Nuova puntata di Letteratitudine Cinema con nuovo intervento di Alessandra Montesanto: critica cinematografica, docente e saggista.
In questa puntata ci occupiamo del ruolo del Cinema del regista sudcoreano Kim Ki Duk
* * *
Il Cinema tragicamente poetico di Kim Ki Duk
Un’esistenza travagliata quella del regista sudcoreano Kim Ki Duk, deceduto a soli cinquantanove anni a causa delle conseguenze del Covid-19, durante un soggiorno in Lettonia. Un triste epilogo dopo lo scandalo #Metoo in cui il cineasta era stato accusato di molestie sessuali a danno di alcune attrici durante la lavorazione di un film.
Vogliamo scindere la persona dall’artista perché Kim Ki Duk entra nella schiera dei registi cult grazie al suo Cinema coinvolgente, passionale, arguto e poetico, di quella poesia che i veri intellettuali (asiatici e non solo) sanno regalare al mondo.
Parleremo, in questo brevissimo excursus, di tre suoi film, forse i più rappresentativi, interessanti per il senso vivo della cultura e dell’indagine dell’animo e della coscienza umani.
Il grande successo arriva nel 2003 con il film intitolato Primavera, estate, autunno inverno e ancora… Primavera che segue L’isola, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, una rappresentazione cruda e iperrealista di una relazione uomo-donna, relazione che si svolge in un isolato villaggio galleggiante e che vede i protagonisti utilizzare gli ami da pesca (conficcati nella vagina di lei, nell’esofago di lui) per simboleggiare il dolore e la follia di un amore esclusivo e simbiotico. Nel film ritroviamo l’inquadratura ricorrente di una chiatta con un tempietto posizionato sopra, sempre immersa in un placido lago; un bambino cresce, diventa adulto, sarà un monaco e, da anziano, si prenderà cura di un altro bambino. Folgorante e intensa messa in scena della filosofia buddista che suggerisce l’idea della circolare eternità della vita (quella che il mistico Raimond Pannikar definisce la “tempiternità”) per cui non bisogna temere la morte se dopo la fine corporea entriamo nella dimensione cosmica a cui apparteniamo, sotto forma di Spirito immanente. Kim Ki Duk si allontana, quindi, dalla crudezza, dal sacrificio della carne, per fare un’elegia del pensiero filosofico, orientale e occidentale. Il bambino protagonista del film, infatti, dopo aver scoperto gli istinti sessuali decide di abbandonare la chiatta per recarsi in città insieme alla ragazza di cui è innamorato; finirà in prigione per un crimine passionale e farà ritorno al tempio in cerca di redenzione. Una deriva moderna, quindi, che increspa la pace interiore a fatica interiorizzata e ancor più difficilmente recuperata nel percorso del bambino-ragazzo-Uomo e puntellata da numerose figure e immagini simboliche: il fardello cristologico da portare sulle spalle, il tirare la corda, l’allontanamento dall’Eden e la legge del contrappasso (propri della cultura cristiana e il rimando al tema della colpa); l’alternarsi delle stagioni e la ciclicità del Tempo, la condizione eremitica e meditativa, gli ideogrammi dipinti a inchiostro e poi intagliati nel pavimento e colorati (propri della cultura buddista). E poi ancora: il silenzio, una porta che si apre all’inizio del film (e che svela un mondo “altro”, per ricordare la stanza in Stalker di Tarkovskij), l’acqua benedicente e rigeneratrice perché, nonostante la corruzione dell’anima – congenita all’Uomo – quella porta si potrà riaprire sulla primavera.
L’anno successivo, nel 2004, esce un nuovo lavoro del regista, opera cinematografica poetica, elegante e, allo stesso tempo, spiazzante. Tae-suk, questo il nome del protagonista, è un giovane che ha l’abitudine di intrufolarsi nelle abitazioni degli altri, di prendersene cura come se fossero sue. Un giorno entra in un appartamento di lusso in cui vive una ragazza, Sun-hwa, vittima di un marito volgare e aggressivo. All’inizio la donna spia quella strana e dolce figura che è venuta ad abitare con lei gli spazi, poi gli si rivela. Tae-Suk affronta il marito della giovane donna, lo colpisce con forza con una mazza da golf – il Ferro 3 che dà il titolo al film – e poi scappa con la ragazza, iniziando una fuga romantica durante la quale si nascondono ancora abusivamente nelle abitazioni di estranei fino a quando il nostro protagonista verrà arrestato. In cella, si allena per sviluppare la tecnica dell’invisibilità. Una volta uscito dalla prigione, Tae-suk torna a casa di Sun-hwa e i due continueranno ad amarsi, alle spalle del marito di lei, ignaro della presenza del giovane nella loro vita coniugale.
Una storia d’amore narrata solo con gli sguardi, i movimenti dei corpi che sembrano fluttuare nello spazio, nel mutismo denso di significati; dialoghi rarefatti che non coinvolgono i giovani amanti perché il vero Amore non ha bisogno di parole. Tae-suk cerca, nelle abitazioni altrui (la casa, in psicologia, è la casa interiore) pace e armonia, forse proprio quella che non trova nel mondo esterno, cacofonico e violento. E’ un continuo passaggio tra vuoti e pieni, tra silenzio e rumori, tra dentro e fuori quello in cui si muove la cinepresa di Kim Ki Duk per descrivere emozioni e sentimenti nella loro essenza; un occhio disegnato sul palmo della mano e una collezione di fotografie, via via decomposte, sono i segni di un codice simbolico che rimanda alla saggezza a cui si giunge grazie alla meditazione e grazie al dissolvimento delle apparenze. Un film sulla solitudine e sulla corruzione del mondo contemporaneo, sulla possibilità di recuperare le relazioni tramite la capacità di lib(e)rarsi (come dalla cella) dalla materialità per farsi aria, come Tae-suk angelo custode, per farsi sentimento e cura.
E, infine, avvicinandoci ai giorni nostri, nel 2016, parliamo di uno dei film più politicizzati dell’autore asiatico: Il prigioniero coreano. Un dramma ambientato durante la guerra fredda tra Corea del Sud e Corea del Nord. Il cineasta abbandona le tinte forti de L’isola di Moebius per girare la storia di un anziano del nord che ogni giorno si reca a pescare al confine tra le due Coree sotto la sorveglianza dei militari, ma in una di queste occasioni, la corrente spinge la sua barca verso le acque dell’area proibita e l’uomo viene fatto prigioniero. Sarà, poi, costretto ad una fedeltà integerrima e a condurre un’esistenza contraria al capitalismo sfrenato e corrotto.
Tramite una metafora, quindi, il cineasta mostra una Corea del Sud in cui il protagonista non trova un mondo ideale, anzi. E suggerisce che l’Uomo si trovi ad essere del tutto insignificante quando viene, suo malgrado, coinvolto nei conflitti e nelle ragioni di Stato.
* * *
________________________________________________________________________________
Credo che sia molto importante, oggi, lavorare con le ragazze e i ragazzi e, per questo, propongo, per le scuole, laboratori anche in Dad di Cinematografia, sul linguaggio filmico e sui temi che, di volta in volta, si vorranno affrontare.
Alessandra Montesanto: (lale.monte@gmail.com – peridirittiumani.com)
________________________________________________________________________________
* * *
© Letteratitudine – www.letteratitudine.it
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo