La prima puntata della nuova rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri)“ è dedicata al volume La felicità era, forse, il male minore di Marinella Fiume e Santino Mirabella (A & B edizioni).
Ecco, di seguito, il tandem letterario offerto dai due autori.
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LA FELICITÀ ERA, FORSE, IL MALE MINORE (A & B edizioni)
Una volta su un muro lessi una frase, scritta da chissà chi: “Se non ci metti troppo, ti aspetto tutta la vita”. Ecco, credo che questo debba essere il nostro atteggiamento verso la felicità: disposti a battagliare tutta la vita per ottenerla, sì, ma lei deve darci un indizio di sé, rendersi seducente, non esagerare nel lasciarci con il dito schiacciato sul citofono… E se mai dovessi, da morto, ricordare la mia vita, vorrei non aver vissuto temendo d’essere felice, non aver trascurato la felicità pensando ad altro. Vorrei non dover mai dire che la felicità era, in fondo, il male minore.
di Marinella Fiume e Santino Mirabella
Marinella– Santino, ma con il lavoro stressante che fai tutti i giorni, con le attuali contingenze che non sono certo il massimo per garantire neanche un minimo di serenità all’universo mondo, come ti salta in mente di invitarmi a scrivere con te un dialogo proprio sulla felicità? E poi, che argomento! Senza essere neanche un filosofo o un maitre à penser… dopo i fiumi di inchiostro versati dai Grandi… Platone, Socrate, Aristotele…. Non ti avrà mica dato di volta il cervello?
Santino– Ma vedi, Marinella, dovrei dirti, come si fa in questi casi, che ti ringrazio della domanda. Però non posso farlo perché già troppo diretta…. Mi parli di quel che passa per il cervello… Non ti so dire, so però che, in fondo, nel cervello ci sono tanti angoli oscuri a noi ignoti e aver la voglia di passeggiarvi, per vedere cosa si nasconde dietro ognuno di essi, è stato uno stimolo non da poco. E su questi argomenti, poi, ogni anfratto del cervello urla attenzione: la parte emotiva, la parte razionale… La paura i sogni la logica la disattenzione coltivata. E cosa vi era di meglio di indirizzare ogni delirio che mi emergeva in superficie ad una interlocutrice come te? Cosa può essere più appetibile che aspettare, dopo ogni mio intermezzo, una tua risposta? Cercavamo la felicità e forse la abbiamo sfiorata nell’idea stessa del cercarla. Tu che ne pensi?
Marinella – Il danno è che quando parlo con te prima parto in quarta poi ben presto mi disarmi, con la tua logica a fil di lama, con la tua poesia dolceamara, con la tua umana comprensione. Sai farmi leggere dentro, è questa la tua dote precipua, quella virtù che ti accomuna alla madre di Socrate che di mestiere faceva la levatrice. E così almeno risparmio i salati conti degli psicoterapeuti senza nemmeno sdraiarmi nel lettino! Ma non ero partita nel nostro dialogo a dire che io e la felicità eravamo due grandezze incommensurabili, un ossimoro? Allora perché sono stata poi quella che ti ha invitato ad unirsi a lei nella sua crociata antishopenaueriana contro quella cultura del dolore che ci ha reso controllabili, schiavi, vittime… ? E chi è vittima fa vittime, vero, Santino?
Santino – …oppure capisce cosa vuol dire esserlo e riesce a prevenire. Se dalla cultura del dolore possiamo emanciparci, o provare a farlo, facciamolo anche dal rischio di ripercorrere strade immaginabili. Forse che, con il nostro libro, non abbiamo accettato di volare senza paracadute, accettando il punto di impatto che il vento e altre imponderabilità han scelto? E con quanti colpi di reni siamo riusciti ad avvicinarci comunque al bersaglio del nostro immaginario?
Lanciàti, come foglia pensante che accarezza il vento, lo accoglie, ma lo indirizza inerpicandosi con il suo furbo picciòlo. Cara Marinella, sarà più brutto ora lanciarsi ancora, ma da soli. O forse non lo saremo più, al momento di scrivere, perché l’eco dell’altro sarà per sempre in punta di penna.
Marinella – Beh, scrivere a quattro mani è un’avventura che si somma all’avventura – già impervia di suo – dello scrivere… interrogandoci sulla felicità è forse anche su questa possibilità di scrittura che ci siamo interrogati e sulla gioia che è scaturita dal gioco bello e rischioso di rimbalzarci i file ognuno dei quali non poteva sottrarsi al compito di legarsi al filo del discorso o della provocazione offerta dall’altro… di parlare alla sua anima nuda rispondendo a pezzetti d’anima con pezzetti d’anima. E come sarebbe stato possibile mentire, mascherarsi, dribblare? Altra cosa è la scrittura cooperativa in tanti, noti meno noti sconosciuti, dove la difficoltà è rappresentata solo dal dover scrivere pezzi coerenti e consequenziali all’ordito della trama senza che nessuno offra l’anima agli altri, a tutti gli altri.
Quanto ci ha cambiati questa scrittura? L’eco dell’altro in punta di penna da ora in poi? Te l’ho sentito dichiarare anche nel corso di una presentazione e mi sono sentita tremare le vene e i polsi. Ti giro ora coraggiosamente la domanda, nuda, cruda, esplicita, senza fronzoli…, al mio solito.
Santino – Scriver nel silenzio rimbombante del nostro animo è un esercizio di amore e passione, ma scrivere a quattro mani significa coordinarle, misurarle nel loro intersecarsi. E se due mani a volte paion molte, quattro mani possono esser musica. Oppure dipingersi come fossero fotogrammi: quattro fotogrammi di una sola mano in movimento. E come faremo ora, come farò ora senza le tue? Anche questa è stata felicità.
Marinella – Felicità, parola altisonante e ambigua, eterno dilemma, pietra di ogni scandalo, paradosso su cui ci siamo interrogati io e te nel nostro dialogo dal titolo: La felicità era, forse, il male minore.
Anche per i miei amati classici eudaimonìa (beatitudo per i Latini), composta da bene (eu) e demone (daimon), “genio”, “spirito guida”, “coscienza” – e perciò col significato di “essere in compagnia di un buon demone”- è ambigua parola, oscillante tra la felicità di chi possiede dovizia di beni materiali e quella di chi, invece, può godere di uno stato interiore e spirituale di serenità…
Ma quando l’umanità ha finito di arrovellarcisi sopra anche se, con assidua alternanza, l’oggetto – mai sopito alla coscienza e al desiderio – si ripresenta?
Forse quando, senza che se ne accorgessero, si è fatta strada, nelle coscienze degli esseri umani, la consapevolezza d’essere mortali che ha inferto un duro colpo al suo prometeico delirio d’onnipotenza, l’accettazione di una vita libera dall’obbligo d’esser felici, di raggiungere la felicità a tutti i costi?
Santino – E pensi che l’abbiamo veramente colta, nei suoi contorni ondivaghi? O ne abbiamo solo sentito il profumo a forza di pronunciarne il nome? C’è stata una formula magica per noi? O ce n’è una in generale?
Marinella – Non conosco la formula magica per conseguirla la felicità, ma credo di capire che non cozza con il dolore e che invece cozza con il desiderio di restare eternamente giovani, di tornare indietro col tempo, di diventare immortali.
Allo stesso tempo si fa strada oggi per tutti la necessità – il desiderio – di liberarsi da una cultura del dolore che ha finito per rendere essa stessa uomini e donne creature infelici e ha formato per secoli l’immaginario collettivo, insieme anche all’idea della felicità come “attimo fuggente”, frutto di casualità e fortuna.
Ma una chiave qualche illuminato sembra intravvedere all’orizzonte: “regredire” (lato sensu), rallentare, esaltare l’interiorità, non abbandonarsi alle sirene del mercato, dei consumi inutili e nocivi, servire il Bene, affidarsi alla femminilità che è in tutti, anche negli uomini, puntare sulla tenerezza, custodire la bellezza, confidare nella poesia, perché, non c’è dubbio, Bellezza e Felicità vanno molto d’accordo. E Peppino Impastato diceva: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.
Santino – Ci abituiamo purtroppo a ben altro che non siano i nostri palazzoni. Ci abituiamo ai grattacieli della indifferenza e dell’arrivismo, del carrierismo e della invidia. Ci abituiamo, ho detto? Beh, credo che grazie a Dio io e te non ci abitueremo e cercheremo la felicità anche oltre questo nostro libro, a ricercar non solo essa, o la bellezza, ma quella che chiamiamo ‘libertà’. C’è un verso di una bella canzone di Stefano Rosso, ‘Reichiana’: “Lascerei ai bambini tutto il mondo, non quella che chiamiamo libertà; l’educazione è un sintomo fascista, è un grosso cancro per l’umanità. Lascerei ai bambini il loro tempo e non mille inventate verità: la sicurezza, il posto e la conquista son grossi cancri per l’umanità.”
Marinella – Impariamo allora a riconoscerla la felicità, che non è impresa facile, senza aver paura di soffrire, senza opporsi alla piena del dolore, ma insistendo sull’ironia e l’autoironia; sbarazzandoci l’anima; dichiarando coraggiosamente di aver bisogno di tenerezza; frequentando persone e spazi individuali e sociali dove riconoscere il nostro benessere; riappropriandoci persino di grossi concetti fondamentali come l’etica, l’utopia, la felicità, appunto, di cui siamo stati deprivati sia nella nostra dimensione individuale che sociale, per essere cacciati nei regni tenebrosi della noia e dell’infelicità. Una rivoluzione dentro di noi che è l’unica rivoluzione possibile. Non credi?
Santino – L’unica. Ma non l’ultima!
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