Per “GIOVANISSIMA LETTERATURA“, lo spazio di Letteratitudine dedicato alla cosiddetta “letteratura per ragazzi“, ci occupiamo del nuovo libro di Sergio Claudio Perroni intitolato “La bambina che somigliava alle cose scomparse” (La nave di Teseo): una fiaba per grandi e per piccoli.
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Sabato 16 marzo Sergio Claudio Perroni presenterà “La bambina che somigliava alle cose scomparse” (La nave di Teseo) nell’ambito degli eventi di BookPride 2019:
– alle h. 10:30 in diretta Instagram (vedi locandina in coda)
– alle h. 12, in Sala Salinger, con Chiara Gatti
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Sergio Claudio Perroni traduce, scrive, cura libri. Ha pubblicato Non muore nessuno (2007), Raccapriccio. Mostri e scelleratezze della stampa italiana (2007), Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale (2010), Nel ventre (2013), Renuntio vobis (2015), Il principio della carezza (2016), Entro a volte nel tuo sonno (2018).
Per i tipi de La nave di Teseo è a poco giunto in libreria il nuovo libro di Sergio Claudio Perroni: “La bambina che somigliava alle cose scomparse“. Si tratta di una fiaba non convenzionale che commuove e diverte adulti e bambini (arricchita dalle illustrazioni di Leila Marzocchi).
La protagonista di questa storia (che è dedicata “A chi ha ancora in sé il sorriso del neonato“) si chiama Pulce, ha sette anni ed è dotata di caratteristiche molto particolari…
Abbiamo incontrato l’autore per chiedergli di raccontarci qualcosa su questa sua nuova opera letteraria…
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«Quella di Pulce è la storia di una bambina alle prese con gli adulti; una favola che, come tutte le favole, si può leggere a vari livelli», ha detto Sergio Claudio Perroni a Letteratitudine: «ogni età ha modo di cogliervi una metafora e di ritrovarsi in un aspetto diverso. D’altronde, per riprendere una bella definizione di Carolina Pernigo, La bambina che somigliava alle cose scomparse è “una storia di formazione a doppio senso”; le vicende di Pulce, infatti, raccontano una duplice evoluzione: da un lato la sua nel corso della storia raccontata, e dall’altro, fuori campo, quella dei genitori, cui il timore di averla perduta fa scoprire l’aspetto positivo proprio di quelle sue caratteristiche che fin lì avevano ritenuto difetti.
È la storia di una bambina che per dissapori famigliari scappa di casa e, nel suo girovagare, si ritrova la strana capacità (strettamente collegata ai suddetti dissapori) di assomigliare a cose cruciali perdute dalle persone che incontra. La metamorfosi in sé è sempre un pretesto per raccontare un contesto – l’amore di due vecchietti, il rapporto difficile di una ragazza con il proprio aspetto, la vita problematica di un nonnino che si sente di peso in casa del figlio e della nuora… – ma nel caso della mia protagonista richiama anche il contesto in cui la maggior parte di noi affronta la vita intesa come rapporto tra la propria identità e il prossimo.
Quasi nessuno di noi, infatti, da adulto è davvero se stesso. Cerchiamo sempre di assomigliare a un io che non siamo, che pensiamo ci rappresenti meglio rispetto a come siamo davvero o a come sentiamo di essere davvero. È un processo di estraniazione che Pirandello avrebbe dovuto ambientare già nella culla, perché inizia sin dall’infanzia, quando i genitori inculcano nei figli l’insoddisfazione di sé invitandoli a seguire esempi circostanti. Ma Pulce è ancora una bambina soddisfatta di sé (ha imparato che “la fiducia in se stessi è un ingrediente fondamentale per averla anche nella vita”), e, stufa di essere sollecitata dalla mamma o dalla nonna ad assomigliare ad altro da ciò che è – ossia a prendere esempio dai fratellini, dai cuginetti o dalle compagne di scuola più disciplinate –, decide di assomigliare a chi vuole lei e per motivi che garbano a lei: sciogliere un dolore, raddrizzare un torto, rimediare in qualche modo a una perdita… E queste cose non le vive con lo spirito della benefattrice o della giustiziera, perché Pulce non è una super-eroina: è solo una bambina curiosa (“quegli occhi lunghi che volevano sempre andare più in là di ciò che vedevano”), e la curiosità, insieme all’infanzia, è uno dei super-poteri più trascinanti. Tant’è vero che Pulce non è consapevole delle metamorfosi con cui diventa ciò che occorre per rasserenare le figure che incontra: è come se dentro di sé desiderasse così intensamente “materializzare” l’oggetto del rimpianto del suo interlocutore, da prenderne la forma, quasi che all’improvviso incarnasse il proprio desiderio di essere d’aiuto a quel personaggio in difficoltà.
Di fatto, Pulce non rinuncia mai alla propria identità, anzi: il suo assomigliare di volta in volta a ciò di cui la vita ha privato quei personaggi è un’involontaria affermazione della sua libertà di essere Pulce senza doversi adeguare ai modelli che cercano di imporle i genitori. Tra l’altro, essendo ancora priva di sovrastrutture, sa bene che quei modelli non sono affatto positivi come sembrano ai “grandi” nella loro miopia (“i bambini sono un concentrato di occhi, mentre gli adulti ne hanno solo due che guardano quasi sempre nel posto sbagliato”). Ed è proprio questa consapevolezza a spingerla a ribellarsi, piccola anarchica che rifiuta l’idiozia conformista di un certo mondo adulto – ossia quello stesso arkè contro il quale si battono de sempre i bambini di ogni epoca. Vincendo solo nelle favole, purtroppo».
(Riproduzione riservata)
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“La bambina che somigliava alle cose scomparse” (La nave di Teseo)
L’icipit del libro e il primo disegno di Leila Marzocchi
Pulce
Pulce aveva sette anni, gli occhi color tatuaggio e un caratterino vivace. A scuola andava bene ma in casa era una peste, o almeno così dicevano i genitori, che la rimproveravano spesso per le sue monellerie. Ma Pulce non se la prendeva: ascoltava i rimproveri con aria contrita, annuiva paziente, scontava l’immancabile punizione… e ricominciava a fare di testa sua.
C’era però una cosa che non riusciva proprio a sopportare, ed era quando la mamma, il papà, o peggio ancora la nonna (che, diversamente dalle nonne delle favole, era come la mamma e il papà centrifugati), invece di lamentarsi per quello che faceva si lamentavano per quello che era. Anzi, che non era.
“Perché non sei come il fratellino, che è così buono?”, “Perché non somigli alla sorellina, che è così brava?”, “Perché non prendi esempio dai cuginetti, che sono tanto educati?”. Quando le dicevano così, per Pulce era come se si rinfacciassero a vicenda di avere ordinato una bambina sbagliata; e temeva che un giorno o l’altro decidessero di impacchettarla e rispedirla al mittente per farsi mandare quella giusta. Allora, preoccupatissima, andava a specchiarsi nell’anta dell’armadio grande e si chiedeva cos’avesse di sbagliato: se fosse colpa di quelle gambette che non riuscivano a stare mai ferme, o magari di quegli occhi lunghi che volevano sempre andare più in là di ciò che vedevano; e, soprattutto, si chiedeva perché mai dovesse imitare quel piscialletto del fratellino, o quella strega della sorellina, o quei due sgorbi dei cuginetti, che la nonna trovava tanto educati solo perché non vedeva le smorfie che le facevano dietro le spalle. Ma siccome era una bambina volenterosa, strizzava forte forte gli occhi e lì, davanti all’anta a specchio dell’armadio grande, cercava di diventare come la sorellina o come il fratellino (i cuginetti no, a diventare come loro non ci provava neppure).
Poi però le sembrava una pretesa troppo assurda farla smettere di essere Pulce per trasformarsi in quei marmocchi rumorosi e inconcludenti, in quella gentaglia che non sapeva neanche fare il giro del salotto saltando da un mobile all’altro o giocare a nascondino con la propria ombra. Allora chiudeva l’armadio e correva a fare apposta qualche monelleria, per riaffermare la propria immutata e incorreggibile natura di Pulce. E così, puntualmente, ricominciava la solita trafila di strilli, rimproveri e punizioni.
Finché un giorno, stufa di sentirsi dire che doveva essere come qualcun altro, Pulce decise di fare quello che sua madre minacciava sempre e non faceva mai. Decise cioè di “prendersi una vacanza”.
(Riproduzione riservata)
© 2019 La nave di Teseo editore, Milano
Disegni © 2019 Leila Marzocchi
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La scheda del libro
“Ma a che ti serviva la nuvola?”
Si chiama Pulce e risolve problemi. Per farlo, ricorre all’antico e desueto stratagemma di porre domande. Interroga chi incontra sul motivo di una paura inspiegabile, di una particolare malinconia, di una speranza tradita. Gira e rigira, le risposte sono altre domande: d’amore o d’amicizia, di protezione o di salvezza.
“Mi serviva a nascondermi,” le risponde il passero, terrorizzato dal falco che lo insegue. Detto, fatto: il volto di Pulce diventa la nuvola in cui rifugiarsi!
È scappata di casa, Pulce. Si è presa una vacanza dalle lamentele della mamma e del papà per quello che fa o non fa,perciò che è o non è. Ha sette anni,gli occhi color tatuaggio e un’energia visionaria che ricorda l’Alice di Carroll e il Piccolo Principe di Saint-Exupéry. In un battibaleno è capace di trasformarsi in chiunque e in qualunque cosa: un ruscello, un affetto perduto, una stella cadente, una madre scomparsa, un paio di occhioni blu… E così, facendo da ponte tra quello che c’era e quello che non c’è più, rimedia di volta in volta alla perdita di cui soffrono i personaggi in cui si imbatte. Per riuscirci, attinge all’esperienza che zampilla dalle sue “fonti”, un popolo buffo e saggio raccontato in parallelo dalle geniali note a piè di sogno.
La bambina che somigliava alle cose scomparse è la favola dei piccoli di ogni età e dei grandi ancora disponibili alla meraviglia. Sergio Claudio Perroni, con il suo stile terso e incantevole, sublima l’ironia di Dickens e la leggerezza di Calvino in una storia di magia e destino. Perché non è vero che l’essenziale è invisibile agli occhi. È il contrario, basta conoscere Pulce.
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