Strana ricorrenza di notte bianca, che sia capitato in casa di una Befana?
    Fine gennaio 2008
    Eccomi sono un LIBRO! Sono nato e ha pagato la seconda rata. Ha pagato per “vendere” (e non per compare), ha pagato per il frutto del suo ingegno. Sciocca ed ingenua madre, che doveva essere pagata per la fatica d’avermi messo meravigliosamente al mondo. Sempre meglio che morire o restare in coma nel buio di un cassetto.
    Febbraio 2009
    E’ un anno che cerca di crescermi, d’inserirmi nel mondo. Non è facile, è una madre sconosciuta con un figlio sconosciuto, anzi no qualcuno comincia a conoscerci e poi ci presenta a qualcun altro. Pian piano, sommerso in un mondo sovrappopolato di fratelli libri di svariate menti, vado a passetti per la mia strada. Fin dove arriverò? Non lo so e non mi faccio illusioni, ma mi piace sognare con la consapevolezza di sognare. E siccome sogno gratis lo faccio alla grande. Lei mi sente e mi sorride. Ad occhi aperti sogniamo insieme, ci facciamo compagnia e siamo felici. Lei soprattutto è felice perchè è tornata a casa ed ha un lavoro sicuro. In fondo, anche se con me non diverrà una scrittrice affermata, in qualche modo le ho portato fortuna.

    fine

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    http://www.lefotosalvate.it
    http://www.lefotosalvate.com/toscapagliari

  179. Sono sempre Tosca Pagliari. Nel 2008 ho pubblicato un romanzo genealogico di 316 pagine con la casa editrice A&B.
    Ecco di seguito la recensione apparsa sul quotidiano “La Sicilia” lo scorso novembre.
    LE FOTO SALVATE

    Le foto salvateUna casa in disfacimento “ammicca furbescamente”, possiede uno spirito energico trasmessole dalle generazioni che, di volta in volta, l’hanno vivificata. “Sporche, scolorite, spiegazzate… la maggior parte incredibilmente intatte”, ha custodito istantanee di un passato che, con forza, pretende di palesarsi per mezzo di Ada, la protagonista, colei che in cambio manterrà la promessa di raccontare. Parliamo dello straordinario romanzo d’esordio di Tosca Pagliari, “Le foto salvate”, edizioni “A&B”. Un libro godibilissimo, oltreché per lo stile suggestivo, per l’equilibrio intercorrente tra gli elementi descritti. Collocata fra Toscana e Sicilia, la narrazione, arricchita dalle rispettive parlate dialettali meticolosamente tradotte in nota, ripercorre le vicende di due famiglie, e, in un arco temporale esteso dal 1860 al 1970, diviene, al contempo, allettante documento storico-sociale. Personaggi, fortemente caratterizzati, animano pagine dalle quali traboccano efficacemente immagini, costumi e turbamenti “odoranti” genuinità. Una finestra sporta sull’oceano elegiaco dei ricordi, amabilmente dischiusa dal soffio vitale del tempo trascorso.

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    e il blog
    http://lefotosalvate.com/toscapagliari

  180. Mi chiamo Bruno Franchi, autore del libro “Siamo Dio Oltre Fede e Scienza” che vorrei portare alla Vostra conoscenza. Dopo aver letto la recensione, chi la troverà interessante potrà trovare il mio sul sito http://www.ilmiolibro.it.

    con cuore

    bruno franchi

    Recensione LIBRO di Bruno Franchi:

    Bruno Franchi

    Siamo Dio

    Oltre Fede e Scienza

    Edizione autoprodotta, novembre 2007

    “ Siamo Dio, Oltre Fede e Scienza ” è il titolo del libro che atterrò sul mio tavolo, inviato via posta da uno scrittore a me sconosciuto che immediatamente ho sentito familiare e, ad una più attenta osservazione, in un certo senso, complice. L’autore, Bruno Franchi, ( http://www.ilmiolibro.it ) si presenta come qualcuno che “non è del mestiere” ma, appassionato studioso di Wilhelm Reich, invita il lettore ad intraprendere insieme con lui, attraverso la parola scritta, un insolito viaggio verso la scoperta di “chi siamo” e del significato dell’esistenza. Invito questo che, incuriosita, accettai volentieri.

    Spaziando tra Wilhelm Reich ed Einstein (dall’apertura del famoso archivio di Reich, nel 2007, non ero ancora riuscita ad avere notizie dei suoi contenuti), “l’affair” (il carteggio tra Reich e Einstein), Zichichi, Hawking, l’energia Orgonica – l’energia dell’Amore – e vita vissuta, Franchi condivide con il lettore un percorso esistenziale e conoscitivo denso e originale. Ci parla di scienza e di fede e racconta una storia unica e irripetibile, la storia della Vita… che è anche la storia della sua vita.

    “Scoprire invece di coprire”, scrive l’autore, perché solo una mente sgombra da ogni vincolo educativo può iniziare il viaggio verso la nudità. Franchi esorta il lettore a diffidare di chi vuole insegnargli qualcosa perché la chiave che può aprire la porta della conoscenza si trova soltanto dentro se stessi, ed ognuno, sostiene l’autore, è solo a bussare alla porta del Creatore.

    Proseguendo la lettura percepisco tra le righe qualcosa di familiare, “qualcosa” che, in modo insolito e imprevedibile, attrae e unisce coloro che cercano nuove vie. Scorgo qua e là alcune idee, aspirazioni e speranze che un tempo hanno occupato a lungo i miei pensieri: “quello che è vivo riconosce e sente il se medesimo”, scrive Franchi, parole che mi ricordano la “congiura di poeti per salvare il mondo” di Tiziano Terzani o la “società segreta” di Ouspensky: una sorta di “organizzazione” molto disorganizzata e senza nome, né forma o leggi convenzionali che, come un filo invisibile, lega misteriosamente tutta una serie di persone – un’idea, una particolare espressione, una parola detta in un certo modo, un gesto… – in una “mistica congiura” di pensieri, linguaggio, intenzioni. Forse, come sostiene Ouspensky, non siamo davvero lontani dalla verità che è effettivamente in corso il processo di formazione di un nuovo “tipo” di esseri umani con un diverso modo di essere e di sentire per i quali esistono valori differenti da quelli dominanti.

    Filo conduttore del libro è il principio dell’unità: tutto quello che noi guardiamo, ci ricorda l’autore, ha un denominatore comune ed è, in realtà, una cosa sola. Se pensiamo, per esempio, che le galassie si muovono nello spazio infinito, come i pesci nuotano nel mare e che anche le cellule nuotano nel plasma allo stesso modo, quindi, sostiene Franchi: noi, lo spazio, il mare, il plasma siamo in realtà la stessa cosa.

    : “…siamo fusi, in una umanità sola, come la luce”. (pag.66)

    Da quando l’evoluzione biologica ha concluso la sua corsa, scrive l’autore, sviluppando un essere più sofisticato che potesse percepire se stesso, ecco che il movimento della vita ha subito dall’interno una “distorsione” e sostituito il suo spontaneo fluire con la divisione inquinante tra cuore e ragione. Da allora l’uomo, incapace di attingere alla propria naturalezza e spontaneità originarie, tenta di “ricordare”, di ritrovare la strada del ritorno e di dissetarsi alla fonte vitale interiore: attraverso lo studio e la scienza, l’introspezione, l’arte e le religioni, l’uomo innalza lo sguardo ai cieli, e prega, implora Dio di rispondere alle infinite domande sul perché del nostro vivere. Come tutta “risposta”, scrive Franchi, solo un assordante silenzio e una non visibilità inquietante continua ad alimentare la nostra insolubile angoscia esistenziale!

    La soluzione ai nostri gravi problemi, esistenziali o quotidiani che siano, non si trova, secondo l’autore, là dove tutti ripetono sempre le stesse cose: nelle scartoffie istituzionali, nelle chiese, nei bla, bla, bla…. di tutti i giorni. Tutto ciò che osserviamo non potrà mai essere capito nella sua essenza se continuiamo a scindere ogni cosa, se continuiamo a percepire un mondo frammentato in tanti pezzettini di noi stessi, diviso fuori e dentro di noi ma sopratutto un mondo diviso tra noi.

    “Ogni cosa è il movimento silenzioso dell’eternità che si è fatta materia”.

    Un “Dio che cammina”, è la risposta di Franchi ed il progetto divino è un progetto “vivo” e in via di costruzione: “la materia bio-logica ha una sua logica razionale non casuale altrimenti l’avrebbero chiamata bio-casuale…” continua l’autore, logica funzionale questa che Franchi chiama Dio: un Dio in cammino, e che con il suo moto evolutivo intende completare la sua incarnazione.

    L’autore ci esorta ad attingere al nostro nucleo vitale, immerso nella oscura memoria della nostra specie e, sulla scia di Reich, esprime in tutte le sue forme il grande mistero dell’identità corporea:

    “…il corpo è il vestito con cui Dio si rende visibile…” “… e l’io, è contingente relativo, al contrario della sostanza: continuum dell’essenza energetica, sorgente perenne di vita!” (pag.424)

    Teilhard de Chardin già a cavallo del secolo scorso riteneva che la specie umana fosse ormai riuscita a conquistare e a dominare tante forme di energia, e proprio per questo sembra essere arrivato il momento di esplorare e umanizzare l’unica forma di energia che sembra essere stata dimenticata: l’amore.

    “Un giorno o l’altro, dopo l’etere, i venti, le maree, noi capteremo per Dio le energie dell’amore. Allora, per la seconda volta, l’Uomo avrà scoperto il fuoco.” (Teilhard de Chardin)

    Franchi, come Teilhard e come Reich crede nella potenza salvifica dell’energia dell’amore (o dell’energia Orgonica): “l’amore è simmetria totale ”, “è spazio infinito…”, “è il momento in cui il Dio che è in noi sta ad un passo dal rivelarsi…”. Così, ci racconta l’autore, ogni giorno ed ogni minuto, Dio e l’Universo attraverso l’Uomo e la Donna si sfiorano, si incontrano, si stringono la mano, si salutano, si scrutano, si parlano, si guardano negli occhi, ma in questo infinito incontrarsi nessuno si riconosce e nessuno ricorda…

    Per l’autore il progetto divino è un progetto “vivo” e in via di costruzione, ma gli uomini devono ancora ricordarsi di essere tutti Una Sola Cosa e ritrovare il filo di Arianna che gli segnerà la strada verso casa. Un Dio che “cammina” è un Dio della trasformazione, un Dio che potrà avvicinarsi sempre di più alla sua meta, nella quale l’Armonia originaria potrà finalmente compiere, attraverso l’Uomo, la sua incarnazione.

    Dott.ssa Virginia Salles

    http://www.virginiasalles.it

  181. Salve, mi chiamo Gianfrancesco Iacono. Mi permetto di postare il link del mio blog http://musadellafinzione.blog.kataweb.it/ , uno spazio dove ho inserito notizie e recensioni del mio primo libro pubblicato “Le Vacanze Romane di Audrey” (Ed. Falcone), e altri interventi di carattere letterario-culturale. Mi piacerebbe che il blog, nella sua piccolezza, divenisse anche un piccolo centro di scambio di opinioni.
    Grazie ancora per questo piccolo spazio.

  182. FUTILI MOTIVI
    di Felice Muolo
    ———
    Quando inizio a scrivere un racconto, so solo vagamente come andrà a finire e il più delle volte lo chiudo diversamente da com’erano le mie intenzioni iniziali. La storia che vorrei raccontare adesso ho cercato di scriverla infinite volte ma non sono mai riuscito a incominciarla. Il motivo credo consista nel fatto che conosco esattamente come va a finire. E, dal momento che narra una vicenda realmente accaduta, non potrei terminarla diversamente da come si è conclusa. Per poter riuscire nel mio intento, liberare una volta per tutte il mio cervello dalla sua incombenza, ho pensato di riportarla dalla fine.
    La ragazza, che attualmente è una parvenza di quella bellissima che era una volta, spesso la incontro per le strade del mio paese, imbottita di psicofarmaci, con lo sguardo assente e la sigaretta perennemente tra le labbra, procedere con un’andatura instabile.
    Molti anni fa, quando non aveva neanche diciotto anni, era fidanzata a un ragazzo che adorava. Come spesso succede, i rapporti d’amore sono destinati a rompersi per futili motivi. I futili motivi sono molteplici, tanto che non serve individuarli. Lei però non aveva accettato che la sua storia fosse finita. Ignoro le tappe che l’abbiano portata alla follia. Posso assicurare che il percorso non è stato lungo. Il suo ex fidanzato ha messo su famiglia con un’altra donna. E della sorte della sua ragazza impazzita dice che non gliene frega niente.
    Mi auguro solo che non sia sincero.

  183. Non avevo capito che l’esperimento fosse mettere in atto la “brevità”.
    Perdonami. E’ che questa donna, per come l’hai descritta ( “brevemente”) mi era venuto il desiderio di sapere che un tempo non era così. Ma, come ho letto da qualche parte nel blog , l’immaginazione del lettore, nei racconti, è fondamentale.

  184. Non era così. Ho scritto: “La ragazza, che attualmente è una parvenza di quella bellissima che era una volta…”

  185. Lo sfascia carrozze

    Schiaccia marchingegni, macchine:
    dinamiche meccaniche:
    bulloni vorticanti, pistoni trepidanti,
    pannelli luminosi, granelli alluminiosi…
    e poi su sfondo denso di fumi lievitanti,
    cementi calcitanti, si ergono castelli:
    grovigli di carcasse roventi arrugginite
    digeriscono la luce, grattando il cielo grigio:
    metalliche dispense di pezzi di ricambio.

    E quell’uomo che si erge sulle macerie del consumo,
    aspetta d’ingrassarsi con cibo raffinato…
    e la scatola dei sogni propina gl’incentivi
    per i poveri di oggi, per i ricchi ancora ricchi.
    Con le rate puoi comprare
    i modelli un po’ più nuovi… un po’ più nuovi.
    Ed intanto si progetta di scavare altri crateri…

    (Da “Lo sfasciacarrozze” di Riccardo Raimondo, 2009, Bonanno Editore postfazione di Cettina Rizzo; non ancora in stampa)

  186. @ Riccardo Raimondo
    Caro Riccardo, tanti in bocca al lupo per questa tua silloge di poesie che sta per vedere la luce per i tipi di Bonanno.

    Riccardo è un giovane poeta di Rosolini (SR).

  187. (Da “Lo Sfasciacarrozze” di Riccardo Raimondo. Bonanno Editore)
    .

    Puro Sangue
    .
    Ascolto voci, ideologie sciupate, parolieri parolanti,
    paranoici paromimici sempre un po’ più scaltri,
    politiche confuse si “occupano” di me,
    i Poteri regolano le valvole al mio cuore:
    immagini di felicità propina la scatola dei sogni,
    e sempre più sogni e felicità irraggiungibili….
    incomprensibili…
    Profeti riesumati d’altre storie che urlano missioni
    fino ad oggi:
    correnti pseudonuove per le storie di domani!
    Qualcuno vuole il mio sangue?
    Forse la Morte! O quale Dio?Quale Diavolo?
    Quale nuova Giustizia si occuperà di Me?
    Quale nuova Chimica Diabolica delle mie Emozioni?
    Quante sinapsi ancora violate ci saranno
    dalle Scienze delle Comunicazioni?
    E quante nuove spade ancora? Quante “terapie” addizionali,
    colori (s)personalizza (n)ti , quanti indici puntati
    a indicare una meta ai nuovi ascolti?
    Quanti campi verdi di falsità?
    Quante verità ancora? Quante pubblicità?
    …quante? Quante ammalianti costrizioni?
    Mi avete acceso la paura e adesso
    perderò energia… la sento: si sta affievolendo.
    Ma ne sento tanta, immensa!
    Ne ho accumulata davvero tanta…
    sono un porco…
    e c’è n’è per tutti…
    e tutti ne vogliono un pochetto…
    .
    Il Piacere si rivolge al Potere
    “Perché non punti un fucile alle mie tempie
    e mi fai sentire il rispetto per i Sogni
    invece di prenderti gioco di me ?
    Perché non entri adesso
    e mi riempi di palline di piombo?
    voglio vivere con le mie ali altrimenti…
    puro
    come un inviolato dilettante,
    e ancora tanto, tanto puro sangue.”

  188. (Da “Lo Sfasciacarrozze” di Riccardo Raimondo, Bonanno Editore)

    Sole e Luna
    .
    Un solco nel sorriso della sera,
    la fragilità che invidia i crateri della luna.
    Un pianto che preme, immenso,
    percorre la vita e mi urla in faccia
    il senso che non trovo alle cose.
    Eppure spero che non taccia
    Perché mi sento vivo quando tremo
    .
    Quando scrivo e spero.
    Un attimo di buio che presto passa,
    la malinconia dura il tempo d’un eclissi.
    Un sole che preme, immenso,
    irradia ogni cosa di nuovo senso,
    e altra luce, altre ombre lente
    si allungano dolcemente.
    Con lo sguardo imparo a seguirle.
    Quando scrivo, spero.

    (Da “Lo Sfasciacarrozze” di Riccardo Raimondo, Bonanno Editore)

    Sole e Luna
    .
    Un solco nel sorriso della sera,
    la fragilità che invidia i crateri della luna.
    Un pianto che preme, immenso,
    percorre la vita e mi urla in faccia
    il senso che non trovo alle cose.
    Eppure spero che non taccia
    Perché mi sento vivo quando tremo
    .
    Quando scrivo e spero.
    Un attimo di buio che presto passa,
    la malinconia dura il tempo d’un eclissi.
    Un sole che preme, immenso,
    irradia ogni cosa di nuovo senso,
    e altra luce, altre ombre lente
    si allungano dolcemente.
    Con lo sguardo imparo a seguirle.
    Quando scrivo, spero.

  189. Da “Lo Sfasciacarrozze” di Riccardo Raimondo, Bonanno Editore)

    L’anima

    C’è sempre un lume, luce fioca,
    una speranza, un barlume di coscienza,
    che puoi far finta di non sentire.

    …e c’è sempre un gioco nuovo da provare,
    giocare, divertire. C’è un sogno nuovo
    ogni giorno, e ‘ogni’ è una volta, è una vita.

    E c’è come una grande tristezza, un vuoto,
    al mattino. Tutto non è ancora oggi,
    il resto è già ieri o non esiste se non
    nei miei pensieri.

    Una dolce protesta. Il cuore canta.
    A parole sue canta strofe e ormoni.
    Canta il sangue: le vene ricordano tutto.

    C’è sempre un’altra vita,
    possibile altra vita
    oppure la non vita
    comunque sempre vita.
    Ammettiamolo a noi stessi
    che l’anima è di natura elettrica.

  190. Dal racconto “Neurofollie” di Riccardo Raimondo
    ———–
    La tecnologia era arrivata avanti in campo medico e gli avevano prescritto delle pillole!
    -“Quando senti ancora quelle voci strane, prendine una!”- i componenti dell’equipe del dottor J.L.Werther erano stati molto chiari. Sapevano che quel malessere non era ancora perfettamente curabile: i medicinali erano solo un diversivo, mentre attendevano dagli istituti di ricerca delle cure più efficaci.
    Arthur condusse così una vita più o meno felice, come pochi in quel periodo.
    “Accennare all’infelicità, il suo unico male apparente”, come diceva la diagnosi del Dott. Werther. Pensate! L’infelicità! Un malessere talmente primitivo, ma che nonostante la nostra modernissima tecnologia è riuscito a perdurare fino al 2170. Assurdo! Una vergogna per la scienza! Ma di certo poco male per un umanoide di venticinque anni, settantadue chilogrammi di peso, catalogazione di razza euro404, dimensione della materia grigia utilizzata oscillante tra il livello2 e il 4,5, pianeta terra.
    Era quasi riuscito a liberarsi da una malattia tanto temibile quanto rara. Un male che attacca il sistema neuorologico organizzativo a cui abbiamo dato il nome di “crisis licterorum” o meglio, come si usava dire nei secoli passati “poesia”.

    (dal quaderno del Dottor J.L.W.)
    Pianeta Nemesis. Apollo-24°-2050
    Un disturbo del sistema nervoso centrale, che compromette contemporaneamente la capacità cognitiva e la gestione emozionale. Un disordine del sistema neurologico organizzativo a cui abbiamo dato il nome di “crisis licterorum”, per via degli strani sintomi: una insolita nevrosi interiore che si esterna solo attraverso pensieri e parole. Nessuna forma di somatizzazione. Abbiamo tenuto Arthur sotto osservazione per diversi giorni. A volte scrive per ore ed ore, anche senza nutrirsi. Credo che sia un meccanismo di difesa. Credo che in qualche modo cerchi di analizzare la sua condizione, scrivendola, organizzando i pensieri in maniera organica. Non avevo mai visto nulla di così affascinante. È come osservare in prima persona una tappa dell’evoluzione. Mi viene in mente a tale proposito la frase di un grande sapiente umano del secolo scorso.
    “ Se volete comprendere il processo mentale, guardate l’evoluzione biologica e viceversa se volete comprendere l’evoluzione biologica, guardate il processo mentale”. Era Gregory Bateson.
    Questi umani! Li studio da così tanto tempo ormai! E non hanno mai smesso di stupirmi!

    Dal racconto “Neurofollie” di Riccardo Raimondo

    La tecnologia era arrivata avanti in campo medico e gli avevano prescritto delle pillole!
    -“Quando senti ancora quelle voci strane, prendine una!”- i componenti dell’equipe del dottor J.L.Werther erano stati molto chiari. Sapevano che quel malessere non era ancora perfettamente curabile: i medicinali erano solo un diversivo, mentre attendevano dagli istituti di ricerca delle cure più efficaci.
    Arthur condusse così una vita più o meno felice, come pochi in quel periodo.
    “Accennare all’infelicità, il suo unico male apparente”, come diceva la diagnosi del Dott. Werther. Pensate! L’infelicità! Un malessere talmente primitivo, ma che nonostante la nostra modernissima tecnologia è riuscito a perdurare fino al 2170. Assurdo! Una vergogna per la scienza! Ma di certo poco male per un umanoide di venticinque anni, settantadue chilogrammi di peso, catalogazione di razza euro404, dimensione della materia grigia utilizzata oscillante tra il livello2 e il 4,5, pianeta terra.
    Era quasi riuscito a liberarsi da una malattia tanto temibile quanto rara. Un male che attacca il sistema neuorologico organizzativo a cui abbiamo dato il nome di “crisis licterorum” o meglio, come si usava dire nei secoli passati “poesia”.

    (dal quaderno del Dottor J.L.W.)
    Pianeta Nemesis. Apollo-24°-2050
    Un disturbo del sistema nervoso centrale, che compromette contemporaneamente la capacità cognitiva e la gestione emozionale. Un disordine del sistema neurologico organizzativo a cui abbiamo dato il nome di “crisis licterorum”, per via degli strani sintomi: una insolita nevrosi interiore che si esterna solo attraverso pensieri e parole. Nessuna forma di somatizzazione. Abbiamo tenuto Arthur sotto osservazione per diversi giorni. A volte scrive per ore ed ore, anche senza nutrirsi. Credo che sia un meccanismo di difesa. Credo che in qualche modo cerchi di analizzare la sua condizione, scrivendola, organizzando i pensieri in maniera organica. Non avevo mai visto nulla di così affascinante. È come osservare in prima persona una tappa dell’evoluzione. Mi viene in mente a tale proposito la frase di un grande sapiente umano del secolo scorso.
    “ Se volete comprendere il processo mentale, guardate l’evoluzione biologica e viceversa se volete comprendere l’evoluzione biologica, guardate il processo mentale”. Era Gregory Bateson.
    Questi umani! Li studio da così tanto tempo ormai! E non hanno mai smesso di stupirmi!

  191. (Da “Lo Sfasciacarrozze” di Riccardo Raimondo, Bonanno Editore)
    .

    Free Jazz
    .
    Gorgogliano i ricordi che dipingo,
    come radio free jazz dentro la moca:
    sapore di caffè cacao carioca
    in schizzi di passato che non stinge.
    .
    Ma l’ombre e fosca sabbia
    si mangiano in tempesta la memoria,
    la storia la conosci ch’è il salita:
    troppa rabbia, immenso cielo e poca vita.
    E l’animo poetante è spesso fiacco
    e guarda nei tuoi occhi
    ma è cieco e non ti Vede
    e lascia un’orba retroguardia di speranze alla sua fede
    e manca di pazienza
    e il tempo muove scacco
    e presenta una lista da pagare in almanacco
    e delle previsioni non c’è un gran bel che dire
    e quelle già previste le conosci, sono oscure.
    .
    Così l’amico inciampa,
    lo studente è disattento,
    il poeta fa una danza che non sembra avere un senso
    e l’amante, ch’è il più follemente vero
    a sorteggio ha perso il bianco e tiene il nero.
    .
    Ma il pensiero amico è forte
    l’affetto è una catena
    che se tiro ancor più forte
    mi si spezza anzi la schiena.
    E i tuoi versi sono briciole
    di luce da seguire
    fino al luogo dove spero d’arrivare,
    fino a casa, sempre a casa,
    dove io non son più io,
    dove sono nato eppur non ero io
    dove l’anima è fiorita:
    niente rabbia, immenso cielo: pura vita.

    (Da “Lo Sfasciacarrozze” di Riccardo Raimondo, Bonanno Editore)
    .

    Free Jazz
    .
    Gorgogliano i ricordi che dipingo,
    come radio free jazz dentro la moca:
    sapore di caffè cacao carioca
    in schizzi di passato che non stinge.
    .
    Ma l’ombre e fosca sabbia
    si mangiano in tempesta la memoria,
    la storia la conosci ch’è il salita:
    troppa rabbia, immenso cielo e poca vita.
    E l’animo poetante è spesso fiacco
    e guarda nei tuoi occhi
    ma è cieco e non ti Vede
    e lascia un’orba retroguardia di speranze alla sua fede
    e manca di pazienza
    e il tempo muove scacco
    e presenta una lista da pagare in almanacco
    e delle previsioni non c’è un gran bel che dire
    e quelle già previste le conosci, sono oscure.
    .
    Così l’amico inciampa,
    lo studente è disattento,
    il poeta fa una danza che non sembra avere un senso
    e l’amante, ch’è il più follemente vero
    a sorteggio ha perso il bianco e tiene il nero.
    .
    Ma il pensiero amico è forte
    l’affetto è una catena
    che se tiro ancor più forte
    mi si spezza anzi la schiena.
    E i tuoi versi sono briciole
    di luce da seguire
    fino al luogo dove spero d’arrivare,
    fino a casa, sempre a casa,
    dove io non son più io,
    dove sono nato eppur non ero io
    dove l’anima è fiorita:
    niente rabbia, immenso cielo: pura vita.

  192. Impotenza

    Il sentimento è padre
    Le parole sue figlie
    Illegittime
    Le parole non somigliano
    Al padre.
    Le figlie contemplano
    Il padre.
    Complesso
    Amplesso.

    Tratto da “Libra”.

    Grazie per l’opportunità e , se vi va, passate dal mio blog

    myspace.com/barbarabracci

    Ciao a tutti e buona lettura,

    Barbara

  193. Olginate 2-08-2009

    CI BASTA

    Miseri tra i più miseri,
    con le tasche vuote,
    i pantaloni a brandelli,
    passiamo per le strade dell’Universo,
    dell’Immenso!
    Siamo i poeti,
    i cieli liberi, chiari,
    siamo gli angeli del cielo,
    del mondo!
    Per noi il danaro, la fama,
    le gloria,
    sono vento,
    non esistono:
    siamo anima, siamo stelle,
    e lanostra luce ci basta:
    per riempire il giorno!

    Antonio Paoletti

    Postato martedì, 4 agosto 2009 alle 5:19 pm da Antonio Paoletti
    ————–
    ————–

    Olginate 2-08-2009

    ORIGINI

    E’ come se ti scrivessi,
    ti parlassi del cuore,
    dei suoi battiti:
    delle emozioni!
    E’ come se mi svegliassi
    con te,
    all’alba,
    ed iniziassi a vivere
    nella luce!
    Ed è come se il mondo
    finisse,
    e tutto ricominciasse
    da Te!

    Antonio Paoletti

    Postato martedì, 4 agosto 2009 alle 5:25 pm da Antonio Paoletti
    ————–
    ————–

    Olginate 2-08-2009

    COME I TUOI OCCHI

    Sono la tua immagine:
    il mare
    nel tuo cielo!
    Sono la tua alba,
    il tuo tramonto:
    sono il tuo giorno!
    Sono come i tuoi occhi:
    che sanno di infinito!

    Antonio Paoletti

    Postato martedì, 4 agosto 2009 alle 5:28 pm da Antonio Paoletti

    ————–
    ————–
    Olginate 18-08-2009

    I PROIETTILI DELL’AMORE

    Una collana di sogni
    voglio appendere al tuo collo,
    e ad ogni dito della tua mano
    voglio infilare anelli di cieli,
    di stelle!
    Per ritrarre meglio il tuo volto
    voglio accendere arcobaleni di orizzonti,
    e per sentire forte la tua voce,
    il tuo cuore,
    voglio aprirti le porte dei miei giorni,
    le finestre delle mie notti!
    Lascerò la mia anima disarmata
    e ti colpirò, ti ucciderò,
    con i proiettili dell’Amore!

    Antonio Paoletti

    Postato giovedì, 20 agosto 2009 alle 10:09 am da Antonio Paoletti
    ————–
    ————–

    Olginate 18-08-2009

    TANTO E’ IL DELIRIO

    In questa trasparenza di cielo
    io vedo, ammiro,
    la mia Donna:
    di Lei, del suo sorriso,
    mi riempio gli occhi!
    La vedo riflessa nel mare
    e le sue onde
    mi sommergono il cuore,
    aprono un infinito, un immenso,
    nell’orizzonte della mia anima!
    Sospeso sono a Lei
    come fossi sospeso al sole,
    alle stelle,
    e la sua luce
    mi entra nella mente,
    come fiamme nel fuoco!
    Si, La amo,
    e il mio amore non si può spiegare,
    tanto è il delirio, la felicità,
    che mi fa provare!

    Antonio Paoletti

    Postato giovedì, 20 agosto 2009 alle 10:16 am da Antonio Paoletti
    ————–
    ————–

    Olginate 19-08-2009

    AFFACCIATI

    Come una finestra
    è l’Immenso:
    così è l’Amore!

    Antonio Paoletti

    Postato giovedì, 20 agosto 2009 alle 10:18 am da Antonio Paoletti
    ————–
    ————–

    Olginate 19-08-2009

    FELICITA’

    La prossima fermata
    sarà il tuo cuore,
    e il prossimo bivio
    sarà il cielo!
    A destra, per l’Immensità,
    a sinistra, per l’Eternità!
    E poi, dritto, in alto,
    per l’Immortalità!

    Antonio Paoletti

    Postato giovedì, 20 agosto 2009 alle 10:21 am da Antonio Paoletti

  194. Olginate 20-08-2009

    STELLE E LUCCIOLE

    Coricarsi in un letto di orizzonti,
    in una sera di tramonti,
    dopo aver stretto la mano al mare,
    baciato le onde.
    Avvolgere il filo del giorno
    e farne una matassa di luce,
    un gomitolo di sole,
    da portare negli occhi,
    nel sogno.
    Spalancare, con un solo gesto,
    tutte le porte, le finestre,
    dell’Infinito,
    dell’Universo,
    e catturando le stelle
    nel palmo di una sola mano,
    stringere le dita,
    e veder lucciole volare!

    Antonio Paoletti

  195. Olginate 20-08-2009

    COME UNA STELLA

    Anche le stelle, di notte,
    alcune volte non si vedono,
    non perchè non hanno luce,
    non sono luminose,
    ma solo perchè le nuvole
    si stendono nel cielo,
    come un velo si parano
    davanti ai nostri occhi,
    impedendoci la visione!
    Tu sei come una stella,
    in una notte di queste!
    Ma non temere, Amore,
    il vento presto si alzerà
    e come una scopa iridescente
    spazzerà il cielo dalle nubi,
    e la tua stella brillerà,
    si vedrà!

    Antonio Paoletti

  196. Olginate 22-08-2009

    EVADERE

    Voglio provare la vita
    nella tua vita,
    nei tuoi dolori,
    nelle tue gioie:
    voglio sentirmi, per empatia,
    parte di te!
    Voglio cercare di conoscere
    la tua idea,
    il tuo pensiero,
    sull’esistenza,
    sul futuro!
    Voglio segare le sbarre
    della tua anima,
    del tuo cuore,
    per evadere…
    nel tuo Amore!

    Antonio Paoletti

  197. Olginate 22-08-2009

    LA LUCE

    La luce rimbalzava,
    si rifletteva,
    si illuminava nei tuoi occhi:
    come onde,
    si faceva mare,
    nel tuo orizzonte!
    La luce scappava
    dal sole, dal cielo,
    per cadere sulle tue rive,
    nella tua anima,
    nel tuo cuore!
    La luce si accendeva
    in fuoco,
    sulle tue labbra,
    sulle mie labbra:
    nel nostro Universo,
    nel nostro Amore!

    Antonio Paoletti

  198. Olginate 22-08-2009

    ASCOLTO

    La mia voglia di te
    è esclusiva:
    solo sulle tue labbra
    voglio vivere!
    Non parlarmi
    di altri cuori:
    solo il tuo cuore
    ascolto!

    Antonio Paoletti

  199. Olginate 22-08-2009

    E’ NEL CUORE

    E’ il cervello, la mente,
    che ci fa essere
    poeti,
    musicisti,
    amanti, puttanieri,
    marinai,
    pirati,
    scrittori!
    Il nostro destino,
    le nostre vicende,
    la nostra storia,
    sono scritte nei loro spazi,
    nei loro quaderni!
    Ed è nel cuore
    che le gemme dell’Amore
    possono divenire fiore:
    ma occorre la luce,
    il sole,
    è indispensabile la passione,
    il fuoco!

  200. Olginate 22-08-2009

    STELLA DOPO STELLA

    Le onde assomigliano
    agli orizzonti:
    le albe ai tramonti!
    Il succedersi degli istanti,
    nel Tempo,
    a poco a poco,
    diviene Eternità!
    Così,
    stella dopo stella,
    avviene,
    il Firmamento!

    Antonio Paoletti

  201. Olginate 22-08-2009

    NON SO COSA SIA

    C’è qualcosa, come un vento,
    che mi soffia dentro:
    nel cuore,
    nell’Amore!
    C’è come un infinito,
    un esteso orizzonte,
    che vanno aldilà del mare,
    delle onde!
    Ma non so cosa sia:
    forse, è solo,
    la mia voglia di vivere?

    Antonio Paoletti

  202. Olginate 22-08-2009

    ALDILA’

    Di stranezze
    è fatta la vita:
    sotto i ponti
    può scorrere l’Infinito!
    Ancora più strana
    è la morte:
    aldilà dell’orizzonte
    può sbocciare…
    la vita!

    Antonio Paoletti

  203. Olginate 22-08-2009

    GIA’ SI MUOVE

    Rimani immobile,
    come la sabbia delle spiagge,
    le onde del mare,
    in un giorno senza brezza,
    come un cielo senza azzurro,
    senza colori:
    rimani così,
    come sei nato/a!
    Non muoverti,
    perchè dentro di te
    già si muove,
    l’Infinito!

    Antonio Paoletti

  204. Olginate 22-08-2009

    FINO ALLA FINE

    Sarai così
    fino alla fine:
    perchè la tua fine
    sarà la mia fine!
    Ed io, continuerò,
    ad amarti, per questo…
    fino alla fine!

    Antonio Paoletti

  205. Olginate 23-08-2009

    QUANDO L’AMORE

    Quando l’Amore ti dà alla testa
    e come un usignuolo ti senti
    nel bosco, nella foresta,
    Tu apri le braccia,
    le ali,
    e mettiti a cantare,
    a volare!
    Quando il tuo cuore
    pulsa più forte
    e il sangue è come un fiume,
    come una fiamma,
    che va verso il mare,
    si accende nel fuoco,
    Tu apri le porte, gli orizzonti,
    spalanca le finestre,
    e lancia un grido…
    per l’Universo!

    Antonio Paoletti

  206. Olginate 23-08-2009

    SEI ANCORA TU?

    Ogni giorno mi apri:
    come fossi un’alba,
    un mattino,
    un sole!
    Dopo ogni notte
    ti svegli in me
    e mi domandi:
    ” Sei ancora Tu?
    il mio sogno,
    la mia vita,
    il mio istante?”

    Antonio Paoletti

  207. Olginate 23-08-2009

    AMORE COME

    Amore come un vuoto,
    da riempire, da colmare,
    d’amore!
    Amore come le stelle
    nel cielo,
    nel Firmamento:
    luminoso,
    accecante!
    Amore come una lacrima
    nel volto del pianto,
    nelle ali, nel sorriso,
    degli angeli!

  208. Olginate 23-08-2009

    VICINO

    Lasciami
    ad un solo passo,
    ad un solo istante,
    dal tuo cuore:
    così potrò, ancora,
    ascoltare i suoi battiti,
    il tuo Amore!

    Antonio Paoletti

  209. Olginate 23-08-2009

    UN ANGELO, DIVERREI.

    Se la vita, come una gemma,
    fiorisse nella tua esistenza,
    io raggiungerei l’Amore,
    il suo cuore!
    Se poi, le lacrime,
    come petali,
    si staccassero dal mio pianto,
    di felicità mi rivestirei,
    e un angelo…
    diverrei!

    Antonio Paoletti

  210. Olginate 23-08-2009

    SI ASSOMIGLIANO

    I cuori si assomigliano,
    così come si assomigliano
    i mari,
    i cieli,
    gli universi!
    Nei cuori c’è il battito,
    nei mari le onde,
    i cieli vivono d’azzurro,
    e gli universi
    sono dipinti, immersi,
    nei nostri occhi,
    nei nostri universi!

    Antonio Paoletti

  211. Olginate 23-08-2009

    COME UN ANGELO

    In me ci sono mari,
    profondità,
    vastità!
    In superfice, orizzonti,
    cieli,
    aldilà!
    Più in alto respirano
    firmamenti,
    immensità!
    In me, c’è il tuo cuore,
    che come un angelo, vola,
    nel mio cielo,
    nel mio volo!

    Antonio Paoletti

  212. Olginate 24-08-2009

    NOTTI DI FOSFORESCENZE

    Notti di lune,
    di stelle,
    di firmamento,
    notti di sogni,
    di amori!
    Notti instancabili,
    senza riposo:
    notti frementi,
    di passioni!
    Notti di infiniti,
    di bui perenni:
    di immensi!
    Notti con pensieri
    di luci,
    di fosforescenze!

    Antonio Paoletti

  213. Olginate 24-08-2009

    TUTTI

    Ci siamo tutti
    in questo Universo,
    in questo mare di cielo,
    in questo cielo di oceano,
    di immenso!
    Figli della creazione
    respiriamo,
    viviamo,
    riusciamo, persino,
    ad amare!
    Siamo formiche laboriose
    tra le dita dell’Eternità,
    nelle mani del Tempo,
    e come api siamo avvinti
    al dolce,
    alla Poesia,
    all’Amore!
    E pur sospesi, con una rugiada,
    al cielo,
    siamo forti,
    perchè la nostra forza
    è nei nostri cuori!

    Antonio Paoletti

  214. Olginate 29-08-2009

    TRA IL MARE E LE IMMENSITA’

    Ogni parte di me
    è in Te:
    ogni mia onda
    vive, si muove,
    respira,
    nel tuo mare!
    Il tuo cielo
    cade nei miei occhi:
    tra il mare,
    le vastità,
    e le immensità,
    vive il tuo infinito!
    Antonio Paoletti

  215. Olginate 29-08-2009

    IN ESTASI

    Cielo!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
    Mi dai un bacio
    della tua infinitezza?
    Luce, Immenso!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
    Posso morire
    nei vostri occhi?

    Antonio Paoletti

  216. Sono Gabriele, seguo spesso questo blog, anche se è la prima volta che vi scrivo. Ho ventitrè anni e sono siciliano anch’io, di Castellammare del Golfo (TP). L’anno scorso sono arrivato terzo al concorso “Mondellogiovani”, e il mio racconto “Il rifugio e i militari” sarà pubblicato in un’antologia edita Navarra Editore.
    Ecco, dopo il piccolo spazio pubblicitario (non me ne vogliate, sono giovane!) vi lascio il mio ultimo racconto, che vedrà luce sul Bonifato (un mensile alcamese) tra pochi giorni.
    Spero sia di vostro gradimento!

    Il tatuaggio

    Avrei preferito non vedere mai la Penna Nera aggredire la spalla di Gec: avrebbe evitato la pozza di vomito nella quale sguazzo, e il fetore acido della mia maglietta.
    Accanto a me qualcuno arriccia il naso, qualcun altro si lascia scappare una meravigliosa bestemmia: Dio benedica le bestemmie. Ogni volta che alzo gli occhi sul pannello a cristalli liquidi del Neptune, ne sgattaiola una dalla mia bocca. Ogni volta che i miei vivi, splendidi, giovani occhi leggono “ Carie 7b” scorrere su quel fottuto pannello, io bestemmio Dio. Comprenderà, Lui, sì.
    Un cenno del capitano, si fa tutti un passo avanti verso il tatuaggio. Il Neptune ringhia, con le sue enormi finestre sbarrate che mi scrutano, cieche, e non mi dicono niente. Ho le mani fredde e sudaticce.
    Gec sale a bordo, trascinato dall’onda di gente che lo circonda. Un’onda senza risacca.
    Altro passo avanti.
    “Cos’hai negli occhi?”
    Un fruscio, accanto a me, spalla contro spalla. Riesco a girarmi appena in tempo per assistere.
    “Matita, ne vuoi un po’?” risponde uno come me.
    Bang.
    Non avevo mai visto quel ragazzo. Lo ammiro a terra, i suoi occhi sbarrati, e lo benedico: sei stato coraggioso, amico mio. Vorrei essere come te. Solo che non ho le palle di farmi ammazzare qui e ora. Codardo, io, lascio che un’altra piccola bestemmia faccia capolino tra le mie labbra e scivoli lungo il mento come fosse bava. Che tocchi terra, e venga calpestata.
    “Tu”
    Io. La gola stringe, è una morsa inevitabile: soffocherei, se non avessi così tanta paura. Invece mi siedo al banchetto e tengo gli occhi bassi. Avevo sentito parlare della danza del Seminatore. E’ qui davanti a me. Ondeggia e ondeggia e da un momento all’altro pensi che cada, eppure non cade. Trascinato dalla melodia paralitica, una cupa, univoca, infinita nota, si bea dei miei tremiti. Danza, il Seminatore, e io attendo fino al termine del suo mantra motivazionale. Alle sue spalle c’è solo il Neptune, immenso e inequivocabile stomaco di questo mondo.
    Il Seminatore mi viene incontro. Non un pelo sul suo corpo.
    “Togliti la maglietta”
    La tolgo, sì. Poggio la fronte sul banchetto. Ho le mani fredde e asciutte.
    “Quanti anni hai?” mi chiede, mentre ricarica la Penna Nera.
    “Ventitrè”
    “Poeta, pittor…?”
    “Musicista”
    “Sei robusto, chissà quanti dispiaceri”
    Non termina nemmeno la frase, in realtà, che già si avventa sulla mia spalla sinistra. Mordo il labbro inferiore fino a sentire il sangue. Vorrei staccarlo e ingoiarlo. La Penna Nera, con i suoi cento aghi, vìola per sempre la mia pelle e la mia carne; è violenta, priva di ogni sentimento. Il sangue fluisce giù per la schiena, fino ai pantaloni. Tutti resistono al dolore. Io no. Mi lancio a terra e urlo, urlo con tutta la forza che possiedo. Devo fare esplodere i miei polmoni. Devo bruciare i timpani del Seminatore. Bestemmio gli uomini e le cose, e ricevo un calcio, sì, in bocca, poi un altro alle costole. Non c’è dignità. Mi prendono di peso, mi tengono fermo, con la testa schiacciata contro il banchetto. Sembra che la fronte mi si debba spaccare. Non c’è dignità.
    “Poverino” sibila il seminatore, tornando sulla mia spalla.
    Cerco i miei ricordi, e li trovo, come fossero oltre una vetrina. Felici, sereni. Idealizzati. Torna il tempo in cui non dovevo vergognarmi. Quanti secoli. Chissà quanti secoli fa.
    Si muore di caldo, all’Ideoteca: sono tutti sudati, schiacciati l’uno contro l’altro… felici, mai stati così felici, vero? Mi guardano suonare, e io mi butto a terra. Vanità. Finzione, spettacolo. Spasmi. Il cuore pulsa a ritmo. Chiudo gli occhi e apro la porta a mondi nuovi e incomprensibili. Costruisco un ponte per chi mi ascolta. Non desiderano altro, loro, vero? Varcare la soglia e spiare l’arte, anche solo per poco. Solo questo. Ma i ponti si dissolvono come sabbia, e io apro gli occhi. Gec ha smesso di suonare. Mi chiama, mi chiama, e io capisco perfettamente. Voglio solo rimanere così, a guardare il soffitto. Mi chiamano, tutti, ma rimango qui, grazie.
    Per qualche giorno fu sulla bocca di tutti, poiché fu uno dei primi arresti a partire dal nuovo decreto; eppure non fummo i primi ad essere deportati. Per qualche motivo, io e Gec fummo smistati nella Carie 7b, e passarono parecchi mesi prima che arrivasse il nostro Neptune.
    “Finito” conclude il Seminatore, prima di tornare a danzare. Posso chiaramente avvertire la sua opera sulla mia spalla sinistra. Un papavero nero, il marchio dei condannati. Un disegno asettico, matematico, di una sterilità crudele. Il biglietto per il Neptune.
    Mi sollevano ancora di peso, e mi lanciano via, come fossi un sacco. Cerco di rialzarmi, ma incespico, cado di nuovo. Un uomo mi tende la mano. “Sono uno scrittore…” dice. Ha la barba incolta e i capelli unti. Le sue labbra tremano, quando mi sorride, e le sue lacrime brillano. “Sono uno scrittore…” ripete, e lo farà per tutto il viaggio.

    Si muore di caldo, sul Neptune: siamo tutti sudati, schiacciati l’uno contro l’altro… morti, mai stati così morti. Nessuno ha più la forza di bestemmiare. Le finestre, ancora sbarrate, hanno smesso di scrutarmi. Non sono sicuro di quanti, tra i presenti, siano al corrente della nostra reale destinazione. Io lo so, e non ricordo nemmeno il perchè. Non fa più alcun effetto, ormai.
    Non farà effetto quando il Neptune, il treno degli abissi, taglierà le onde del mare, e seguirà il binario lungo il fondale. Neanche quando si fermerà, all’improvviso, a centinaia di metri di profondità.
    E finalmente si apriranno le finestre.

  217. Caro Gabriele, grazie per il tuo racconto. Ti faccio tanti in bocca al lupo.
    Saluto anche Antonio Paoletti… anche se con l’ultimo componimento mi ha fatto venire un’intossicazione da punto escalmativo!
    🙂

  218. Olginate 31-08-2009

    ILLUMINARSI IN FIRMAMENTO

    Ammalarsi di cielo, di Universo,
    come un’ape ingorda si ammala
    del nettare,
    della dolcezza!
    Non riuscire più a tenere
    gli occhi aperti
    perchè tanta è la luce
    che vi cade, vi esplode,
    dentro!
    Come un angelo, sentirsi in estasi,
    e cavalcando i puledri dell’Infinito,
    come stelle,
    illuminarsi in Firmamento!

    Antonio Paoletti

  219. Olginate 2-09-2009

    VOLTO DI ANGELO

    E’ come tu parli,
    il timbro della tua voce,
    la poesia delle tue parole,
    che mi fanno innamorare di te,
    mi sconquassono il cuore!
    E’ quella luce che scappa da te,
    dai tuoi occhi,
    che arriva in me,
    nei miei occhi,
    che mi riveste di cielo,
    mi denuda di immenso,
    e limpido mi fa divenire,
    come il volto di un angelo!

    Antonio Paoletti

  220. Olginate 3-09-2009

    PERSINO GLI ANGELI

    Navighiamo altri mari,
    voliamo altri cieli,
    percorriamo altri infiniti,
    coltiviamo nuovi amori,
    sentiamo battere altri cuori,
    teniamo tra le dita della mano
    i fili degli aquiloni!
    Poi, completamente liberi,
    cerchiamo di assomigliare all’aria,
    caliamoci nel sogno,
    e riempiamo il nostro respiro,
    il nostro istante,
    di quel meraviglioso mondo
    che l’uomo, persino gli angeli,
    chiamano ” Poesia!”

    Antonio Paoletti

  221. Olginate 3-09-2009

    LASSU’

    Se calandoti nella tua anima,
    in una notte di stelle,
    popolata di lucciole,
    di frinire di cicale,
    di sorrisi di luna,
    Tu senti un brivido nel tuo cielo,
    una vertigine nel tuo Universo,
    non aver paura, non piangere,
    angelo mio,
    lassù c’è un’Amore,
    un Dio,
    che guardono, proteggono,
    il tuo cuore,
    la tua anima!

    Antonio Paoletti

  222. Olginate 7-09-2009

    COME UNA FARFALLA

    Quando il cielo
    si specchia nel cielo,
    e i suoi occhi, per luminosità,
    fanno a gara con il sole,
    con le stelle,
    mi sembra di vedere Te,
    la tua lucentezza,
    il tuo splendore,
    il tuo volto!
    Quando l’infinito si arresta,
    stanco di viaggiare per l’Universo,
    mi sembra di sentire le tue labbra
    posarsi sulle mie labbra:
    come una farfalla sul fiore,
    sulle palpebre!

    Antonio Paoletti

  223. Olginate 7-09-2009

    IN CLAUSURA

    Voglio trastullarmi con le tue labbra,
    con i tuoi baci,
    voglio preparare un nettare d’amore,
    una poltiglia di sensazioni,
    di emozioni!
    Voglio afferrare le tue braccia, e con esse,
    volare!
    Voglio farmi prigioniero
    del tuo cuore,
    e in clausura, vivere con te,
    la tua passione,
    il tuo fuoco!

    Antonio Paoletti

  224. Olginate 8-09-2009

    UN CIELO

    Voglio dipingermi un cielo
    che ho visto in un sogno,
    mi è rimasto impresso negli occhi,
    nella mente,
    nella memoria:
    un cielo tinto d’azzurro,
    di universo!
    Voglio sollevarmi dal suolo
    con una preghiera,
    con una parola magica,
    e supplicando il tuo amore,
    voglio donare ogni mia fibra
    al battito del tuo cuore!

    Antonio Paoletti

  225. Olginate 11-09-2009

    FORSE, ANCHE TU.

    Forse saranno i sogni
    a farmi respirare,
    a farmi vivere,
    forse le stelle
    che guardo di notte
    mi fanno, ancora,
    brillare!
    Ma Tu,
    che in un istante
    mi sei rimasta,
    ti sei scritta,
    dentro di me,
    forse anche Tu,
    rimarrai!

    Antonio Paoletti

  226. Olginate 16-09-2009

    PUREZZA

    Quando la rugiada
    si spalma sulle erbe,
    sui petali dei fiori,
    anche la mia anima
    si stende nel tuo cuore:
    mi sento, allora,
    come l’alba,
    nella neve cristallina!

    Antonio Paoletti

  227. Olginate 14-09-2009

    LA VITA E LA MORTE

    Ho visto la vita e la morte
    nei tuoi occhi,
    fiumi correre verso mari,
    albe spalancate ai mattini,
    infiniti di luci perdersi
    agli orizzonti.
    Con le unghie ho grattato le vernici
    dei crepuscoli,
    per aprire, per scoprire,
    tramonti,
    che a mò di aquiloni
    svolazzavano nelle sere,
    si perdevano nelle notti.
    Ho raccolto tutte le stelle del Firmamento,
    tutti gli astri dell’Universo,
    in un momento di estasi,
    e riempiendo le mie mani di lacrime,
    la mia anima di preghiere,
    di implorazioni,
    ho rivisto la morte, la vita,
    nel mio cuore,
    nei miei sogni!

    Antonio Paoletti

  228. Olginate 17-09-2009

    L’INFRANGERSI DELLE EMOZIONI

    Quando la mia voce non si sentirà più
    perchè il vento dell’infinito l’avrà portata via,
    il fuoco dell’eternità l’avrà bruciata,
    incenerita,
    e l’immensità avrà rapito i suoi occhi,
    raccogliendovi nella vostra anima,
    in solitudine,
    leggete qualche mio verso,
    qualche mia poesia,
    che in solitudine ho scritto per voi,
    e di nuovo sentirete
    l’infrangersi delle onde,
    delle emozioni,
    nel mare del mio cuore!

    Antonio Paoletti

  229. Olginate 22-09-2009

    ONDE

    Mi sembra di sfavillare,
    di perdermi,
    quando i tuoi occhi di luna,
    di stella,
    mi guardano:
    l’Universo si mette a girare
    attorno al sole,
    ed io,
    attorno a Te!
    E siamo come due vele
    verso un unico orizzonte!

    Antonio Paoletti

  230. Olginate 26-09-2009

    IN FONDO ALLA MIA ANIMA

    Se ho voglia di te
    ti cerco,
    per spegnere il fuoco
    che mi divampa,
    mi brucia!
    Se le mie mani tremano
    ti stringo,
    per sentire il tuo corpo,
    il tuo orizzonte!
    E se di notte non dormo
    è perchè il tuo volto
    è nei miei occhi,
    nel mio sangue,
    nel mio sogno,
    e la tua voce,
    le tue labbra,
    sono dentro di me,
    sulle mie labbra:
    in fondo alla mia anima!

    Antonio Paoletti

  231. Salve a tutti!… Sono Sergio, lo scrittore “carrozzinato” munito di blog che molti di voi già conoscono.
    Assieme ad Elio Marracci sto curando un’antologia di racconti thriller dedicata al mondo dell’handicap.


    L’antologia in questione, “CAPACITA’ NASCOSTE”, ha intenzione di raccogliere racconti thriller con protagonisti disabili, mostrando, attraverso vicende di suspense, cosa sia l’handicap e di come, pur essendovene affetti, si possano affrontare improvvise avversità. (L’idea è venuta a Marracci leggendo il mio “SOLO!”, che potete trovare in questo stesso blog all’indirizzo: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/16/solo-racconto-di-sergio-rilletti/ .)

    I racconti devono quindi appartenere alla “narrativa di tensione”, non devono superare le 20.000 battute (spazi inclusi), e devono raccontare storie in cui i protagonisti (disabili), nonostante il proprio handicap (tema portante), riescono a cavarsi da situazioni di pericolo grazie alle proprie capacità.

    La nostra intenzione è quella di coinvolgere scrittori sia “diversamente abili” che “normodotati”, in modo da avere entrambe le “visioni”, ma comunque professionisti.

    La data di consegna dei racconti è prevista, indicativamente, per il 31 DICEMBRE 2009.


    L’unico vero “handicap” di questa iniziativa è che, ahinoi!, non possiamo promettere compensi.



    Bene, per ora è tutto.
    Chiunque volesse partecipare, può scrivermi a questo indirizzo: sergio.rilletti@fastwebnet.it .

  232. Ispirazioni
    Il desiderio degli intenti si disperde nella cellula affettiva distaccata. Il turbinio dei sentimenti lascia spazio alla razionalità del sentimento. Questo immobilismo soffoca le idee, restringe gli spazi della mente,condiziona la lucidità. Il susseguirsi degli eventi sembra offuscare l’insorgere dei pensieri e dei propositi. Questa costrizione all’inefficienza materiale sprigiona i pensieri nobili della mente. Il diffuso qualunquismo che ci circonda induce lo squallore di questo tipo di vita, ma la ragione ed il pensiero elevato attendono il momento per esplodere e manifestarsi. Ironicamente in tanto tempo libero, la mente trova pochi spazi e momenti per manifestare l’ispirazione,questi vanno rapiti come le sensazioni più preziose e fuggevoli dell’esistenza. I giorni si inseguono e susseguono in questa vita monotonamente piatta, ma attendono l’opportunità per aprirsi a ventaglio su questo meraviglioso universo. L’amore di un tempo che oggi e sempre si sprigiona nelle manifestazioni dell’Io più recondito sono spesso, troppo spesso respinte e soffocate. Bisogna insistere o desistere? L’irruenza e le caratteristiche del carattere non hanno dubbi su questa risposta:insistere. Il risultato forse sarà momentaneo ed evanescente, ma cosa non è così nell’esistenza? Rapisco il momento e rifletto sul sottile confine tra il diritto ed il dovere. La legittima espressione del desiderio e del sentimento frenata dalle circostanze e dalle convenzioni che rigetto d’istinto e di fatto. Questa esplosione di libertà ed indipendente arbitrio, spesso soffocata dagli eventi. Questi eventi che reclamano diritti che non hanno, questi mostri incontrollabili e spiacevoli quando sono negativi. Tendo a quelli positivi,certo, ma cosa posso sugli uni e sugli altri? La ritrosia del tempo suscita ricordi belli e brutti, ma come realizzare su questi un futuro migliore e prosperoso? La positività degli intenti e dell’indole è scoraggiata dal momento. Infinita ed instancabile ricerca dell’opportunità che la fiducia attende con piglio irriducibile. Un’esplosione di sensazioni che la penna fatica a trasmettere a questo foglio in attesa senza pretese. Il progetto comune ove fosse mai esistito naufraga nei meandri delle cose insignificanti. Non esiste mai un compiuto riconoscimento del positivismo perché questo deve deformemente cedere alla negatività. E’ così difficile predisporre la mente alla fantarealtà? A cosa serve chiudersi nelle proprie presunte roccaforti mentali? Se è vero che nell’oggi cammina già il domani, quale domani avanza se la mente rimane nel passato? Le rivincite donano un effimero senso di vittoria ma sono come le battaglie di Pirro. Forse è vero che i poeti e gli scrittori sono fondamentalmente tristi. Sarà proprio questa tristezza che ne esalta l’ispirazione? Le scelte obbligano all’accettazione della realtà. Questa coerenza si riscontra di rado. Molto spesso scegliamo o siamo obbligati a decidere in un modo che subito dopo rinneghiamo. Eterno conflitto tra il volere e non volere, ricerca continua di una felicità fatta di momenti perché effimera. Se riuscissimo ad accettare meglio noi stessi, comprenderemmo più facilmente gli altri e forse la nostra felicità sarebbe più consolidata e duratura. Ove sembra non esistere alternativa essa ci osserva ma non la percepiamo. Esiste sempre un’alternativa nella vita se predisponiamo l’io a ricercarla e recepirla. Schiavi delle cose e dei compromessi spesso bruciamo anni luce della nostra esistenza, perché non riusciamo a viverla compiutamente. I luoghi comuni sono tenaglie maligne che imprigionano la mente e le espressioni.

  233. …I pensieri che si celano nell’animo delle persone nobili si esternano in parole apparentemente incomprensili ma per chi sa oltrepassare il varco immaginario dell’essere non ci sono confini che non abbiano un senso…Con il Cuore al mio Papà..

  234. caro massimo e cari amici di letteratidudine, usufruisco di questo iperspazio creativo per segnalarvi che sul mio blog a questo link http://leucosia.blog.kataweb.it/leucosia/2010/01/08/la-gara-degli-incipit/ ho bandito una gara, quella degli incipit di alcuni miei racconti. seguendo le vostre preferenze terminerò il racconto il cui inizio appunto vi ha incuriosito maggiormente, per poi pubblicarlo sul blog. mi piacerebbe leggere di tante adesioni, ma anche commenti e critiche sul mio modo di scrivere. a presto e buon fine settimana.

  235. Segnalo l’uscita del mio secondo libro (dopo “Il Padrino parte prima così non trova traffico”). Genere demenzial-epico:
    “ACHEI, IL PREZZO E’ GIUSTO!”
    (L’Odissea. Ricordavo tutto?
    Omero scordato?) di Maurizio De Angelis ediz. Boopen

    Penelope, quando vide Udisse, trasalì.
    P «Udisse! Ma dov’eri? Ho chiamato la Polizia!».
    U «Lo so: ho sentito le sirene.».
    P «Eri svanito nel nulla».
    U «Eppure, avevo lasciato la Tracia.».
    P «Hai naufragato! Chi ti ha soccorso?».
    U «I Feaci: il soccorso Fe-Aci. Sono socio».
    P «E questo vestito da naufrago ti sta pure stretto… ».
    U «Le solite le misure romane hanno fregato anche me!
    Sono le misure Romane: Sta
    scritto XL, e invece vuol dire quaranta!».
    P «E t’hanno aiutato gli Dèi?».
    U «Oh! Ho rinnegato Eolo! Eolo era il dio dei venti. Adesso gliene restano diciannove».
    P «E chi ti ha aiutato?».
    U «Il dio delle previsioni del tempo: Prometeo».
    P «Ma… Dove hai mai abitato?»
    U «Oh! ho risposto a un annuncio sul giornale, ma mi hanno ingannato:

    Stava scritto “Attica, centralissimo”, ed era pian terreno».
    P «E cosa faceva in guerra Ulisse l’Astuto?».
    U «Avevamo una grossa torcia al centro dell’accampamento. Al
    Mattino, avevo il compito di spegnerla. Mi chiamavano Ulisse La Stuto».
    U «La verita’, è che viviamo brutti tempi!».
    P «Ma caro, è l’età di Pericle!»
    U «Io l’eta’ di Pericle non l’ho mai capita, perché quello, secondo me, si pitta i capelli».
    U «Uhm… Darai una festa stasera?».
    P «Sì, ci sarà della musica! Ho chiamato Edipo e il suo Complesso!
    Ti… Ti piace la sala del regno?».
    U «Bellissima».
    P «E i troni?».
    U «Non ci sono paragoni!».

  236. In una casa di ri-poso ho incontrato una donna: Cecilia

    Quando il mio sguardo ha incrociato i tuoi occhi stanchi, confusi, impauriti ma ancora desiderosi di gustare la vita, allora ho sentito un tuffo al cuore. Ho provato un’immensa pena per chi è costretto ad abbandonare la sua casa, le sue cose e gli affetti.Ho provato rabbia per chi è costretto a dimenticare la sua vita ed essere rinchiuso là dove i secondi, i minuti, le ore e le giornate trascorrono lentamente, con noia e dolore.
    Ho sentito i tuoi lamenti da lontano. Sono entrata nella stanza: eri sola. Chiamavi a squarciagola. Imploravi, perchè qualcuno venisse a tenerti compagnia, a rispondere alle tue domande, spesso incomprensibili, ma ritmate dalla solita richiesta: “Vaco via, vaco via! Iemo via, iemo via!”.
    Abbiamo parlato.
    Ho tentato di consolarti prendendoti la mano come si fa con un bambino impaurito. Tu me l’hai stretta forte, forte. Proprio tu che sembri non avere un briciolo di forza, ti sei fidata di me. Hai capito benissimo che ero venuta solo per te. Ed era così.
    Hai smesso di agitarti, di ripetere le solite richieste, le solite frasi spesso per me senza senso. Ti sei arresa, forse per riacquistare la forza. Quella forza che è ancora dentro il tuo corpo minuto, scheletrito, tatuato dai simboli di chi ha lavorato i campi da mattina a sera.
    Quando è arrivato il momento di lasciarti, ti ho raccontato una bugia. Non mi hai creduto, ma nonostante manifestavi il terrore di rimanere sola, hai capito.Mi hai permesso di andar via.
    Tu vorresti ancora lavorare, continuare ad aprire le zolle, a seminare e a raccogliere i frutti del tuo campo.
    Vorresti ancora indossare gli abiti da lavoro, il fazzoletto in testa ed andare libera per quella terra che ti ha visto crescere. Non è più possibile, Cecilia cara! Le membra sono stanche ed in attesa, e la tua anima rifiuta il passaggio obbligatorio.
    La tua vita continua la sua corsa verso l’ignoto che non permette viaggi di ritorno.
    Ma tu Cecilia, simbolo di donne forti, coraggiose, sagge e laboriose, sarai sempre nei cuori di noi tutte, consapevoli di ciò che ci aspetta fuori di casa e al di là dell’orizzonte.
    La tua storia è la storia di molte altre tue compagne di ventura che come te oggi non sanno rassegnarsi a giorni e notti sempre uguali.
    In molti ti saremo vicine e non permetteremo che tu ti senta rifiutata, ignorata e troppo sola.
    ilarì

  237. Stim.mi Editori, mi chiamo Sergio Rilletti, ho 42 anni, e sono uno scrittore “diversamente abile”.
    Desidero sottoporvi un’iniziativa che ha avuto molti consensi tra gli scrittori: un’antologia di racconti thriller, che ho curato insieme a Elio Marracci, con protagonisti divesamente abili. La prima di questo genere, realizzata in Italia.
    L’idea è venuta a Marracci leggendo il mio racconto autobiografico Solo! (che potete leggere qui: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/16/solo-racconto-di-sergio-rilletti/ ), dove narro una vicenda ad alta tensione di cui sono stato protagonista nel 2006 al Parco di Monza e in cui sono riuscito a cavarmela, nonostante le mie gravi difficoltà motorie, grazie alle mie capacità.
    Per tale ragione abbiamo deciso di intitolare questa antologia Capacità Nascoste, chiedendo agli autori di scrivere un racconto thriller dove il protagonista disabile se la cavasse da una situazione di pericolo grazie alle proprie capacità.
    Il volume che vorremmo proporvi comprende 29 storie su questo argomento in cui ciascun autore, disabile o normodotato che sia, ha dimostrato di essere “diversamente abile” dagli altri, affrontando la tematica prescelta atraverso ill proprio punto di vista e il proprio stile.
    Se volete visionare il file dell’antologia, o avete qualche domanda, non esitate a contattarmi a questo indirizzo: sergio.rilletti@fastwebnet.it .

    Il volume in cerca di editore contiene:

    PREFAZIONE
    di Elio Marracci e Sergio Rilletti

    LA SIGNORA A ROTELLE CON FUCILE E OCCHIALI
    di Andrea Carlo Cappi

    IL TALENTO DEL NASO
    di Marilù Oliva

    L’ULTIMA DOMENICA D’ESTATE
    di Sergio Paoli

    LALALALALA LALALALALA’
    di Andrea G. Pinketts

    IL CASO 0-77
    di Giuseppe Lippi

    POSTO AUTO
    di Maurizio Pagnini

    IL PROFUMO DEL DIAVOLO
    di Giuseppe Cozzolino & Bruno Pezone

    LE MANI DI HUSSEIN
    di Fabio Novel

    DIALOGO NEL BUIO
    di Bruno Zaffoni

    L’ADDORMENTATORE
    di Luca Crovi

    INCONSAPEVOLEZZA
    di Antonino Alessandro

    LO SGUARDO DI ANTONIO
    di Myriam Altamore

    MARCOVECCHIO E I SUOI NOVE FIGLI
    di Mario Spezi

    VERSO LA TERRA PROMESSA
    di Angelo Marenzana

    SNUFF MOVIE – INCONSAPEVOLE GIOCO DI MORTE
    (Un’avventura di Mister Noir)
    di Sergio Rilletti

    REO-NATO
    di Riccardo Parigi & Massimo Sozzi

    MARIA
    di Franco Bomprezzi

    NON VEDO
    di Patrizia Debicke van der Noot

    ‘O MASSAKRO
    di Giuseppe Pastore

    L’OMBRA DEL TUO SORRISO
    di Renzo Saffi

    KING & KONG
    di Giovanni Zucca

    SOTTO LA PIOGGIA
    di Massimiliano Marconi

    VITE INUTILI
    di Dario Crippa

    NON CALPESTARMI
    di Angelo Benuzzi

    L’ACCECATORE DI STELLE
    di Roberto Santini

    LA TORRE
    di Andrea Scotton

    LO SPECCHIO DELL’ANIMA ALTRUI
    di Claudia Salvatori

    SOLO!
    di Sergio Rilletti

    BIOGRAFIE DEGLI AUTORI


    Sperando che l’interesse e l’impegno mostrato da questi autori possa attirare la vostra attenzione, rimaniamo in fiduciosa attesa di un vostro riscontro!

    Cordiali saluti,
    Sergio Rilletti

  238. Crediamo che sia buono questo spazio per la nostra video installazione CONTRASTI.
    La slide mostra i 15 scatti che a breve saranno in mostra la Museo Roma, Università Sapienza, Dipartimento di Chimica, piazzale Aldo Moro, 5:

    http://www.youtube.com/watch?v=zqqDGPELdj4

    ogni foto è intervallata da una poesia o una citazione; l’insieme forma un unicum che racconta le condizioni di Madre Terra.

  239. Bellissima iniziativa questa di letteratituidne, lasciare spazio libero e cretivoa tutti gli utenti, cosicché il blog diventa anche uno spazio proprio.VCorrei segnalare a tutti i visitatori il mio blog http://pamelaserafino.altervista.org/blog/
    su cui ho messo a disposizione un amnuale di scrittura creativa scaricabile gratuitamente in pdf.
    Spero possa esservi utile!

  240. Ciao a tutti, e grazie al blogger per lo spazio offerto!

    Ho da poco aperto un mio blog dal titolo MEDITATION XVII (la poesia di John Donne “nessun uomo è un’isola) nel quale ho riversato tutti i miei scritti, racocnti e romanzi, e due iniziative particolari
    -UN ROMANZO A PUNTATE pubblicato in italiano ed inglese: la cadenza dei capitoli dipende dal tempo che impiego a scriverli (e tradurli) ed attualmente siamo al capitolo 2

    -SCRIVODALVIVO: un luogo dove attaccare i postit scrittori, gli appunti di scrittura che altrikmenti andrebbero persi per sempre. Ci sono anche una sezione di incipit e altre riguardanti la mia produzione.

    Chiunque voglia darci un’occhiata e darmi un feedback sarà il benvenuto!

  241. Buona sera Massimo, sono una scrittrice esordiente, scrivo narrativa ragazzi e poesia, ho pubblicato di recente con due case editrici (No Eap), volevo chiederti se scrivi recensioni relative a libri di scrittori non ancora conosciuti.
    grazie

  242. Cara Fernanda, buonasera a te e benvenuta a Letteratitudine. In questo blog, più che scrivere recensioni, organizzo dibattiti. Ti invito a partecipare a quelli in corso.
    E ti faccio in bocca al lupo per i tuoi libri. Anzi, se ti va utilizza pure questo spazio per raccontarci di cosa parlano (lascia anche qualche brano, se ti va).

  243. Questo spazio è un vero casino! L’iniziativa attrae simpatie ma anche l’anarchia pretende le sue regole e la creatività riferimenti prioritari, come distinguere altrimenti uno chagall autentico da un pirimpallero qualunque?.
    “Erronemente – ammonisce kandiskij – per ‘anarchia’ si intende un rivolgimento sonsiderato, un disordine. L’anarchia è invece sistematicità e ordine…”
    Curiosamente un certo bonaventura durruti, che di anarchia pare si intendesse assai, si ritrovò a promuovere idee affini e a costruire, attraverso precise regole rivoluzionarie, una barriera di contenimento all’esondazione fascista, modello d’ordine e di efficienza militare ottenuto su base coercitiva. Quest’ultimo ‘ordine’ uscirà a pezzi dal confronto e costringerà il mondo a formulare nuove teorie sulla sua utilità pratica.

  244. Grazie per il tuo intervento, Fabio. Hai ragione, questo spazio è un vero casino! Diciamo che è una delle sue caratteristiche…
    E’ come un insieme di lavagne vuote a disposizione di tutti.
    Ma non è vero che non ci sono regole. Anche qui vige l’avvertenza di cui alla colonna sinistra del blog (nessun riferimento a questo tuo commento, bada bene).

  245. E` uscito un nuovo ebook mulimediale,si legge e si ascoltano le musiche
    Noi ancora una volta di Marie Therese Taylor
    L’Italia degli anni ottanta fa da sfondo . L`Italia pubblica del boom economico e delle brigate rosse ma anche l`Italia privata del carnevale di Venezia, del sesso allegro .I ricordi di cinque donne che hanno passato la cinquantina sono inframmezzati dal triller che stanno vivendo,
    Si dipanano relazioni tra madri e figlie, tra fratelli ,amori ammessi ,amori sopportati,amori ostacolati, dall`amore titubante cercato da chi sa che potrebbe essere l`ultima chanse , dall`amore tenero di chi ricorda il passato con ansia fino all`amore furioso di chi ha il coraggio di fare una scelta fuori dalle regole.

  246. E’ uscita pochi giorni fa in edizione digitale con Officine Editoriali (piccola e giovane casa editrice no eap) la mia raccolta di racconti, “Le cose come stanno”.
    Nove racconti, drammatici o tragicomici, che hanno in comune il tema della perdita delle illusioni, delle costruzioni fantastiche e arbitrarie che utilizziamo per abbellire, semplificare o comprendere la nostra vita. A volte i personaggi di questi racconti devono accettare una tragedia, altre volte invece dietro il velo che cade trovano solo l’altra faccia, non necessariamente più brutta, di ciò che credevano di conoscere e che invece non conoscevano affatto.
    Altre informazioni sul testo e su di me qui: http://dentroilcerchio.blogspot.it/
    Grazie!

  247. Noi, qui, ci guardiamo in faccia.
    Non so neanche perché, ma ci guardiamo in faccia. Forse per abitudine, forse perché siamo sempre alla ricerca di una persona amica, forse perché semplicemente siamo degli impiccioni e cerchiamo lo sguardo degli altri per carpirne i segreti. Fatto sta che noi, qui, ci guardiamo in faccia. Altrove no. A Milano, ad esempio, la gente non si guarda. A Milano ti passano vicino, ti sfiorano, si accorgono che esisti solo se li urti. Allora si, che ti guardano in faccia, ma sarebbe meglio non riceverlo quello sguardo. Da noi, invece, ci guardiamo anche se non ci tocchiamo. Per strada ci guardiamo in faccia incrociandoci. Ci guardiamo in faccia anche indoor, se è per questo. Il tabaccaio che ho di fronte, ad esempio, mi guarda in faccia. Non guarda la pistola che gli punto contro, mi guarda in faccia.
    A Roma, invece, non ti guardano in faccia neanche se li urti. Bofonchiano qualcosa al tuo indirizzo, semmai, ma senza guardarti in faccia. A Roma evitano di guardarti in faccia anche se chiedi a qualcuno di indicarti una strada. A Roma mal tollerano di essere fermati per indicare una strada, ma se proprio devono fermarsi per indicartela, lo fanno senza guardarti in faccia.
    Il tabaccaio, invece, mi guarda in faccia mentre gli chiedo di consegnarmi l’incasso. Gli agito la pistola sotto il naso, ma lui non guarda la pistola. Mi guarda in faccia con lo sguardo terrorizzato. Mi hanno detto che devo stare attento ai tabaccai terrorizzati. I tabaccai terrorizzati, sull’onda della loro paura incontrollata, possono commettere sciocchezze, come quella di tirare fuori un’arma. Ma finché il tabaccaio mi guarda in faccia posso stare tranquillo. Posso stare tranquillo. Se continua a guardarmi in faccia non si accorge che la pistola è finta. Posso stare tranquillo.
    A Ferrara, tanto per dire, c’è chi ti guarda in faccia e chi non lo fa. Ferrara è bellissima, piena di biciclette. Sarà per via della dimensione umana che permea quella città che molti ti guardano in faccia. Noi, qui, invece, ci guardiamo in faccia tutti. Ma non si può certo dire che da noi esista la dimensione umana, prede come siamo delle automobili e del caos.
    Silvia non mi guardava in faccia mentre mi diceva che dovevamo prenderci un periodo di pausa. Per pensare, per riflettere, diceva lei. Io cercavo il suo sguardo, volevo i suoi occhi. Mi piaceva quando mi guardava in faccia, Silvia. Mi piaceva. I suoi occhi avevano la luce della sabbia divorata dal sole di mezzogiorno. Le sopracciglia avevano il soave compito di contenere il suo sguardo debordante che amavo come poche cose al mondo, il mio scoglio dell’Asparano, la voce di Antony Hegarty e il gusto Sapori di Sicilia della gelateria Vogliamatta. Ma prima di tutto c’era lo sguardo di Silvia. Lo sguardo di Silvia.
    Una delle mani del tabaccaio è scivolata sotto il bancone. Non è quello che gli ho ordinato. Dovrò urlargli di tirare su la mano e di muoversi solo se glielo dirò io.
    A Vipiteno, cosa curiosa, ti guardano in faccia soltanto finché non ti sentono parlare. L’albergatrice stava lì a guardarmi in faccia, rivolgendomi uno dei suoi sorrisi d’ordinanza. Le bastò udire la mia voce perché il suo sorriso si spegnesse. D’improvviso smise di guardarmi in faccia. Per via dell’accento, disse Silvia. Non aveva più stanze libere. Me lo disse senza guardarmi in faccia, perché è scomodo guardare in faccia qualcuno se gli hai appena dato le spalle.
    Il tabaccaio fa quello che non mi aspetto. Non solo non prende i soldi, non solo non tiene tutt’e due le mani in vista, ma all’improvviso smette di guardarmi in faccia perché sparisce con tutto il suo sguardo dietro il bancone che ci separa. Che faccio? Che faccio? Non so che fare. Non so che fare.
    A Budapest ti guardano in faccia solo se indossi qualcosa di originale. Un pantalone a righe rosse e verdi, una maglietta con su scritto BushFuckYou, una coppola marrone. Allora ti guardano in faccia e ti sorridono.
    A Lisbona, invece, ti riconoscono subito perché sei proprio vestito da turista. Ti riconoscono da lontano e, semplicemente, non ti guardano in faccia, a meno che tu non gli chieda qualcosa, qualunque cosa. Anche in italiano. Fanno di tutto per comprendere ciò che dici, al contrario di Londra. E mentre gli chiedi ciò che hai da chiedergli, ti guardano in faccia con due occhi disponibili dai quali fai fatica a distaccarti. Noi, qui, ci guardiamo in faccia – si – ma facciamo in modo di non produrre alcuna espressione del viso. Il sottile gioco “io ti guardo per vedere se mi guardi – allora se mi guardi forse mi conosci – allora se mi conosci e io non mi ricordo di te, aspetto che tu eventualmente mi saluti prima di distogliere lo sguardo – se non mi saluti è perché ti aspetti che sia io a salutarti per primo – oppure non ci conosciamo – allora se non ci conosciamo chissà che sguardo ti avrò rivolto – avrai pensato che sono interessato a te (oppure avrai pensato che mi piacciono gli uomini) – oppure volevi vedere se il mio sguardo era malinconico, felice, sereno, distaccato, infuriato, depresso, sognante – e io volevo vedere se il tuo sguardo era disteso, nervoso, sfuggente, accattivante, antipatico” è frutto d’una esperienza quotidiana e d’una predisposizione genetica infallibile.
    Gli grido con quanto fiato ho in gola che l’ammazzo se non torna in piedi. Non torna in piedi. Ho soltanto due possibilità. Scappo fuori dalla tabaccheria e rinuncio all’incasso (che deve essere sostanzioso vista la reazione del tabaccaio) oppure faccio un paio di passi in avanti e allungo lo sguardo dietro il bancone. D’improvviso sento alle mie spalle lo scampanellio della porta d’ingresso. Mi volto e mi ritrovo davanti due ragazzini che mi guardano dritto in faccia. Gli grido di mettersi davanti a me. Loro obbediscono.
    A Bratislava gli uomini non ti guardano mai in faccia. Se le ragazze lo fanno è per una specie di accordo non scritto. Lo sguardo è un codice, un linguaggio. Danno per scontato che tu voglia prenderti cura di loro per tutta la vacanza, tu dai per scontato che loro vogliano prendersi cura di te per tutta la vacanza, e alla fine sentirai l’ingombrante desiderio di consegnare qualche banconota da 100 euro come prova tangibile della tua riconoscenza. Un mercimonio, anche se l’ipocrisia occidentale si guarda bene dal chiamarlo così. Loro sono fatte in questo modo, a loro piace l’uomo italiano, hanno sempre voglia di scopare. E perché tutto ciò accada, basta guardare quelle ragazze negli occhi, ma mentre lo fai scorgi la loro disperazione, non certo il loro desiderio. La ragazza della fontana, a Budapest, mi guardava in faccia mentre era distesa in costume a prendere il sole. Era molto carina. Accompagnava il suo sguardo impertinente al dondolio dell’infradito che penzolava dall’alluce.
    I due ragazzini mi guardano supplicanti in faccia chiedendomi di lasciarli andare.
    La ragazza della fontana dondolava la gamba piegata verso l’esterno, cercando di spingere i tasti della mia mascolinità. Quando sulla panchina tornò a sedersi Silvia che, manco a dirlo, si accorse da lontano della sottile provocazione sessuale alla quale ero sottoposto, la ragazza della fontana si limitò ad operare una semplice riduzione dell’intensità dello sguardo. Silvia marcò il territorio con un lungo bacio. La ragazza della fontana batté ritirata dandosi contemporaneamente alla ricerca di un’altra preda da 100 euro.
    Grido all’indirizzo dei ragazzi e costringo il maschio della coppia ad alzarsi e a spingere lo sguardo oltre il bancone. Lei mi supplica di lasciarlo in pace. La sua espressione è una miscela di odio feroce e pietà. Le grido di stare zitta, faccia di merda! Lei mi urla che la faccia di merda sono io. Allora dirigo la pistola verso di lei. Adesso voglio proprio vedere che fa.
    A Capo Verde è tutta un’altra cosa. Il vento continuo di quelle terre, i profumi misteriosi, i deserti di roccia e sabbia.
    Mentre discuto animatamente con la ragazza, avverto simultaneamente un rumore sordo e un dolore liquido. Cado per terra. Il tabaccaio si è alzato e adesso mi guarda in faccia imbracciando un fucile. Me l’avevano detto di stare attento ai tabaccai terrorizzati.
    A Capo Verde ti guardano in faccia perché è il loro modo d’intendere la vita. In Kenia i più giovani lo fanno perché si aspettano qualche spicciolo, una maglietta, i tuoi sandali. A Capo Verde ti guardano in faccia perché ti amano realmente. A Capo Verde amano la vita, amano la luce, amano gli stranieri nonostante ciò che gli stranieri stanno facendo alla loro terra. Adesso che sono disteso, li vedo tutti attorno a me, il tabaccaio, i due ragazzini, anche altra gente che nel frattempo è entrata. Qualcuno abbassa le luci e faccio fatica a vedere se mi stanno ancora guardando in faccia, ma certamente sarà così.

  248. A settembre 2014 è stato pubblicato “Gente che aspetta”: si tratta di un romanzo il cui tema centrale è la ricerca dell’identità.

    La vita di quattro persone si snoda in epoche diverse: le esistenze dei quattro protagonisti sono apparentemente separate ma in fondo legate da un sottile filo conduttore: l’attesa. La riflessione sull’amore, sulla felicità, sul senso dell’esistenza permea la loro quotidianità nella stessa misura, e scandisce allo stesso modo le loro azioni.

    Gente che aspetta è soprattutto un romanzo che parla di rinascita: rinascita di quattro individui come persone e nei loro rapporti con gli altri, con i propri talenti, con la loro esistenza.

    Riporto un breve passaggio del romanzo, in cui viene descritto un episodio che si collega al percorso di rinascita di Irene, una delle protagoniste.

    “Irene uscì in giardino, per godere di quella solitudine, alzò lo sguardo e si lasciò andare al calore del sole che splendeva forte. Si sedette e prese a macinare il terreno con le dita, poi scavò una buca come fosse sabbia, infine si distese al sole, e chiuse gli occhi. L’esigenza di recuperare il contatto con una parte di sé che aveva dimenticato la spingeva a ricercare il sapore della terra e della musica.
    Con gli occhi chiusi non pensò. Si finse silenzio. Si finse immobilità. Si finse primo giorno di primavera. E tacque. Tacque fino a credere di svenire, fino a sentire di non essere più. Distese il suo corpo fino a renderlo elastico, aprì le braccia, distanziò le dita della mano le une dalle altre. Così facendo coprì per intero la sua ombra. Fu piena di sé stessa. Sospirò. Si nutrì di quel senso di libertà, si accolse. Riconobbe l’odore della terra, la sentì morbida al tatto. Si finse acqua capace di penetrare in fondo, si finse nutrimento, si finse odore di fertilità. Ebbe il tempo di percepire quel contatto, lo visse totalmente.
    Si unì alla terra. Fu nutrimento, fu fertilità, fu acqua capace di penetrare in fondo”.

    Un percorso affascinante quello della pubblicazione, che sto vivendo in pieno: a breve le prime presentazioni!

    Per chi ha curiosità, allego i link alle pagine dedicate:

    http://gentecheaspetta.blogspot.it/
    https://www.facebook.com/gentecheaspetta?ref=aymt_homepage_panel
    https://twitter.com/gentecheaspetta

    Per acquistare il romanzo:

    AMAZON
    http://www.amazon.it/Gente-che-aspetta-Chiarastella-Gabbanelli-ebook/dp/B00NAKG5V0/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1409819301&sr=8-1&keywords=gente+che+aspetta

    BOOKREPUBLIC
    http://www.bookrepublic.it/book/9786050320091-gente-che-aspetta/

    ITUNES
    https://itunes.apple.com/it/book/gente-che-aspetta/id915624327?mt=11&ign-mpt=uo%3D4

  249. Forse sarò un pirimpallero qualunque, ma “Quando ti viene l’occasione di cosa tu desideri, pigliala senza perdere tempo; perché le cose del mondo si variano tanto spesso che non si può dire d’avere la cosa insino non l’hai in mano” (Guicciardini). Ed ecco che prendo a balzo l’iperspazio creativo che avete generosamente aperto presentando una mia opera. Dato che non posseggo un link né un blog, riporto di seguito alcune indicazioni essenziali.
    I dettagli l’ho inviati via email, in quanto non sono riuscito ad inserirli in questo spazio.
    LIBRO DI NARRATIVA EDITO
    “Se ti mandano a quel paese… vieni nel mio”
    Sono fili d’ironia tristemente allegri e allegramente tristi per punzecchiare un piccolo e singolare paese che molti guardano e pochi vedono
    di Vincenzo Ercolino
    COD ISBN: 978 88 7576 257 5.
    Betti Editrice, Siena – http://www.betti.it – tel. 0577289447 – 0577592442
    Descrizione:
    Una serie di racconti conditi da dosi notevoli di fantasia, ma con agganci sempre presenti alla realtà di un paese che è un po’ l’emblema di tutti i paesi. Un territorio bello e affascinante, ma non c’è da attendersi che gli agganci siano tutto oro e miele: ci sono anche “punture”, spunti critici, idee, memorie e intuizioni per raccontare la storia di un piccolo e singolare paese, con passioni e vizi individuali e collettivi. Il tutto accompagnato da un ironico sorriso di fondo che canzona e, allo stesso tempo, ci aiuta a riflettere.
    Al libro è stato assegnato il Premio della critica della Seconda Edizione del Premio di Narrativa, Teatro e Poesia “Il buon Riso fa Buon sangue”. Con questa opera l’autore ha conquistato il posto da finalista al Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Viareggio Carnevale” 2013 e ha ricevuto la segnalazione particolare come libro edito al Concorso letterario internazionale “Premio Nobello Rosone” dell’Associazione Amici dell’Umbria – Agostino Pensa. Nel 2014 si è aggiudicato il Premio Ironia (Sez. D) Premio Letterario Internazionale Città di Sarzana
    Grazie per l’attenzione.

  250. Ciao a tutti! Vorrei proporre in questo iperspazio creativo i miei componimenti che, a cadenza settimanale, pubblico sul mio blog, intitolato “Se le poesie potessero parlare”. Si tratta di brevi racconti costruiti a partire dalle poesie più famose della letterature. Spero possano piacervi! Grazie 🙂

  251. Buonasera,
    ho aperto da circa un mese un blog letterario, concepito come raccolta di mie poesie inedite, raccolta di poesie dei grandi maestri della letteratura, e articoli sulla scrittura creativa. Se voleste dare un’occhiata, posto di seguito il link: https://danieladelcore.wordpress.com/

    Approfitto per lasciare qui una poesia di saluto:

    Quasi non mi muovo.

    Sono una persona a chilometro zero,
    quasi non mi muovo
    vivo ancorata al pavimento,
    quando mi hanno licenziata
    ho finto la giusta tristezza,
    ignorano gli altri
    chi sono gli altri da noi?
    che mi aggiro in casa contenta,
    attendendo lo strabordio del caffè che ribolle
    mentre sul vetro batte una pioggia
    fine e bianca fatta di nebbia o forse è ovatta,
    mi piace star ferma ancorata
    e dalla finestra fuori osservo la gente
    cosa resta della gente se ne
    siamo esclusi, come sbattuti?
    si muove l’economia verso vette più alte,
    tutto si muove mentre fletto le gambe
    afferro le mattonelle sconnesse
    trovo appigli nuovi, raggomitolo a terra
    perché anche la terra sento che muove
    vola assieme alle nuvole
    lanciata dentro al Sistema
    verso altre galassie,
    e lo spazio tutto si muove dentro qualcosa
    o forse è sospeso nel vuoto,
    tutto fila via e scivola verso un buco nero
    un portale parallelo,
    e tutti paiono allegri
    tutti saltano e corrono, conigli che lavorano,
    e non si accorgono che il tempo se li porta
    se li porta via,
    le mie lancette portate all’indietro
    ogni giorno arretro di un’ora per
    sfuggire alla corsa folle di un intero universo.
    Daniela Del Core

  252. Salve a tutti, colgo l’occasione, e lo spazio, per segnalare la pubblicazione di un mio libro: “IL SILENZIOSO CADERE DELLE FOGLIE”, una storia drammatica che presenta diversi punti di riflessione sulla natura umana e le sue origini.
    Il libro può essere gratuitamente scaricabile da amazon, la promozione è valida fino a mercoledì 16 giugno 2016.

    grazie per lo spazio offerto!
    Alessandro Baradel

  253. Buongiorno, di primavere sulle spalle ne ho diverse e ho deciso di dedicarmi alla letteratura scrivendo un racconto che pongo alla Vostra attenzione. Inizio con il prologo aprendo la discussione sull’argomento che intendo trattare sperando nelle Vostre più obbiettive critiche. Grazie

    LA CORTIGIANA NASCOSTA
    (Robert Melkidesek)

    PROLOGO

    All’inizio di questo mio scritto desidero fare una precisazione giacché ritengo che sia normale che delle ispirazioni ritenute da me importanti per altri non sia lo stesso. In questo senso il libro è di carattere personale.
    Questo mio libro vuole raccontare di una figura femminile che per il suo modo di agire l’ho definita “La Cortigiana Nascosta”.
    Fino al 1920 esisteva la Cortigiana storica. Personaggio femminile della Società dell’Epoca che era dedito al peccato molto remunerato, ossia divoratrice d’ingenti patrimoni.
    Il culmine di questo potere carnale femminile, coincise con i 18 anni di dorata volgarità e la diffusa corruzione della Francia del Secondo Impero.
    Se in qualche modo l’aria della Terza Repubblica Italiana richiama quella del Secondo Impero Francese, mi domando come mai le star di allora, paiono oggi, non avere moderne eredi? Sono state forse sostituite da donne meno preziose e certamente meno costose?
    Coloro che oggi sono a disposizione penso che siano troppe per diventare celebrità del ramo e ottenere quotazioni esagerate come quelle delle loro antenate.
    Tra loro si cela la Cortigiana Nascosta la cui nicchia, dove svolge la sua funzione è di un normale rapporto di coppia quale può essere il matrimonio, la convivenza, che la differenzia dalla “normale” Cortigiana poiché usa la propria femminilità in modo ambiguo, ingannatore.
    Apparentemente appare come la più meravigliosa delle creature femminili esistenti su questo globo e tale rimangono fino a quando riesce ad ottenere dal proprio partner di vita ciò che meglio la soddisfa nelle sue esigenze che mirano a uno status economico/sociale superiore alle sue possibilità.
    Queste esigenze nascono dal fatto che vive, psicologicamente, in un mondo che non c’è, è alla ricerca spasmodica dell’isola felice, il suo mondo è surreale e non ha il carattere di conquistarsi ciò che vuole e soprattutto di beneficiare di quello che ha.
    In cambio ti offre un amore e servigi romantico/sessuale, arte sublime che ha imparato fin da ragazza … se la accontenti, ti fa sballare, in caso contrario dieta ferrea.
    Tutta questa illusione dura fino a quando il compagno di turno è in grado di mantenerla, ma quando capisce che gli ha spremuto tutto quello che poteva dargli, allora, dopo che la sera ha fatto l’amore con lui in modo appassionato, la mattina del giorno dopo è capace di dirgli che se ne deve andarsene oppure se ne allontana lei perché, di fatto, ha già trovato da qualche tempo chi lo può sostituire.
    Oggi, e parlo in generale, non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto del proprio lavoro. Un grande sociologo spiega come i legami siano stati sostituiti dalle “connessioni”. E aggiunge: “Ogni relazione rimane unica, non si può imparare a voler bene”. Disconnettersi è solo un gioco. Farsi un amico o un’amica offline richiede impegno.
    Qui entrano in gioco le emozioni e i sentimenti. Ho imparato che le emozioni sono un insieme di cambiamenti nello stato corporeo indotti dal cervello, e sono la risposta delle riflessioni agli eventi che accadono nell’ambiente dell’individuo. Invece, i sentimenti indicano l’esperienza privata che ogni individuo ha nel momento in cui sperimenta un’emozione. In inglese il termine “feeling” rende meglio l’idea di “sentire l’emozione”.
    Amarsi e rimanere insieme tutta la vita. Già … Un tempo, qualche generazione fa, non solo era possibile, ma era la norma. Oggi, invece, è diventato una rarità, una scelta invidiabile o “folle”, secondo i punti di vista.
    Oggi siamo esposti a mille tentazioni e rimanere fedeli certo non è più scontato, ma diventa una maniera per sottrarre almeno i sentimenti al dissipamento rapido del consumo. Lo chiamo amore liquido (titolo di un noto libro uscito nel 2003) che nasce dalla nostra lacerazione, tra la voglia di provare nuove emozioni e il bisogno di un amore autentico. Allora, mi domando cosa è che ci spinge a cercare sempre nuove storie? Credo che sia il bisogno di amare ed essere amati, in una continua ricerca di appagamento, senza essere mai sicuri di essere stati soddisfatti abbastanza. L’amore liquido è proprio questo: un amore diviso tra il desiderio di emozioni e la paura di un legame.
    Allora siamo dei condannati? Penso di no perché ritengo che nessuno sia condannato. Di fronte a diverse possibilità sta a noi scegliere. Alcune scelte sono più facili altre più rischiose. Quelle apparentemente meno impegnative sono più semplici rispetto a quelle che richiedono sforzo e sacrificio. L’amore non è un oggetto preconfezionato e pronto all’uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato, e resuscitato ogni giorno. Credetemi l’amore ripaga quest’attenzione meravigliosamente.
    A volte le persone vivono diverse relazioni nell’arco della propria vita; forse perché si sentono più liberi o solo più impauriti?
    Libertà e sicurezza sono valori entrambi necessari, ma sono in conflitto tra loro. Il prezzo da pagare per una maggiore sicurezza è una minore libertà e il prezzo di una maggiore libertà è una minore sicurezza.
    La maggior parte delle persone cerca di trovare un equilibrio, di solito, invano.
    Poi, la prospettiva dell’invecchiare è ormai fuori moda, identificata con una diminuzione delle possibilità di scelta e con l’assenza di “novità”. Quella “novità” che in una società di consumatori è stata elevata al più alto grado della gerarchia dei valori e considerata la chiave della felicità. Tendiamo a non tollerare la routine, perché fin dall’infanzia siamo stati abituati a rincorrere oggetti “usa e getta”, da rimpiazzare velocemente.
    Oggi, infatti, non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto dello sforzo e di un lavoro scrupoloso.
    Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore, l’opportunità di enormi profitti; per questo ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. L’amore, al contrario, richiede tempo ed energia.
    Oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l’altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo; comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Possiamo comprare tutto, non l’amore. Non troveremo l’amore in un negozio. L’amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore il giorno e sette giorni alla settimana.
    Forse accumuliamo relazioni per evitare i rischi dell’amore, come se la “quantità” ci rendesse immuni dell’esclusiva dolorosa dei rapporti.
    Penso che sia così. Quando ciò che ci circonda diventa incerto, l’illusione di avere tante “seconde scelte”, che ci ricompensino dalla sofferenza, della precarietà, è invitante. Muoversi da un luogo all’altro (più promettente perché non ancora sperimentato) sembra più facile e allettante che impegnarsi in un lungo sforzo di riparazione alle imperfezioni della dimora attuale, per trasformarla in una vera e propria casa e non solo in un posto in cui vivere. “L’amore esclusivo” non è quasi mai esente da dolori e problemi – ma la gioia è nello sforzo comune per superarli.
    Allora mi domando ancora: in questo mondo pieno di tentazioni possiamo resistere?
    Beh! È richiesta una volontà molto forte per resistere. Emmanuel Lévinas ha parlato della “tentazione della tentazione”. È lo stato “nell’essere tentati” ciò che in realtà desideriamo, non l’oggetto che la tentazione promette di consegnarci. Desideriamo quello stato, perché è un’apertura nella routine. Nel momento in cui siamo tentati, ci sembra di essere liberi: stiamo già guardando oltre la routine, ma non abbiamo ancora ceduto alla tentazione, non abbiamo ancora raggiunto il punto di non ritorno. Un attimo più tardi, se cediamo, la libertà svanisce ed è sostituita da una nuova routine. La tentazione è un’imboscata nella quale protendiamo a cadere, gioiosamente e volontariamente.
    Reputo che molto di tutto ciò sia dovuto alla Società totalitaristica in cui oggi viviamo che tenta, con tutti i suoi mezzi, di svalutare e degradare la persona umana a vantaggio di falsi idoli con la conseguenza di incidere suoi rapporti umani che sono il punto fondamentale della medesima; più alto è il valore della persona più alta è il valore della Società in cui si vive.
    Nessun progresso tecnologico riuscirà a sanare tale degrado se non la ricerca della propria libertà spirituale che rifiuta ogni condizionamento materiale e ciò si può ottenere raggiungendo la solitudine interiore.
    Il Vangelo è la bussola che ci guida a ottenere tutto questo … lo scrittore Eugenio Borgna scrive “La solitudine come il silenzio è esperienza interiore che ci aiuta a vivere meglio la nostra vita di ogni giorno; facendoci distinguere le cose essenziali della vita da quelle che non lo sono, e che non di rado sopravvalutiamo nei loro significati”.

  254. OLIVER E’ IL TITOLO DI UN RACCONTO CHE CONCLUDE UN PERCORSO DI SCRITTURA CREATIVA DI ALCUNI ALUNNI DELLA SCUOLA MEDIA “CRESTO” DI CASTELLAMONTE. E’ LA STORIA DI UN CAVALLO, UN CAVALLO CHE SMETTERA’ DI CORRERE MA NON DI VIVERE…
    March 13, 2018

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    OLIVER

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    Il cavallo di Pietro si chiamava Oliver, i suoi occhi erano neri, la criniera e la coda erano nere, il corpo era di colore marroncino. Il suo cavallo aveva un carattere vivace, allegro e affettuoso.

    Era un caldo giorno d’ estate, io e il mio padroncino Pietro stavamo partendo per un’importantissima gara che si teneva ad Alessandria. Io ero molto emozionato e Pietro lo era il doppio di me. Durante il viaggio non faceva che dirmi che sarebbe stata la più bella gara del mondo e che avevamo la vittoria in pugno, effettivamente ci eravamo allenati così tanto che facevo fatica a credere che quella sera non saremmo saliti sul podio, anche solo come terzi classificati.

    Durante l’estate Pietro e il suo cavallo si stavano preparando per la gara regionale.

    Arrivati al luogo della gara rimasi a bocca aperta: i box erano pulitissimi, avevano una finestrella da cui si vedevano le montagne, il fieno era molto saporito e gli ostacoli erano colorati vivacemente. Pietro mi portò nel paddock dove al suo interno c’erano tanti cavalli, anche loro emozionati , c’erano cavalli di ogni tipo e colore. Pietro mi mise tutte le cose che mi servivano: la sella, la coperta,l’ agnellino … e ci mettemmo a provare la pista e … come correvo bene, scivolavo magnificamente su quella friabile terra.

    Giulia disse a Pietro di provare a saltare un ostacolo. Provò tre volte a saltare, alla quarta volta successe qualcosa che nessuno si aspettava.

    Giulia (l’ istruttrice) ci disse di provare un alto ostacolo color bianco e verde, senza paura lo saltai, oh come mi divertivo a saltare, ero così libero e felice. Lo provai e lo riprovai, alla quarta volta non so come, non so perché e non ci voglio pensare, la mia zampa toccò l’ ostacolo e fece semplicemente “CRAC!” e un dolore lancinante partì dalla zampa e mi percorse tutto il corpo, sudori freddi mi scesero dalla criniera. Pietro non lo sapeva ancora ma mi ero rotto la zampa. Ovviamente mi fermai. Giulia lo sapeva che c’era qualcosa che non andava e chiamò il veterinario, quel temuto veterinario che io e Pietro odiavamo tanto.

    Pietro scese e cominciò a singhiozzare, il cavallo per compassione gli appoggiò la testa sulla spalla.

    Pietro si mise a piangere, detestavo quando piangeva e gli misi la testa sulla spalla leccandogli amorevolmente la guancia, sembrò tirargli un po’ su il morale.

    Chiamarono il veterinario che intervenne dopo due ore. Il dottore disse che probabilmente la zampa non aveva problemi. Il veterinario arrivò in super ritardo, circa 2 ore dopo. A lui la zampa non sembrava rotta.

    Quel posto che prima mi sembrava così pieno di magia adesso lo cominciavo ad odiare.

    Ci trasferirono a Castellamonte.

    Nel treiler il morale era basso e c’era una tensione pazzesca, nessuno parlò più.

    Le lastre smentirono il veterinario, la mia zampa era rotta eccome. Nei seguenti giorni l’ osso si aggiustò un po’, mi misero il gesso e mi fecero digiunare per 1 settimana , ma tutti sapevano che non sarei mai più tornato a correre libero nei prati, aspettavo solo il momento dell’ abbattimento.

    Il cavallo camminava zoppicando solo un po’, per farsi vedere forte da Pietro. Pietro non volle abbattere Oliver anche se non poteva più gareggiare.

    Passarono i giorni, le settimane e i mesi ma Pietro continuava a curarmi e a sfamarmi come prima e presto capì: Pietro non intendeva affatto sopprimermi ma continuare a farmi fare passeggiate in sua compagnia, lui era il miglior padroncino del mondo e il nostro rapporto si rafforzò, se possibile ancora di più.

    Alcuni mesi dopo arrivò un altro cavallo da corsa, Quinto, ma Pietro non mi sostituì mai.

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    Pietro Amore, Viola Bargelli, Francesco Celibato, Isotta Cesario, Irene Civitico, Alessandra Conti, Gabriela Darie, Alessandra Federico, Timeo Gatti, Luca Perelli, Marco Veniero, Diego Virano

    1° A, 1° C Scuola Media “Cresto” Castellamonte

    Corso di scrittura creativa diretto dal Prof Domenico Trischitta, anno scolastico 2017/18

  255. Grazie mille per aver condiviso con noi, carissimo Mimmo!
    Abbraccia l’autore di “Oliver” e tutti gli alunni della Scuola Media Cresto di Castellamonte.
    E tanti complimenti per il tuo lavoro! 🙂

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