La finale del PREMIO CAMPIELLO 2017 si svolgerà nella serata di sabato 9 settembre al teatro La Fenice di Venezia
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Ecco i libri e gli autori finalisti del Premio Campiello 2017, scelti tra 78 opere segnalate.
Sabato 9 settembre, dalle ore 20, sarà possibile seguire la finale dalla pagina Facebook del Premio Campiello.
Il docufilm della finale sarà trasmesso da Rai 5 mercoledì 20 settembre a partire dalle 20:45 circa
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“Qualcosa sui Lehman” di Stefano Massini (Mondadori)
“La città interiore” di Mauro Covacich (La Nave di Teseo)
“La notte ha la mia voce” di Alessandra Sarchi (Einaudi)
“L’arminuta” di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi)
“La ragazza selvaggia” di Laura Pugno (Marsilio).
Il premio Campiello Opera prima è stato tributato a Francesca Manfredi autrice di “Un buon posto dove stare” (La Nave di Teseo).
Il vincitore assoluto della 55/a edizione del premio Campiello, il cosiddetto SuperCampiello, sarà proclamato il 9 settembre al teatro La Fenice di Venezia dopo il conteggio dei voti della giuria popolare.
Di seguito informazioni sui 5 libri e i video con i 5 scrittori finalisti
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“La città interiore” di Mauro Covacich (La nave di Teseo)
Mauro Covacich è nato a Trieste nel 1965. Ha scritto diversi libri di narrativa, tra cui: Anomalie (Mondadori 1998, Bompiani 2015), L’amore contro (Mondadori 2001, Einaudi 2009), A perdifiato (Mondadori 2003, Einaudi 2005), Fiona (Einaudi 2005 e 2011), Trieste sottosopra (Laterza 2006), Prima di sparire (Einaudi 2008 e 2010), A nome tuo (Einaudi 2011), L’esperimento (Einaudi 2013), La sposa (Bompiani 2014).
Quarta di copertina
“Il bambino è diretto al Borgo Teresiano, vicino alla chiesa con la cupola blu, vicino al Canale, vicino alle bancarelle di Ponterosso. Sa dov’è. A sette anni si muove in città come un migratore lungo le rotte celesti. Non conosce i nomi delle vie, segue riferimenti emotivi, talvolta geometrici, i colori delle insegne, le fughe di luce verso la marina, i volumi dei pieni e dei vuoti tra i palazzi, le chiome degli alberi. Ha una bussola interna, l’infallibile magnetismo di un uccellino cresciuto per strada.”
È il 4 aprile 1945. Quel bambino sta trasportando una sedia tra le macerie della città liberata dai nazifascisti ed è diretto al comando alleato, dove lo attende suo padre – dal cognome vagamente sospetto, Covacich – sottoposto a un interrogatorio. E quella sedia potrebbe scagionarlo.
Sempre Trieste, 5 agosto 1972. I terroristi di Settembre Nero hanno fatto saltare due cisterne di petrolio. Un bambino, Mauro Covacich, tra le gambe di suo padre (il bambino che trascinava la sedia ventisette anni prima nella Trieste liberata), contemplando le colonne di fumo dalle alture carsiche sopra la città, chiede: “Papà, semo in guera?”
Mauro Covacich torna nella sua Trieste, con un libro dal ritmo incalzante, avventuroso romanzo della propria formazione, scritto con la precisione chirurgica di un analista di guerra e animato dalla curiosità di un reporter. La città interiore è la cartografia del cuore di uno scrittore inguaribilmente triestino; è il compiuto labirinto di una città, di un uomo, della Storia, che il lettore percorre con lo stesso senso di inquieta meraviglia che accompagnava quel bambino del 1945 e quello del 1972; un labirinto di deviazioni e ritorni inaspettati, da cui si esce con il desiderio di rientrarci.
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“L’arminuta” di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi)
Donatella Di Pietrantonio vive a Penne, in Abruzzo, dove esercita la professione di dentista pediatrico. Ha esordito con il romanzo Mia madre è un fiume (Elliot 2011, Premio Tropea). Con Bella mia (Elliot 2014) ha partecipato al Premio Strega. Per Einaudi ha pubblicato L’Arminuta (2017).
Quarta di copertina:
«Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo piú a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza».
– Ma la tua mamma qual è? – mi ha domandato scoraggiata. – Ne ho due. Una è tua madre.
Ci sono romanzi che toccano corde cosí profonde, originarie, che sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con L’Arminuta fin dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell’altra, suona a una porta sconosciuta. Ad aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia cosí questa storia dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno all’altro perde tutto – una casa confortevole, le amiche piú care, l’affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che credeva i suoi genitori. Per «l’Arminuta» (la ritornata), come la chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul tavolo. Ma c’è Adriana, che condivide il letto con lei. E c’è Vincenzo, che la guarda come fosse già una donna. E in quello sguardo irrequieto, smaliziato, lei può forse perdersi per cominciare a ritrovarsi. L’accettazione di un doppio abbandono è possibile solo tornando alla fonte a se stessi. Donatella Di Pietrantonio conosce le parole per dirlo, e affronta il tema della maternità, della responsabilità e della cura, da una prospettiva originale e con una rara intensità espressiva. Le basta dare ascolto alla sua terra, a quell’Abruzzo poco conosciuto, ruvido e aspro, che improvvisamente si accende col riflesso del mare.
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“Qualcosa sui Lehman” di Stefano Massini (Mondadori)
Stefano Massini (1975) è da alcuni anni lo scrittore italiano più rappresentato sui palcoscenici di tutto il mondo. Ha vinto sette premi della critica tra Francia, Italia, Germania e Spagna. Nel 2015 succede in punta di piedi a Giorgio Strehler e Luca Ronconi come responsabile artistico del Piccolo Teatro di Milano, Teatro d’Europa. Lo spettacolo tratto da Qualcosa sui Lehman, il suo “Lehman Trilogy” ‘ in Italia ultima regia di Ronconi ‘, è tradotto in 15 lingue, e verrà diretto dal premio Oscar Sam Mendes per il Royal National di Londra.
Quarta di copertina
Questa incredibile storia inizia sul molo di un porto americano, con un giovane immigrato ebreo tedesco che respira a pieni polmoni l’entusiasmo dello sbarco. E da questo piccolo seme che nascerà il grande albero di una saga familiare ed economica capace davvero di cambiare il mondo. Acuto e razionale, Henry Lehman (non a caso soprannominato “Testa”) si trasferisce nel profondo Sud degli Stati Uniti, dove apre un minuscolo negozio di stoffe. Ma il cotone degli schiavi è solo il primo banco di prova per l’astuzia commerciale targata Lehman Brothers (perché nel frattempo Henry si è fatto raggiungere dai due fratelli minori Emanuel e Mayer, rispettivamente detti “Braccio” e “Patata”). In un incalzare di eventi, i tre fratelli collezionano clamorosi successi e irritanti passi falsi mentre la grande calamita di New York li attira nel suo vortice inebriante. Nel frattempo, al vecchio cotone si sono sostituiti il caffè, lo zucchero, il carbone, e soprattutto la nuova frontiera di un’industria ferroviaria tutta da finanziare. E questa la seconda appassionante tappa del libro, intitolata “Padri e figli”, incentrata sulla rocambolesca scalata al potere del glaciale Philip Lehman, circondato dai cugini Sigmund, Dreidel, Herbert e Arthur. Le loro esistenze parallele compongono un mosaico di umanità diverse, assortite, contraddittorie, in cui l’angoscia dei sogni notturni va di pari passo a una corsa implacabile per stare al ritmo di Wall Street. Sono gli anni dell’ebbrezza, destinata a infrangersi nel crollo fragoroso del 1929, quando le sorti di un sistema al collasso verranno affidate alle fragili mani di Bobbie Lehman, simbolo di un mondo in equilibrio precario, ostaggio delle sue stesse mode e di fatto incapace di darsi un futuro certo. Stefano Massini ha scritto un’opera straordinaria, in grado di attraversare il tempo, intrecciando la storia privata di una famiglia e quella universale degli uomini. Spiazzante e pirotecnico, l’autore crea un edificio narrativo monumentale, in cui non c’è più spazio per le tradizionali differenze fra generi: il romanzo si amalgama al saggio, l’epica al teatro, con continue incursioni nel cinema, nelle canzoni, e perfino nelle formule matematiche e nei fumetti. Tutto questo fa di Qualcosa sui Lehman un libro senza eguali, con una forma assolutamente nuova, che sfidando in un corpo a corpo artistico XIX e XX secolo apre di fatto uno squarcio sul futuro.
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“La ragazza selvaggia” di Laura Pugno (Marsilio)
Laura Pugno, è nata a Roma. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Sleepwalking (Sironi 2002), e quattro romanzi: Sirene (Einaudi 2007), Quando verrai (minimum fax 2009), Antartide (minimum fax 2011), La caccia (Ponte alle Grazie 2012). In poesia: Il colore oro (Le Lettere 2007), La mente paesaggio (Perrone 2010) e Bianco (Nottetempo 2016); è inoltre inclusa nell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani 6 (2012). Oggi dirige l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid.
Quarta di copertina
«Tessa aprì la porta sul buio del bosco»: così comincia La ragazza selvaggia, e davvero il quinto romanzo di Laura Pugno è tutto uno spalancarsi di porte sul buio: sul buio del bosco; sul buio del dramma della famiglia Held – la madre alienata dopo la sparizione della figlia adottiva Dasha e l’incidente in seguito al quale Nina, la gemella, vive in stato vegetativo; sul buio di Nicola Varriale, il cui padre generoso ed entusiasta – socio di Held in affari con la riserva naturale sperimentale di Stellaria – si è gettato ubriaco dal balcone; sul buio, finalmente, della protagonista Tessa, biologa, che vive in un container ai margini della riserva conducendo osservazioni e studi: una donna che ormai «abita la solitudine come un altro corpo». A lei toccherà la sorte di ritrovare casualmente Dasha, vissuta anni nel bosco e ormai del tutto selvaggia. Ci interroga, questo romanzo che può essere descritto come una storia di revenant, o il racconto d’un groviglio di vite umane osservato con una compassione senza lacrime. Ci interroga su che cosa è – attorno a noi, in noi – ciò che chiamiamo “natura”; sui confini tra l’umano e l’animale; sul senso di legami familiari frutto di scelte, o del caso, e non della carne. Riprendendo in forma nuova e sorprendente alcuni temi del suo primo romanzo, Sirene, Laura Pugno ci guida con passo sicuro e con una scrittura essenziale nell’esplorazione di un immaginario potente, affascinante, e forse profetico
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“La notte ha la mia voce” di Alessandra Sarchi (Einaudi)
Alessandra Sarchi è nata a Reggio Emilia nel 1971, vive a Bologna. Ha pubblicato Segni sottili e clandestini (Diabasis 2008). Per Einaudi Stile Libero è uscito nel 2012 il romanzo Violazione, vincitore del premio Paolo Volponi opera prima, nel 2014 L’amore normale e nel 2017 La notte ha la mia voce.
Quarta di copertina
Una giovane donna ha perso l’uso delle gambe in seguito a un incidente. Abita un corpo che non le appartiene piú e si sente in esilio dal territorio dei sani. Poi incontra la Donnagatto, e il suo modo di guardare se stessa, e gli altri, cambia.
La prima cosa che arriva di Giovanna è la voce: argentina, decisa, sensuale. Fa pensare a qualcuno che avanzi sulle miserie quotidiane come un felino. Ecco perché, fi n da subito, l’io narrante la battezza Donnagatto, sebbene Giovanna sia paralizzata, proprio come lei. Al contrario di lei, però, rivendica il diritto a desiderare ancora, sfi dando l’imperfezione del mondo. La Donnagatto nasconde un segreto, e forse ha trovato una persona cui confessarlo, consegnandole la propria storia. Una storia dove è solo apparente il confi ne tra la condanna e la grazia.
«È di libertà che si dovrebbe parlare, quando si parla di corpi. Ma come si fa, se non ce li scegliamo nemmeno alla nascita? I nostri corpi sono già passato, eredità elargita da chi ci ha generato e preceduto nella tirannia combinatoria dei geni».
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ll vincitore del Premio Campiello – Opera Prima
“Un buon posto dove stare” di Francesca Manfredi (La nave di Teseo)
Francesca Manfredi è nata a Reggio Emilia nel 1988 e vive a Torino. Ha pubblicato racconti su «Linus» e sul «Corriere della Sera». E’ tra gli autori di Bianca, serie teatrale in sei episodi ideata da Stephen Amidon e realizzata dal Teatro Stabile di Torino nel 2015. Tiene corsi di narrazione presso la Scuola Holden. Un buon posto dove stare è il suo primo libro.
Quarta di copertina
Un bosco, una vecchia casa in montagna, la piscina di un condominio. Una bambina che nuota, una ragazza che torna a casa, un padre che scompare, un altro che trova pace nel silenzio umido di una cantina. E poi, nel pulviscolo di istanti che compongono i giorni più normali, affiora la rete dei sentimenti, dei sogni, delle scoperte che illuminano e feriscono, di una memoria in cui si è sempre salvi, ma inguaribilmente soli.
È con grazia e scrittura limpidissima che Francesca Manfredi racconta i protagonisti di queste undici storie, avvolti nella normalità delle loro vite, ma sempre colti sul principio di una soglia da cui poter guardare alle loro fragilità e alle loro inquietudini, come a un posto da cui non è necessario fuggire, un buon posto dove stare.
Questo è il libro di esordio di Francesca Manfredi, una delle voci più belle e già riconosciute all’estero della nuova narrativa italiana.
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Motivazione della Giuria dei Letterati
Ad attraversare gli undici racconti di “Un buon posto dove stare”, esordio narrativo di Francesca Manfredi, c’è come un filo rosso riassumibile nei termini “traslochi”, inteso come costante spiazzamento dai propri luoghi dei diversi personaggi, e “case”, che attraggono, si ricordano, o respingono. Case che si aprono soprattutto all’interno, salvo poi svelare stanze misteriosamente intatte o ripostigli abbandonati o proibiti, in cui si celano inquietanti storie segrete, e dalle quali, se appartenenti al tuo passato, forse vorresti anche non essere mai uscito. Case e stanze che qualche protagonista vorrebbe eleggere ad àncora di salvezza rispetto al «fuori».
E si hanno racconti che richiamano immagini, ma soprattutto «odori» che, come sempre trattandosi di memoria, alternano piacere e sgradevolezze, in queste storie di ordinaria quotidianità che propongono personaggi di varie età, da bambini ad anziani, prevalentemente famiglie o coppie che vivono situazioni di disagio o che si sfuggono. Ne vengono personaggi che vivono di comunicazioni trattenute, fatte di silenzi e segreti, di sensazioni interiori che avvertono quasi come colpa il comunicarle agli altri. E ricordi dovuti alla casualità d’un incontro con una figura, un rumore, un suono, uno sguardo, nei quali avvertono qualcosa di proprio e che resta tale perché indescrivibile da riferire con parole. Di qui la coerenza con la scrittura: originale, piana, paratattica, essenziale, sospesa tra detto e non detto. E la nota malinconica che attraversa tutto il libro e che segna personaggi che portano dentro di sé le fragilità e le incertezze dell’oggi, e nei quali solo alla fine affiora la sensazione che «Tutti abbiamo qualcosa che ci salva; solo che, a volte, è una cosa talmente piccola che non è facile da scoprire».
Giuria dei Letterati
Presidente
Ottavia Piccolo, attrice
Federico Bertoni
docente di Critica letteraria e letterature comparate, Università di Bologna
Philippe Daverio
storico dell’arte
Chiara Fenoglio
studiosa di Letteratura Italiana
Paola Italia
docente di letteratura italiana, Università di Bologna
Luigi Matt
docente di Storia della lingua italiana, Università di Sassari
Ermanno Paccagnini
docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Università “La Cattolica” di Milano
Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
presidente “Fondazione Sandretto Re Rebaudengo” di Torino
Lorenzo Tomasin
docente di Filologia romanza, Università di Losanna
Roberto Vecchioni
cantautore, scrittore, docente Università di Pavia
Emanuele Zinato
docente di Letteratura italiana contemporanea, Università di Padova
Comitato Tecnico
Giorgio Pullini – Presidente
già docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Università di Padova
Gilberto Pizzamiglio
già docente di Letteratura italiana, Università “Ca’ Foscari”di Venezia
Ricciarda Ricorda
docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Università “Ca’ Foscari” di Venezia
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