Conoscevo già Monica Maggioni, nel senso che l’avevo vista più volte su Unomattina e al Tg1. Ma quando apparve sullo schermo del mio televisore, nel 2003, in piena guerra-a-Saddam, a raccontarci l’inferno iracheno mischiata con i soldati delle truppe americane, fu come se la vedessi per la prima volta.
Mi domandai: chi è questa giornalista che fissa la telecamera con occhi socchiusi per via del sole abbagliante o forse della sabbia sollevata dal vento, con il microfono in mano e i capelli rossi che svolazzano alle correnti calde del deserto? Chi è costei che rischia la vita per raccontare la guerra-a-Saddam vista dal di dentro?
Monica Maggioni apparve ai miei occhi – così come credo agli occhi di molti italiani e di molte italiane – come l’eroina (o una delle eroine) del nuovo millennio.
Devo ammettere che ho aspettato l’uscita di questo libro, dopo il precedente Dentro la guerra (Longanesi, 2005), con una certa impazienza: sia perché desideravo conoscere la storia ri-raccontata da Monica e impreziosita dalle sue nuove considerazioni maturate per via del decorso del tempo, sia perché – chi mi conosce lo sa – i temi trattati mi interessano particolarmente: terrorismo internazionale e (presunto) scontro di civiltà; informazione, controinformazione e pseudoinformazione; i condizionamenti subiti dalla stampa, il controllo del potere nelle società capitalistiche del nuovo millennio, gli equilibri (o gli squilibri) in medioriente.
Mi colpì il titolo: La fine della verità.
Pensai: un libro che si intitola La fine della verità non può che essere paradossalmente vero.
Fu con questo pensiero che iniziai la lettura.
* * *
Ci tengo subito a precisare che questo volume di Monica Maggioni non è un saggio o un semplice libro-reportage. È una storia: “la storia di una persona che ha camminato, molto spesso ha corso, e correndo ha cercato di raccontare quel che le accadeva intorno. Poi, cinque anni dopo, si è voltata indietro”.
La Maggioni si volta indietro, dunque. E racconta. E il suo racconto trae origine da una serie di domande che si avvicendano a ritmo forsennato nella parte introduttiva al testo. Domande poste senza punto interrogativo e per questo ancora più sferzanti. Una serie di «perché» che fioccano uno dopo l’altro. Una sfilza di: ma come è possibile «che»… «se»…
“(…)
Perché una grande potenza come quella degli Stati Uniti non ha saputo o non ha voluto elaborare un piano concreto su come gestire l’immediato dopoguerra, cercando di evitare che la popolazione dell’Iraq cadesse in un incubo ancora peggiore di quello da cui usciva.
Perché i grandi strateghi non hanno saputo capire che dietro la « vittoria lampo » si nascondeva la minaccia della guerriglia, mentre noi in gita ad Al Awaja – il paesino dove è nato Saddam – tre settimane dopo la fine della guerra ci siamo sentiti raccontare con precisione matematica quello che sarebbe poi accaduto subito dopo, e non ci aveva mandato la CIA.
(…)”
E poi il racconto. Dall’11 settembre alla guerra in Iraq, dal dopoguerra – che in tanti hanno avuto difficoltà ad additare con il nome di guerra civile – agli attentati di Madrid e Londra, dalle vignette contro Maometto al conflitto in Libano. E oltre.
La parte più corposa del libro è dedicata all’esperienza irachena.
Una mattina, Monica, leggendo il New York Times, scopre che almeno cinquecento reporter e tecnici potranno seguire le truppe durante le operazioni militari in Iraq come embedded. E il quotidiano americano racconta che una parte di questi giornalisti sta già seguendo corsi di addestramento in alcune basi USA.
La Maggioni scrive al Pentagono chiedendo di poter filmare queste fasi preparatorie. Questa, almeno, è l’idea iniziale. Perché Monica sarebbe poi dovuta partire, come inviata, per il fronte. Ma i piani cambiano e seguire le truppe americane come embedded diventa l’unica possibilità di mettere piede in terra irachena per “raccontare” la guerra.
Seguendo le truppe americane, Monica e il suo cameraman, Silvio, vivono un’esperienza unica e a tratti terribile. Come quando arriva il segnale convenzionale che avverte i militari di un possibile attacco con armi chimiche: “All’improvviso abbiamo sentito il suono lungo di una sirena strozzata: quel suono. (…) Non contava altro in quel momento, solo tirare ossessivamente i lacci di caucciù della maschera antigas fino a tagliare la pelle del viso. Bisognava stringerli, stringerli ancora. E dentro la maschera il respiro diventava sempre più affannoso, sembrava di soffocare nel nostro stesso fiato caldo. (…) Ad aumentare il senso di angoscia contribuivano i muscoli contratti degli ufficiali. Loro, che ragionevolmente avevano più informazioni di noi, erano i più preoccupati.
È in quei momenti che la paura si trasforma in qualcosa di concreto. Diventa uno spazio fisico che si frappone tra te e le persone che hai intorno. Muoversi è di colpo più difficile, i pensieri si stemperano, rallentano, diventano ossessivi.”
O come quell’altra volta, a Falluja: “L’autista guida con lo sguardo fisso sull’autostrada sotto il sole di mezzogiorno, l’interprete sta dormendo, e io mi vedo una bocca di kalashnikov puntata di fronte alla faccia. (…) Abbiamo incontrato gli alibaba di Falluja.”
Monica Maggioni racconta la sua storia e lo fa con il piglio della giornalista impavida e l’abilità della narratrice vera, senza tralasciare particolari, con ampia documentazione a supporto e avvalendosi di citazioni accurate. E poi, dopo la storia, il ritorno in Italia. Il ritorno a una realtà così diversa e lontana che genera, quasi, un senso di ottundimento.
“Tornare in Italia dopo tanto Iraq dà un senso di estraneità. Diventa strano perfino ascoltare i discorsi, misurare la distanza infinita tra quel mondo e il nostro. (…) Mi aggiro nei posti di sempre, e mi sembra di riuscire a guardare da fuori i miei stessi discorsi con le altre persone.”
E poi il terrore. Il terrore che ritorna e si presenta con sembianze più simili alle nostre.
“C’è stato l’11 marzo di Madrid, la morte in quella mattina normale. E per gli europei, per gli italiani, lo shock è stato ancora più grande. (…) L’ora che corrisponde alla nostra, il gesto consueto di prendere la metropolitana, andare al lavoro, una cosa che riguarda ognuno di noi.”
E il terrore genera sospetto generalizzato, e il sospetto generalizzato può sfociare in diffidenza e pregiudizio.
“E mi è ancora più chiaro un mercoledì mattina alla stazione Termini, quando tre ragazzi dall’aria magrebina o mediorientale parlano fitto fitto tra loro, a capannello, e io istintivamente mi insospettisco, sento un brivido.
Poi mi fermo a pensare.
Ma se il sospetto e la diffidenza attraversano me, che per tanto tempo sono stata nelle loro case, che per mesi ho vissuto nei loro Paesi, ho condiviso il cibo, i viaggi e le risate, allora cosa proveranno gli altri?”
E poi la consapevolezza: “Solo adesso mi sembra di cominciare a capire perché è stato tanto semplice (…) raccontare il nostro mondo contrapposto al loro. (…) Con la paura si veicola tutto. Si può far credere tutto.”
Il libro è impreziosito dal breve saggio conclusivo firmato da Loretta Napoleoni dal titolo: La Jihad moderna, la crociata del fondamentalismo islamico. La Napoleoni ci parla con dovizia e cognizione di causa di Decadenza economica, crociata economica, de L’ascesa delle nuove classi e de La religione come identità.
Che altro dire di questo La fine della verità di Monica Maggioni?
Che è un libro coraggioso, scritto in maniera schietta, senza mezze-frasi o sottili allusioni dall’effetto titillante. Una boccata d’ossigeno nell’odierno panorama editoriale intriso di testi che presentano tesi spacciate per verità assolute. Un volume che si sforza di raccontare una realtà complessa e contraddittoria, che non fornisce risposta a tutti i dubbi, ma che pone domande e fa porre domande.
Credo che, in quest’epoca di massificazione globale e di mistificazioni, di false certezze e dubbi reali, porsi domande diventa più che mai necessario. E credo che non ci sia retorica nel sostenere che finché ci sarà qualcuno che avrà la forza e il coraggio di porsi delle domande, e di far porre delle domande, la fine della verità sarà lontana.
Massimo Maugeri
Ne approfitto per ringraziare Monica Maggioni per la disponibilità mostrata nel rilasciare l’intervista che segue.
*
– La fine della verità. Un titolo inquietante. Ma la verità è davvero finita? O in che senso, e fino a che punto, dobbiamo considerarla finita?
Il titolo è provocatorio. In realtà non credo che la verità sia mai cominciata e mai finita. Il problema vero è che troppo spesso, di questi tempi, si sentono persone che raccontano piccoli picchi, piccole parti, piccoli frammenti di realtà. E pretendono che diventino la realtà o la verità giusta, uguale, con un valore assoluto per tutti. Mi sembra che, forse, potrebbe essere questo un buon momento e una buona occasione per metterci tutti un po’ più in discussione e capire che in fondo non è che c’è il bene o il male con grandissima chiarezza. Mi riferisco soprattutto al discorso che ho sentito fare negli ultimi anni sullo scontro di civiltà. Su noi e gli altri. Noi buoni da una parte e i nemici di fronte. Ecco, mi sembra che la realtà sia una cosa un po’ più complessa. E invece molto spesso viene raccontata in modo non complesso, ma estremamente banalizzante. Dividendo il mondo in due: tra buoni e cattivi, bianco o nero. Ho utilizzato questo titolo provocatorio per dire che forse vale un po’ la pena di mettersi tutti a discutere su quale sia poi la verità assoluta.
– Quante volte, nel corso della tua esperienza come embedded, hai davvero avuto paura?
Da embedded la paura la vivi perché sei esattamente dentro una guerra. Non è che i soldati americani erano lì per occuparsi di noi o per difendere noi. Erano lì per fare la loro guerra. E noi eravamo semplicemente, come dire, coinvolti nelle stesse vicende. E siccome quella in Iraq non è stata una simulazione di guerra o un gioco alla guerra, ma una guerra vera, ci sono stati molti momenti in cui abbiamo avuto paura.
– Cos’è che spinge una giornalista a rischiare la vita per tentare di raccontare una verità così sfuggente e, a volte, ineluttabilmente ambigua?
La passione per il proprio lavoro. La voglia di raccontare la realtà, che è quella che non può essere sotto gli occhi di tutti. La voglia di andare fino in fondo per guardarla in faccia e per cercare di capire qual è il senso delle cose.
– Nel libro, di tanto in tanto, citi alcuni blog come unica fonte di informazione disponibile in circostanze particolari, o come controinformazione. Qual è stato il ruolo dei blog nel contesto della guerra in Iraq?
All’inizio della guerra non particolare. I primi mesi del 2003, subito dopo l’invasione americana – quindi marzo, aprile, maggio – sono stati mesi in cui gli iracheni erano divisi tra l’euforia di chi si sentiva liberato e l’angoscia di chi vedeva crollare il proprio potere. Poi quando s’è capito che questa liberazione, in realtà, portava tutte conseguenze nefaste, che gli americani stavano facendo cose diverse da quelle che gli iracheni si aspettavano, che rapidamente si stava chiudendo la palude sopra la possibilità di raccontare le cose, o di raccontarsi per come si era, molti blog sono diventati per gli iracheni l’unica possibilità di racconto. Poi adesso, che per i giornalisti, e in particolare per i giornalisti occidentali (ma non solo), diventa difficile o impossibile raccontare da dentro il conflitto iracheno, i blog sono proprio le voci che arrivano dall’interno della storia. Quelle che altrimenti non si potrebbero sentire.
– Cosa pensi dell’esecuzione capitale inflitta a Saddam Hussein?
Mi sembra la perfetta conclusione di una tragica serie di errori. L’errore culmine che chiude una sequenza di errori impressionante. Penso che, per chi pensava di non trasformare Saddam Hussein in un simbolo, averlo ammazzato nel giorno del sacrifico sia stata, come dire… l’ultima ironia.
– Monica, cosa ti rimane oggi – a distanza di tempo – della tua esperienza irachena?
La mia esperienza irachena non è stata la mia esperienza da embedded. La mia esperienza da embedded è durata una manciata di settimane, quella in Iraq è durata più di un anno in periodi alterni. Che cosa mi rimane? Mi rimane moltissimo. Mi rimane soprattutto il fatto di sentirmi molto, molto legata alle vicende e ai destini di quel Paese, di quella gente, delle persone che ho conosciuto e di quelle che non ho mai visto. E mi rimane la grande amarezza di una storia che abbiamo tentato di raccontare: qualche volta ci siamo riusciti, qualche volta abbiamo fallito. Ma soprattutto di una storia che, nonostante l’impegno profuso nel raccontarla, è andata nel modo peggiore possibile. E adesso sono gli iracheni che ne pagano le conseguenze.
La fine della verità
di Monica Maggioni
Longanesi, collana “Le spade”, 2006
pagg. 226, euro 14,60
Monica Maggioni è nata a Milano e fa la giornalista. Ha raccontato le ultime guerre del pianeta in televisione, sui giornali e scrivendo libri. In Dentro la guerra (Longanesi, 2005) ha narrato la sua esperienza di unica giornalista italiana embedded con le truppe americane in Iraq. Per i suoi reportage ha ricevuto il Premio Luigi Barbini nel 2004.