Si potrebbe per La coscienza di Zeno ripetere il famoso incipit di Giovanni Macchia nel commento alla Recherche, definita «la grande opera di un malato». Come Proust, anche Italo Svevo appartiene infatti a quella temperie primonovecentesca che scopre la malattia come tema letterario assieme alla morte, al mito dell’adolescenza, alla memoria, al transeunte del tempo, all’introspezione psicologica. Sono questi tutti motivi presenti nel romanzo triestino che con l’Ulisse di Joyce e appunto Alla ricerca del tempo perduto ha introdotto il “monologo interiore” e nel caso dello scrittore irlandese (amico peraltro di Svevo) il “flusso di coscienza”, quali mezzi stilistici ed espressivi più aggiornati per portare l’uomo del nuovo secolo al superamento del realismo ottocentesco e porlo davanti a se stesso dove scoprirsi preda di un mal-aimé da indurlo al cupio dissolvi e all’amor fati, sull’orlo dell’abisso aperto dalla perdita dell’identità personale e dell’aderenza alla realtà e davanti ai mostri della Grande guerra e alle illecebre freudiane dell’inconscio.
E La coscienza di Zeno è certamente l’opera di un malato: immaginario, si crede il narratore autodiegetico e tuttavia reale negli effetti, non tanto corporali quanto psicologici, che conseguono a uno stato di déracinément. Nel 1923, quando il libro esce, Joyce ha pubblicato da un anno il suo capolavoro mentre Proust è giunto al quinto volume della Recherche: è il tempo pieno in cui l’autore europeo del nuovo credo lascia al narratore di esprimersi in prima persona come se fosse sdraiato sul lettino dello psico-analista, la figura di medico che la nuova scienza ha proposto come deputata a indagare il lato sconosciuto della mente umana, seguendo la lezione di Freud che invita il paziente a non osservare, com’è stato in passato, nessi di causalità e regole di autocontrollo ma a dare libero corso al flusso dei pensieri affidandosi al precetto della spontaneità. Lo stream of consciousness nasce dunque in medicina e arriva in letteratura, dove La coscienza di Zeno si costituisce come un diario autobiografico che lo psico-analista prescrive al cinquantasettenne Zeno Cosini quale terapia al suo “male oscuro” (forse la depressione, la nuova malattia del secolo), rivolgendogli la famosa frase «Scriva! Vedrà come riuscirà a vedersi intero». Non gli chiede espressamente di fare uno sforzo di memoria per recuperare i ricordi dell’adolescenza e metterli per iscritto in salvo – la scrittura servendo nel nuovo clima culturale proprio a salvaguardia della memoria -, ma soltanto di scrivere liberamente di sé: cosa che Zeno fa cominciando da una tara inopinata e a confessare i tanti tentativi di liberarsi del fumo che giudica non un vizio ma una malattia.
Non è una iperbole, ma una scelta, che non a caso occupa l’intero capitolo iniziale, a designare una sorta di statuto programmatico: Svevo giudica infatti la sigaretta causa di un’impotenza psicologica che sottende l’incapacità ad assicurarsi la salute e diventa dunque prova di una malattia invalidante sotto l’aspetto sia fisico che morale. Il motivo dominante dell’invalente spirito letterario è figlio della ricerca scientifica e si precisa nell’incapacità dell’uomo di governare se stesso e a maggior ragione il mondo. Sono gli anni in cui l’astrofisica scopre che il determinismo non spiega il cosmo e che la natura non risponde a ragioni di causa ed effetto ma a principi di statistica su basi probabilistiche. Nasce la meccanica quantistica e l’uomo è costretto a mettere ogni conoscenza acquisita in dubbio adottando criteri di incertezza per muoversi in un mondo che è sempre in forse e sempre più ignoto. Questa nuova condizione che è propria dell’intero Occidente induce impotenza. Il positivismo deve lasciare spazio a concezioni fondate su singolarità che non sono solo scientifiche ma congenite anche a un’umanità privata di capisaldi sicuri. In letteratura il naturalismo cede al decadentismo e apre le porte al novecentismo e al futuro postmoderno instillando nell’uomo un senso di inguaribile inettitudine. Il desein, l’heidegerriano “essere gettati nel mondo”, evolve nella rassegnazione alle riscoperte forze naturali del mondo e della vita, che non offre la felicità ma solo miseria e dolore, come scrive Cosini.
L’inetto è la figura principale della scena europea novecentesca, ma appare già a metà dell’Ottocento, proposta da Goncarov con Oblomov e poi da Huysmans con il Des Esseintes di Controcorrente. La psicopatia è la fonte primaria dell’inettitudine e integra una condizione di disturbo mentale che nel Novecento esplode nelle forme acute di pazzia e malattia che da Svevo, Proust e Pirandello arriveranno fino a Bufalino. Ma il primo è Svevo a cogliere in Italia questa allure e lo fa partendo innanzitutto da Freud, ma anche da Darwin e da Maltius, cooperando in parte a mettere in essere i prodromi degli orrori che insanguineranno il secolo mercé le teorie della selezione naturale, della distinzione di classe e del superomismo, della lotta al sovrappopolamento. Le sue origini semitiche, come nota Giacomo Debenedetti, fanno premio sui suoi personaggi, a cominciare da Zeno, uomo irrisolto e irrequieto perché ebreo ma soprattutto perché figlio del suo tempo.
Benché Svevo trovi la psico-analisi, disciplina di doppia natura da indicare agli inizi del secolo con un trattino di congiunzione, «non difficile da intendersi» ma noiosa e dunque finisca per bocciarla, nondimeno presenta Zeno Cosini come un incapace cosciente di essere tale, ma non rassegnato a rimanerlo. Impegnato a smettere di fumare, Zeno scrive nel diario destinato al dottor S. (probabile iniziale di Svevo) che il suo stato è l’incapacità ma la sua speranza quella di diventare un uomo nuovo: «Chissà se cessando di fumare io sarei diventato l’uomo ideale e forte che mi aspettavo»; e ancora: «Che io abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la mia incapacità?». Durante la relazione con Carla, Zeno ammette il proprio deficit: «Se non procedevo, ciò era dovuto ai dubbii su me stesso. Io mi aspettavo di divenire più nobile, più forte, più degno della mia divina fanciulla». Quando immagina di uccidere Guido si rammarica e giustifica: «Non era colpa mia se non avevo saputo farlo. Tutto era colpa della mia malattia». La malattia appunto: quella che gli procura dolori fisici alle gambe e al fianco, ma la stessa che egli chiama con un nome preciso, «la mia inerzia», e definisce “dolente” perché, pur essendo di tipo morale, gli provoca «una quantità di sensazioni fisiche sgradevoli» da renderlo infelice. Per causa di essa, quando progetta di fidanzarsi con Ada, è costretto a sospirare: «Doveva divenire oltre che la mia compagna anche la mia seconda madre che mi avrebbe addotto a una vita intera, virile, di lotta e di vittoria». Si tratta di un sogno, come gli otto che fa e che confessa al dottore nel suo diario e ai quali dà interpretazioni mantiche, giustappunto freudiane. Nella realtà egli si dichiara non altro che un “baggeo” (babbeo e baggiano), un “timido”, un “vile”, «un tipo strambo», come Svevo lo definisce in una lettera a un amico.
Molto strambo, a dire il vero. Lascia che la sua fabbrica rimanga nella gestione di un estraneo che in sostanza lo esautora, ma intanto si impegna come contabile gratuito nel negozio di un altro estraneo, al quale è peraltro pronto a offrire grosse somme per liberarlo dai debiti; scopre l’amore per il padre solo quando lo sta perdendo perché malato; corteggia una bella ragazza che lo respinge, poi la sorellina minore alla quale chiede di sposarlo avendone un rifiuto, infine si fidanza ufficialmente – la stessa sera delle due delusioni: per potere dormire, dice, bene quella notte – con la terza sorella, quella brutta che comunque sposerà e che vorrà amare; nutre un’ossessione compulsiva per il sesso, al punto che in età matura va dietro una contadinella che lo sbeffeggia perché vecchio e per due anni intrattiene una preossoché quotidiana relazione con una giovane che mantiene economicamente e dalla quale viene lasciato dopo che lei conosce la moglie, che però è la cognata, da lui indicata come la consorte solo perché più bella; si crede e dichiara malato, ma è solo ipocondriaco, eppure si rallegra quando teme di avere il diabete, malattia dolce; non va al funerale del cognato per salvare il quale dalla bancarotta ha pur sfidato la moglie e la famiglia di lei perché contrarie, a differenza di lui, a coprirne i debiti.
Tanta originalità di modi e di carattere dell’io narrante è intesa da Svevo come un deterrente per scongiurare di essere identificato con il suo personaggio, al quale però la sovrapposizione di gran parte dell’autobiografia finisce per accostarlo tanto da far parlare della Coscienza come di “romanzo del doppio”. Svevo non è Zeno e nondimeno vive un transfert che genera un alter ego, nel significato di una trasposizione che fa di Zeno quello che Svevo avrebbe voluto essere per vivere le stesse vicende, che sono sì pruriginose ma anche fatte di grande nobiltà d’animo, di generosità e di scrupoli morali.
Di qui l’adozione di strumenti psicoanalitici che consentono all’autore non di studiare se stesso ma un proprio personaggio nella visione di essere al suo posto. Freud serve allora a Svevo per concepire un gioco di specchi utili a esercitare la sua più torbida e immaginifica fantasia, sempreché La coscienza non sia piuttosto una confessione resa dall’autore (che però avverte: «una confessione per iscritto è sempre menzognera») per interposto personaggio e che dunque siano almeno in parte vere le sue ubbie, i tradimenti coniugali, i reali rapporti con l’amministratore della ditta ereditata dal padre. Ma non ci sono indizi per suffragare simile ipotesi, benché talune considerazioni di Zeno non possano che essere di Svevo: non solo quella che lo spinge ad augurarsi di avere figli dai quali farsi amare di meno per non farli poi soffrire molto alla sua morte – come se i figli debbano amare ad ogni costo i genitori, ma anche l’altra più caustica che gli fa scrivere elevandolo a insospettabile libertino: «Mi pareva [che l’ordine sociale] avrebbe dovuto essere tale da permettere di tempo in tempo (non sempre) di fare all’amore, senza aver a temerne le conseguenze, anche con le donne che non si amano affatto». Un’affermazione questa che ha tutta l’aria di una proibita e intima fantasticheria, ma anche il senso di una misoginia e di un sessismo, più volte palesato, che pone Svevo-Cosini nell’area equivoca della discriminazione di genere e della preterizione, dove si può dire delle sue reali e recondite intenzioni quanto Zeno scrive di sé: «”Non sono io che sono tanto bestia!”. E chi allora?».
Il romanzo appartiene chiaramente alla sua epoca ed è quello che di più, rispetto agli altri due risalenti a oltre venticinque anni prima e legati ancora all’Ottocento, connota il suo autore. Quando Svevo lo scrive, Trieste è ancora austriaca ma diventa italiana lungo la sua stesura. La storia narrata è interamente inscenata nella città asburgica, senonché Svevo si sente italiano, cambia il suo cognome austriaco in uno decisamente peninsulare e compone il suo romanzo nella lingua che parla, ma che scrive male. Lo stile è considerato infatti l’elemento più debole, ma per paradosso riesce molto letterario proprio perché fuori dal canone, come inventato e ricercato. Non conosciamo le varianti al manoscritto perché è proprio il manoscritto a mancare, ma si sa di profondi interventi operati con il consenso di Svevo sul testo prima della pubblicazione da Cappelli. Né, volendo cercare la mano genuina dell’autore, si può raffrontare La coscienza con Una vita e Senilità perché troppo remoti e molto diversi nell’impianto e nell’idea costitutiva, ma ci sono le cosiddette “Continuazioni”, opera senz’altro di Svevo, a testimoniare come La coscienza di Zeno sia un romanzo non interpolato nella sostanza e nemmeno nella forma se non per contaminazioni circoscritte.
Di sicuro non è stata manomessa la fabula, quantunque lasci non poco perplessi l’ultimo degli otto capitoli intitolato “Psico-analisi”. Zeno il narratore lo scrive nel 1915 (ma sappiamo che Svevo scrive a partire dal 1919), a ridosso della guerra e a distanza di venti anni dai fatti resi in confidenza al dottor S. fino all’addio dal piroscafo di Ada alla volta di Buenos Aires. L’ultimo capitolo non fa parte della “autobiografia” che il dottore ha deciso per dispetto di rendere pubblica e appare aggiunto dal narratore non al diario quanto al romanzo, quello che all’inizio lo stesso dottor S. chiama “novella” e che è opera dell’autore. Svevo non ha risolto questa incongruenza né spiegato il senso dell’ultimo capitolo o come questo, nella finzione, sia finito a completamento del diario che possedeva solo il dottore. Ma altri punti l’autore ha lasciato in evidenti contraddizioni: date che non coincidono, tempi della scrittura che si sovrappongono a quelli della narrazione, fatti che vengono poi smentiti.
Pesa anche la drastica distinzione che Svevo fa degli avvenimenti distinguendoli per capitoli benché avvengano contestualmente e meritino un trattamento d’insieme. Legato a un modello di tipo scientifico – un rapporto personale che valga pure come trattato specialistico – Svevo si preoccupa di dare conto degli effetti sperimentati quanto alla sua malattia e dunque si posiziona al centro di un panopticon dal quale osserva separatamente prima se stesso alle prese col fumo, poi la morte del padre, quindi le vicende del suo matrimonio, la relazione adulterina con Carla e infine la conduzione del negozio di Guido. Ma così facendo apprendiamo per esempio che le sue giornate trascorse nell’ozio e nell’attesa di vedere Carla non sono quelle del nullafacente, perché nello stesso tempo è duramente impegnato a fianco di Guido: salvo capire dove appunto trovi il tempo per dedicarsi a entrambe le attività.
Eppure, nonostante i tanti difetti di fabbrica, La coscienza di Zeno è un autentico capolavoro della nostra letteratura, come anche di quella europea. Ha avuto la fortuna di incontrare il gradimento di Montale che lo lanciò, ma ha anche il merito di essere il solo romanzo italiano che agli albori del nuovo gusto letterario di primo Novecento poté essere, come oggi ancora è, ritenuto alla stessa stregua della Recherche e dell’Ulisse joyciano: a segnare una direzione che la narrativa continentale ha seguito e in qualche modo, con forme rinnovate, continua a seguire.
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[è appena uscito il nuovo romanzo di Gianni Bonina: “Ammatula” (Castelvecchi) – di recente in libreria anche il volume: “Fatti di mafia” (Theoria)]
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