“Isole senza mare” è il nuovo romanzo di Antonella Cilento, ma è anche la storia parallela di due donne che attraversano l’Otto e il Novecento: Aquila, nobile caduta in povertà e costretta a lasciare la Spagna, vende se stessa e tenta il riscatto diventando l’amante del marchese Campana, collezionista di arte e di vite altrui, un amore che la trascinerà in una trama di ossessioni, vendette e fantasmi. Nina, ultima erede di una catena di donne che dalla Spagna sono fuggite, ha più di ottant’anni, ha vissuto il Fascismo e una difficile intimità famigliare percorsa da molti nodi silenziosi: orfana di padre, sposa tardiva, madre mancata. Aquila e Nina amano con infelicità, entrambe sono esiliate: legate a doppio filo da rimandi, coincidenze ed eredità, le loro vicende si intrecciano con un coro di indimenticabili personaggi sullo sfondo del Mediterraneo.
Un romanzo sulla solitudine, sull’isolamento, sull’esilio. Sull’amore deluso. Un’opera letteraria che ha impegnato Antonella Cilento per ben dieci anni e che finalmente vede la luce.
Ce ne parlano Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Vi invito a discuterne con loro e con l’autrice.
Di seguito pongo alcune domande/riflessioni – ispirate al romanzo – con l’intento di favorire la discussione.
1 -Isole senza mare. Isole senza amore.
Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?
2 – Isole senza approdo, anche. Perchè se non c’è mare, non c’è riva. Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?
3 – Isole senza tempo. Le generazioni che sfalsano e scombinano destini.
Il tempo che scorre è solitudine? È compimento?
4 – Isole senza viaggio.
Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?
Di seguito, gli ottimi contributi di Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri
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Isolitudine e racconto nell’opera di Antonella Cilento
di Luigi La Rosa (nella foto)
C’è un orizzonte frastagliato, visionario, dove le ombre si mescolano al crudo realismo del quotidiano e i sogni hanno lunga durata. Vita e morte dialogano, consonano, intrecciano relazioni, suggeriscono prospettive dello sguardo. Mi riferisco al luogo fantastico, metaletterario per eccellenza, nel quale Antonella Cilento fa muovere i primi passi di Aquila – forse il più intenso dei personaggi del suo nuovo libro: Isole senza mare (Guanda, pp. 368, 17 euro).
Aquila ha il pianto nella voce e la capacità magica di leggere nell’oblio, richiamando presenze misteriose. Dalla sua culla di bambina delicate dita di fumo la sfiorano, le passano sensazioni che la piccola porta con sé, crescendo, come una specie di irrinunciabile segreto. Forse, la traccia di una consapevolezza, l’impronta di una precoce predestinazione al dolore.
La scrittrice ritaglia intorno a questa amabile figura lo spettro di una vera e propria epopea sentimentale, una sorta di solenne splendore: il declino della nobiltà originaria, la decadenza della famiglia nella Spagna di fine Ottocento, la fuga in Italia, la miseria, la prostituzione e poi l’innamoramento per il marchese Campana, eccentrico collezionista e funambolico interprete di tutta una stagione di soprusi e follie.
La Spagna del mistico e dell’invisibile si sostituisce pian piano alla Roma sensuale e follemente cortigiana che fa da sfondo alle esperienze della giovane espatriata, mentre la realtà si traveste da spettacolo, il quotidiano si carica di inganno, il desiderio di tentazione, e il crescendo dipana con avveduta maestria misfatti e colpi di scena lungo orbite surreali e stravaganti.
Ma questo è solo uno dei due grandi temi che risalgono la carne del romanzo: sulle fibre coinvolgenti di tali vicende germogliano in fretta nuovi spiriti, e una nuova toccante umanità fa irruzione sotto il fuoco dell’obiettivo narrativo: quella di Nina, “angelo grasso” con aspirazioni suicide, che apre l’incipit del romanzo spiccando il volo dal balcone di casa e innestando le sue ferite personali a quelle della sorella Maddalena, o della madre Maria Azara, in una formidabile teoria di rifrazioni, sublimate in storia, in cronaca, in destino.
I perimetri esistenziali di queste donne si legano a quello di Aquila, le loro ansie alle sue peripezie in un’Italia animata da fervidi ideali rivoluzionari, e la narrazione diviene il punto di confluenza, il luogo nel quale i perimetri vengono miracolosamente a coincidere, a confrontarsi, a sovrapporsi.
Come i grandi musicisti del passato, Antonella Cilento ci offre una prova di indiscussa bravura compositiva: Isole senza mare rappresenta infatti un pregiatissimo esempio di romanzo bipartito, di partitura che muove i suoi due canoni strutturali in un’alternanza consapevole di tempi e luoghi armonicamente predisposti: l’Ottocento, documentato dalla splendida saga di Aquila e dei suoi amori infelici, e il più crudele Novecento, che sembra ancora spingere a fatica i suoi polverosi ingranaggi, chiamandoci a una profonda interrogazione sulla memoria e sul vissuto.
Aquila, Nina, Maddalena, Maria Azara, ma pure Aldo, Giampietro, Giacomo, e tutti quanti gli altri personaggi evocati dalla penna dell’autrice si tramutano in isole: è accaduto un prodigio, ed eccoli punti di luce smaniosa nella nevralgica solitudine di ogni esistere, isole nel mare dei giorni, degli anni, degli attimi, cui adattare la dolente prerogativa dell’isolitudine, coscienza dell’essere “isola” in un mare svanito, prosciugato, strappato alla pelle delle cose.
In epoca di minimalismi e di più o meno conclamate poetiche del disimpegno Antonella Cilento ci offre un romanzo avvincente, colto, raffinato, che si muove secondo una direzione assolutamente libera, spregiudicata. Un libro estraneo a mode e squallidi compiacimenti di stagione, che sperimenta, che seduce, e che punta in alto, con coraggio, con ostinazione direi, scommettendo a pieno la sua abbondante materia raccontativa e regalando al lettore un viaggio poderoso, straordinario, che emoziona dalla prima all’ultima pagina.
I miei omaggi a una scrittrice che non fugge davanti alle minacce della trama, alle preoccupazioni della struttura, alle remore dell’articolazione, e che accetta invece la complessità con la fierezza di chi è cosciente di padroneggiare al meglio la propria materia, di chi ha ancora il gusto plastico del raccontare, della fabula amena, e l’ambizione all’affresco, all’intreccio di casi, uomini, situazioni, nella costruzione di un’opera in grado di superare il tempo.
Isole senza mare è un libro davvero importante, uno di quelli che uno scrittore scrive una sola volta nella vita, lasciandosi dietro tutto un mondo di viscere e di risonanze: di pensieri, caratteri, sembianze. Forme accorate e veritiere, piene di struggimento, che ci chiamano dal loro fondo di buia e crepitante malinconia, per chiederci la complicità di una nuova occasione. Forse l’ultima. Le stesse alle quali la letteratura ha il potere di ridare forma, anima, spessore. E il cui fascino oscuro ci accompagnerà per giorni, infinitamente, anche dopo aver chiuso l’ultima pagina del romanzo.
Luigi La Rosa
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Antonella Cilento: Isole senza mare.
recensione e intervista di Simona Lo Iacono.
Tracce di isola sono in noi tutti.
Siamo isole quando ci cerchiamo senza trovarci. Quando percorriamo secoli con la nostra storia sulle spalle, il passato a precederci, il futuro dietro – sempre.
Siamo isole di occhi e di cuore quando tentiamo di finire e non riusciamo a dire basta, quando la storia che pure accompagna il viaggio trascolora solo per ferirci, quando un amore ci compra e ci vende. O quando, silenziosamente, non può che lasciarci.
Isole senza mare di Antonella Cilento. Due donne a cavallo di secoli. Due galoppi e due incroci di destini. Isole senza mare non è come dire solitudine, o non solo. E’ non avere neanche il mare a cingerti. Un attraversamento. Onde da solcare e sguardi da ricongiungere. Mani tese. Uno scampolo, almeno, di noi.
Così Nina, che fende gli anni dei fasci e della guerra, che perde il padre e si sposa tardi, quando i figli non sono che un vuoto preannunciato e la sorella Maddalena rimane a custodirne la vecchiaia. E’ già una donna in fuga, Nina, prima dalla Spagna e poi da se stessa, come Aquila un secolo addietro, approdata a Roma senza splendori e costretta a prostituirsi.
A unirle, il paesino di Azara sui Pirenei e secoli che avviluppano e tornano indietro, e poi avanti e poi indietro, che stanno lì a sussurrarti all’orecchio che persino il tempo, e il suo incedere a strappi, non è che un’illusione.
E forse è questo tempo che Nina cerca di dimenticare mentre tenta il suo salto nel vuoto, a ottant’anni, e la memoria non è che un bandolo o una lunga coda di drago che chiama i morti a raccolta, li interroga e li consola. Li afferra tra venti sospirosi che non adempiono mai del tutto un destino, una storia, una verità.
Il romanzo affiora da qui. Da questa coda che non impiglia che resti e rimedia agli assalti del buio inventando altre ombre, scolorando dalle vetrate di ballatoi e saloni ottocenteschi, o di bordelli odorosi di cipria e acqua di rose, in cui i soldi lasciati sul comodino non assolvono mai a un riscatto.
Corpi che si vendono e corpi che si perdono, famiglie con segreti e segreti senza famiglia, anche questo – e molto altro – è un’isola che rinuncia a vedersi lambita dall’acqua.
Antonella svia la morte, cataloga e assesta, rimedia a smangiature , all’incedere delle scadenze. Lo fa con lingua che scava e brilla, che si staglia netta e viva, attingendo a inflessioni, a cantilene, chiamando a convitto i fantasmi.
Un viaggio e – forse – un ritorno, un attraversamento che non si rassegna a perdersi. Che incede come solo la scrittura sa fare: restituendo un passato.
-Antonella, cos’è la scrittura? Memoria, malinconia, trasfigurazione?
Tutte queste cose insieme. E’ sopra e prima di ogni altra cosa invenzione, nel senso antico del termine, inventio, ovvero cercare per trovare o cercando, non si sa bene cosa, scoprire di aver trovato oggetti che non si era partiti per cercare. Scrivere è come setacciare una spiaggia con il colino da thé: può darsi che sia un’impresa da pazzi, anzi lo è senz’altro, però se la si compie e la si fa durare per il tempo necessario (tutta la vita, da quando siamo bambini a quando moriamo) è possibile che ci riservi qualche sorpresa. Come scrive Natalia Ginzburg, che in Isole senza mare è citata in un esergo, scriviamo con la fantasia quando siamo felici e di memoria quando siamo infelici. Questo romanzo ha entrambe le condizioni dentro e mi sono accorta nei dieci anni che è durata la lavorazione, dal ’98 al 2008, che le due fasi dentro di me si sono del tutto mescolate, perché così è la vita e così è anche la scrittura: molte parti del romanzo autobiografico di Nina sono inventate di sana pianta e molte aree del romanzo storico e d’invenzione di Aquila sono decisamente autobiografiche. Dunque, scrivere è trasfigurarsi in modi così complessi e inaspettati, ma scientemente cercati, che poi l’opera finita viaggia davvero oltre noi, molto lontano dalla nostra condizione “terrestre” che, come scrive la Ginzburg, ci condiziona mentre narriamo.
-E quella coda di drago? Perché serve a impigliare le ombre?
Una delle cose straordinarie che ci capita dopo aver scritto un libro è che altri libri o la realtà ci rispondano o ci confermino nelle “scoperte” che abbiamo fatto scrivendo: ieri su una bancarella a Port’Alba ho trovato un romanzo di Hector Bianciotti (Senza la misericordia di Cristo, Sellerio, Premio Goncourt negli anni Ottanta) dove si legge: “Non so bene a cosa obbedisco cercando di preservare scrivendo una vita i cui giorni non si illuminarono di alcuna gloria (…), tanto più che sono portato a credere che se una certa cosa in questo mondo è esemplare, tutte lo sono: o tutti i fasti della memoria sono meritati o non lo è nessuno. Non sappiamo perché agiamo; la vita si serve di noi per fare scambi che sono oltre la nostra comprensione.(…) Non esiste memoria allo stato puro; per raccontare la propria vita, bisognerebbe già cancellare tutte le versioni che noi stessi ce ne siamo fatti e che in un certo senso, costituiscono le nostre azioni. (…) Scrivere su una persona che abbiamo conosciuto significa accomiatarsene.” Ho amato molto di Bianciotti un romanzo edito da Feltrinelli che s’intitola “Quel che la notte racconta al giorno” (tanto che un prossimo stage che terrò a luglio porta questo titolo): scriviamo per impigliare le ombre, come tu dici, per trattenere e per congedarci anche, come scrive Bianciotti. Ho impiegato questi dieci anni, ma in realtà tanti di più, per congedarmi dalla mia infanzia e da Nina e Maddalena, cioè la mia prozia morta suicida e mia nonna (che invece fra un anno ne compie cento e non mi pare abbia intenzione di lasciare questo mondo, è una roccia di granito sardo). La coda di drago che ci segue l’ho praticata una volta durante un training corporeo: s’immagina di avere la coda e ci si muove tenendo presente di questa protesi lussureggiante dietro di noi. Si diventa lenti e vanitosi e attenti a non inciampare. I morti sono il nostro patrimonio di memoria e la spiegazione di quel che siamo oggi. Una volta scritti li esorcizziamo, diamo loro una nuova vita, li trasfiguriamo con la parole. Cercare le parole giuste per fissare fuori dal mio corpo le sensazioni impresse in una vita è stato lo sforzo più grande e assurdo di Isole senza mare.
-Le ombre poi. Fragili e ostinate. Quanta parte hanno nella donna che scrive? E nella donna che ama?
Questa storia della donna in quanto autore è davvero seccante (scherzo): sono proprio stanca di dover ogni volta partire dalla mia condizione biologica per motivare la scrittura, un po’ come quando mi tocca partire dalla mia identità napoletana. Vengono sempre prima loro, la donna e la città, e poi io che scrivo. Comincio a diventare invidiosa: come si permettono questa donna e questa città di stare sempre in mezzo quando poi tutta la fatica la faccio io? Scherzi a parte, la questione che sollevi è relativa ai due aggettivi che hai usato giustamente: Nina e Aquila sono fragili anche se non lo sembrano. Nina non lo sembra perché trascorre una vita a ridere e far ridere, mentre il suo intimo non coincide a questa giocosità esterna. Aquila si costruisce una corazza per sopravvivere al mondo esterno e conserva le sue grandi fragilità dentro, le trattiene, le protegge, preferisce sdoppiarsi in Secunda, la sua sorellina mai nata, in un fantasma dell’anima, per non dover rinunciare del tutto a se stessa. Però entrambe hanno un fondo di resistenza, un nucleo solido. Nina lo perde, ma Aquila lo ritrova. Qualsiasi cosa ci accada, anche la più terribile, c’è un fondo bancario di resistenza umana in noi che si fatica a distruggere. La realtà ci si può accanire quanto si vuole contro, ma noi, a costa di fuggire nella follia, come un po’ accade a queste due donne, ci aggrappiamo al nostro intimo.
-Donne che amano. Uomini che si negano. Il destino di Aquila è, in fondo, lo stesso di Nina. Sono isole senza mare per questo? Sono isole senza amore?
Il primo a farmi notare questo gioco di parole nascosto nel titolo è stato Generoso Picone, che con Francesco Durante, Giuseppe Montesano mi hanno restituito finora le letture più precise e belle di questo romanzo e cui sono molto grata per la comprensione. Poiché la frase è tratta, non so più da dove, ma dall’Ortese, non ci si può stupire che contenga questo senso. Nina e Aquila non sono fortunate in amore: Nina ha un uomo accanto, non quello che forse aveva desiderato, ma non è sola. Pure, deve sentirsi molto sola. Aquila gli uomini li frequenta per mestiere e s’innamora di quelli sbagliati, fra cui del fantastico Giovanni Pietro Campana, che è una sintesi del fascino ma anche della pochezza maschile italiana. Quando s’innamora dell’uomo “giusto”, lo perde. Fanno insomma quel che molte donne fanno nella loro vita: proiettano la realizzazione di sé, anche quando si tratta di donne intelligenti e impegnate, realizzate in altri ambiti, sulla figura dell’Amato. L’Amato Bene le tradisce, scompare, si rivela un lestofante: e loro continuano a stargli dietro. Anzi si distruggono per lui. Ma il mare che è scomparso intorno alle isole di questo libro, Aquila e Nina ma anche tutti gli altri personaggi: Maddalena, Giacomo, La Rana, Egizia, la narratrice stessa, ecc…, è il mare della comunicazione. Sono svaniti i ponti che legano le persone in un destino comune. E’ svanita la comunità. Questa è forse una delle ragioni per cui il romanzo si dipana proprio dal Risorgimento ad oggi: un paese nasce mentre è già morto. E noi oggi assistiamo a questo scempio, impotenti.
-Uno sguardo alla lingua e ai modelli letterari. Nel progetto originario le isole erano Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Chi delle due è Nina e chi è Aquila?
Il progetto originario era uno spettacolo teatrale, breve, che è andato più volte in scena: lì c’era un’ipotesi di incontro mai avvenuta fra le due maggiori narratrici del nostro Novecento (e fra le maggiori d’Europa), entrambe autrici di romanzi in controtendenza rispetto alle mode del secolo. Poi, di queste due autrici così amate, in Isole senza mare non c’è più traccia narrativa, al limite ispirativi. Però se volessimo giocare a questo gioco che proponi, Aquila è Elsa, più battagliera e calata nel reale, e Nina è Anna Maria, persa dentro di sé, sola.
– La poesia di Angel Crespo che apre il romanzo : “ Misi le mani nell’acqua per assomigliare alle isole. Passava il mare tra le dita come aria tra le crepe. E s’inseguivano da sotto le mie parole le sirene. Quando volli tornare a terra, già non c’era più riva”. Antonella, un’isola senza mare è una terra ( o un destino) senza approdo?
Questo è un romanzo picaresco sull’esilio: l’esilio dalla Spagna cui è destinata Aquila, l’esilio dalla Sardegna che deriva da un esilio dalla Spagna cui sono destinate le sorelle Azara, Nina e Maddalena. L’esilio dell’anima di due donne minori per la storia e senza importanza nella quotidianità ma pure vive e bisognose di essere riconosciute e viste. Tutte corrono verso il loro esilio, che è anche già raggiunto. E’ dentro di loro. Il bello della vita è diventare ciò che già siamo, realizzare il nostro destino: Nina se ne spaventa, Aquila sfrontatamente va avanti. Chi di noi non è così un giorno e nell’altro modo in un altro? Una volta raggiunta l’isola che siamo noi vorremmo tanto fuggire al nostro destino, pure non ci è possibile. Trasformare, trasfigurare è l’arma, fuggire è la morte.
Finalmente riusciamo a parlare di questo nuovo figlio letterario di Antonella Cilento.
Il parto è stato piuttosto lungo: dieci anni.
Credo che questo sia il tuo libro più importante , cara Antonella (ma questo al di là del tempo impiegato per la sua realizzazione).
Gli auguro una lunga, lunghissima vita.
Anzi, vita eterna!
Come dicevamo è la storia parallela di due donne che attraversano l’Otto e il Novecento.
La prima di queste due donne si chiama Aquila . È una nobile caduta in povertà. Costretta a lasciare la Spagna, vende se stessa e tenta il riscatto diventando l’amante del marchese Campana, collezionista di arte e di vite altrui, un amore che la trascinerà in una trama di ossessioni, vendette e fantasmi.
L’altra si chiama Nina. È l’ultima erede di una catena di donne che che sono fuggite dalla Spagna. Ha più di ottant’anni, ha vissuto il Fascismo e una difficile intimità famigliare percorsa da molti nodi silenziosi: orfana di padre, sposa tardiva, madre mancata.
Due donne, due isole.
Vi invito a leggere gli ottimi contributi che mi hanno inviato Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Ne approfitto per ringraziarli.
Grazie, Luigi. Grazie, Simo.
Come al solito, qualche domandina ispirata al romanzo giusto per favorire il dibattito… se vi va.
1 -Isole senza mare. Isole senza amore.
Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?
2 – Isole senza approdo, anche. Perchè se non c’è mare, non c’è riva.
Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?
3 – Isole senza tempo. Le generazioni che sfalsano e scombinano destini.
Il tempo che scorre è solitudine? È compimento?
4 – Isole senza viaggio.
Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?
Per il momento chiudo qui.
Vi auguro una buona serata!
fa sempre piacere conoscere un nuovo autore o un nuovo romanzo..
grazie
molto, molto interessante. complimenti per il post e per le recensioni.
e complimenti e in bocca al lupo all’autrice.
domani, se posso, proverò a rispondere alle domande.
In un modo o nell’altro non siamo tutti isole senza mare? Bellissimo titolo.
Il ritorno non dovrebbe mai essere definitivo, così come la partenza.
E’ proprio il senso di incompiuto che resta dentro a far nascere il desiderio di viaggiare.
L’uomo deve essere migrante, sempre. Che lo faccia con il corpo o anche solo con la mente non ha importanza, poiché, più ancora dello spostamento, ha rilevanza il desiderio di cambiamento.
Ho sempre amato le persone instabili e per le quali patria e casa non fossero nello stesso luogo, quelle persone capaci di vivere infinite vite, quelle che tornano a vedere se il luogo che hanno lasciato è sempre uguale pur essendo convinte che non potrà più esserlo.
La stanzialità assume mura altissime appena la desideriamo.
Il desiderio di cambiamento, di uscire da qualunque ordine precostituito, la scelta di lasciare ciò che siamo in un certo istante, trova il suo culmine nella trasgressione, per quanto essa abbia assunto un significato altrettanto mutevole nel tempo e nello spazio.
Trasgredendo cerchiamo l’unico vero confine, quello al nostro essere.
La cultura umana inizia il suo viaggio per il tramite di due mitiche trasgressioni.
La prima è quella di Adamo ed Eva che spezzano il legame, prima ombelicale, tra uomo e natura, rompono l’armonia somma, si staccano dal padre divino e dalla madre terra e, come conseguenza, del loro gesto, la violazione di un limite, iniziano il cammino nel mondo.
La loro è stata una trasgressione suggerita, una tentazione alla violazione ed il gesto commesso un atto di suprema incoscienza, non di meno una trasgressione irrinunciabile.
La seconda trasgressione originaria è quella di Prometeo che inizia il suo viaggio per andare a compiere una violazione. Egli si muove spinto dal desiderio di trasgredire, un desiderio in piena consapevolezza delle conseguenze.
La conquista del fuoco, negato agli uomini unicamente in possesso del dio, è anche un atto orgoglioso, la scelta della punizione, pur di uscire dal buio.
Due diverse trasgressioni, due diversi viaggi, due differenti desideri.
In entrambi, tuttavia, gli uomini trovano sé stessi, che sia nella sofferenza del quotidiano o nella fine delle tenebre poco importa.
L’atto è stato prima, nella decisione, è stato trasgressivo e ad esso si è accompagnato un viaggio, l’uscita dalla condizione di stanzialità fisica o culturale.
L’uomo, dunque, non può non scegliere di viaggiare, non può non scegliere di trasgredire, di valicare i confini, andare oltre le regole e le costrizioni, che siano morali, religiose, politiche o culturali.
“Eppure si muove” l’uomo desideroso di essere sé stesso e di migliorarsi.
Egli rischia, ma non può farne a meno. Il suo destino è quello di essere migrante, di lasciare la comodità della propria casa e di andare verso altri luoghi ed altri uomini. Nel viaggio egli scopre, conosce, si relaziona con altri uomini.
La trasgressione ricerca la diversità.
L’uomo che rinuncia ad essere migrante, rifuggendo la trasgressione, condanna sé stesso alla perdita della propria identità, giacchè sceglie di essere come tutti.
Il movimento verso l’altro è il desiderio più forte dell’uomo, quello che lo conduce ad essere sé stesso, in continuo cambiamento, in costante mediazione, in auspicata negoziazione di nuova cultura.
Intanto mi complimento con Antonella…
Questo romanzo è venuto alla luce dopo dieci anni. Come certe isole che vengono dal fondo degli abissi in una gestazione lentissima di rocce e maree.
Brava Antonella!
inserisco un piccolo brano estrapolato dal libro:
“Aquila si contemplava nelle vetrine di Castellani. Frantumata in venticinque, strambi dettagli che si riflettevano in altrettanti specchi da viso, stentava a riconoscersi.
Amava ancora Campana, lo detestava, gli era venuto a noia, l’avrebbe volentieri lasciato, non voleva più che la toccasse, sperava ancora di sposarlo.”
[da “Isole senza mare” di Antonella Cilento – Guanda]
Belle entrambe le recensioni. Si direbbe un libro molto interessante.
“Isolitudine”: ottimo neologismo.
Carissimi,
Isole senza mare racconta due storie.
Ma in realtà fa sue tutte le storie del secolo, le case di tolleranza, le donne che sfidano i pregiudizi, gli uomini che lasciano. O gli uomini che non sanno tornare. Le donne che volano da un balcone a ottant’anni.
Per questo non bisogna credere che le isole di Antonella siano soltanto isole- donna.
Sono piuttosto noi nell’amore che trattiene. Nell’amore che rifiuta. Nell’amore che non riconosce il mistero dell’altro.
Diventiamo isole, senza neanche l’acqua a cingerci, quando ci priviamo di questo mare. Quando non abbiamo occhi, nè braccia per solcarlo. Quando dimentichiamo che quella coda di drago che sa chiamare a raccolta i fantasmi e i ricordi, sarebbe in grado di restituirci il brillìo delle onde, il miraggio del deserto, la sete che diventa sorgente, se solo volessimo.
Ecco. E’ la storia di destini che non sanno cercare il proprio destino. Che lo intuiscono o lo sfiorano soltanto. Che nelle ostinazioni dell’amore, o nelle solitudini dell’amore, non sanno – veramente – riconoscere l’altro. Nè se stessi.
La bravura di Antonella consiste nell’avere raccontanto la dimensione dell’esilio che avviluppa noi tutti non solo nelle grandi epoche, ma nei giorni piccoli, nei giorni uguali, nei giorni che scorrono.
Tra le maglie di questi giorni si annidano ombre rimaste impigliate, fantasmi ancora sofferenti, stramature di resti.
Quanto gridano, quei resti.
Sulla scrittura di Antonella Cilento veleggia questa bella frase firmata da Giovanni Pacchiano, critico del Sole24Ore:
“C’è calore, poesia, indignazione civile e raffinatezza non artefatta di scrittura… La Cilento è prossima a un’arte fra poesia ed etica.”
Giovanni Pacchiano
“Tracce di isola sono in noi tutti.” dice Simona, e concordo.
Infatti avevo appena inviato una e-mail al caro Massimo: il titolo di questo libro è il verso di una mia poesia di almeno vent’anni fa, e che compare a pag 112 della mia prima raccolta “Fiori e fulmini” (edizioni Il Foglio – settembre 2007)?
è stata una sorpresa, ritrovarlo anche con le caratteristiche da me espresse.
dovrei esserne lusingata, eh?…
Su consiglio di Massimo la riporto qui, ecco:
OCCHI
Occhi affacciati
sui graniti
sui vetri
sugli scivoli del metrò
sulle banchine
sui tavoli dei bar
occhi di oscurità
occhi stanchi di pena
hanno liquidi sogni alla deriva
Alcuni
hanno costanze dure
selvagge
pesanti e inamovibili
come lapidi
Alcuni
mentre fuggono
raccontano di strade
in cui persero l’anima
ISOLE SENZA MARE
Alcuni
hanno grida già morte
Altri
silenzi incolleriti
abbandonati
poveri
istrioni
occhi feriti
scoprono a intermittenza
insegne di follia
covi di amare brame
Battono sulle facce ombre e cancelli
discendono le scale s’attardano alle porte
rasentano aspri muri
s’acquattano scaltriti nella notte
Segnature di foglie ormai inservibili
offese macerate nei rigagnoli
Alcuni
occhi ridenti
chiamano ad un’intesa
che conforta
come una salda presa
una domanda accolta.
Caro Giacomo, grazie del suo contributo. Sì, l’Isolitudine è un neologismo che ho coniato durante la serata della presentazione romana del libro di Antonella Cilento, che ho avuto il piacere di introdurre quache mese addietro. L’Isolitudine è quel sentimento che riguarda la solitudine ma pure il nostro essere “isola”, staccati da un contesto che non sempre ci riguarda, ci capisce, col quale difficilmente consoniamo. Ed è forse la condizione naturale di tutti i versi artisti: questa sorta di distacco, di distanza di sicurezza dal mondo, che si fa contemplazione, elaborazione, quasi una sorta di dolcissima malinconia. Non è un disinteresse o un disimpegno, attenzione! Ma una sorta di incomunicabilità, di lontananza attraverso cui filtrare le categorie dell’esistere. Siamo isole. Isole senza mare. E il romanzo di Antonella Cilento interpreta al meglio questo stato d’animo…
Il libro di Antonella è veramente un gran bel libro perchè restituisce dignità assoluta al romanzo,come quelli dell’ottocento in cui si leggevano grandi storie e s’incontravano molteplici personaggi,Le storie principali sono due,ma celano e svelano come fantasmi nella notte insonne uno stuolo di personaggi “secondari” per così dire,ma tutti estremamente necessari,disegnati con abilità da meccanica svizzera senza nulla togliere al soffio dell’emozione vibrante,con la magia di un pizzico di mistero gotico – Secunda la sorella mai nata!-.Insomma linguaggio ricercato e colto,struttura articolata atta a raccontare storie che sono del passato ,ma-come ha detto giustamente Simona- sono di tutti, di sempre,si vestono di universalità,pur dando tratti storici in cui Antonella dipinge quadri del passato con estrema cura e affabile ricercatezza.Cosa dirvi se non leggetelo con calma e godetelo aprendo polmoni e cuore ,perchè esistono ancora i grandi narratori come Antonella.Sono orgogliosa di essere amica e alunna della sua scuola di scrittura.
Ciao Francesca Giulia, come stai? Che bello ritrovarti qui, dopo la splendida serata napoletana con Melania Mazzucco e Domenico Starnone. Grazie del tuo contributo: è bello quando le voci si sommano e si confrontano intorno ai temi della narrazione. Un abbraccio caro…
Per le bellissime domande di Massimo.
Sì siamo viaggiatori,ma non senza ritorno,come nell’amore anche nella scrittura esiste un movimento continuo che come un’onda và e viene, sembra tornare allo stesso punto,ma ogni volta è un pò più avanti,è differente,porta con sè qualche detrito e qualche misterioso reperto del mare.Basta accostare le orecchie e ascoltare ciò che abbiamo raccolto, anche nostro malgrado e incosapevolmente,ci raccontarà di noi e della vita,ci restituirà qualcosa di noi stessi,accarezzando per un attimo la nostra solitudine.Tutto necessario per riprendere ad ondeggiare come prima e andare e tornare.In questo abbraccio come l’amore che non è mai completamente tuo è la scrittura,un’onda continua.
Un caro saluto a Luigi e complimenti per le bellissime recensioni a lui e Simona.
@Luigi grazie sto bene,oggi proprio vedrò la nostra Antonella.Ora per “colpa” di Massimo Maugeri leggo P.Roth!! :-))))
Carissima, salutami di cuore la nostra Antonella. Grazie delle tue parole, abbiamo cercato di mettere a fuoco le qualità del romanzo, che sono tante, e la sua visionarietà. In merito a P. Roth è uno dei grandi maestri del romanzo contemporaneo. Io lo adoro. Spero di rivederti presto, magari in occasione del mio ritorno a Napoli a settembre. Un caro abbraccio…
Mi piace consegnarvi le parole sull’amore dal Simposio di Platone per cui Amore è colui che cerca di medicare l’umana natura lacerata dalla perdita della sua originaria perfezione, e il sentimento in cui “gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliano l’uno dall’altro. …. E’ allora evidente che l’anima di ciascuno di noi vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio.”
Con questo credo di aver risposto all’ultima domanda,baci e abbracci.
@Luigi anche a me farà tanto piacere rivederti,se torni da queste parti tienimi al corrente,così si va anche a mangiare insieme tutti!.
bacioni
Carissima Francesca Giulia, Luigino mio,Cristina, Giacomo, Mariella, Evento,Isolina…insomma cari amici,
mi piace pensare all’amore come a un necessario e indistricabile crescendo di solitudine, compenetrazione, fusione.
Solitudine per percepirci. Compenetrazione per trovare l’altro.
Infine …fusione se è l’altro a farci trovare noi stessi. Se è attraversando lui – umilmente, necessariamente – che troviamo noi.
Perchè è solo passando per le sue pareti, nel suo mistero, solcando il suo oceano, che ci leggiamo con occhi diversi, altri.
E ci vediamo.
E’ cosa rara. E’ scavare all’origine.
Ma è l’assillo di ogni uomo. Il suo vero, unico esilio. La sua infinita nostalgia.
Quando non accade, l’isola si erge ritta e spacca le correnti. Finge di bastarsi. Fa appello a quel fondo di resistenza di cui parla Antonella e che non è che paura. Di guardare nel vuoto.
Si costruisce una barriera che non è degli scogli e non è della terra. E’ dell’unica riva raggiungibile, quella della sopravvivenza.
L’isola senza mare è allora forse la metafora di tutte le potenzialità che siamo e non siamo, dei segnali di noi non colti, delle ricerche incompiute e del coraggio mancato.
O di quel fondo di ostinazione che a dispetto di tutto sopravvive, e che forse è una scintilla di pura vita, quando da attraversare non resta che il tempo.
Cara Simona,concordo con le tue splendide parole.Volevo chiederti,e chiedervi,cosa ne pensate dell’immagine di copertina?Io la trovo molto suggestiva,come se la donna rappresentata- Aquila- si moltiplicasse in tante donne che appunto rispecchiano lo stesso destino tragico.Il mezzo busto mi fa pensare all’impossibilità,forse alla difficoltà di sfuggire un destino che ci lega a qualcosa che come le sabbie mobili ci trattiene per le gambe- che sono nascoste- dandoci l’idea di averci spezzato in due,rendendoci difficoltosa la fuga verso la nostra realizzazione.Forse non è così che la intendevano ma a me suggerisce questo.
baci Simo
Cara Simona, che belle le tue parole. La solitudine come destino condiviso, e come condizione dello sguardo. E’ il cuore del problema, e l’anima del romanzo di Antonella. In merito alla copertina vorrei dire a Francesca Giulia che la sua inerpretazione mi sembra perfetta: una teoria di donne che, nella rifrazione della distanza, si incrociano, si parlano, dialogano usando la stessa lingua. Vivendo lo stesso dolore. La stessa Isolitudine. Un caro saluto a tutti, e a Massimo, che anche oggi concede a tutti noi questo spazio di dialogo…
Cara Franceschina…concordo. A me il mezzo busto ha subito fatto pensare all’assenza di braccia.
All’assenza di abbracci.
Luigino…parlaci della presentazione del libro di Anto. Delle suggestioni emerse nel corso della vostra serata romana….un bacio
Cara Simona, è stata una splendida serata. Il Tuma’s Bar è un locale – un caffè letterario? – nel cuore di un quartiere magico e pieno di giovani: San Lorenzo. Lo frequento spessissimo, e per un periodo c’ho pure vissuto. Dunque, c’è questa saletta interna, con un piccolo palco e tutto intorno un ampio spazio pieno di comodi divanetti e mensole piene di libri. A presentare il romanzo insieme a me: Lia Levi e Francesco Costa. Poi, le splendide parole di due giovani attori davvero bravi. Di lei, purtroppo, al momento mi sfugge il nome. Chiedo venia. Lui era Domenico Stante. E la coordinazione di una bravissima presentatrice: Tullia Della Moglie. A questo aggiungi un pubblico appassionato, che ha ascoltato la lettura di alcune pagine ma pure il commento dell’autrice, le sue risposte alle nostre domande, gli interventi dei singoli lettori. Proprio una serata magica, una di quelle in cui hai la sensazione che stia accadendo qualcosa di vero, di solenne. E tutt’intorno Roma, la sua magica, la sua sera che scendeva, avvolgendoci…
Ricordo anche con divertimento le rocambolesche avventure di Antonella, in arrivo in treno da Napoli. Magari ce ne parlerà lei, se vuole. E poi, ancora, il ritorno in taxi insieme ad alcuni degli amici presenti. E la riflessione con Anonella – sempre affettuosissima – sul tema dell’Isolitudine, che l’ha molto colpita. Insomma, frammenti di attimi che ricordo con grande gratitudine…
Anche secondo me la copertina è molto bella. Dà un’idea magrittiana dell’isolamento. Ottime le copertine di Guanda.
Scrivere significa votarsi alla solitudine, al raccoglimento, alla concentrazione. Amare dovrebbe significare l’opposto, dato che implica -nella maggior parte dei casi- la presenza di un altro essere. Infine non credo che per scrivere sia necessario viaggiare, anzi penso che un vero scrittore non ne abbia bisogno (a meno che non lo faccia per svago e non per trarre ispirazione). Uno degli esempi più fulgidi di quanto ho appena detto è a mio avviso De Sade, un grandissimo della letteratura mondiale che è riuscito a descrivere con dovizia di particolari luoghi che non aveva mai visitato. Ora mi viene in mente questo: è vero che nessun uomo (o donna) è un’isola, ma c’è chi è costretto ad esserlo.
Ragazzi, grazie. Grazie a Luigi e Simona per i loro bei pezzi e per l’intervista e a voi tutti per i molti post! Resto nell’angolo in attesa di leggervi ancora… Grazie anche a Massimo!
Antonella
Grazie a te, Antonella cara. Apprezzo molto la riflessione lanciata da Barbara X. E’ vero che a volte la solitudine – e l’Isolitudine, me la si passi – è una condizione non scelta ma imposta da un atto di sottrazione: qualcuno che improvvisamente si allontana, che si strappa via al nostro amore. Rendendoci quel busto senza braccia – senza abbracci – di cui parlava Simona. Purtroppo, anche questo appartiene all’uomo e all’umanità. Anche questo ci dice della nostra condizione…
Verissimo, c’è molto Magritte in questa copertina… bella come tutte quelle di Guanda. In particolare mi era molto piaciuta quella di “Neronapoletano”, con quegli occhi misteriosi e inquietanti.
Direi che i personaggi di Antonella hanno come fil rouge l’isolitudine. Che ne pensi, Antonella? Elide, ma anche il ceroplasta siracusano Zummo… e ora Aquila e gli altri.
Cari amici, vi ringrazio tutti per i vostri numerosi commenti.
Ne approfitto per salutare tutti gli intervenuti: Caterina71 (benvenuta su Letteratitudine), Letizia, Marco, Eventounico (grazie per il bellissimo pezzo), Maria Lucia, Mariella, Giacomo, Isolina, Francesca Giulia, Cristina (grazie per la poesia), Barbara.
Ovviamente un saluto e un ringraziamento speciale a Simona e a Luigi.
@ Antonella
Grazie a te, cara. E preparati a qualche ulteriore domanda.
Come ho scritto in precedenza questo “Isole senza mare” è destinato a diventare (anzi, lo è già) una pietra miliare nella carriera di Antonella Cilento; un’autrice ancora molto giovane, ma che è già entrata nelle enciclopedie di Storia della Letteratura Italiana.
@ Antonella Cilento
Cara Antonella, come nasce questo tuo romanzo?
Quand’è che hai pensato per la prima volta di scriverlo?
E quale è stata l’esigenza che ti ha spinto a generarlo?
Un’altra domanda per Antonella…
Da un punto di vista meramente tecnico… come si fa a gestire la scrittura di un romanzo per ben dieci anni?
E ancora…
Quali sono le difficoltà?
E quali i rischi?
E le (eventuali) opportunità?
Di questo libro di Antonella se ne è molto parlato anche sui quotidiani (e magazine). Vi fornisco, di seguito, qualche ulteriore contributo.
Comicio dalla recensiondi Generoso Picone, uscita su “Il Mattino”…
IL MATTINO del 07/03/2009
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Isole senza mare di Antonella Cilento
(Guanda, pagg. 371, euro 17)
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di Generoso Picone
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Nina aveva 80 anni quando alle cinque del mattino aprì la finestra e si buttò giù. Voleva uccidersi ma non ci riuscì, il corpo rimbalzò sulle corde dei panni e la caduta fece un gran baccano, i vicini si svegliarono e così pure Aldo, che era a letto tormentato dall’asma. Poi lui morì e Nina ci riprovò bevendo il solvente. Quella volta la salvò la cameriera: venne fuori dal coma a fatica, non parlava ormai più se non per ripetere il nome del marito, piangendo e toccando la fede sarda al dito. Qualche mese dopo ce l’avrebbe fatta a lasciare la vita. Antonella Cilento spiega di aver cominciato a scrivere il suo libro giusto allora: «Poiché non sapevo abbastanza di Nina e l’avevo tanto amata, poiché non saprò mai abbastanza di Maddalena, sua sorella, o dei miei genitori – dei nostri genitori non sappiamo mai abbastanza – li ho cercati come fossero personaggi di una storia. E altri se ne sono aggiunti alla mia coda: fantasmi, ombre, persone». Isole senza mare, il suo nuovo romanzo (Guanda, pagg. 371, euro 17: uscirà giovedì 12), è il referto di questa lunga e tormentata indagine, un’esplorazione a ritroso tra i secoli, una ricostruzione dei ricordi condotta con il beneficio dell’invenzione, tante esistenze ripercorse e tenute da un filo ritrovato nel tempo. Una grande narrazione familiare ma non una storia di famiglia, «perché il passato è inventato e il reale si confonde con la fantasia, perché ci sono verità che possono essere dette solo così e perché nessuna memoria è gratuita». In questo largo lessico familiare, su una geografia che dalla Spagna interna punta verso la Sardegna, tocca Roma e arriva a Napoli, in una Italia che tra povertà e cinismi declina l’Ottocento, il Fascismo, le guerre e la contemporaneità, i tentati suicidi di Nina assumono il significato di un cardine importante. Non perché nei suoi gesti possa nascondersi una verità – se non quella di aver cancellato la possibilità di vivere l’infanzia – , quanto per il fatto che «i morti ci seguono, sono la nostra coda di drago. Ci spingono, ci trattengono, se ci voltiamo scompaiono. Ognuno di noi è come Orfeo», aggiunge Cilento. Bisogna guardare avanti. Però quante cose non si è riusciti a vedere, a capire, a sapere? «Si cresce come si può, scansando i sassi, cercando al luce», scriveva Italo Svevo nei suoi diari: e quando succede di pensare a chi si è diventato, quando si assume la consapevolezza che il peso del passato rischia di rendere impraticabile il presente, quando ci si ritrova a riflettere sulla eufemisticamente complessa costellazione di rapporti e affetti personali, la terapeuta non potrà non constatare che c’è tanta materia per un romanzo. A condizione di utilizzare il velo protettivo della letteratura che la trentottenne narratrice napoletana stende con grande abilità e discrezione, convocando i suoi riferimenti principali, qui Natalia Ginzburg e Fabrizia Ramondino soprattutto. Vale la pena di citare l’esergo della Ramondino al capitolo finale: «Le visioni, che sono verità rivelate, come le ossessioni, che sono verità non ancora rivelate, non si possono dimenticare; né però spiegare». Resta la scrittura. Nina e Aquila sono le due donne protagoniste della storia. Interpretano due aspetti dell’identità femminile. Si muovono su scenari paralleli a cent’anni di distanza: Nina è sarda, ha attraversato gli anni del Fascismo e della guerra, ha perso presto il padre, si è sposata tardi, non ha avuto figli, la sorella Maddalena è quel che le resta. Porta dentro di sé tenebre e paure mai esplose prima del suo salto nel vuoto. È l’ultima erede di una famiglia che fuggì dalla Spagna, come Aquila un secolo prima: nobile finita in povertà, a Roma costretta a prostituirsi e quindi amante del marchese Giovanni Pietro Campana, grande collezionista d’arte e impagabile truffatore, in verità innamorata persa del fascinoso attore inglese Adam Eggs. È inquieta, visionaria, pronta a incresparsi alla passione. Le unisce il punto di partenza, il paesino di Azara sui Pirenei, e un destino di solitudine e infelicità. A loro pare essere precluso l’amore vero. Sono isole senza mare e, giocando con le parole, isole senza amare: simbolo, cioè, di un bisogno antico e purtropo insoluto delle donne. Antonella Cilento ne delinea i profili con straordinaria precisione e vividezza di toni che le rende protagoniste assolute di una scena corale. Letterariamente nate dalla performance del 1998 titolata già «Isole senza mare», che proponeva una attrice per i due personaggi di Anna Maria Ortese ed Elsa Morante, hanno incrociato il racconto «Téttari», dal nome sardo dei morti stecchiti, i fantasmi senza lenzuolo che popolano le stanze e le paure dei bambini: alla Ortese e alla Morante si sono sostituite loro, Nina e Aquila, e il romanzo è cresciuto, procedendo per stesure e accumulazioni – lo rivela Antonella Cilento ma è ben chiaro alla lettura – e offrendo lo spazio all’autrice per calarsi con la problematicità della sua presenza. In questo, è un autentico romanzo di formazione, la prova che consente di superare linee d’ombra e sperimentazioni per maturare una cifra di rilievo. Un testo in cui anche curvature e accenti autobiografici – «Da sempre le donne della famiglia lamentano una patria perduta, tutte spaventate che dai lunghi viaggi – in mare, in cielo o in terra – qualcuno non torni: i mariti si perdono, i fidanzati e i fratelli muoiono, le famiglie si smembrano» – sono al servizio di una pagina alta che diventa metafora di una condizione umana generale. Le vicende di Nina e Aquila, le loro vibrazioni emozionali, i silenzi e le urla, la saggezza e il furore che le muove vanno a formare il racconto lungo delle donne. Si ritrovano nel dipinto di Felice Casorati, «Le signorine» del 1912: ci sono quattro figure femminili, una è brutta e curva e sembra la bisnonna Maria Azara; una e bella e malinconica perché invidiosa come Maddalena; Gioconda è Nina con l’entusiasmo della giovinezza; la più sfrontata si chiama Bianca, nel quadro è nuda e di Aquila ha l’anima svestita. Nota Antonella Cilento che sul prato manca solo un telefono bianco o un De Sica ai loro piedi. Verranno anni dopo. Intanto, fuori dalla cornice potrebbe non esserci altro al mondo.
Per il momento mi limito a sottoporvi le recensione di Generoso Picone (qui sopra). Il resto, nei prossimi giorni.
–
Per stasera devo chiudere qui.
Una serena notte a voi tutti!
Mi sembra un libro importante, almeno da quello che ho letto qui. Un romanzo del Novecento (di cui sento molto la nostalgia)? Lo chiedo all’autrice e ai critici qui intervenuti. Ne approfitto per complimentarmi con Massimo Maugeri per questo ottimo spazio che ha creato.
Buongiorno a tutti! Vorrei cominciare la giornata riportando la frase con cui Antonella apre la settima parte del libro: “Le visioni, che sono verità rivelate, come le ossessioni, che sono verità non ancora rivelate, non si possono dimenticare; né, però, spiegare” (Fabrizia Ramondino, Althénopis)….
Antonella, quanta parte hanno le visioni nella scrittura?
Per me una scrittura senza visioni trasmette davvero poco.
1 -Isole senza mare. Isole senza amore.
Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?
……………………..
Secondo me quando si scrive non si è mai soli. La scrittura, la storia ed i personaggi penso siano ottimi compagni di viaggio.
In amore siamo isole solo quando non siamo ricambiati.
2 – Isole senza approdo, anche. Perchè se non c’è mare, non c’è riva.
Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?
…………………….
Non credo che la scrittura sia un percorso di sola andata, ma mi piacerebbe conoscere meglio le opinioni degli scrittori che frequentano questo blog compresa la Cilento
3 – Isole senza tempo. Le generazioni che sfalsano e scombinano destini.
Il tempo che scorre è solitudine? È compimento?
…………..
Più che solitudine il tempo che scorre è a volte rimpianto. In quel caso non è compimento, ma una finestra sull’incompiuto.
4 – Isole senza viaggio.
Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?
…………….
Non ho serie esperienze dirette di scrittura, ma credo che scrivere sia compiere un viaggio dentro se stessi, innanzitutto. Quel tipo di viaggio è sempre necessario.
Complimenti ad Antonella Cilento per il romanzo e per la sua carriera di scrittrice.
Mi hanno colpito queste parole di Antonella Cilento nell’intervista rilasciata a Simona Lo Iacono: “Sono svaniti i ponti che legano le persone in un destino comune. E’ svanita la comunità. Questa è forse una delle ragioni per cui il romanzo si dipana proprio dal Risorgimento ad oggi: un paese nasce mentre è già morto. E noi oggi assistiamo a questo scempio, impotenti”.
Sono frasi forti. E mi domando: davvero è svanita la comunita? davvero non ci resta altro da fare che assistere a questo scempio, impotenti?
Carissimi,
provo a rispondere alle molte domande che gentilmente avete lanciato! Comincio dalle ultime: a proposito dello scempio in cui stiamo vivendo e della nostra incapacità di reazione.
Mi è stato fatto notare durante una presentazione a Giugliano che ci sono più somiglianze di quanto previsto da me fra il nostro presente e la storia di Aquila. Che Campana, il suo protettore, personaggio realmente esistito, fosse una specie di Dell’Utri (ma ci sono tanti personaggi pubblici dell’oggi cui la descrizione si attaglia, piccoli e grandi) si sapeva: uno che usa i soldi del Papa per farsi la più grande collezione privata mai vista sulla terra e che da perfetto voltagabbana ora è con i liberali, ora con i monarchici, che crede sinceramente che l’unità del paese si fondi sulla storia della sua arte ma colleziona opere con truffe e manovre al limite della legalità, mi sembra un perfetto prototipo di italianità…
La questione della prova (per chi ha letto il libro), dell’amante che la detiene e perfino la pedofilia cui si allude nel romanzo hanno fatto però sogghignare la mia presentatrice di Giugliano e fare battutine sul fatto che io sapessi anche altro e con anticipo sulla squallida storia di Noemi, il che ovviamente non è…
Ma se è vero che la letteratura spesso anticipa la storia, questo era un ritratto dell’esistente: in Isole senza mare la storia minore, quella che non finisce sui manuali, è spesso foto di un costume, e dunque di un implicito destino, assai più incisiva del racconto “grande”, dei fatti che tutti conoscono o studiano.
E da questo ritratto fra otto e novecento appare una comunità scompaginata, se non inesistente, che ha perso i suoi anticorpi naturali allo strapotere della deficienza e del malaffare.
Non credo nell’impotenza di fronte a queste manifestazioni di orrore quotidiano, lotto contro questo, altrimenti non avrei la speranza nella scrittura che mi porta avanti (come scrive la ‘O Connor, non c’è nessuno più dotato di fiducia dei romanzieri, altrimenti perchè farebbero questo mestiere così assurdo e privo di riconoscimento?), tuttavia devo osservare con pessimismo che la storia dei gruppi, delle nazioni, non va certo alla stessa velocità della storia degli individui e che per quanto ognuno di noi coltivi il suo volteriano giardino nella speranza che questo migliori anche la collettività, ciò spesso non ha immediati riflessi nel presente…
Mi chiede poi Massimo:
Come nasce questo tuo romanzo?
Quand’è che hai pensato per la prima volta di scriverlo?
E quale è stata l’esigenza che ti ha spinto a generarlo?
Il romanzo è nato come racconto nel ’98. S’intitolava Tèttari ed era la storia breve e fatta di memorie per lo più della mia infanzia in relazione a Nina, a Maddalena, alle zie descritte ora nel romanzo. Il racconto includeva la possibilità di un romanzo, io lo sentivo, anche se avevo l’enorme difficoltà di pensarlo come una vicenda staccata dalla mia biografia. Avevo però l’esigenza di fare chiarezza dentro di me: la confusione apparente di eventi e comportamenti che portano ognuno di noi a fare scelte nella propria vita mi premeva addosso come un macigno. Cercavo un senso nel passato che spiegasse le mie scelte dell’oggi. E quel senso era nascosto nelle vicende familiari, in quel che non sapevo, e mai saprò: come e perché un’anziana decide per il suicidio; come e perché la famiglia si sentiva costantemente in esilio (dalla Sardegna venuti a Napoli e prima dalla Spagna venuti in Sardegna). Come mai, poi, il bisnonno era morto ucciso da fantomatici briganti mentre sua moglie sosteneva che ci fosse dietro una persona precisa, animata da rancore nei suoi confronti, ma senza un volto, senza una verità… Per questo avevo bisogno di mettermi in ascolto e aspettare che la storia di cui ero involontaria comparsa si definisse ai miei occhi più nettamente. Ci sono voluti dieci anni e la forza di decidere che anche per i personaggi della mia famiglia fosse necessario inventare totalmente e non restare nella fedeltà all’avvenuto, ma fare ipotesi di finzione. Durante uno stage di Costellazioni Familiari – un lavoro molto bello inventato da uno psicanalista tedesco, Bert Hellinger – ho visto, letteralmente, le ave della mia famiglia. Lì è nata Erberta, l’antesignana di Nina e Maddalena che fa da tata ad Aquila. E lì sono comparsi i nomi dei personaggi, prima ancora della loro identità. Mi aveva colpito l’idea di Hellinger che non ci si suicida mai per amore o per contingenze della nostra vita, ma più spesso per fedeltà al sistema familiare di appartenenza, quindi per sostituire un fratello morto, uno zio pazzo, qualcuno che è stato esplulso dall’ordine formale della famiglia. Spesso non lo sappoiamo nemmeno, sostiene Hellinger, e ci comportiamo per sopperire agli errori o ai bisogni dei nostri genitori e parenti. Così è nata anche Secunda, la sorella fantasmatica di Aquila, che Aquila battezza così proprio perché si sente in colpa di essere nata al suo posto, di essere figlia indesiderata ma sopravvissuta.
Sulla fatica dei dieci anni di lavoro, di cui pure mi chiede Massimo, la risposta è semplice, il lavoro non lo è stato: ci sono voluti tanti anni per decidere di affrontare il rischio di una storia che fosse nel corpo del Novecento (qualcuno ha commentato prima, a questo proposito): le mie trame sono sempre state su più livelli (Maria Lux, mi pare, abbia detto qualcosa in proposito sulla somiglianza dei personaggi da Una lunga notte a Neronapoletano a L’amore, quello vero), ma mai mi ero spinta così lontano… Doppi livelli, rapporti fra passato e presente, coincidenze, cornici che si rivelano collegate: in fondo raccontare è sempre affrontare Le mille e una notte… Però, in questo caso, le redazioni che si sono susseguite negli anni hanno avuto una gestazione veramente complicata: molti personaggi non sono esistitit fino a tre anni fa, altri li ho incontrati in corso d’opera, alcuni eventi si sono sostanzialmente modificati nel tempo. La vicenda di invenzione di Aquila ha influito molto sulla gestione della narrazione “autobiografica” di Nina, tanto che nell’ultimo anno prima della stampa ho deciso di raccontare cosa accade nella casa dei miei zii, di Nina e Aldo, quindi di staccarmi del tutto dalla realtà e da quanto sapevo, proprio grazie all’evoluzione di personaggi in apparenza secondari, come la moglie di Campana, Emily Rowles, e del cognato, Giacomo Campana. Questo è un romanzo con delle protegoniste, ma anche corale. Si è mosso nel tempo come un corpo, in forma olistica: le storie si sono influenzate e riassestate a vicenda. C’è voluta molta pazienza e il coraggio di affrontare l’ossessione: ho vissuto solo per queste parole racchiuse nel libro, sdoppiata dalla mia me attiva, mentre ogni cosa che mi accadeva nella vita attiva ricadeva inevitabilmente nell’invenzione del romanzo.
Mi fermo perchè non ricordo se c’erano altre domande e vi rilascio spazio. Grazie!
@ Gentilissima Antonella, non ho ancora letto il suo romanzo, mi ha però molto colpito l’episodio di Nina, così anch’io ho fatto un viaggio a ritroso nella memoria. Mi sono ricordata di una mia conoscente di quarantacinque anni, tradita dal marito. Lei affranta, decise di buttarsi dalla Fortezza Medicea. Una frondosa quercia amortizzò la caduta.
F., non morì, rimase quasi cieca e paralizzata. In seguito desiderosa di attenzione, tentò per ben due volte di lanciarsi con la sedia a rotelle per le scale di casa sua.
La morte si beffò del suo dolore, delle sue intenzioni, dell’amara solitudine che la fasciava come una sciarpa. F. continuò a vivacchiare e finì la sua meschina vita in uno squallido istituto! L’ episodio mi sconvolse molto. Talvolta la realtà supera la fantasia!
Dagli stralci brevi dell’ intensa trama che ho potuto leggere, sono rimasta entusiasta per la convincente caratura della sua scrittura e per la sua vivace personalità. Ottime e calibrate le finissime relazioni di Simona e del critico Luigi La Rosa.
Forse chi scrive è solo – un isola senza mare-, nel momento creativo dell’opera. Per l’autore sarà consolante sapere, che altre persone,
un oceano sconosciuto di lettori… faranno propria la storia e condivideranno i diversi sentimenti che la sorreggono.
Sinceramente – “Ad maiora”.
Tessy
@Antonella Cilento. Non sei certo una che le cose le manda a dire, ma le chiama con nome e cognome. Complimenti!!! Stracomplimenti!!! Ricordo ancora quella, diciamo, “vivace” polemica in un tuo post precedente con quel signore del gruppo Baricco. Di intellettuali come te c’è sicuramente gran necessità. Corro a comprare il libro.
Gentile Antonella, la ringrazio molto per la bellissima e condivisibile risposta.
Gentile Antonella, chiedo scusa ma è saltato un mio precedente commento in cui la ringraziavo per la bellissima e condivisibile risposta.
Carissima Antonella,
credo che l’invenzione in letteratura non sia mai un’operazione assolutamente creativa, nel senso che non promana solo da noi, ma si avvale di quelle percezioni di verità comuni alle visioni, ai sogni, alle ossessioni.
Poco più su ti riportavo infatti l’epigrafe con cui apri la settima parte del libro:
“Le visioni, che sono verità rivelate, come le ossessioni, che sono verità non ancora rivelate, non si possono dimenticare; né, però, spiegare” (Fabrizia Ramondino, Althénopis)….
e ti chiedevo quanta parte hanno le visioni nella scrittura…
Ora, sulla scorta delle tue bellissime risposte vorrei aggiungere:
credi che l’invenzione letteraria sia intuitiva e anticipatoria come la visione?
E se i sogni sono veri…perchè non potrebbe esserlo anche il destino che hai inventato per la tua famiglia?
Là dove il tempo non ci restituisce memoria, possono farlo i fantasmi, i bisbigli ancora galleggianti nell’aria, le strade scavate dalle parole, finanche i suoni di un nome.
Restituire un passato vuol dire restituirci a noi stessi.
E il viaggio non è solo di terra.
E’ di aria, di vento, di resti….d’altra parte le code di drago impigliano resti!
Un abbraccio forte anche da Nanni e…dallo “spirito del cognome” (vuoi spiegarlo tu cosa significa e in che modo è entrato nella tua storia?…)
Cara Antonella, vorrei porre una domanda apparentemente
commerciale. Quanti euro speri di ricavare per questo egregio lavoro che ti ha impegnato tanti anni della tua vita? Basteranno a ricompensarti? La risposta certamente conterrà il senso dello scrivere sollecitato da Massimo.
Secondo me chi si mette a scrivere pensando agli euro è proprio sulla strada sbagliata. Antonella Cilento non mi pare il tipo. Tutt’altro.
Cara Vanessa, hai frainteso.
Ho capito. Forse volevi lasciare intendere che il senso dello scrivere e la ricompensa non vanno ricercati nel denaro, perché non potrebbe mai essere sufficiente, ma nella scrittura stessa.
O nella “forza incosciente” che ti fa scrivere o in qualche altro impulso o suo segreto che vorrei la nostra scrittrice svelasse.
E’ corretto pensare che si è “isole senza mare” quando si è “isole senza amare”?
Lo chiedo all’autrice e a tutti voi.
Scusate le rime e il gioco di parole.
Carissima Simona,
dalla lettura del tuo bel commento, mi viene di rispondere in merito.
Io credo che lo scopo della vita sia l’incontrarsi per riconoscersi negli altri. Gli avvenimenti fanno da corona a questo processo del ritrovarsi, come forse eravamo all’inizio del tempo. Siamo quindi tutti alla ricerca delle nostre particelle sparse, con lo scopo di riunire tutto ciò che una decisione superiore ha diviso.
C’è chi intraprende questo viaggio con chiarezza d’intenti e tranquillità d’animo, tanto da risultare forte e affidabile, come altri che, dotati di una temperamento ipersensibile, creano timori e inaffidabilità e vengono temuti. Che cosa si teme di più se non la rinascita di situazioni emotive proprie, credute o ritenute per superate. Si teme quindi per prima cosa il risorgere delle ansie che con grande forza d’animo sono state superate.
Eppure, rimane sempre in noi il desiderio di trovare il proprio corrispettivo, senza il quale si è soli, anche quando abbiamo creato dei surrogati. Essi sono sempre e solo dei sostituti che non assolvono mai il vero scopo della nostra esistenza.
L’essenza della vita è quindi la ricerca di tutto ciò che ci apparteneva ed ora ci manca. Ne sorge un flusso continuo il cui scopo dovrebbe essere sempre il completarsi. A prima vista sembra un’impresa facile, risulta poi difficilissima ed ardua per le molteplici attitudini e conoscenze che richiede da tutti noi.
Ne elenco alcune, come coraggio, volontà, perseveranza, pazienza, umiltà, senza le quali l’insuccesso diventa un tormento, tale da farci sentire degli incapaci per ignoranza o senso d’inferiorità, dei perdenti senza riconoscerne le cause la cui conoscenza potrebbe ridonarci speranza di riuscirci un’altra volta.
L’incontro, la riconoscenza nell’altro/a e l’unione sono le mete di questa esistenza. All’inizio donano piacere e sollievo, ma dopo e sempre per immaturità in entrambi incomprensione, tormento e dolore.
Eppure, senza questa ricerca, non raggiungeremo mai la nostra completa identificazione, qui ed altrove.
PS) ritornato dalle vacanze , sentivo solo un vuoto in me. Pensavo di dover smettere di partecipare a questo bellissimo Circolo Letterario, e non solo.
Il tema presentato da Antonella Cilento, che congratulo sentitamente per il suo libro, mi spinge a ripresentarmi, come sempre alla mia maniera, e di questa occasione ringrazio ancora e sempre Massimo.
Lorenzo
Cari amici che sulla scorta delle domande di Massi vi interrogate (ci interroghiamo) sull’amore, credo che nessuno l’abbia mai detto meglio di così:
http://www.youtube.com/watch?v=knd0uM07sDw
Buona notte a tutti!
Carissimi/e: terribile la storia raccontata da Maria Teresa, capisco che la vicenda di Nina gliel’abbia ricordata. All’amico che mi chiedeva quanto si guadagna da tanta fatica rispondo che purtroppo è molto poco (salvo miracoli che attendiamo con stolida fede:-). Un discreto anticipo mangiato dalle tasse e poi nulla più, perchè per ircoprire l’anticipo ci vorranno tante di quelle copie vendute prima ch’io cominci a guadagnare che nel frattempo, se avrò fortuna, sarò immersa in un nuovo romanzo…
A Simona che mi chiedeva delle visioni (“credi che l’invenzione letteraria sia intuitiva e anticipatoria come la visione? E se i sogni sono veri…perchè non potrebbe esserlo anche il destino che hai inventato per la tua famiglia?”) rispondo che sì, la visione ha varie funzioni: farci vivere oltre la dimensione reale, che è così piccola rispetto alle potenzialità della nostra immaginazione. Avere visioni serve ad aprire porte, a modificare i mondi e, come scrive bene Simona, a restituirci a noi stessi. A casa di Simona, poi, come è scritto nel romanzo, mentre mangiavamo avvolti nel fresco artificiale (fuori l’estate siracusana imperversava) il piccolo Nanni, figlio di Simona (cui mando un bacino) raccontò di un suo misterioso gioco intitolato lo Spirito del Cognome. Cosa fosse il gioco e in cosa consistessero le regole non lo sapemmo allora nè lo sapremo mai, ma il titolo mi colpì molto, aveva a che fare con la ricerca che stavo facendo dentro di me e sulle mie origini, così glielo “rubai” e lo misi nel libro, dove tutt’ora sosta con la deliziosa accoglienza di Simona nella sua bella casa e l’affetto di tutte le amiche e gli amici siciliani…
Cari amici, eccomi di nuovo qui.
Come sempre ne approfitto per ringraziarvi per i commenti pervenuti.
Mi pare che il dibattito si stia sviluppando in maniera molto interessante… e da diversi punti di vista.
Ne approfitto per salutare i nuovi intervenuti: Renato, Amelia, Vanessa, Felice, Tessy, Salvo, Amedeo, Lorenzo.
Un ringraziamento specialissimo per la “nostra” Antonella per i suoi numerosi, corposi e ottimi interventi…
Brava, Anto!
A proposito de “Lo spirito del cognome” rievocato da Antonella… be’, credo sia il titolo perfetto per un romanzo. Non siamo certi del significato, ma… bravo Nanni:-))
@ Simo
Credo convenga brevettarlo, quel titolo!:-)
Vi avevo preventivato ulteriori approfondimenti su questo libro di Antonella.
Eccovi, intanto, la recensione di Marco Lodoli apparsa su “Repubblica”…
L’amore deluso di due donne
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Il romanzo familiare, quella narrazione larga che traversa i decenni, a volte i secoli, congiungendo avi e nipoti, individuando con calma i protagonisti nella selva dei personaggi di contorno, è una scelta eminentemente femminile. Penso, per restare solo negli ultimi anni, alla Venezia e alla Maraini, alla Loy e alla Rasy, alla Di Lascia e alla Angus: la famiglia è il luogo del divenire, il tempio del bene e del male, delle lunghe stagioni che danno forma e demoliscono. Se gli scrittori sembrano affascinati dal rapporto tra solitudine e Storia, le scrittrici spesso trovano nel flusso familiare la corrente primaria del racconto. Anche Isole senza mare di Antonella Cilento si muove nel ritmo ampio delle generazioni, e lo fa poggiandosi su una lingua ricca, inventiva, a volte quasi barocca. Ogni soluzione minimalista è scartata: qui si tratta di seguire i percorsi chilometrici di Aquila e Nina, due donne vissute in tempi lontani, innamorate e deluse, appassionate e ferite dalla vita. Si parte dalla Spagna, cioè dalla sovrabbondanza linguistica e si viaggia verso la Sardegna, e nessun passaggio è eluso o risolto rapidamente. È un romanzo ambizioso e a volte irritante per l’ opulenza delle immagini. Mille personaggi si agitano dolorosamente tra l’ azzurro del mare e del cielo, mille storie si intrecciano come seta o filo spinato. La Cilento ama raccontare: bisogna solo sedersi e ascoltarla, cancellando ogni fretta.
MARCO LODOLI
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Repubblica — 18 aprile 2009 – pagina 29
sezione: ALMANACCO DEI LIBRI
Di seguito inserisco la recensione di Isabella Bossi Fedrigotti, uscita sul “Corriere della Sera”.
ANTONELLA CILENTO, UN ROMANZO DI SENTIMENTI E SOLITUDINI
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Dalla Spagna senza ritorno destini incrociati di donne
Il doppio filo della narrazione parte da lontano, dalla Spagna dell’ Otto e del Novecento. Il primo, il più antico, segue la vicenda di Aquila, figlia di aristocratici impoveriti, costretta a lasciare la patria per cercare maggiore fortuna in Italia. Il secondo e più recente ripercorre le tracce di Nina, la cui antenata aveva abbandonato la Spagna assieme alla famiglia di Aquila, in qualità di unica e ultima domestica sopravvissuta alla miseria dei padroni, approdando in Sardegna, e lì fermandosi, lasciando che i suoi signori d’ un tempo proseguissero per Roma. S’intrecciano, dunque, nel romanzo di Antonella Cilento (Isole senza mare, Guanda, pp. 367, Euro 17), le storie e i destini non felici di due donne, accomunate, pur nella teorica distanza delle origini nonché del secolo che le divide, da una sottrazione d’ amore che le segna in modo irreparabile. La nobile Aquila diventata prima prostituta e poi, per tutti gli anni buoni della sua vita, amante di un ricco collezionista d’ arte che mai, come avventatamente si era messa in mente, lasciò la moglie per lei. E la bella Nina, saltata dal balcone quando realizzò che la vita avrebbe mantenuto ben poco delle tante promesse di gioia e amore fattele da bambina. Le isole senza mare sono ovviamente le due donne, separate ed escluse nel loro esilio interiore di ansia d’affetto, come in quello esteriore di espatrio e sradicamento, senza neppure il mare intorno che permette di navigare, di gettare ponti, di uscire dal castigo della solitudine. Ma sono forse anche, le isole senza mare, le realtà nelle quali entrambe si trovano a vivere, fermamente chiuse intorno, con finestre, sì, che lasciano vedere quel che succede al di là, però dai vetri troppo spessi perché ci sia, al di qua, vera vita e non soffocante ambiente di serra. Aquila, infatti, sempre sarà prigioniera del suo passato irredimibile, e Nina dell’inflessibile perbenismo piccolo borghese. Il romanzo, che in un certo senso si potrebbe definire storico, in quanto s’intende presto che ripercorre vicende di personaggi realmente vissuti, appartenenti alla famiglia dell’autrice, sue zie, e bis o triszie, ha, per forza di cose, l’andamento e l’urgenza della scrittura autobiografica, che scava e che corre, a volte anche in disordine, con l’ ansia di chi a tutti i costi deve arrivare in fondo al tunnel, dove s’intravede la luce e dove potrà finalmente stare un poco in pace. Il lettore non può che seguire l’autrice con lo stesso suo passo intrepido, scavando insieme a lei e insieme scavalcando gli ostacoli, veri o solo apparenti, che si possono incontrare lungo il cammino. Ostacoli o, meglio, complessità, che eventualmente segnano piuttosto il racconto di Nina, la più contemporanea tra le due figure: ed è normale che sia così perché troppo vicina, troppo familiare e, di conseguenza, ancora troppo imperscrutabile per chi ne narra la vicenda; Aquila per contro è già nella storia, per cui, sebbene a sua volta parente, può venire rievocata – o reinventata – con tranquilla sicurezza e libertà.
Isabella Bossi Fedrigotti
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Pagina 53
(7 maggio 2009) – Corriere della Sera
E con questa… vi auguro la buona notte!
Conosco un altro bambino che fa un gioco simile a quello dello “spirito del cognome” e mi mette sempre in seria difficoltà. Per cavarmi d’impaccio comprerò il libro e gli dirò che quel riferimento viene da Nanni.
E si, “lo spirito del cognome” rimane davvero impresso.
Auguri ad Antonella Cilento per questo suo romanzo. Sono rimasta molto incuriosita dalle cose che ha scritto nei commenti, per cui acquisterò il libro.
@Evento…credo di sapere chi è quel bambino… comunque, e per esperienza, allo spirito del cognome si risponde in un modo solo: evitando di chiamarlo per nome. Pare che tra i fantasmi funzioni così.
Sarebbe bello leggere qualche brano del romanzo. E’ possibile?
@ Cara Antonella, per incrementare i desiati “dindi o lilleri”, poiché come si dice a Siena in dialetto etrusco… maccheronico:- “Senza lilleri non si lallera”, ho segnalato il romanzo nel mio sito in alto sez. – Benvenuto -.Poi spero di leggerlo presto.
@ Simona, mi è piaciuta molto l’espressione di tuo figlio” Lo spirito del cognome” voglio intenderla come una frase augurale sperando che nel mio, di stirpe lucana, ci sia una tenue fiammella di luce. Dai a Gianni un bacio da parte mia.
@ Massimo, un doveroso abbraccio al più squisito e galante -” Uomo del Sud” brindo a te dolcezza, con una liquorosa Malvasia di Lipari.
Già brilla e con lucida pupilla, Vi saluto
Tessy
QUELLO CHE HO SCRITTO SUL MIO BLOG
Cosa porta un donna di 80 anni a tentare il suicidio? È questa la domanda da cui parte Antonella Cilento in “Isole senza mare”. Una domanda che porterà il lettore a conoscere luoghi e persone. Ma la domanda più profonda del libro è un’altra: Da dove vengo? Sono il frutto dei miei avi? Domanda impegnativa! E Antonella Cilento in questo suo libro “Isole senza mare” inizia un viaggio per capire chi sono le donne della sua famiglia e come hanno affrontato la vita. Il libro potrebbe sembrare solo una riuscita ricerca storica invece fortunatamente non è solo quello, è molto di più. È un libro sulle donne che cerca di andare in fondo alle cose e non vederle solo superficialmente. Antonella Cilento cerca di capire e comprendere la vita delle donne della sua famiglia per comprendere e affrontare meglio la sua. Trovare un libro di questi tempi che parla di donne in modo intelligente è cosa rarissima (non stuzzicate la mia vena polemica su come trattano le donne i mezzi di comunicazione sennò è la fine) ma io leggendolo ho trovato sentimenti e situazioni che ancor’oggi la donna vive: la violenza sociale, l’arroganza degli uomini, la testardaggine delle donne ad innamorarsi di certi uomini, la mancanza d’amore o la privazione della maternità, sono cose che arrivano da lontano ma che tutt’ora viviamo sulla nostra pelle.
BRAVA ANTONELLA!
Cara Antonella, anche tu hai frainteso. Non volevo conoscere l’importo degli euri che guadagnerai dalla vendita del romanzo. Ma, prevedendo che sarà in linea con quello scarso che in genere si ottiene scrivendo romanzi, chiedevo: cosa ti spinge a sobbarcarti in una fatica decennale che non ripaga sul piano economico? In cosa consiste la molla che ti spinge a non mollare? Qual è il “tuo” segreto di tanta cocciutaggine?
Rispondo a una delle domande di Massimo, poiché, sebbene dalle recensioni il romanzo ne risulti bello, non l’ho letto; + aggiungo qualche domanda ( di cui una quasi ovvia da parte mia…) per Antonella Cilento.
Sul concetto di sentirsi “isole” dentro, penso che lo siamo tutti, con o senza amore. L’amore consola moltissimo, ma alla fine si è sempre abbastanza soli.
@Antonella
Le due donne, Nina e Aquila ( mi incuriosisce anche molto l’origine di questo nome- che fa pensare a una donna molto intelligente, evidentemente..) hanno due destini diversi o due destini simili? Sembra siano simili, ma non ho capito in che senso ( restano sole per il resto della loro vita?) In che modo le loro vite si incrociano?
Come mai una delle due va( dovrei scrivere “viene”..) “in esilio” in Sardegna? E’ una terra d’esilio? In quale epoca arriva qui? Alla dell’800? Come trascorre il suo tempo qui? ( si può raccontare?)
Sì, la nostra è abbastanza una “terra d’esilio”, prima di tutto perché è un’isola, appunto; poi perché queste “dure rocce” che sembrerebbero caratterizzare una delle due donne sono ovunque e da “dura roccia” è il carattere delle “antiche” donne sarde. Ora non è più così ( se non in alcuni luoghi dell’entrorterra) a causa dell”omologazione” diffusa. Non so se questo è un bene oppure no.
Mi scuso: volevo scrivere: “alla fine dell’Ottocento”.
@ Cara Roberta, volevo ringraziarti per il commento dei precedenti blog.
Sono sempre in ritardo, ho cercato il tuo sito per scriverti e scusarmi della mancata risposta, ma mi segnala – non trovato –
Si, le donne sarde antiche e non, sono “dure rocce”. Ho però avuto la fortuna e il privilegio di trovarne alcune tenerissime.
Ciao
Tessy
Buona sera (o meglio… notte) a tutti!
Un ringraziamento per i nuovi commenti e un saluto di benvenuto ad Anifares.
@ Roberta
Penso che le tue domande siano interessanti. Attendiamo le risposte di Antonella.
Nel frattempo mi preme condividere con voi altri contributi e punti di vista su “Isole senza mare”.
@ Tessy
Cara Tessy,
ti leggo sempre con molto affetto. Non importa per la “non-risposta”, figurati. Chiedo a Massimo se può mandarti la mia mail, e se tu vuoi mandarmi la tua, così ci scriviamo, se ti fa piacere.
E’ difficile individuare gli aspetti principali di una “categoria” di persone che appartengono allo stesso “gruppo sociale”, diciamo così. Io sono profondamente convinta che esistano principalmente “tipi” umani ( è una convinzione non indotta dall’esperienza personale, ma dalla lettura dei “moralisti” francesi… fino a Balzac… che mi hanno fatto osservare gli umani con altri occhi); neppure la differenza da individuo a individuo mi convince molto, sebbene ciascun individuo ( e non solo umano, vorrei dire) è diverso da un altro. Ho spesso pensato all’influenza dell’ambiente ( e anche qui l’interpretazione è quasi prettamente in chiave “realista”); eppure neanche la determinazione esclusiva dell’ambiente circostante mi convince, perché mi sembra sempre che una componente dell’indole ( o del DNA) sia presente ( questa osservazione: per esperienza diretta).
Tutto questo per dire che forse le “donna sarda- roccia” non esiste, oppure non esiste più. Io ne ho conosciuto una anni fa: piccolissima, una vera “matriarca”: Non so se per la sua famiglia fosse importante il suo ruolo di “guida”, so solo dirti che francamente questo suo “comandare” (da noi si dice proprio “comandera”..)non mi piaceva granché, perché comportava una certa sottomissione da parte di altre persone e tutta la “scenetta” a cui ho assistito mi sembrava un pò “assurda”. Certo, forse il suo atteggiamento atavico aveva una funzione, chissà, nei millenni addietro.
Mah.
ciao baci
R.
@Caro Massimo
Grazie:)
Buonanotte anche a te:)
Ecco un nuovo contributo firmato da Mariano Cervone (commento a seguire…)
Ciao Roberta…:-))
Un potente romanzo al femminile (Roma – 25/3/2009)
di Mariano Cervone
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Si intitola «Isole senza mare» il nuovo lavoro di Antonella Cilento, presentato al Forum Fnac al Vomero. Un piccolo evento letterario, che ha attratto molti lettori, desiderosi di conoscere personalmente l’autrice e di far firmare la propria copia del libro. È una storia di ampio respiro, che ricorda i grandi romanzi storici di fine Ottocento, narra di due donne le cui vite e destini camminano parallelamente; sullo sfondo le vicende di un’Italia lontana ma quanto mai attuale. A cavallo tra Otto e Novecento italiano, il libro si apre con la storia di Aquila (si pronuncia Achìla), giovane donna decaduta in povertà che si trova costretta ad abbandonare la Spagna, vende se stessa e che cerca il riscatto sociale diventando l’amante del marchese Campana, un collezionista di arte. Il suo però sarà un amore che la trascinerà in un baratro di ossessioni, vendette e fantasmi del passato. Ultima discendente di una dinastia di donne che fuggono dalla Spagna, è Nina, ultraottantenne, che ha vissuto gli anni duri del Fascismo e una difficile intimità familiare. Protagoniste assolute di questo romanzo sono dunque due forti identità femminili, donne esiliate da sé stesse, che vivono la condizione dell’ “amore impossibile”, come dice il giornalista Generoso Picone, intervenuto insieme a Francesco Durante, alla presentazione del libro: «Il libro di Antonella Cilento rappresenta la soglia della consapevolezza della scrittura » dice Generoso Picone, tessendo grandi lodi per la straordinaria maturità raggiunta dalla Cilento, con una scrittura che sa compartire momenti diversi pur mantenendo la tensione. Il romanzo della Cilento è parzialmente autobiografico. Pur non raccontando strettamente la storia della propria famiglia, la Cilento si ispira per gran parte alla storia di una prozia: «Non è un album di famiglia – spiega Picone – ma un romanzo familiare, con parte della famiglia. Non c’è verità, ma autenticità, misurandosi con il dolore e i sentimenti che abitano le donne e le porta ad una consapevolezza – e aggiunge – Ripercorre il filo della storia che si perde negli anni, tra passato e presente, andando ben oltre la pagina scritta che la racconta». A rievocare le pagine del romanzo, è intervenuta Giorgia Palombi, che ha offerto ai presenti una straordinaria interpretazione di alcuni estratti del libro. Nelle parole della Cilento c’è vigore, poesia, una narrazione a tratti folcloristica che rievoca vividamente sentimenti e situazioni. L’autrice parla della nascita del suo amore per la scrittura, attraverso un linguaggio coloratissimo e figurato che travolge sin dalle prime pagine il lettore. «È uno dei più bei libri scritti a Napoli negli ultimi decenni – dice Francesco Durante – in totale ci sono almeno tre piani temporali, composti da Aquila, Maddalena e Nina e la stessa autrice alle prese con questo romanzo». Ad intervallare la narrazione infatti è la stessa autrice, che di tanto in tanto prende la parola con maestria, che ci porta nella Napoli degli anni ’80, flagellata dal terremoto, o ad Ischia, quando con la famiglia vi andava per le vacanze, ed ascoltava quelle storie che sono via via confluite nel suo romanzo. «Il romanzo – prosegue Durante – ha la bellezza e la potenza di un grande film in costume, ambientato nel tardo Ottocento romantico» e entusiasta, reggendo una copia del libro tra le mani dice: «Un libro così oggi non sono in molti a scriverlo». A prendere finalmente la parola è la stessa autrice, visibilmente emozionata e contenta per un lavoro di ricerca durato oltre dieci anni: l’idea del libro nasce infatti da un racconto breve scritto dall’autrice nel 1998, che conteneva gran parte del livello autobiografico poi utilizzato nel romanzo. Il racconto avrebbe dovuto comporre una raccolta della stessa autrice. «L’ho trattenuto e ci ho continuato a lavorare ed ho scelto di concentrarmi sul piano femminile – dice la Cilento – sono cresciuta con i racconti ossessivi di una nonna sulla storia familiare, a volte incompiuti e inattendibili: nessun dato infatti è confrontabile con la realtà, non c’era la possibilità di sapere quale fosse la verità ». L’autrice inizia così a lavorare, a plasmare queste storie, ad intrecciarle come un’abile tessitrice, rattoppando talvolta i vuoti, arricchendole di una straordinaria parte finzionale. La Cilento infatti miscela personaggi storici realmente esistiti con personaggi di pura fantasia. Una storia dolente, che non ha un acceso realismo, ma attraverso lo specchio della finzione i personaggi vengono raccontati nel loro profilo più autentico. «È importante staccarsi dai modelli – prosegue Antonella Cilento, riferendosi ai grandi modelli che l’hanno ispirata – che però ci sono, così come è importante staccarsi dalla famiglia, che però c’è. È così che è nato “Isole senza Mare”».
Buon sabato a tutti.
Vi auguro di trascorrere il fine settimana su bellissime isole circondate dal mare:-))
Ho seguito il post con vivo interesse.Non mi resta che acquistare il libro di Antonella e tuffarmi nella lettura.
mi avete convinta. “isole senza mare” sarà il mio romanzo per l’estate. essendo bello lunghetto mi accompagnerà per tutte le vacanze.
1 – Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?
Quando amiamo diventiamo penisole: circondate sempre dal mare del mondo e degli altri, di noi stessi e di ciò che ci trascende, ma legate alla vita da una lingua di terra. Stessa cosa quando si scrive. Io mi sento Mont Saint-Michel, che mi affascina dai tempi della geografia astronomica studiata a scuola. A seconda delle maree, penisola o isola.
2 – Isole senza approdo, anche. Perchè se non c’è mare, non c’è riva. Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?
Nostos in greco vuol dire ritorno e noi tutti soffriamo di nostalgia: di un approdo, di un passato, di un futuro. Non c’è viaggio senza ritorno.
3 – Isole senza tempo. Le generazioni che sfalsano e scombinano destini.
Il tempo che scorre è solitudine? È compimento?
Entrambe le cose. Le generazioni che si susseguono compiono un destino simile a quello dei nodi dei tappeti: disegni che si compiono dopo tagli, incroci, sovrapposizioni.
4 – Isole senza viaggio.
Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?
Nell’immaginazione e soprattutto nel continente misterioso e inesplorato che siamo noi stessi. Sto scovando miniere insospettate dentro di me mentre scrivo.
1 – Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?
L’essere umano, per sua natura, è fondamentalmente egoista e perciò è solo e anche quando ama stabilisce un rapporto in cui soppesa il dare e l’avere, senza mai dare spontaneamente completamente tutto. A maggior ragione quando scrive: esistono solo lui e il parto delle sue idee.
2 – Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?
Il ritorno non esiste, la nostra vita è un viaggio in cui il ritorno è il ricordo.
3 – Il tempo che scorre è solitudine? È compimento? Il tempo è un’invenzione umana ed eventualmente serve a misurare la nostra solitudine, e non è per questi motivi nemmeno compimento.
4 – Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?
Si può viaggiare sempre restando fermi nello stesso posto. Il viaggio è dentro di noi ed è da lì che nasce la scrittura.
Grazie mille a Martina e a Giulia…
E grazie a Maria Lucia e a Renzo per le risposte fornite.
Sono molto diverse (a parte l’ultima)…:-))
Evidenzio i seguenti passaggi del pezzo di Mariano Cervone:
Generoso Picone: «Il libro di Antonella Cilento rappresenta la soglia della consapevolezza della scrittura »
Francesco Durante: «È uno dei più bei libri scritti a Napoli negli ultimi decenni »
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Antonella… quando due esperti di letteratura (e letteratura partenopea) come Picone e Durante si esprimono in questo modo… be’, cosa vuoipiù dalla vita?
Per chi volesse sentire la voce di Antonella Cilento che parla di questo suo libro…
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=282602
Una buona domenica a tutti.
antonella, hai una bellissima voce. brava 🙂
mi scuso con massimo se non ho ancora risposto alle domande
@ Roberta cara, grazie per la esauriente risposta, ciò che scrivi è molto giusto. Sono una vecchia ragazza di ieri e i nostri genitori, per evitarci
esperienze negative spadroneggiavano su tutte le scelte.
Anch’io mi sono spesso ribellata alle loro pressanti imposizioni.
Ora con i miei figli, mi sforzo di essere tollerante ed aperta , ma ti confesso che non sempre ci riesco!
L’indirizzo della mia posta elettronica è:- teresa@scibona.org
la trascrivo qui, perché è già segnalata nel mio sito.
Se e quando vorrai potrai scrivermi la tua.
@ Simona mia cara, ti riconfermo gli auguri per la premiazione di domani
sarò spiritualmente a gioire con te.
Saluti a tutti e al Massimo padrone di casa.
Tessy
Sto leggendo il libro di Antonella Cilento. Davvero notevole. I miei complimenti.
Carissime/e,
torno ora da un tour di presentazioni di Isole (il tendone letterario di Genova: bellissima esperienza con la bravissima Grazia Casagrande di Wuz.it, portale da visitare…; il Festival di Salsomaggiore organizzato da Mariangela e Eleonora Guandalini: una serata strepitosa, conclusa da un grandissimo concerto/spettacolo con Paola Turci e il meraviglioso danazatore Giorgio Rossi; e infine la Ubik di Cosenza, dove il dibattito sulle Isole senza mare è stato fra i più caldi e fecondi) e subito mi precipito a rispondere alle belle domande che si sono accumulate.
Allora, per Felice che mi chiede chi me lo fa fare e dove trovo la mia cocciutaggine: grazie di questa domanda, perdona se avevo frainteso. Non è facile spiegare: è proprio che non posso farne a meno, non posso fare altro che scrivere e scrivere quel che veramente ho bisogno e credo si debba scrivere. Anche se non si guadagna, anche se ai premi vedi passare avanti persone legate a logiche di squallido potere, anche se si fatica afarsi capire dagli editori, anche se si vive in un tempo che alla passione e alla coscienza non crede, preferendo l’opportunismo dell’istantaneo. A volte la disperazione mi prende, è inutile negarlo, ma in nessun caso penso di poter smettere: è come respirare, sarebbe come morire sottrarsi all’invenzione. Dunque la cocciutaggine, come tu scrivi, è semplice istinto di sopravvivenza: per sopravvivere io ho bisogno di raccontare storie. E di farlo con un certo grado di serietà e consapevolezza. Una parola, dopo l’altra, senza speranza e senza disperazione, come scriveva Karen Blixen.
A Roberta che mi chiede alcune cose, invece: Aquila è comparso come nome all’improvviso, Credo abbia a che fare con la protagonista del mio primo romanzo inedito, L’Eretico, dove una giovane spagnola aveva sopracciglia come ali d’aquila. E’ il nome di una santa martire cristiana, il che mi sembrava utile per una ebrea convertita. E sì, mi fa pensare a una donna intelligente (i detti popolari hanno sempre un fondo di verità). Comunque i nomi compaiono lampeggianti nell’immaginazione come led luminosi e non posso fare a meno di seguirlo. Spesso arrivano, per me, prima i nomi.
Per i rapporti fra Nina e Aquila: senza dirti troppo, perchè occorre leggere il romanzo per capire i vari livelli di intreccio, il rapporto fra le donne è di natura sentimentale (entrambe deluse dall’amore e tradite dai loro uomini; entrambe sole, entrambe esiliate) e poi concreta: Aquila è cresciuta da una governanate che è una trisavola di Nina.
Aquila fugge dalla Spagna esiliata perchè di origine ebrea, Nina è sarda (di La Maddalena), ma i suoi antenati vengono dalla Spagna esiliati perchè ebrei. La Maddalena è una terra d’esilio (la Sardegna era il carcere dei Romani ed è stato luogo di esilio politico fino al Fascismo) e la Sardegna ha una lunga tradizione letteraria in questo senso (da Deledda a Dessì a Atzeni): la mia esperienza sarda, mia nonna, i miei zii, la mia silenziosa bisnonna (nel romanzo ha il suo vero nome, Maria Azara) parlano di donne di granito e di donne fatte di pasta di mandorle. Durissime o dolcissime, ma tutte molto sole. Rileggevo in questi giorni La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani e il suo viaggio per visitare i luoghi della Deledda che spesso parla di questa solitudine, che brillantemente Luigi ha nominato “isolitudine” nel suo articolo e durante la bellissima serata romana con Francesco Costa e Lia Levi. Una durezza animata da un potente mondo fantastico. Tu dici che ora la Sardegna, come ogni altro luogo al mondo, produce donne omologate e io ti credo: le mie donne sono antiche, sai. Mia nonna Maddalena, che nel romanzo ne combina di tutti i colori, il prossimo anno compie 99 primavere. Il suo è un mondo parallelo, lei vive su Marte. Questo romanzo l’ho scritto anche per visitare il suo mondo, che non capivo. In questo senso ho forse scritto un romanzo di fantascienza…
Vi abbraccio forte.
Grazie a Massimo per tutte le citazioni, per aver recuperato il link di Fahre, per l’affetto e il tributo. Auguri a quanti leggeranno Isole quuest’estate e grazie: poi mi farete sapere le vostre impressioni?
Bacioni e buona notte:-))
Oopss… Mi accorgo ora di aver dimenticato a mia volta gli auguri per Simona per domani: buona premiazione!
@Antonella
grazie per le belle risposte:)
Sì, Atzara è anche un piccolo comune della provincia di Nuoro ( famoso per gli arazzi).
Le donne come la tua nonna: difficile non restarne affascinati ( anche se non sono le nostre proprie nonne).
Carissima Antonella, grazie per i tuoi nuovi commenti e per le risposte.
Come vedi l’ora è un po’ tarda, ma domani inserirò ulteriori contributi.
Intanto (se credi e se ti è possibile) perché non inserisci una pagina (o anche più) tratta dal tuo libro?
–
Ne approfitto per augurare una serena notte a tutti.
Ecco qualche pezzetto del libro. Su Nina:
“… Ho iniziato a scrivere questo libro quando Nina, pochi mesi dopo, è morta. I morti ci seguono, sono la nostra coda di drago. Ci spingono, ci trattengono, se ci voltiamo scompaiono.
Ognuno di noi è come Orfeo.
Poiché non sapevo abbastanza di Nina e l’avevo tanto amata, poiché non saprò mai abbastanza di Maddalena, sua sorella, o dei miei genitori – dei nostri genitori non sappiamo mai abbastanza – li ho cercati come fossero personaggi di una storia. E altri se ne sono aggiunti alla mia coda: fantasmi, ombre, persone. Questo non è un libro di famiglia perché il passato è inventato e il reale si confonde con la fantasia, perché ci sono verità che possono essere dette solo così e perché ogni memoria è gratuita. Fra i personaggi che non hanno vissuto nella realtà ma solo nella mia immaginazione e quelli che ho incontrato di persona non so più distinguere e non m’importa: ognuno è a malapena il suo stesso libro.
(…)
La Maddalena della mia infanzia è mare trasparente come un pensiero primo. È verde intenso di mirto, granito rosa bollente, profumo di formaggelle, spiagge vuote e silenziose. Si arrivava al mare faticosamente percorrendo strade senz’asfalto. Spalmatore, Punta Rossa, Monte d’Arena, Carlotto, il Polipo: sudati e storditi, con l’ombrello aperto per non scottarci, allunavamo sulla sabbia finissima e argentata, color tuta di astronauta, che scivolava sotto una tavola d’acqua trasparente. Punta Rossa era una spiaggia magra e lunga come una costola di capra, spinta a lama nel celeste. Era chiamata anche I Due Mari, perché l’acqua era tempestosa a occidente, calma e cristallina a oriente. Sul fondale fiorivano colonie di coralli e rarefattissime alghe a pennello. Il mare, lì, era sempre gelato: «¡Oggi i pesci vanno in cappottino!¡» si esclamava ogni volta, all’arrivo.
Le estati della memoria sono invase dal profumo antico e materno della farina lievitata che emanava dal bancone del pastaio dove acquistavamo gli gnocchetti sardi e dall’odore del ragù di Nina, alla cui tavola mangiavamo avvolti nei pareo come i Tuareg. C’erano penniche detestate durante le quali, costrette al silenzio per non disturbare il sonno dell’arsura, inventavamo giochi e scoprivamo il corpo in solitudine e passeggiate pomeridiane su corso Garibaldi, trascorse a spiare nelle vetrine fedi sarde disegnate a bolle d’oro come schiene di conchiglia, a provare costumi e paglie fra ruote di cartoline. Volevamo sempre entrare nel negozio dei formaggi per spiare i vermi sotto le forme di pecorino. Era un rito, a sera, guardare con Espedito, il marito di Maddalena, Giochi senza frontiere, o assistere Nina che preparava il vino con l’idrolitina. La domenica si andava a pranzo in un ristorante senz’insegna, isolato nel deserto di granito come un miraggio.
Levavo le scarpe per tenere i piedi nella sabbia di nascosto, sotto le lunghe tovaglie bianche. Arrampicate sulle sedie, sgranocchiavamo malloreddus, ròse dalla voglia di scappare.
I romanzi, che avevo sempre con me, si spugnavano di sale e si schizzavano di sugo. Un agosto lessi di seguito ben ventuno gialli di Agatha Christie, perché erano tempi di adolescenza silenziosa, di paesaggi del pensiero disattenti al mare e di parole sfuggenti, con cui far tacere l’affetto degli altri. È nata qui l’ansia di scrivere.”
E su Aquila:
” (…) Per quanto strano fosse, ricordava alla perfezione la prima volta. Era nella culla quando la mano, bianchissima, si era posata sulle lenzuola macchiate di pianto e bava. Poi una faccia, che non apparteneva né ad Augusta né a Erberta, si era sporta a guardarla. Era la faccia di una bambina molto più grande di lei, dai capelli lunghi e bagnati. Sembrava un’annegata. La bambina aveva teso la mano verso Aquila e l’aveva sfiorata. Aveva dita di fumo, gelate al tocco. Aquila era scoppiata a piangere di colpo, come un cannone. L’allarme era stato così improvviso che subito c’era stato trapestio nei corridoi ed Erberta aveva spalancato la porta. La balia si era affacciata alla culla ma non aveva visto l’altra, che continuava a fissarla senza gioia. L’aveva presa in braccio per ninnarla e la bambina dai capelli bagnati, dopo un ultimo sguardo, s’era voltata ed era corsa via, verso la corte esterna, fra le capre, all’inseguimento di chissà quali giochi sconosciuti e interrotti.
Da quel giorno non aveva mai smesso di apparire. Succedeva sempre quando Aquila era sola: sedeva con lei in cucina quando mangiava la panna, la fissava da dietro le grandi vetrate dei saloni, ciondolava intorno ai camini barocchi che in estate erano spenti ed entrava fra le fiamme quando erano accesi, in inverno. Si era abituata a lei, anche se ne aveva paura. Nessuno alla Santa Matrèia parlava di lei, nessun altro sembrava vederla. Ma questo, Aquila avrebbe potuto dirlo anche di se stessa, abituata com’era a vivere in silenzio e in esilio. Aveva battezzato l’amica Secunda, perché ogni bambino è convinto d’essere il primo venuto al mondo.”
Volevo solo aggiungere un piccolo contributo. Antonella è l’unica scrittrice italiana capace (parafrasando un titolo della Ortese) di angelici dolori: l’ho intuito quando ci siano conosciuti a Napoli, alcuni anni fa. E’ una persona rara, delicata e caparbia, forte della convinzione che la vita (e la letteraura) sono in bilico perenne tra i toni dell’immaginazione (della visione) e della straziata esigenza del reale.
Cara Antonella,
grazie per averci donato questi bellissimi brani.
Mi permetto di inserire ulteriori “contributi” su “Isole senza mare”.
Quello che segue è firmato da Giovanni Choukadarian
Giovanni Choukadarian, IL GIORNALE
29 marzo 2009
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“Da una finestra ha spiccato il volo. Ha lasciato Aldo addormentato, che si rigira nei disturbi dell’asma. Tutte le notti lo chiama: Nina, sto male, non respiro. E lei si alza in fretta e va a cercare lo spray. O lo scuote forte con una mano, come se questo bastasse a calmare la crisi”. Nella presente nota di servizio si cercherà di mostrare come Antonella Cilento riesca in “Isole senza mare” (Guanda, 368 pagine, 17 euro) a raccontare, attraverso 2 vite di donna, le 3 virtù teologali (fede, speranza, carità) e le 4 cardinali (temperanza, fortezza, giustizia e prudenza) – lontana con discrezione da ogni fideismo di risulta, sempre tuttavia prossima ai territori che più le si confanno, cioè quelli del sacro e del mito. La storia. In scena compaiono, e si alternano in corso di narrazione, due donne. Aquila Veridiana Sanchez è figlia di Ireneo de Aranda, conte di Santangèl, sposato a Augusta Ilaria, da nubile (ma, strenua finezza, Cilento scrive “da giovane”), contessina Sanchez, che lascia la terra madre spagnole nel 1827, a 6 anni. L’altra è Nina, ottuagenaria, ultima di una piccola schiera di donne del Novecento, che hanno la loro patria perduta ad Azara, sui Pirenei. Nina viene presentata nel momento di un tentato suicidio, Aquila in quello dell’abbandono della casa natìa. Due lutti a confronti, due donne intimamente drammatiche. In quanto drammatiche, sono anche donne d’azione, legate alla realtà dei fatti in quanto tali. Da queste considerazioni solo in apparenza elementari Cilento fa discendere una prosa di precisione chirurgica, capace di spiazzare costantemente l’attesa del lettore. Succedono, in queste pagine, tutti i fatti ordinari nella vita di una donna: amori, tradimenti, ansie, dolori, felicità; tutto, davvero. Il “mastice che tiene insieme” è, come anticipato, di natura metafisica. Sia Aquila sia Nina riescono a decrittare il mondo usando della fede nella persona umana. Non tutto ciò che è reale è razionale, di certo è accettabile tutto quello che viene dall’uomo, compresi i suoi mostri e i “tèttari”, i “morti stecchiti (…) che restano nella mia stanza a disegnare un mandala, a fabbricare un formicaio, a mettere ordine nella trama” – ma anche, e con anche maggiore chiarità: “I morti ci seguono, sono la nostra coda di drago. Ci spingono, ci trattengono, se ci voltiamo scompaiono. Ognuno di noi è come Orfeo”. Magistrale. Avrebbe potuto scriverlo Giuseppe Conte o Auerbach al capo 10 di “Mimesis”, là dove parla del cinquecentista provenzale Antonio de la Sale. Non sembri fuori luogo il rimando all’Auerbach. Antonella Cilento fa uso di autentico realismo creaturale in cui, spiega il sommo romanista berlinese “la rappresentazione della vita reale e attuale si rivolge, con particolare amore e con grande arte, alla vita familiare e intima, casalinga e quotidiana”. Da donna, Cilento aggiunge l’attenzione per la famiglia, vissuta come sentimento e istituzione insieme. Antonella Cilento, nata a Napoli nel 1970, è “nigra sed formosa”, al modo della Sulammita del Cantico dei Cantici. Nessuno oserà pensare che si parli qui e ora di lei in quanto è, per l’appunto, “formosa”: resta il sospetto che una tale grazia di scrittura possa discendere anche da una buona coscienza anche di quest’aspetto. Esito eccellente, miglior risultato in 9 anni di gà vivida carriera nelle Patrie lettere.
Poi c’è quest’altro di Anna Toscano su Alleo:
http://www.alleo.it/content/antonella-cilento-isole-senza-mare
Ne approfitto per salutare l’ottimo scrittore Davide Barilli (poc’anzi intervenuto)…
Anticipo che Davide Barilli sarà presto ospite di Letteratitudine per discutere del suo nuovo romanzo… questo:
http://www.mursia.com/romanzi_mursia/le%20cere%20di%20baracoa.html
Libro interessante, non c’è che dire, e scrittrice ottima.
Nell’intervista di Simona Lo Iacono ad Antonella Cilento, mi ha parecchio colpito l’affermazione (risposta) di Antonella riguardo alle protagoniste del romanzo: Nina e Aquila, sfortunate in amore. Ovvero: “Fanno insomma quel che molte donne fanno nella loro vita: proiettano la realizzazione di sé, anche quando si tratta di donne intelligenti e impegnate, realizzate in altri ambiti, sulla figura dell’Amato”.
Verissimo. Ma io aggiungerei che per questa ragione l’amore – sfortunato o no – è sempre e comunque un’ossessione, dal momento che rincorre – nella sua fattispecie – un’illusione, un sogno. Sì, un sogno, una mèta irraggiungibile, un’utopia.
D’altronde, l’inquietudine che ci accomuna senza tregua, tutti indistintamente, da che cosa nasce? Nasce dall’ossessione di realizzare appunto un sogno, un’utopia. Ammantati d’amore.
Un caro saluto.