Da un po’ di tempo mi domando fino a che punto Internet abbia modificato le nostre esistenze, le nostre abitudini, il nostro modo di relazionarci al mondo della comunicazione, dell’informazione, dei media. Ed è una domanda che mi pongo soprattutto da quando il Gruppo L’Espresso ha inserito Letteratitudine tra i propri blog d’autore.
Sul fatto che Internet sia una vera rivoluzione – la più grande da Gutenberg in poi – non c’è alcun dubbio (con i suoi pro e i suoi contro).
Sono convinto che nel tempo – ma il processo è già avviato – il web fagociterà tutti i mezzi di comunicazione. Il futuro massmediatico, a mio modo di vedere, sarà un sistema integrato che avrà al centro la Grande Rete. Televisioni e testate giornalistiche cartacee non possono far finta di nulla. E infatti si stanno preparando per affrontare le nuove sfide. Il progetto Repubblica Tv, per esempio, va proprio in questa direzione.
Certo, rimane da interrogarsi sulle possibili evoluzioni del fenomeno (sulle sfaccettature) in modo da potersi adattare ai cambiamenti con tempestività.
Per esempio, quale sarà il ruolo dei blog negli anni che verranno? È un fenomeno temporaneo? È una moda che tenderà ad affievolirsi fino a scomparire? Oppure più che una moda è il frutto di una esigenza che finirà con il consolidarsi? Molti blogger getteranno la spugna per stanchezza, per noia, perché i risultati ottenuti saranno inferiori alle aspettative? Sopravvivranno solo i migliori? Gli highlander della rete? O, come ha sostenuto Geert Lovink, i blog rappresentano un artefatto decadente attraverso cui il modello dei media di massa sta vivendo il suo declino?
Tempo fa Monica Maggioni mi ha rilasciato un’intervista in occasione dell’uscita del suo libro «La fine della verità». Ne ho approfittato per chiederle qual è stato – a suo giudizio – il ruolo dei blog nell’ambito della guerra in Iraq. La giornalista mi ha risposto che a un certo punto del conflitto “molti blog sono diventati per gli iracheni l’unica possibilità di racconto. Poi adesso, che per i giornalisti, e in particolare per i giornalisti occidentali (ma non solo), diventa difficile o impossibile raccontare da dentro il conflitto iracheno, i blog sono proprio le voci che arrivano dall’interno della storia. Quelle che altrimenti non si potrebbero sentire.”
E già questo mi pare molto significativo.
Per quanto concerne i blog letterari segnalo un’interessante monografia firmata da Mauro Novelli e pubblicata su “Tirature ’06” (a cura di V. Spinazzola, Il Saggiatore, 2006) dal titolo: “La critica al tempo dei blog“. Tra le altre cose Novelli scrive: “L’esplosione del fenomeno blog, sorto da noi col nuovo millennio, da tempo ha investito in pieno i territori della critica. (…) È chiaro a tutti che siamo in un periodo di transizione, alle prese con un gigantesco cambio di paradigma nell’accesso all’informazione. In ambito letterario si resta perciò delusi di fronte ai tanti che reagiscono limitandosi a celebrare con dolenti epicedi la presunta morte della terza pagina d’un tempo, che – detto per inciso – non ha avuto tra le sue qualità quella di aprirsi alla cerchia dei lettori che la scolarizzazione ha nel frattempo reso virtualmente interessati. (…) I litblog, viceversa, (…) riuscirebbero a intercettare un pubblico finora trascurato o vilipeso. Avrebbero insomma una funzione democratizzante (…)”.
In merito alle possibili evoluzioni dei blog letterari mi pare molto significativo un bel post scritto da Loredana Lipperini su Lipperatura.
Del resto Internet sta condizionando anche il mercato dell’editoria. Ci sono editori, ad esempio, che hanno deciso di adottare il cosiddetto copyleft consentendo di scaricare gratuitamente interi romanzi che possono (o che potranno) essere acquistati in forma cartacea. È il caso, giusto per fare due nomi, di Alberto Gaffi – con la sua casa editrice – e di Giulio Mozzi – con vibrisselibri – che ho intervistato qualche giorno fa (potete leggere l’intervista cliccando qui).
Abbiamo già avuto modo di discutere di casi di editoria print on demand. Di recente, peraltro, anche un autore noto come Giuseppe Genna ha deciso di utilizzare il canale Lulu (Genna ha anche consentito ai suoi lettori di scaricare il libro in questione – “Medium” – gratuitamente dal suo sito).
E in questi giorni è venuto alla luce il nuovo progetto/romanzo di scrittura collettiva dei Wu Ming: Manituana.
Torniamo al concetto di sistema di comunicazione integrata. A un certo punto potrebbe venirmi in mente di citare Pier Paolo Pasolini e di riportarvi il suo pensiero relativo ai medium di massa (come li chiamava lui). Potrei ricordare cosa Pasolini pensava della televisione. Solo che, anziché riportare il testo di un intervento, potrei fare in modo di farvi sentire la sua voce e farvi vedere il suo volto… mentre parla.
Potrei scrivere per esempio (rivolgendomi a chi dispone della connessione veloce e possiede un pc dotato di altoparlanti): “Per favore, cliccate sul simbolo play in basso a sinistra nel riquadro sottostante”.
[kml_flashembed movie="http://www.youtube.com/v/A3ACSmZTejQ" width="425" height="350" wmode="transparent" /]
Avete ascoltato e visto il video?
Pasolini – lo avete sentito – sosteneva che “la televisione è un medium di massa. E un medium di massa non può che mercificarci e alienarci“. E poi che “nel momento in cui qualcuno ci ascolta sul video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore; che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.”
Domanda. Cosa penserebbe Pasolini di Internet, considerando che il web – a differenza della televisione – crea rapporti democratici? E poi… come medium di massa, anche Internet non può che alienarci e mercificarci?
Di recente è uscito in libreria un volume molto interessante edito da Donzelli. L’autore è il giornalista della Stampa Vittorio Sabadin. E il titolo è «L’ultima copia del New York Times».
Nel primo capitolo Sabadin cita Rupert Murdoch, il più importante editore del mondo. “Il mondo sta cambiando molto in fretta” dice Murdoch. “Chi è grande non sconfiggerà più chi è piccolo, ma chi è veloce batterà quelli che sono lenti.”
L’elemento chiave, secondo Murdoch, è la velocità. Giocare d’anticipo. Saper leggere il proprio tempo (leggere il proprio tempo… in tempo, aggiungerei io). Ed ecco cosa Murdoch pronunciò il 12 marzo del 2006, nell’ambito di una conferenza alla Worshipful Company of Stationers and Newspaper Makers di Londra. Il tema era il futuro dell’informazione scritta: «Le società o le compagnie che sperano che un glorioso passato le protegga dalle forze del cambiamento guidate dall’avanzante tecnologia falliranno e cadranno. Una nuova generazione di consumatori di media è davanti a noi e chiede di ricevere informazioni quando le vuole, dove le vuole e come le vuole. C’è solo un modo, utilizzare le nostre competenze per creare e distribuire un contenuto dinamico e brillante. Ma i giornali dovranno adattarsi, perché i loro lettori ora chiedono di ricevere notizie su una gran varietà di piattaforme: siti web, iPods, telefonia mobile, laptop. Credo che i quotidiani avranno ancora molti anni di vita, ma sono anche convinto che nel futuro l’inchiostro e la carta saranno solo uno dei molti modi con i quali comunicheremo con i nostri lettori».
Nel testo Sabadin sottolinea che: “Probabilmente, l’unica e vera e banale ragione per la quale i giornali vendono meno copie è che nessuno ha più tempo di leggerli”. E poi che: “Nel bilancio di una famiglia, buona parte delle risorse economiche che una volta venivano utilizzate per l’acquisto di giornali è ora destinata a pagare le bollette telefoniche dei figli, le connessioni a linee veloci per il web, gli abbonamenti alle tv tematiche. Rispetto ai loro nuovi concorrenti, i giornali sono rimasti molto indietro: sono lenti, costosi da produrre, difficili da consumare. Richiedono tempo e impegno, molti sono ancora in bianco e nero, come un secolo fa. (…) Nell’autunno del 2006, il New York Times riduceva le previsioni dei propri introiti di oltre il 30 per cento e il glorioso Boston Globe, chiudeva l’anno con la peggiore performance della sua storia, dovuta, secondo gli analisti, al fatto che ormai quasi l’80 per cento delle case di Boston avevano un collegamento a Internet a banda larga. Mentre i giornali americani annunciavano l’ennesimo calo di copie vendute, il numero dei visitatori ai loro siti Internet cresceva del 25 per cento, i siti web del mondo superavano i 100 milioni, registrando un incremento del 100 per cento in meno di due anni, e il motore di ricerca Google, realizzato con 10.000 dollari presi in prestito da un emigrato russo, Sergey Blin, dichiarava il sorpasso nella raccolta pubblicitaria in Gran Bretagna della televisione Channel 4, la seconda del paese.”
Sul Magazine del Corriere della Sera del 15 marzo 2007 è stata pubblicata un’intervista a Vivian Schiller, General Manager del New York Times online, che è oggi considerata la donna più potente del web. La Schiller, tra le altre cose, ha dichiarato: “Noi del Times non consideriamo giornale cartaceo e giornale web come antagonisti in gara per distruggersi l’un l’altro ma come due forze complementari. (…) Ciò che rende le nostre chat room e i nostri forum unici è l’avere i lettori più colti, curiosi e intelligenti del mondo. (…) Le loro opinioni hanno elevato enormemente il livello e la qualità del nostro sito. (…) E crediamo molto anche nei blog: ne abbiamo oltre 30, la loro qualità è elevata come il resto, ma sono più veloci e immediati“.
Infine tiro in ballo la rubrica Contrappunto di Riccardo Chiaberge (cfr. Domenicale de Il Sole-24Ore del 4 marzo 2007) , dalla quale apprendiamo che secondo la scrittrice Antonia Byatt “saremo governati da una sorta di populismo del consenso: opinioni e scelte politiche dettate da blog, siti web e focus group“.
Credo che i temi che sto tentando di affrontare siano seri e non possano essere trascurati.
Ecco perché vorrei aprire qui un dibattito a largo raggio.
Mi piacerebbe discutere con voi sul futuro dell’informazione e della comunicazione. In generale. E della reale possibilità di “fare cultura vera” attraverso la rete e attraverso i blog. Sulle opportunità e sui limiti. Sugli scenari futuri.
E mi piacerebbe coinvolgere i responsabili delle testate giornalistiche e dei gruppi editoriali (a cominciare da quello che ospita questo sito); così come i giornalisti (televisivi e della carta stampata), gli scrittori, gli editor, gli editori, i critici letterari, ecc.
Sarebbe davvero interessante – e indicativo – se un dibattito serio e articolato sulle suddette tematiche riuscisse a svilupparsi con successo proprio su un blog.
Confido in un’ampia partecipazione. Soprattutto da parte di coloro che sono particolarmente attenti e attrezzati per riuscire a destreggiarsi nell’ambito di scenari caratterizzati da alta velocità, ipertecnologia e multimedialità.
Dunque, ricapitolando, il dibattito verte sui seguenti punti (tra loro strettamente connessi):
– Internet come motore centrale di un sistema di comunicazione integrato;
– Internet e il futuro della televisione;
– Internet e il futuro dell’informazione cartacea;
– Il futuro dei blog (e dei blog letterari in particolare);
– Internet come medium di massa, ma democratico.
C’è parecchia carne al fuoco, ma non spaventiamoci…
Vi lascio con la domanda: cosa penserebbe Pasolini di Internet?
Parafrasando Bob Dylan (la risposta sta soffiando nel vento) mi verrebbe da dire: la risposta sta circolando nella rete.
A voi la parola.
Massimo Maugeri
Come sempre il filtro è l’uomo, il responsabile dell’equilibrio “cosmico”, l’ago della bilancia. Stiamo sperimentando, per volontà del Ministero, la didattica multimediale nelle aule. Per quanto mi riguarda uso il tutto come un mezzo, non come un fine. Scusate la semplicità del mio pensiero, ma quando semplicità significa densità di senso ben venga la semplicità. Internet e la cibernetica sono un validissimo aiuto, fermo restando che dietro ad essi c’è sempre il mio ditino che clicca, espressione del mio cervellino che pensa!
Rivedo oggi lo stupendo dibattito (non cesserò mai di ringraziarti per avercelo riproposto)su di una rete moderna (P.P. avrebbe accettato Mediaset?), Pasolini invecchiato e canuto, ma forse ancora più duro e severo, nonostante il colore che arrotonda la rabbia. Pierpaolo avrebbe detto ancora: “attenzione,Internet mi fa paura, la sua velocita mi opprime, la sua anarchia può diventare monarchia, la mancanza di autocensura, che un tempo era rivoluzionaria, oggi potrebbe distruggerci, comminandoci false verità, uccidendo qualsiasi nascente “nuova filosofia”, perchè lo è diventata essa stessa, una filosofia di massa, non codificata e per questo soggetta a qualsivoglia orrenda manipolazione. Il grande fratello sconosciuto che si autoalimenta come un virus, il mare pensante di “Solaris”, il monolito di “Odissea 2001 nello spazio”. Delle regole andrebbero bene, ma non sono più applicabili, ormai si è preso il largo verso “Capo Horn”, il mare è in tempesta,potremo doppiare il capo o annegare, ma in questo caso sarà solo fortuna, fortuna!
Secondo me quello dei blog è un fenomeno modaiolo. Voglio dire, avete dato un’occhiata in giro? La fiera dell’inutilità si è espansa a dismisura.
La maggior parte dei blog messi sulla rete sono inutili (questo dove scrivo rappresenta un’eccezione). Io stesso ha curato un blog per qualche mese, poi l’ho chiuso perché mi sono reso conto che mi stava prosciugando. Ero ossessionato dall’idea di “catturare” visitatori. Ma alla fine mi sono reso conto che era inutile. E l’ho chiuso. Così come chiuderanno la maggior parte dei blog. O forse, ne sorgeranno sempre di nuovi ma avranno vita breve.
In fondo è come se tutti volessimo salire sul palco e recitare il nostro comizio. Ma se tutti saliamo sul palco, dov’è il pubblico?
Cosa avrebbe detto Pasolini?
Partendo dal presupposto che un intellettuale vero dovrebbe puntare il dito sui difetti del sistema, sulle sue storture, e considerando che Pasolini era un intellettuale di “rottura”, sono d’accordo con Francesco Di Domenico.
Probabilmente Pasolini avrebbe messo in evidenza i rischi e le contraddizioni di Internet. Però ne sarebbe stato un abile utilizzatore. In fondo contestava il video, ma non disdegnava le telecamere.
orazio f., non sono d’accordo. internet è una vera rivoluzione. ed è una rivoluzione che s’impernia sulla democraticità e sulla libera diffusione dei contenuti. se poi da qualche parte, come evidenzia lei, i contenuti non ci sono, beh, questo è un altro discorso. ciò che conta è che chi ha davvero qualcosa da dire, chi ha talento, ha oggi la possibilità di farsi ascoltare da un grande pubblico, che è quello della rete. tale possibilità, una volta, non esisteva. la possibilità di esprimersi, o di esprimere il proprio talento, doveva “passare” per forza di cose dal vaglio di qualcuno che doveva decidere se tu valevi o no. e le pratiche clientelari facevano la differenza. è vero che, in parte, la fanno ancora oggi, la differenza. però oggi puoi scrivere direttamente su internet, puoi produrre video e metterli su youtube, o produrre pezzi musicali e metterli online con i mille supporti che ci sono. e se vali, se vali davvero, un riscontro lo avrai.
internet, dunque, con i suoi pro e i suoi contro, è una vera rivoluzione. che è solo all’inzio. in ogni caso, indietro non si torna.
Massimo, posso mandarti a quel paese? Perchè hai messo questo eccellente post, ricco e denso, stimolante e vastissimo? Si potrebbe discuterne per ore e ore, approfondendo i singoli temi.
E così, col poco tempo che ci rincorre tutti, butto là solo un paio di piccole osservazioni.
1) Fra la televisione e Internet c’è una differenza (una delle tante) enorme: la prima ti porta alla totale passività (al massimo puoi usare il telecomando), la Rete ti dà la possibilità di agire e di interagire.
2) Internet e i pc non sostituiranno i libri cartacei, perchè la lettura di un volume è fatta anche di olfatto, tatto, vista, profumi, epidermide liscia e morbida delle pagine, fruscio della carta, un sonoro stak quando richiudi il libro, odori di inchiosto e rilegatura.
3) Il web è uno strumento eccezionale, di libertà e di conoscenza, di contatti e di comunicazione.
4) Uno dei rischi è che ci si trovi sempre più in presenza di un eccessivo e mostruoso, non catalogato (nè catalogabile) patrimonio di informazioni nel quale sarà difficilissimo orientarsi.
A proposito di Gutenberg: Questo ucciderà quello
“La stampa ucciderà la Chiesa. Ma sotto questo pensiero, indubbiamente il primo e più semplice, ce n’era a parer nostro, un altro, un pensiero più nuovo […] Era il presentimento che il pensiero umano, mutando forma, stava per mutare modo di espressione, che l’idea fondamentale di ogni generazione non sarebbe più stata scritta con la stessa materia e nel medesimo modo; che il libro di pietra, per solido e durevole che fosse, stava per lasciare il posto al libro di carta, ancora più solido e duraturo. […] significava che un’arte stava per detronizzarne un’altra. Voleva dire: La stampa ucciderà l’architettura.
Quando la memoria delle prime stirpi si sentì sovraccarica; quando il bagaglio e i ricordi del genere umano diventò così pesante e così confuso che la parola, nuda e volante, arrischiò di perderne parte per istrada, si trascrissero sul suolo nel modo più visibile, più durevole e più naturale ad un tempo. Si sigillò ogni tradizione con un monumento.”
Sono parole di Victor Hugo (Notre-Dame, quinto libro, secondo capitolo) e sono parole molto belle che il grande romanziere dedica al bisogno dell’uomo di lasciar traccia di sé. “Che libro ben altrimenti solido, durevole, resistente è mai un edificio! Per distruggere una parola scritta, basta una torcia e un barbaro. Per demolire una parola costruita, ci vuole una rivoluzione sociale, una rivoluzione terrestre.[…] Nel quindicesimo secolo tutto muta. Il pensiero umano scopre, per perpetuarsi, un mezzo non soltanto più durevole e più resistente dell’architettura, ma anche più semplice e più facile. “ Le lettere di piombo di Gutenberg: il libro. Il ragionamento continua sviluppandosi e toccando altri temi, altri confini, ma per un intervento sul blog mi fermo per chiedere/vi: “il salto quantico” delle tecnologie di comunicazione della stampa a carattere mobile di Gutenberg alle nuove tecnologie digitali, chi ucciderà?
Internet, con i suoi blog e tutta la sua potenza comunicativa, ucciderà la stampa? Oppure questa produzione esagerata di pensieri, nozioni, informazioni; questo infinito immenso di parole, che non sta dietro una siepe, ma a portata di tastiera, ucciderà il pensiero?
Le parole uccideranno i pensieri?
In Florida a Windermere c’è un grande parco di scultura monumentale, fra le installazioni, ce n’è una molto recente. La forma è quella di un uomo che sta pensando, seduto un po’ al di sopra della riva di un fiume. E’ una scultura grande, imponente e insieme evanescente e inafferrabile, perché è fatta di vuoto.Lettere di metallo, saldate le une alle altre danno la forma al vuoto dell’uomo. E’ un’immagine straordinaria, affascinante, rassicurante eppure è la rappresentazione di un vuoto.
Per Massimo: su Pasolini ho una mia personalissima opinione che, solitamente, non è mai condivisa :grande intellettuale, generoso dispensatore di parole, bravo regista, poeta, giornalista ;
un vero uomo senza qualità. Uno spudorato decadente che pagava i poveri per soddisfare il suo sesso. Vorrei che riposasse in pace.
Vi ringrazio per i complimenti e per i contributi.
A Luciano dico: “Se devi proprio mandarmi a quel paese, che sia un paese verdeggiante e a misura d’uomo (ma connesso alla Rete)”.
Scherzi a parte, Luciano, credo molto in questo post e sono intenzionato a lasciarlo in primo piano per tutta la settimana nella speranza che il dibattito possa allargarsi e che si possano affrontare le diverse tematiche (che come dici tu sono tante).
Ritorna pure sull’argomento (o sugli argomenti) in maniera più analitica, se lo ritieni.
Il “coinvolgimento” di Pasolini funge un po’ da cornice ai punti evidenziati sul post. Però davvero sarebbe interessante ipotizzare quale potrebbe essere il pensiero di Pier Paolo (se fosse ancora tra noi… ma lo è attraverso i suoi scritti) rispetto al fenomeno Internet.
Intanto ne approfitto per gettare un altro po’ di carne al fuoco.
Su “Affari & Finanza” allegato a Repubblica di oggi, 19 marzo 2007, a pag. 6-7 potete leggere un articolo di Giuseppe Turani intitolato: “I padroni di Internet, democrazia incompiuta”.
Turani, che saluto, tra le altre cose scrive: “(…) più di un miliardo di persone usa ormai regolarmente la Rete e il dato, ovviamente, aumenta ogni giorno. (…) Di recente qualcuno ha calcolato che su Internet si trovano tante di quelle informazioni che il loro numero è pari a tre milioni di volte a quelle contenute in tutti i libri pubblicati sino a ora. (…) È il caso di notare che la Rete deve il suo enorme successo e la sua incredibile diffusione al fatto di non avere mai avuto un proprietario. (…) Se uno osserva attentamente la Rete, si accorge che oggi un padrone c’è, è noto a tutti, ed è molto popolare, e molto duro, potente e prepotente: si tratta di Google. (…) Google è l’unico potere che oggi vi può condurre qui e là nella Rete. È per questo che dico che Google è il vero padrone di Internet. E lo sarà ancora di più in futuro. (…) Forse Internet è ancora una democrazia, ma di sicura comincia a essere una democrazia molto guidata.”
Credo che Giuseppe Turani (che naturalmente invito a partecipare al dibattito) abbia ragione. Però credo anche che la posizione raggiunta oggi da Google sia stata ottenuta “democraticamente”, sfruttando – appunto – le potenzialità democratiche della Rete. È chiaro, poi, che a parità di opportunità ciò che fa la differenza sono le idee e l’intraprendenza. Voglio dire, non è detto che Google e YouTube (che è una costola di Google) nel futuro non possano essere scalzati dal loro dominio di fatto (così come, del resto, fu scalzato – e proprio da Google – Altavista, che prima dell’avvento ddi Brin e Page.
O no?
Miriam, scusami!
Non avevo letto il tuo ottimo e stimolante intervento. Ti ringrazio molto per aver riportato le parole di Hugo riferite a Guntenberg al fine di poter fare un parallelismo con la “rivoluzione” in atto.
Su Pasolini accetto il tuo punto di vista. Però secondo me, dal punto di vista letterario, e nei limiti del possibile, sarebbe bene distinguere le opere (e di riflesso il pensiero) dalla vita privata del loro autore.
Lo scrivo per l’ultima volta… “mi stupisco di ristupirmi che voi vi ristupiate” ancora una volta a proposito del fenomeno internet, blog, e dintorni. Bastava vedere che una come, lontana mille anni luce dal solito cronicario di vip,vipposi,critici rancorosi o manipolati dal culto dell’immagine, abbia prestato attenzione al web in anni non sospetti…ma già, le persone semplici, sincere, oneste e genuine non manipolabili, non sono da seguire…
Comunque ho avuto ragione io…e vanto scritti nel web dagli anni 80′-90′. Infatti… ha ragione Luciano, il libro è il libro…e come ho detto…”qualunque sia il suo costo il libro è sempre un dono”…..
Se però, nel web ci sarà soltanto un travaso del peggio del peggio…della solita gente che vuole soltanto apparire, che vuole i caratteri della font al massimo della grafica esponenziale…allora servirà chiedere a Gates di inventarsi un trasloco su altri siti più irraggiungibili….e così via di seguito, inizierà la fuga ripetitiva dal mediocre copia ed incolla, dai soliti testi corposi e ampollosi, in ricordo di, in memoria de. Diglielo tu Luciano, che se non ci inventiamo qualcosa di inventabile, che noia, mamma che noia! Ma lo sapete che almeno per cambiare bandiera in tv occorre soltanto fare lo zapping invece in internet, si salvi chi può, non basta fare clic, perchè il copiaedincolla ti può piazzare in contemporanea in più spazi e mentre ti esprimi magari su un sito di AN e UDC dici le stesse cose dalla parte opposta.Ora questo per me è il bello del bello, ma per me che sono sapone neutro di marsiglia…per bambini, ma chi non è vaccinato a reggere il “plurimpatto” che fine farà?
Un consiglio: indossate dei paraocchi, imparate a scrivere sulla tastiera col sistema cieco come faccio io…senza guardare dove vadano a finire le idee che esprimi…tanto se piacciono, te le prendono le mettono in un decanter aggiungono un po’ di sale fino e zucchero di canna e le adoperano sotto nomi diversi…e tu, che fine fai? Boh! Al massimo ti inviano una mailing list in ordine alfabetico che non ti servirà a niente….Insomma internet non è un’emittente è un’impresa globale in proprio di autotraslochi in continuo movimento…Bisogna vedere se sei un neopatentato, devi stare molto attento!!!Perchè mentre adesso con qualche quizzetto e una paghetta sottobanco la patente ancora la prendi magari in provincia…fuori sede, mentre chi la patente la prese trentanni fa, l’esame lo sostenne con fior di ingegneri e se vede un filino di fumo uscire dallo schermo, sa come spegnere l’incendio….Ma lo sapete che questo web si sta facendo troppo stretto per i miei gusti…Io sono un topolino, ho bisogno di spazio!!!!Pistaaaaaaaaaaa!
Antonella Sarandrea, dell’ufficio stampa della Donzelli, mi comunica che ad aprile uscirà una versione aggiornata del volume di Vittorio Sabadin: L’ultima copia del «New York Times».
Quindi sposto il dibattito sul tema “Internet e il futuro della carta stampata”, anticipandovi un brano che farà parte della nuova edizione del libro citato (che sarà arricchito da una prefazione di Gianni Riotta).
«Davvero, non so se da qui a cinque anni continueremo a stampare il giornale…» Arthur O. Sulzberg, editore del «New York Times»
“Arthur Sulzberger jr., l’editore del “New York Times”, ha detto di non credere che il suo giornale sarà ancora in edicola nel 2013. L’edizione su carta sarà sostituita da contenuti diffusi attraverso Internet da una nuova redazione multimediale, che il quotidiano più importante del mondo sta organizzando. La crisi di vendite che affligge i giornali da una ventina d’anni lascia pensare che la previsione sia realistica”.
Aggiungo che, successivamente, Vivian Schiller (citata nel testo del post), General Manager del New York Times online, ha ri-rettificato le parole di Arthur Sulzberger sostenendo che la vita del giornale cartaceo non sarà, in effetti, così breve.
Mi piacerebbe tanto conoscere le opinioni degli amici giornalisti delle varie testate.
Internet ha favorito la libera circolazione delle idee, essa é un immenso deposito di informazioni, un medium di integrazione sociale, utile anche nei progetti di ricerca con relative pubblicazioni. Inoltre enti pubblici e privati possono documentare, in tempo reale, le proprie attività.
Ma non tutto il pubblico è maturo e preparato alle nuove tecnologie dove l’abbondanza di informazioni è legata alla necessità di ricercare e
discriminare. In Italia l’uso di Internet procede lentamente tra cautele
soprattutto tra la popolazione meno giovane per cui credo ci vorranno alcune generazioni perchè questa resistenza sia sconfitta.
Ci si può chiedere se la carta stampata non sarà a rischio con questi nuovi mezzi di comunicazione. La risposta può essere che molta gente si affeziona ad un Autore, ad un Quotidiano per cui preferisce “possedere” e leggere con calma ciò che ha visto su Internet.
Forse ancora oggi e in futuro, la parola su carta induce ad una maggiore riflessione, invita a chinarsi con pazienza su di essa per coglierne appieno il senso.
Massimo, i più sinceri complimenti. Bellissimo post. Belli anche i contributi degli intervenuti.
Io al momento non saprei che aggiungere, se non che dal mio punto di vista, e in generale, Internet è una opportunità e i pro superano di gran lunga i contro.
Spero che gli addetti ai lavori che tu hai chiamato in causa si facciano vivi. Piacerebbe anche a me, come a tutti, conoscere il loro parere nei diversi ambiti.
Terrò d’occhio questo post con particolare attenzione.
Dimenticavo. Grazie per aver proposto questa videointervista a Pasolini. Non l’avevo mai vista, né ascoltata.
Un caro saluto.
contribuisco al dibattito sui blog letterari segnalandovi un’intervista si qualche tempo fa fatta alla Lipperini che mi parse piuttosto interessante.
la trovate qua http://www.romanzototale.it/mompracem/2006/10/10/il-covo-dei-blogger-lipperini-faccio-prima-il-libro-e-poi-il-blog/
vi ricopio solo l’ultima domanda e risposta:
(domanda) Secondo te, qual è il futuro dei blog? E come si evolveranno?
(risposta) «Per principio, non faccio profezie. Però ti regalo una frase di un fenomenologo americano, Dan Lloyd, che sostiene che Web e blog rappresentino, con la contemporanea sovrapposizione di passato e presente, la stessa coscienza umana così come le neuroscienze (e la filosofia) la vanno prefigurando ultimamente. Mi sembra di buon auspicio».
Buona giornata a tutti voi. E grazie per i nuovi commenti.
Oggi sarò fuori sede e potrò visionare il blog solo a tarda sera.
Però vi lascio un ulteriore “spunto”…
A proposito di Internet e democrazia, il 6 marzo Stefano Rodotà ha tenuto un interessante discorso a Montecitorio. L’occasione è stata l’apertura della Conferenza internazionale dell’Unione interparlamentare. Tra le altre cose, Rodotà, ha sostenuto quanto segue: “Pure l’età digitale ha i suoi peccati, sette come vuole la tradizione, e che sono stati così enumerati: 1) diseguaglianza; 2) sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 4) disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia; 6) tirannia di chi controlla gli accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale. Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l’opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di “società della conoscenza”.
(…)
Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di potere. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi cittadini.
Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, se la conoscenza viene chiusa in recinti proprietari senza considerare proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni”.
Continuate a intervenire, su…
Carissimo Maugeri,
per continuare ad intervenire il dr.Rodotà mi dovrebbe elencare almeno altri sette punti a favore di internet..Ma credo che pur con tutta la sua indubbia capacità, appartenendo alla generazione ante-web, non ci riuscirà facilmente….Ci riesce soltanto chi non avendo fruito della Libertà che gli sarebbe dovuta spettare come essere umano, non avendo avuto di che godere del patrimonio economico come invece capita a chi bazzica nei palazzi…ha trovato in internet la vera e unica manna….un posto dove non devi firmare carte bollate o fare autocertificazioni per dire quello che pensi…un posto dove, puoi anche cambiare nome, età e professione. Certo queste non sono note positive del tutto…ma se vediamo che anche chi avrebbe dovuto rappresentare il popolo prima o poi commette vari errori…non vedo perchè si richieda la perfezione nei comportamenti di chi stando dietro ad uno schermo nota che può essere libero di pensare e di scrivere senza raccomandazioni e senza essere figlio di…perchè in effetti poi chi è figlio di….una caratteristica in più la possiede: deve stare zitto perchè non sa che dire, il figlio di…il mondo non lo conosce e non sa neanche cosa siano le anticamere….il figlio di…sa che deve anche far finta di cominciare dal gradino più basso per darla a bere di non essere un raccomandato….il figlio di..di solito ha anche un sito più siti e non li paga neanche lui, li paga la società tutta…quindi aspetto questi sette punti, a favore del web da uno che di tutte queste faccende ne sa più di me……E poi, in ultima analisi, pensa a come sia comodo non doverti neanche truccare o fare i ritocchi estetici, non devi vestirti alla moda, non devi neanche avere una voce impostata…tanto non serve, almeno fino a quando non userai la webcam o l’audio con il pc…..E a questo punto, pur fornita di tutto punto, chi ce lo fa fare di accedere a quei servizi che ti affiancherebbero alle solite emittenti con i filtri e dintorni…Davanti allo schermo del pc, si può invecchiare, si può avere l’acne, la rosacea, la raucedine, i capelli non tinti, l’herpes simplex sulle labbra, le spalle curve e altro ancora, senza minimamente doverti preoccupare di essere quello che non si è…..a fare le sceneggiate, le fiction, le falsità d’immagine, non spetta a noi del web…e questo non mi sembra una cosa trascurabile…..con tutti i mistificatori che svettano nei soliti mezzi televisivi…Come mi sento libera e fortunata…ecco mi sento fortunata come su Google, la mia mammina cibernetica che tanto mi aiuta e tanto mi solleva dall’incomunicabilità delle solite comunications out….
maugeri, sei un ingenuo se pensi che i signori della carta stampata si facciano avanti su un blog a partecipare ad un dibattito come questo. del resto non avrebbero tutti i torti considerando che uno dei temi trattati è proprio l’ipotesi di una loro fine.
comunque il post è interessante. complimenti anche da parte mia.
che post impegnativo, massimo! QUANTE DOMANDE!
e quanto commenti documentati e intelligenti!
dico come la penso io, e ovviamente sono influenzata dalla mia personalissima esperienza e dalle mie conoscenze
internet ha cambiato la vita di tutti coloro che vi hanno accesso, segnando, come si diceva tempo fa in un articolo di repubblica.it (toh, che coincidenza, cito una fonte online!) un CONFINE HI-TECH tra i cittadini italiani (ci limitiamo all’italia, per carità, già ne so poco così!) che vi hanno accesso (per conoscenze linguistiche, informatiche e anche per possibilità economica di avere un computer -sono circa il 56%, leggevo nell’articolo) e tutti gli altri
ma anche limitandoci a questa ristretta maggioranza di privilegiati, internet ha cambiato la vita
ha cambiato le modalità di lavoro (io che lavoro da un notaio, non devo andare in conservatoria, né in camera di commercio, né al catasto per avere documenti aggiornati di poche ore sulla situazione catastale, ipotecaria di un immobile o sulla situazione di una società; del pari non devo più andare in tribunale a consultare l’elenco dei falliti…)
io che ho fatto traduzioni per alcune case editrici, non dovevo nemmeno uscire di casa, quando mio figlio era piccolo, per avere il dattilo e poi riconsegnarlo (e nemmeno dovevo alzare la cornetta per chiamare l’autore in canada o negli usa, per chiedere che accidenti intendesse con qualche espressione a me oscura!)
dunque, nel mio piccolo, internet mi ha aiutato e mi aiuta nel lavoro – e molto
a parte l’evidente semplificazione delle cose della vita, con le email, con la spesa online eccetera, internet ha anche dal punto di vista ludico conquistato uno spazio primario
io che non ho la televisione, posso vedere su youtube i filmati “di cui si parla”
del pari, posso essere informata in tempo reale di quello che accade nel mondo (in tutto il mondo! e non devo mettermi una parabola sul balcone, né pagare un abbonamento a una tv via cavo) (e posso sentire sempre “anche l’altra campana”!)
mio figlio, quando fa le ricerche, ha a disposizione l’ampia biblioteca di casa, e per gli aggiornamenti, ovviamente, si ricorre all’esame di molteplici siti (trovati e esaminati prima dalla mamma apprensiva)
relativamente alla circolazione di cultura (in generale: letteratura, musica, video eccetera) internet semplifica (leggi idiote permettendo), vedi appunto il riferimento all’editoria on demand o anche gratuita (abbattuti i costi di stampa e distribuzione, il “libro” costa proprio poco all’editore!)
sui blog, infine, credo che avranno vita lunga, massimo
lunghissima
non ci credevo nemmeno io, qualche anno fa
mi annoiavano…
ora li sto rivalutando, perché, come sempre, all’aumentare della produzione, la visibilità è limitata ai blog “meritevoli” (vedi il concetto di blog d’autore)
l’ultimo numero dei giornali cartacei non è proprio dietro l’angolo
il piacere di sfogliare la carta (per alcuni bibliofili come me è quasi morboso) non tramonterà per tutta la nostra generazione
ma certo quando la connessione a internet sarà ovunque accessibile senza fili con computer portatili di peso davvero minimo, cambierà il nostro modo di leggere le notizie (e anche i libri)
volendo giocare alla futurologa (un mestiere d’oro, si guadagna molto vendendo aria fritta e ti pagano ben prima di poter sapere se avrai ragione o no, un po’ come l’oroscopo) credo che internet soppianterà televisione tradizionale, radio, giornali e libri non prima di 75 anni
e ora, provate a smentirmi
cordialmente,
Isabella
Ringrazio molto la scrittrice Isabella Rinaldi (autrice di “Hey man”, Addictions, 2005) per il bel commento.
Hai ragione Isabella, il post è molto impegnativo e le cose che tu hai scritto per commentarlo parecchio interessanti.
Io non ci provo nemmeno a smentirti. Se tu pronostichi 75 anni (per la fine di televisione tradizionale, radio, giornali e libri)… 75 anni siano. E poi le facoltà preconiche di una donna sono sempre più affidabili di quelle di un uomo.
Per quanto concerne i blog tu scrivi che oggi ‘ all’aumentare della produzione, la visibilità è limitata ai blog “meritevoli” ‘. Ritieni dunque che i blog “non meritevoli” non perdureranno? Perché il punto è che, in questo momento, ogni utente di Internet (o quasi) ha un proprio blog.
Per Mark: guarda che nessuno ha ipotizzato la fine dei giornalisti, semmai l’ “evoluzione” dell’attività del giornalista in linea con l’evoluzione delle testate. Il giornalista del futuro potrebbe trovarsi a scrivere (ma questo avviene già adesso) molto più per il web che per la carta stampata, ma sempre lavorando all’interno di una testata. E sarà sempre più a diretto contatto con il lettore, con il quale dovrà confrontarsi giornalmente. Ma anche questo sta avvenendo già; basta dare un’occhiata ai siti web delle principali testate.
Spero che qualche giornalista professionista intervenga a questo dibattito; ma se ciò non avverrà, Mark, il motivo sarà imputabile alla “mancanza di tempo” (ti assicuro che nelle redazioni “si corre”). Del resto ci sono giornalisti professionisti che sono anche blogger.
Ti posso dire, intanto, che Vittorio Sabadin mi ha scritto per mail che è intenzionato a intervenire. Spero che riesca a trovare il tempo per farlo. In caso contrario… non c’è problema. Il dibattito rimane comunque aperto.
Ciao.
Pasolini parlava di un “medium di massa”, e senza dubbio, se fosse vivo oggi si esprimerebbe negli stessi termini (forse) a proposito della televisione e della comunicazione mediatica in genere. Io credo però che gli sfuggisse, e inevitabilmente, vista l’epoca “pionieristica” in cui si muoveva, quello che vorrei definire l’effetto di “ritorno” del mezzo televisivo e mediatico. Ad esempio, andando su YouTube, in Internet, ho appena visto il filmato della Rai che lo riguarda. L’ho visto e sentito parlare, e un velo di nostalgia mi è passato davanti agli occhi. Ora, un ragazzo che non sa chi è Pasolini, che non ha (ancora) letto i suoi libri o visto i suoi film, possiede, grazie al mezzo mediatico, uno strumento unico per capire o cominciare a capire qualcosa di lui, del suo mondo intellettuale e interiore. Ecco l’effetto di ritorno di cui parlavo poco fa. Credo insomma che possa darsi un uso democratico della comunicazione mediatica, e qui Internet svolge un ruolo ancor più radicale della televisione pura e semplice. E’ la comunicazione interattiva la vera rivoluzione in atto. Questo Pasolini non poteva prevederlo. Ma il suo monito continua a essere efficace, perché ciò che ci ha lasciato in eredità è un criterio per svelare la “ideologicità”, nel senso deteriore, di ogni atto o pensiero umani. E in campo editoriale, che è quello di cui mi occupo prevalentemente, vale quindi lo stesso discorso: si tratta di “usare” un mezzo innovativo di trasmissione del sapere per un fine di crescita culturale, anti-ideologica.
Elisabetta Sgarbi – editor Bompiani
il blog è contaminazione, per questo ritengo abbia un futuro più interessante di qualsiasi altra forma di comunicazione.
l’idea di scambiare opinioni su temi specifici è arricchimento.
la novità sta nel fatto che più persone si possono esprimere.
il fatto culturale nuovo è che la capacità individuale (se c’è) può essere valorizzata senza passare dai canali tradizionali.
un sistema democratico e nello stesso tempo complesso poichè le informazioni contenute in internet sono moltissime.
un blog letterario è una opportunità straordinaria per la specificità, il contenuto, l’opportunità offerta sia per il lettore che per chi intende offrire il proprio pensiero.
l’unico difetto: evitare che sia un confronto tra pochi.
che sia contaminazione effettiva.
massimo maugeri
la spezia
Concordo pienamente con Elisabetta Sgarbi, che colgo l’occasione per salutare, per quanto riguarda il “quesito pasoliniano” posto da Massimo Maugeri.Da un punto di vista squisitamente personale, considerato che da oltre un anno mi “diverto” anch’io a fare il blogger, come chi frequenta abitualmente “Letteratitudine” già sa, non posso che confermare la bellezza e la leggerezza al contempo di questo hobby-lavoro. Da quando ho iniziato mi sento al contempo: editore, redattore, giornalista e scrittore. Un sogno (forse da autentico megalomane…che ne dite?) che si è realizzato in un attimo. Ho un discreto numero di contatti quotidiani (una sessantina di media al giorno) per un blog tutto di musica classica e lirica non è davvero male, mi pare. Che posso volere di più dalla vita? Che i quotidiani paghino meglio i collaboratori delle pagine culturali, altrimenti è questo il vero rischio come diceva Orazio: molte illustri “firme” finiranno – prima o poi – a ritagliarsi e a confezionarsi il loro bravo blog/negozio virtuale/rivista in stile…Beppe Grillo 😉
Cari saluti a tutti.
Caro Massimo, ovviamente l’argomento è più che necessario, e altrettanto ovviamente non si esaurisce nello spazio di un post. Sia pur completo e approfondito come il tuo.
Non so rispondere alla domanda su Pasolini, in tutta sincerità (anche perchè, come si diceva qualche giorno fa ad un convegno, forse-ma non è un appunto a te, sia chiaro- bisognerebbe smettere di tirarlo in ballo, dal momento che svariati decenni ci separano dalla sua morte, e che nei medesimi sono avvenute cose imponderabili, e in numero impressionante, e di carattere così rilevante, e “rovesciante” che il suo pensiero non può, in alcun modo, essere applicato al complesso oggi che ci troviamo a vivere).
Però azzardo un’impressione sui litblog duepuntozero. Dopo un periodo vivacissimo, dove le discussioni che non trovavano più spazio sulla carta stampata si riversavano, ribollendo, sul web, mi sembra che allo stato attuale ognuno stia cercando una sua strada. Come è giusto. E mi sembra che in molti stiano cercando di far sì che questa strada sia di pari arricchimento: che chi interviene con i propri commenti, cioè, apporti qualità, e non solo vis polemica come nei primissimi tempi.
Mi sembra, inoltre, che attraverso il web molti scrittori stiano cercando di aprire il proprio mondo autorale ad altri autori: offrendo a chi naviga le immagini, i suoni, i retroscena di quanto il lettore trova in un romanzo. E invitando quello stesso lettore a costruire storie ulteriori su quella trama.
Mi pare, insomma, che si stiano chiedendo, e ricevendo, contenuti: che è cosa logica, se si pensa che attraverso Internet si veicola una nuova (antica?) forma di autoralità (in italiano suona malissimo, chiedo venia: era per tentare di rendere quello che gli studiosi americani chiamano fine della autorship).
Tutto questo è un inizio, un abbozzo, una possibilità. Nessuno, credo, è in grado di formulare profezia su cosa accadrà da qui a tre anni. Ma mi sembra che il cammino sia quello giusto.
Ad un patto: che chi interviene on line non riporti gli stessi pregiudizi dell’off line. Come Mark, che ti tacciava di ingenuità affermando che i signori della carta stampata non sarebbero mai intervenuti su un blog.
Mi sembra che molte persone che sulla carta lavorano stiano, da anni, intervenendo SOPRATTUTTO sui blog. Ad accorgersene, certo.
Stai bene.
Per quanto riguarda le possibili contaminazioni tra libri e video su Internet, segnalo il canale video della Marsilio che abbiamo aperto su Youtube, in cui sono presenti booktrailer, interviste, ecc.:
http://www.youtube.com/profile?user=marsilionews
concordo con la lipperini tranne che sul suo non concordare con la mia analisi da futurologa (altrimenti, lipperini, come faccio a costruirmi una carriera sull’aria fritta?)
internet è un mezzo di comunicazione di massa, MA interattivo
infine, preciso la mia opinione sui blog: avranno vita lunga
e sì, quelli senza spessore sono destinati a un misero avvenire, mentre gli altri sopraviveranno al loro stesso autore, come le testate giornalistiche sopravvivono al fondatore
è lo stesso che è accaduto con i siti internet (ricordate il proliferare quotidiano e incolto di siti dedicati a scritori emergenti, alla fine degli anni novanta?) (il tutto per tacer del flop della neweconomy)
a mio avviso, ribadisco e credo di spiegare meglio quanto sopra esposto, internet cambia la modalità di accesso all’informazione e parzialmente anche il linguaggio, ma non cambia né tanto meno elimina, la natura umana, che è fatta di desiderio di conoscenza e bisogno di comunicazione
cordialmente,
Isabella
Vi ringrazio molto per gli ulteriori contributi.
Ringrazio in particolare Elisabetta Sgarbi (che mi ha scritto anche per mail) con la quale condivido il “velo di nostalgia” per Pasolini. Credo che abbia proprio ragione quando sostiene che “E’ la comunicazione interattiva la vera rivoluzione in atto”. Elisabetta scrive anche che: “un ragazzo che non sa chi è Pasolini, che non ha (ancora) letto i suoi libri o visto i suoi film, possiede, grazie al mezzo mediatico, uno strumento unico per capire o cominciare a capire qualcosa di lui, del suo mondo intellettuale e interiore”.
Spero che ciò avvenga anche grazie a questo post.
Ringrazio molto Loredana Lipperini (per me il suo LIPPERATURA continua a essere il litblog di riferimento qui in Italia). Loredana evidenzia che: “Dopo un periodo vivacissimo, dove le discussioni che non trovavano più spazio sulla carta stampata si riversavano, ribollendo, sul web, sembra che allo stato attuale ognuno stia cercando una sua strada”.
E’ vero: molti dei blog letterari di oggi hanno una loro specificità.
“E mi sembra”, continua Loredana, “che in molti stiano cercando di far sì che questa strada sia di pari arricchimento: che chi interviene con i propri commenti, cioè, apporti qualità, e non solo vis polemica come nei primissimi tempi. Mi sembra, inoltre, che attraverso il web molti scrittori stiano cercando di aprire il proprio mondo autorale ad altri autori (…). Mi pare, insomma, che si stiano chiedendo, e ricevendo, contenuti”.
Verissimo!
Quindi, Loredana, evidenzi una trasformazione in senso migliorativo dei “litblog”…
E sugli eventuali difetti e limiti… che mi dici?
Per quanto concerne Pasolini sarebbe bello aprire un post a parte. Come ho già scritto, l’ho “coinvolto” anche per fornire una sorta di cornice a questo post che tratta di argomenti vari (sebbene tra loro correlati). E anche per mostrare (ai pochi che non se ne fossero ancora accorti) delle possibilità di interazione tra blog e videointernet (attraverso l’utilizzo di canali come youtube, googlevideo, myspace, ecc… “l’effetto di ‘ritorno’ del mezzo televisivo e mediatico”, per dirla come Elisabetta Sgarbi).
Loredana ha ragione quando sottolinea che è poco utile (per i motivi che ha esposto) continuare a tirare in ballo il grande Pier Paolo.
Perché citiamo spesso Pasolini, o tentiamo di “coinvolgerlo passivamente” ?
In parte per motivazioni di natura nostalgica (come evidenziava la Sgarbi), ma forse anche per l’esigenza di confrontarsi con una figura di “intellettuale forte” che è difficile trovare oggi in Italia (chi mi smentisce?).
Saluto Jacopo De Michelis: non c’è dubbio che Marsilio sia all’avanguardia per quanto concerne le contaminazioni tra libri e video su Internet (ottimi anche i vostri booktrailers).
E poi consentitemi di salutare il mio caro omonimo di La Spezia. Ciao, Massimo Maugeri del nord…
Miriam,
perchè finire quel bell’intervento con il sesso di Pasolini?
D’accordo anche sulla “qualità scadente”, ma sul sesso, è come se dicessi che quel signore che governava prima di Prodi è un cornuto, potrebbe essere vero, ma è gratuito!
Il sesso non si può sottovalutare. Così come non si può sottovalutare la nostra ( di noi intellettuali, fragili idealisti, scribacchini per lavoro o piacere)propensione a farci sedurre dai miti, o ancor peggio, dai luoghi comuni. Pasolini e Berlusconi sono due luoghi comuni, e tu li hai citati entrambi.
Pasolini era comunista, lo ero anch’io, e anche tutta la mia famiglia. Pasolini era un botghese, noi no!Pasolini sfruttava l’inconsapevolezza dei poveri, degli indigenti, dei cretini, per creare. Guarda i suoi film, io li ho amati ( avevo tutto di Pasolini, tutto), li ho visti e rivisti più volte. Usava i poveri ( di spirito e di mezzi), li usava per dar corpo alle sue tesi…Poi le cose per me sono cambiate, lo sono da quando sono diventata mamma e, anch’io ho “avuto” fra le mani un “inconsapevole” e allora ho cambiato idea, il bello è etico, e non c’è altro. Pasolini non ha avuto il dono della responsabilità e forse, questa è la cosa più triste, più della sua morte.
Tornando al sesso: ” La nostra pazzia è nel voler banalizzare la sessualità facendone qualcosa di frivolo.
…Violenza e sessualità sono inseparabili, e questo, perché si tratta sella cosa più bella e turpe che abbiamo”.
Ciao, Miriam
Miriam ha ragione e posso capirla bene. Certe cose bisogna provarle sulla propria pelle. In ogni caso, secondo me, di Pasolini (per carità, un grande intellettuale, scrittore, regista e quant’altro…) si parla molto, forse anche troppo, in questo periodo. E secondo me non sempre a ragione. Penso sarebbe, magari, il caso di discuterne in un post monografico apposito sull’argomento.In effetti,la marea di suggerimenti e di riflessioni che impone questo tuo ultimo post,caro Massimo,rischia alla fine di metterci fuori strada. Adesso finiremo per parlare di violenza sessuale e di omosessualità, cose che francamente non c’entrano nulla con la questione di fondo che hai posto qui.
Dici bene Alessandro… evitiamo di andare fuori argomento. Su Pasolini dico soltanto quest’ultima cosa: come divideva allora, divide oggi.
Torniamo al nostro argomento, anzi ai nostri argomenti. Nei prossimi giorni inserirò nuovi contributi tra i commenti. E invito voi a fare altrettanto. Desidero che questo diventi una sorta di… “post permanente”.
Aspettatevi, nei prossimi giorni, di vedere un pulsantino sulla colonna destra del blog (in alto) che consentirà il collegamento diretto a questo post. “Lavori in corso”, in certo senso.
Dunque, qualunque notizia, considerazione, informazione utile al dibattito vi prego di inserirla qui anche nelle settimane che verranno.
Thanks.
Il post di Maugeri è denso, complesso, ricchissimo. Tocca questioni centrali nella riflessione sullo humanistic management che da una quindicina d’anni viene portata avanti da un gruppo sempre più numeroso di personalità del mondo della cultura e dell’economia (cfr. http://www.humanisticmanagement.it). I suoi tratti essenziali possono essere rintracciati nell’accorta combinazione tra razionalità ed emotività, nell’equilibrio fra morale individuale ed etica collettiva, nella cura di ciascuno verso il proprio autosviluppo e verso gli altri e, soprattutto, nella metadisciplinarietà. Lo strumento principale di cui si avvale è infatti l’apertura verso ambiti che l’impresa ha sempre considerato a sé estranei – la filosofia, la poesia, il cinema, il teatro – ma anche alle nuove frontiere dischiuse dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dal networking multimediale, dalla business television. Soprattutto, lo humanistic management è un modo diverso di guardare non solo alla vita d’impresa, ma alla vita tout court: è un modello cognitivo, culturale, etico, oltre che uno strumento operativo per la gestione innovativa delle aziende. In questo quadro, lo stimolo a commentare il post maugeriano si traduce nell’opportunità di realizzare una prima messa a punto più o meno organica su alcuni elementi del modello, ispirata anche da una intuizione di una laureanda della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Pavia, Elisa Zanola. Ecco come lei stessa la ha espressa in una recente mail al suo relatore:
Gentile professor Marco Minghetti,
dopo il nostro colloquio sulla tesi in Humanistic Management ho pensato a lungo su come strutturarla e l’architettura più coerente mi sembra questa: dividere la tesi in due parti, una prima che intitolerei “Humanistic journalism”ed una seconda sulle nuove frontiere del giornalismo.
Nella prima parte intenderei analizzare brevemente tutte le 15 Variazioni Impermanenti introduttive del Manifesto dello humanistic management applicandole al giornalismo: ho già vagamente riflettuto su ciascuna di esse e mi sembra possano essere tutte trasferite dall’ambito manageriale a quello giornalistico.
La prima variazione ad esempio sarebbe riferita ad un modo nuovo di fare giornalismo: non solo la produzione tayloristica, in serie, di informazioni –che è il lavoro delle agenzie stampa, come l’ANSA- ma la creazione di una notizia “nuova” che rifletta l’esigenza di una fruizione di notizie non standardizzate ma a misura d’uomo,attraverso blog,tg,giornali…
Pensavo di elaborare ogni variazione o attraverso l’analisi di famosi casi giornalistici (ad esempio, la Terza variazione che analizza la dicotomia tra realtà e immaginazione potrebbe essere sviluppata parlando del famoso caso della sfida presidenziale tra Bush e Carrey, quando il giornale Libero aveva “inventato”la vittoria di Carrey, mostrando come anche nel giornalismo possano essere create realtà altre, vedi anche il celebre caso sugli alieni di Orson Welles) o attraverso la comparazione di testate. Cosi’, ad esempio ,per spiegare il declino della razionalità scientifica e la dissoluzione di senso –di un senso unico,di una one best way-si potrebbe analizzare la deformazione di una notizia a partire dalla versione più “oggettiva” di un giornale come può essere il Sole 24 Ore alla stessa notizia in altri mezzi e sotto altre forme meno tradizionali.
Per questa prima parte i materiali su cui lavorerò saranno giornali, informazioni diffuse sulla rete attraverso i blog o trasmesse in televisione, e quanto diranno i giornalisti riuniti nel 1’festival internazionale sul giornalismo di Perugia (www.festivaldelgiornalismo.com).
Le linee guida e il metodo per l’analisi mi saranno fornite naturalmente dai suoi libri “Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello humanistic management”e “Nulla due volte”, oltre che dai testi suggeriti al Corso di Giornalismo che seguirò qui all’Università di Pavia a partire dal 26 Febbraio.
Nella seconda parte vorrei poi descrivere il futuro del giornalismo: contattare Paolo Costa (uno degli autori del Manifesto dello humanistic management, ndr) per l’analisi degli ambienti virtuali e analizzare il caso del New York Times –come anche Lei mi suggeriva. Ciò dovrebbe condurre a ragionare sui concetti di connettività ed integrazione. Ad esempio, in un recente articolo sul Corriere della Sera Magazine, ho letto come la politica del giornale sia quella di seguire i lettori dal mattino alla sera,attraverso non solo il formato cartaceo –ormai in declino- e la versione web, ma anche servendosi di un servizio di diffusione di notizie attraverso i cellulari. Quindi questa seconda parte indagherebbe sulla identità molteplice e metadisciplinarietà del giornalismo e su come i new media gli siano d’ausilio nell’analisi della realtà.
In sintesi: lo humanistic journalism come applicazione locale di un più generale humanistic mindset.
1) Sul fatto che Internet sia una vera rivoluzione – la più grande da Gutenberg in poi – non c’è alcun dubbio.
Partiamo da questa affermazione. Semplice ma ricchissima di implicazioni, che in Nulla due volte sintetizziamo in questo modo: “L’introduzione della pressa da stampa a metà del Quattrocento ebbe effetti paragonabili alla rivoluzione della Rete oggi: l’invenzione di Gutenberg segna l’affermazione dell’Umanesimo europeo come la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione rende urgente l’adozione di una visione umanistica della società.”
Cosa significa? Per capirlo possiamo cominciare a ricordare che Baricco, ne I barbari, scrive: “Larry Page e Sergey Brin, gli inventori di Google, sono gli unici Gutenberg venuti dopo Gutenberg…. Google non ha nemmeno dieci anni di vita, ed è già nel cuore della nostra civiltà… Così diventa importante capire cosa, esattamente, fecero quei due che nessuno prima aveva immaginato. La risposta giusta sarebbe: molte cose. Ma una, in particolare, sembra rivelativa…. Page e Brin furono tra i primi a intuire che i links non erano un utile optional della rete: erano il senso stesso della rete, il suo compimento definitivo. Senza links, Internet sarebbe rimasto un catalogo, nuovo nella forma, ma tradizionale nella sostanza. Coi links diventava qualcosa che avrebbe cambiato il modo di pensare. Una le intuizioni le può anche avere, ma poi il problema è crederci. Page e Brin ci credettero. Cercavano un sistema per valutare l’utilità delle pagine web di fronte a una determinata ricerca: lo trovarono in un principio apparentemente elementare: sono più rilevanti le pagine verso cui punta un maggior numero di links. Le pagine che sono più citate da altre pagine….
Per spiegarsi bene, Page amava fare ai suoi investitori un esempio (per incastrarli, è ovvio). Provate a entrare nel web da una pagina qualunque, e da lì cercate la data di nascita di Dante, usando solo i links. Il primo sito in cui la troverete è, per il vostro tipo di ricerca, il migliore. Capite bene: non è il fatto di farvi risparmiare tempo che lo rende migliore: è il fatto che tutti vi abbiano indirizzato lì. Perché in realtà quello che avete fatto non è altro che passeggiare là dentro e chiedere a chiunque incontravate dove potevate trovare la data di nascita di Dante. E loro vi hanno risposto: dandovi un loro giudizio di qualità. Non vi indicavano una scorciatoia: vi indicavano il posto secondo loro migliore dove quella data ci sarebbe stata, e giusta. La velocità è generata dalla qualità, non il contrario. I proverbi, diceva Benjamin con una bella espressione, sono geroglifici di un racconto: la pagina web che trovate in testa ai risultati di Google è il geroglifico di tutto un viaggio, fatto di link in link, attraverso l’intera rete.”
Questa lunga citazione è utile per fare il passo successivo – un’altra citazione, anche questa volta da Nulla due volte:
“Vivere la molteplicità intensamente, assolutamente, senza rinunciare a nessuna esperienza: questa è l’ambizione del nostro tempo. Scrive Bauman: “la risposta alla domanda sulla nostra identità non è più «sono ingegnere della Fiat (o alla Pirelli)» o «faccio l’impiegato statale» o «il minatore» o «il gestore di un negozio Benetton», ma – in base al metodo usato di recente da uno spot pubblicitario per descrivere la persona che avrebbe indossato quella marca prestigiosa – sono uno che «ama i film dell’orrore, beve tequila, possiede un kilt, tifa per il Dundee United, ama la musica anni Ottanta e gli arredi anni Settanta, va pazzo per i Simpson, coltiva girasoli, preferisce il grigio scuro e parla con le piante»….I dettagli sono tutto”. Dettagli che cambiano e si rimescolano e si trasformano e si sovrappongono e si contraddicono e si dimenticano e a volte ritornano, ma non esattamente come prima: nulla due volte accade/ne accadrà…
Poiché tuttavia è difficile essere tutti dei novelli Escher, capaci cioè di inventare prospettive esistenziali in cui il sopra coincide con il sotto, la salita con la discesa, la destra con la sinistra (e poi, a ben vedere, sarebbero solo illusioni ottiche), più semplicemente facciamo del palinsesto televisivo e del blog gli archetipi della vita più desiderata. Quella in cui tutto è significativo perché importanti non sono i singoli programmi o i singoli “post”, ma il montaggio, lo smontaggio e il rimontaggio quotidiano che ogni individuo produce delle sue esperienze.” Ovvero il collegamento impermanente e continuamente cangiante tra i link. Come in Pulp Fiction, le singole esperienze costituiscono il plot centrale delle tante storie che ciascuno di noi vive, ma si possono trovare anche come sottotemi di altre storie o “identità” e viceversa: ogni segmento narrativo del testo (la nostra vita) è da considerarsi sullo stesso piano di importanza.
Se si preferisce un modello letterario, pensiamo a Italo Calvino, a quel passaggio delle Lezioni americane dedicato all’esattezza in cui afferma: “il libro in cui ho detto più cose resta Le città invisibili, perché ho potuto concentrare su un unico simbolo tutte le mie riflessioni, le mie esperienze, le mie congetture; e perché ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate”.
Peraltro anche Pulp Fiction e molti libri di Calvino sono ottimi esempi di come le due metafore si possano fondere. In particolare, nel film il concetto di tempo viene sezionato e analizzato nei suoi minimi termini: passato, presente e futuro sono considerate come categorie precostituite, rigidamente organizzate e pertanto rifiutate in toto. Tende a scomparire la progressione temporale, a favore della ripetizione (principio fondamentale dell’estetica neobarocca secondo Calabrese), mentre la narrazione non è più protratta verso un finale teleologico ma si chiude circolarmente su se stessa. Come una ricerca su Internet che alla fine ritorna su sé stessa, arricchita di senso dal “viaggio” fra i link. Non esiste più una gerarchia narrativa: è il singolo spettatore (nel caso di Pulp fiction e di altri film ispirati alla stessa logica narrativa, come il più recente 21 grammi) o lettore che deve collaborare con l’autore per ricreare propri percorsi narrativi, anche colmando i vuoti di quello proposto in origine.
Se dunque queste sono le metafore più calzanti dell’individualità molteplice e mutante nella contemporaneità, Alice è l’archetipo dei “barbari”, dei mutanti liquidi che oggi meglio la interpretano. La sua diversità, che sarebbe apprezzata da molti sociologi no global, è l’altra faccia della sua singolarità. La coglie bene l’Unicorno, che incontrandola commenta: “Una bambina? Ma io ho sempre pensato che fossero solo dei mostri favolosi!”. La stessa opinione che hanno gli scientific manager rispetto a tutti i portatori di differenze. Le aziende tradizionali, quelle che Handy definisce “apollinee”, non cercano individui di talento, personalità originali, ma dei cloni, dei ripetitori razionali di compiti e mansioni. Vogliono cristallizzare la realtà in un Museo. In cambio della propria individualità le persone ottengono la sicurezza (non a caso Apollo era anche il protettore delle pecore e dei bambini, osserva Handy), derivante appunto dalla omologazione di tutti a codici di comportamento chiaramente definiti e sempre uguali; anche i prodotti che queste organizzazioni propongono al cliente generano questo senso di sicurezza.
Un articolo apparso qualche tempo fa su Sviluppo e Organizzazione, a firma di Sidney G. Winter e Gabriel Szulanski, mi ha persuaso che su di esso non si insisterà mai abbastanza. Il pezzo è intitolato “La replicazione come strategia” e se fossimo nella Los Angeles da incubo di P.K. Dick il lettore potrebbe trovare normale un simile attacco e magari attendersi di seguito una descrizione organizzativa delle attività della Tyrrell Corporation, l’azienda produttrice dei Replicanti destinati alle miniere spaziali. Gli autori, non senza un visibile compiacimento, ci informano che “la replicazione, fenomeno familiare come >, è una strategia perseguita da un gran numero di imprese attive in almeno sessanta settori”: peraltro dolendosi del fatto che “sebbene quella della replicazione stia diventando una delle forme organizzative del nostro tempo, essa è stata dimenticata dagli studiosi di organizzazione”.
L’aspetto più raccapricciante è che per Winter e Sluzanski “le strategie di replicazione hanno una certa somiglianza con la diffusione delle innovazioni in una popolazione organizzativa in quanto comportano trasferimenti di conoscenza di ampia portata”: esse infatti “si basano sulla creazione di outlet in grado di produrre autonomamente il loro prodotto o servizio”. L’esempio più eclatante è appunto dato dai fast food, “che producono volumi di cibo che sono cinque volte maggiori di quelli di un ristorante medio e che utilizzano prevalentemente procedure standardizzate pensate per lavoratori non qualificati”. Alla luce di tali affermazioni, dobbiamo concludere che le aziende di ristorazione funzionanti in base al principio della “replicazione” abbiano bisogno di risorse umane o di esseri umani? Di Cloni o di Mutanti? Se fosse possibile, assumerebbero Persone o, appunto, i Replicanti della Tyrrell Corporation? E lo stesso quesito si pone nelle imprese che adottano il medesimo modello organizzativo e che, secondo Winter e Szulanski, includono “coffe bar, hotel, servizi di riabilitazione,servizi bancari, servizi domestici, consulenze fiscali, servizi di pulizia, agenzie di collocamento, contabilità e restauro del legno(!)” – elenco veramente eterogeneo, anche se non privo di un suo fascino, poiché sembra rivelare insospettate similitudini fra imprese ed attività apparentemente lontane come contabilità e coffe bar, banche e centri di riabilitazione, consulenza e servizi di pulizia.
Dunque non ci riferiamo solo alle imprese tradizionali o a bassa tecnologia, come nel caso di McDonald’s. Si pensi, come invita a fare Maugeri, ai programmi televisivi, indifferentemente Rai o Mediaset. Cosa c’è di più tecnologicamente avanzato, di più naturalmente affine alla realtà virtuale, manifesto di una contemporaneità fondata sulle telecomunicazioni di massa, della televisione, sull’idea che “l’uomo è ciò che guarda”? E cosa di più banale, ripetitivo, impersonale? Chi ormai sa distinguere un presentatore da un altro, una “velina” da un’altra, una trasmissione da un’altra? E non intendiamo solo riferirci a programmi dall’analogo contenuto, ma anche a programmi in teoria diversi fra loro: la clonizzazione televisiva è arrivata ad un punto tale che, come ha scritto Saul Bellow, in TV ormai “è impossibile distinguere una guerra da una partita di baseball”.
Tuttavia, nella coscienza collettiva comincia a diffondersi l’insofferenza verso le modalità di controllo sociale implicite nella programmazione televisiva e, in generale, nell’iceberg della cultura “apollinea” attuale, di cui la “clonizzazione” biologica di animali, piante ed esseri umani, già profetizzata in letteratura da Huxley e ormai divenuta cronaca quotidiana, non è che la inevitabile punta emergente. Anche se siamo tutti cloroformizzati da un clima socioculturale che punta all’obnubilamento di massa, alla omogeneizzazione delle intelligenze mirata unicamente all’aumento dell’audience (e degli introiti pubblicitari), almeno qualche volta, in un barlume di lucidità (A momentary lapse of reason, giusto il titolo di una celebre raccolta dei Pink Floyd) magari indotto da una buona lettura, riusciamo a cogliere e condividere l’orrore verso una organizzazione della vita associata che ci rende non differenti dagli androidi descritti da Philip K. Dick in Blade Runner.
Significativo a questo proposito l’articolo di Ennio Franceschini pubblicato su Repubblica il 21 marzo, intitolato: “McJob non vuol dire precariato” l´hamburger sfida il dizionario. Ed eccone uno stralcio: “La multinazionale degli hamburger è partita all´attacco contro la definizione negativa che l´Oxford English Dictionary dà del termine «Mcjob», noi diremmo Mclavoro, ovvero lavoro «stile McDonald´s»; e la vicenda è finita ieri sulla prima pagina del più autorevole quotidiano finanziario europeo. «Un lavoro malpagato e assolutamente non stimolante, che offre pochissime prospettive di carriera»: così gli eruditi studiosi della Oxford University, nel 2001, spiegarono il significato della parola «Mcjob», che aggiunsero quell´anno per la prima volta all´omonimo vocabolario, considerato il «padre di tutti i dizionari» d´inglese. «È uno schiaffo in faccia alla nostra cultura del lavoro», protestò Jim Cantalupo, all´epoca presidente della McDonald´s, minacciando azioni legali, che poi non intraprese. Adesso però la filiale britannica della McDonald´s è ritornata alla carica, affermando che la definizione fornita dall´Oxford Dictionary è sbagliata e che va modificata. «Un lavoro stimolante, gratificante, che offre genuine opportunità di carriera»: questa, secondo la multinazionale della polpetta, sarebbe una definizione più adeguata. E la McDonald´s si impegna a organizzare una petizione d´alto profilo, per cominciare nel Regno Unito, allo scopo di ottenere dall´Oxford Dictionary la revisione del termine dispregiativo. Chi ha ragione? All´Oxford Dictionary, non pretendono di averla: «Noi monitoriamo i cambiamenti nel linguaggio corrente, e li riflettiamo nelle nostre definizioni, sulla base delle prove che troviamo», dice un portavoce della prestigiosa istituzione. Qualche prova a sostegno del fatto che «Mcjob» non è l´equivalente del «fast food» dal punto di vista gastronomico, la McDonald´s ce l´ha, riconosce il Financial Times: metà dei dirigenti dell´azienda, in Gran Bretagna, provengono dai ristoranti, cioè sono ex-cuochi o ex-sguatteri, e il 25 per cento di costoro sono donne. Dunque è vero che la McDonald´s promuove la manovalanza, aiutando i dipendenti di valore ad emergere, da qualunque posizione essi partano: anche la più bassa. E qualcosa di giusto la multinazionale dell´hamburger deve farlo, aggiunge il quotidiano della City, se a gennaio ha riportato i migliori risultati degli ultimi trent´anni. Il termine «Mcjob», reso popolare dallo scrittore Douglas Coupland nel 1991 con il romanzo «Generazione X», si diffuse negli anni Ottanta in America in un momento di crisi economica, quando i posti di lavoro qualificati e ben pagati persi dai «colletti blu» nelle fabbriche venivano in parte compensati da assunzioni part – time mal retribuite nell´industria dei servizi. Da allora, effettivamente, il mondo è molto cambiato: un lavoro nell´industria dei servizi può essere oggi più sicuro e promettente che in fabbrica. Può anche essere giusto, insomma, modificare la definizione di «Mcjob». Ma rimane valida la vecchia definizione dello psicologo americano Frederick Herzberg: «Se vuoi che una persona faccia bene il suo lavoro, dagli un buon lavoro da fare».”
Cosa c’entra tutto questo con la Internet, il giornalismo e i nuovi mezzi di comunicazione? C’entra, eccome. Poiché sono soprattutto la Rete e le nuove tecnologie della comunicazione (e qui torniamo a Maugeri) a rendere costante la minaccia più temuta dallo scientific management: quella che è determinata dall’apertura di un orizzonte (Mi sento minacciato da ogni nuovo orizzonte./ Così formulerei la cosa, o Ostio Melio, scrive Szymborska nella poesia Voci, in cui i centurioni romani alla conquista del mondo divengono la metafora delle grandi Corporation globali preoccupate di stabilire norme, più che creare valori, di usare la carota con “chi si sottomette” e il bastone “con chi ti contrasta”. Ma la risposta data a questa minaccia dai depositari del potere tradizionale, gerarchico e assoluto, fondato sulla permanenza e sulla finitezza del mondo (E io, Ostio Mellio, ti risponderei così, o Appio Papio:/ Avanti! Da qualche parte il mondo deve pur finire) si dimostra inutilizzabile perché, per essere sempre diverso, non è neppure necessario che sia nuovo: mentre una leadership innovativa si fonda sulla consapevolezza che l’orizzonte muta costantemente, anche se noi stiamo fermi, come avevano capito Cristoforo Colombo e
Isabella, la grande regina del Guadalquivir,
come lui una donna convinta che il mondo non può finir lì
(Francesco Guccini, Colombo)
Per uscirne vive, le aziende farebbero bene ad abbandonare il modello “romano” di Voci e valutare il modello proposto da Richard Florida, secondo cui le tre T dello sviluppo economico oggi sono: Tecnologia, Talento e Tolleranza.
Irene Tinagli della Carnegie Mellon University lo illustra molto chiaramente in un articolo reperibile con facilità su Internet: “Ciascuna di queste dimensioni é necessaria ma da sola non sufficiente a garantire lo sviluppo. In questa prospettiva la tecnologia resta una dimensione critica, ma non é più l’unica chiave, essa é piuttosto un pre-requisito, una condizione necessaria ma insufficiente a garantire la crescita economica di un paese o una regione. Altrettanto fondamentale, infatti, é che in tale paese o regione ci siano individui sufficientemente preparati (il Talent) in grado di capire, utilizzare e rendere produttive al massimo le tecnologie esistenti. Una volta garantita una certa concentrazione di Human Capital, che cosa favorisce la conversione di queste «intelligenze» in sviluppo e crescita economica? Le assunzioni delle tradizionali teorie economiche secondo cui i flussi di persone e lavoratori sono regolate esclusivamente dall’offerta di lavoro non sembrano funzionare nel nuovo sistema economico. I «Talents» sono una categoria particolare della forza lavoro, con esigenze peculiari e opportunità di lavoro relativamente più ricche e varie dei lavoratori (operai ed impiegati) della vecchia economia. Pertanto i loro movimenti non seguono strettamente vecchie regole economiche, ma piuttosto nuove tendenze basate su diversi tipi di valori, valori sociali, personali, esperienziali oltre che economici. Similmente, anche le dinamiche che determinano la produttività di questo fattore di produzione così peculiare sono del tutto nuove e attualmente poco conosciute ed esplorate. Il modello delle tre T propone quindi la Tolleranza come terzo e fondamentale elemento dello sviluppo, il collante che unisce armonicamente Tecnologia, Talento e crescita economica, il fattore che consente di attrarre e trattenere un maggior numero di Talents e che dà loro la possibilità di esprimere e sfruttare tutto il loro potenziale. Per Tolleranza si intende apertura sociale, culturale, la capacità di una regione o città di accogliere e integrare nella propria vita economica e sociale persone di diversa origine e background culturale, persone, per esempio, di diversa razza, religione, orientamento culturale o sessuale. In sintesi, per tolleranza non si intende semplicemente tolleranza verso una specifica minoranza o gruppo etnico, ma si intende apertura verso la diversità in generale.”
Ecco perché non servono più i cloni ricercati con le norme spersonalizzanti dettate dai vecchi manuali di selezione, ferme a quello che Bauman definisce il concetto “ortodosso di identità”. Esse non possono dare risposta alla domanda: “Come può un’identità essere eterogenea, effimera, volatile, incoerente, altamente mutevole?”. Lo può, se connota individui originali in grado di ingenerare cambiamenti veloci, continui, immateriali, passando quindi attraverso la costante modificazione delle proprie conoscenze, saperi, convinzioni, pur sapendo mantenere sempre viva la coscienza e la responsabilità della propria singolarità, di ciò che propriamente li rende sé stessi.
Una individualità di questo tipo può, contrariamente a quanto pensa Bauman, valicare con successo, senza naufragare, il passaggio posto fra la Scilla «dell’irraggiungibile individualità senza compromessi» e la Cariddi «dell’appartenenza totale che risucchia e inghiotte, come un buco nero, chiunque le passi accanto». Ed è di questi proteiformi Ulisse contemporanei che le aziende hanno bisogno. In una parola, alle nuove imprese (ma il discorso si allarga a tutta la società) occorrono quei “mutanti” per i quali, scrive Baricco, «la scintilla dell’esperienza scocca nel veloce passaggio che traccia tra cose differenti la linea di un disegno. È come se nulla, più, fosse esperibile se non all’interno di sequenze più lunghe, composte da differenti “qualcosa”. Perché il disegno sia visibile, percepibile, reale, la mano che traccia la linea deve essere veloce, dev’essere un unico gesto, non la vaga successione di gesti diversi: è un unico gesto, completo. Per questo deve essere veloce, e così fare esperienza delle cose diventa passare in esse per il tempo necessario a trarne una spinta sufficiente a finire altrove. Se su ogni cosa il mutante si soffermasse con la pazienza e le attese del vecchio uomo con i polmoni, la traiettoria si disferebbe, il disegno andrebbe in pezzi. Così il mutante ha imparato un tempo, minimo e massimo, in cui dimorare nelle cose. Questo lo tiene inevitabilmente lontano dalla profondità, che per lui è ormai un’ingiustificata perdita di tempo, un’inutile impasse che spezza la fluidità del movimento. E lo fa allegramente. » Come fa Alice.
2) Sono convinto che nel tempo – ma il processo è già avviato – il web fagociterà tutti i mezzi di comunicazione. Il futuro massmediatico, a mio modo di vedere, sarà un sistema integrato che avrà al centro la Grande Rete. Televisioni e testate giornalistiche cartacee non possono far finta di nulla. E infatti si stanno preparando per affrontare le nuove sfide. Il progetto Repubblica Tv, per esempio, va proprio in questa direzione.
Il mondo aziendale non è che una metafora della vita di relazione. Potremmo dire che, per chi la affronta da un punto di vista umanistico, la letteratura manageriale rivesto lo stesso ruolo della fantascienza nell’opera di P.K. Dick: tramite un genere “minore” si affrontano i grandi temi della vita individuale e di relazione.
Quanto abbiamo fin qui ricordato, dunque, serve per ribadire che occorre puntare, nella descrizione del vivere associato, dentro e fuori dalle imprese, ad un approccio narrativo diverso da quello scientifico, che integra il patrimonio culturale umanistico con le nuove tecnologie dell’Information and Communication Technology: altro elemento fondativo dello humanistic management. Sotto questo profilo va citato l’esempio fornito dal Walter Passerini con il progetto Job24, in cui si realizza un’ottima convergenza di più strumenti di comunicazione (la versione cartacea de Il Sole 24 ore, il sito Internet, la radio, il canale televisivo) per parlare di lavoro con tutti coloro che ne sono a vario titolo interessati.
Ancora una volta, incrociamo poi qui un tema chiave dello humanistic mindset: l’identità molteplice che, per quanto riguarda i quotidiani, così è stata declinata da Rupert Murdoch: “i giornali dovranno adattarsi, perché i loro lettori ora chiedono di ricevere notizie su una gran varietà di piattaforme: siti web, iPods, telefonia mobile, laptop. Credo che i quotidiani tradizionali avranno ancora molti anni di vita, ma sono anche convinto che nel futuro l’inchiostro e la carta saranno solo uno dei molti modi con i quali comunicheremo con i nostri lettori”.
Ma la molteplicità è una categoria che riguarda non solo la forma ma anche il contenuto, come si può vedere dall’aumento abnorme dell’importanza dei cosiddetti collaterali: i giornali si stanno sempre più fortemente connotando come veicoli che traghettano libri, dischi, dvd, enciclopedie, trattati di giardinaggio, cucina, fai da te, classici del brivido o dell’erotismo…. proprio perché si devono confrontare con le personalità molteplici dei loro clienti, che è quella sopra descritta da Bauman.
Si dovrebbe cominciare adesso a capire perché la questione: 3) I blog rappresentano un artefatto decadente attraverso cui il modello dei media di massa sta vivendo il suo declino?
è malissimo posta. Ben lungi dal costituire un artefatto decadente, il blog è la metafora per eccellenza del nuovo modo di pensare dei mutanti contemporanei. Non è solo uno strumento, è un modo di pensare. Più in generale, metafore e modi tradizionali, scientifici, “solidi”, di pensare l’impresa come l’organizzazione sociale sono macchina, automatismo, piramide, sistema di significati prescritti e predefiniti vanno contrapposti a quelli del mondo umanistico contemporaneo: sforzo collettivo e continuo di generazione di significato, mondo vitale, labirinto, testo, partitura musicale, rappresentazione teatrale o cinematografica. E, appunto, blog.
Certo, vi sono anche delle ricadute di ordine tecnico. Le nuove tecnologie multimediali, rispetto alle tecniche di narrazione tradizionali, consentono di elaborare delle storie molto più coerenti con le contraddizioni insite nei racconti, la loro costante parzialità, la loro chiusura mai del tutto definitiva. In un breve saggio intitolato L’autobiografia come diritto e come dovere, Francesco Varanini asserisce che “non si scrive più come una volta…la Rete mette a disposizione materiali infiniti, sui quali si può agevolmente lavorare di taglia e cuci. Perciò ci sono oggi sempre più libri che sono un mosaico di testi, di elementi diversi, dove la figura dell’autore si sfrangia e si sfuma e si scompone in mille pezzi. L’immagine di un autore che nel chiuso della sua stanza distilla nella sua mente una storia, parola dopo parola, riga dopo riga, pagina dopo pagina, è sempre più lontana da quello che veramente accade. Siccome le nuove tecnologie lo permettono, si scrive sempre più per accumulazione”. Ciò che distingue un autore da un altro – e che permette di usare queste tecniche e queste tecnologie anche a fini autobiografici e di formazione aziendale – consiste nell’individuazione dei singoli pezzi (fra gli infiniti possibili) che compongono il discorso; nella logiche che ciascuno sceglie per costruire il proprio percorso narrativo; nello stile che adopera; negli artifici retorici utilizzati: soprattutto, nei nuovi significati emergenti dalla sapiente mescolanza di tutti questi elementi, che nel risultato finale devono trovare la giusta proporzione, come in una ricetta culinaria. “Allo scrittore – diceva Arthur Koestler – si attaglia il ruolo del cuoco; e la parte dell’oca potrebbe essere attribuita al giacimento di notizie alle quali egli attinge.”
Questo spiega anche perché – si afferma in Nulla due volte – negli ultimi 150 anni, sotto il profilo letterario, è mutato radicalmente l’uso della tecnica antica dell’elenco, dell’enumerazione, dell’accumulo. Una tecnica che risale ad Esiodo e Omero arrivando, attraverso romanzieri come Melville, ai giorni nostri. “Quando leggiamo e commentiamo l’Iliade – spiega Alessandro Baricco in Balene e sogni – ci accorgiamo che la descrizione dello scudo di Achille serve anche a tramandare di padre in figlio alcune informazioni certe, di cui si è avuta esperienza. Quale è la pelle migliore che si deve scegliere per costruire uno scudo robusto, per esempio”. Ma se, originariamente, l’elenco era un modo di catalogare la realtà con l’obiettivo di dominarla e di trasmetterne le “istruzioni per l’uso”, quelli di molti scrittori contemporanei denunciano l’impossibilità di questa operazione. Basta pensare all’“elencazione elittica” di Montale, che ha un precedente ironico-crepuscolare in Gozzano, ma anche agli irresistibili anticlimax di Campanile o, se si preferisce qualcosa di più “serio”, all’accumulo caotico frequente nelle poesie di Whitman e nei monologhi interiori di Joyce (“Cos’è che vola? Rondine? Pipistrello probabilmente. Mi piglia per un albero, è così cieco. Gli uccelli non hanno odorato? Metempsicosi. Si credeva che uno potesse trasformarsi in albero per il dolore. Salice piangente. Pip. Eccola là. Bestiolina buffa. Chissà dove vive. Lassù sul campanile”, Ulisse). Hans Magnus Enzensberger e Alfonso Berardinelli, nell’ultimo capitolo del loro ottimo Che noia la poesia, dedicato a “Tradizione ed Innovazione”, notano che con l’enumerazione caotica “in una poesia si fanno entrare le cose più diverse, elenchi eterogenei, senza escludere niente e includendo tutto…si tratta anche di un principio morale, di un rifiuto delle gerarchie secondo cui una cosa è più di un’altra. Tutto ha un valore, niente va disprezzato”. Ma, andando più in profondità, non è azzardato affermare che i due “usi” della tecnica dell’enumerazione, “caotica” vs. “ordinata”, si collegano alla diatriba fra Parmenide ed Eraclito, ieri, e fra l’Enciclopedia Britannica e Wikipedia, oggi: due modi opposti di catalogare la realtà, di descriverla, che si fondano su due antitetiche visioni “metafisiche” della sua più intima essenza – che a loro volta determinano due modalità differenti di gestire politicamente la società: quella scientifica e quella umanistica. Diciamo che potremmo tracciare un asse ideale che ad un estremo pone la prescrittività totalitaria delle Leggi platoniche, all’altro lo spirito anarcoide de L’originale miscellanea di Schott.
Arriviamo così al punto 4) In questi giorni è venuto alla luce il nuovo progetto/romanzo di scrittura collettiva dei Wu Ming: Manituana.
Benché sia essenziale partire dalla propria autobiografia per creare autoconsapevolezza e quindi autosviluppo, la scrittura non deve limitarsi ad essere un esercizio arido, al limite dell’onanismo. Deve produrre un mondo interiore ricco in quanto condiviso con gli altri: un “mondo vitale”, sostengono gli humanistic managers. Sotto questo profilo, ancora una volta il blog costituisce uno strumento ideale, riflesso di un modello cognitivo connotato dalla valorizzazione della diversità, dall’apertura al futuro, dal coinvolgimento individuale sui rischi collettivi da assumere e sui fini sociali da perseguire, dalla ricerca dell’equilibrio fra morale individuale ed etica collettiva, dalla combinazione tra razionalità ed emotività, dal dialogo interfunzionale, effetto della cura di ciascuno verso il proprio autosviluppo e verso gli altri, dalla continua ricerca e donazione di senso. Tutto l’opposto di quello imperante, scientifico: definibile dal riduzionismo di ogni varianza, dal timore dell’innovazione, da una deresponsabilizzazione personale sul risultato finale, dal trionfalismo funzionale, specchio della negazione sistematica della indispensabilità relazionale con l’altro.
In questo quadro, nel contesto del blog La caccia di Arthur Chab, ospitato sul sito http://www.humanisticmanagement.it per un paio di anni è stata sperimentata la teoria e la pratica del Blogromance. In un post del 21 settembre 2004, così veniva definita:
“L’idea di fondo è che sia possibile produrre un’opera multidisciplinare, in qualche modo una nuova forma d’arte, utilizzando la tecnologia blog e le risorse infinite della Rete. Non si tratta solo di usare al massimo le potenzialità degli ipertesti, nè di produrre un’opera a più mani stile “Luther Blisset” e neanche di proporre un “incipit” (più o meno lungo) la cui continuazione è affidata ai navigatori del Web: lo strumento del blog consente di andare oltre tutto questo. Si tratta di produrre un romanzo polifonico (perchè si avvale dei contributi tratti da tutte le discipline artistiche: musica, poesia, pittura, eccetera) multimediale (perchè il testo può venire “letto” con il supporto di filmati, file musicali, immagini, eccetera) interattivo (perchè la tecnologia dei post e dei commenti consente di lavorare insieme ad altre persone) in evoluzione continua (sulla base dei contributi provenienti da altri o anche di nuove idee dell’autore, si possono aggiornare continuamente i post, i link e tutto il resto del blog).Con un neologismo che invento adesso potremmo chiamarlo un Blogromance.
In pratica si tratta di fare contemporaneamente più cose:
a) scrivere un romanzo (per leggerlo dall’inizio, basta cliccare sulla categoria “romanzo” sulla colonna di sx), che nella fattispecie si propone come un viaggio nella letteratura fantastica (intesa in senso ampio, alla Borges) di tutti i tempi (attraverso la ripresa,il rimescolamento, il “tradimento” di luoghi, miti, formule degli autori del passato, nella convinzione che, sostanzialmente, tutto sia già stato scritto, si tratta solo di reinterpretarlo….ma qui il discorso si farebbe lungo -vedi ad esempio, su questo, Omar Calabrese, Caos e bellezza, 1991), nonchè come una nuova versione dei Quadri ad una esibizione di Mussorsgky. Questo romanzo, come quelli d’appendice ottocenteschi, viene pubblicato a puntate sul blog (ogni post una puntata);
b) all’interno del romanzo inserire immagini, musiche o filmati che si riferiscono direttamente o indirettamente al testo o che sono lo spunto per sviluppi ulteriori della trama;
c) mettere a punto una struttura di link che consenta la navigazione verso altri contenuti reperibili in rete coerenti con i contenuti del testo, ma non inseriti direttamente “nel” testo;
d) scrivere, oltre al romanzo, il commento al romanzo (clicca la categoria “spiegazioni” per visualizzare solo questo elemento);
e) realizzare “variazioni” alla trama attraverso l’inserimento di trame parallele da parte di altri autori, che potrebbero essere raggruppate in singole nuove categorie. L’insieme del Blog consentirebbe di leggere quindi non un “romanzo polifonico multimediale interattivo”, ma “n” romanzi. Il Blogromance è una unità molteplice.
Ulteriori considerazioni sull’estetica del Blogromance e le sue relazioni con il modello dello humanistic management si trovano in un post successivo:
http://www.arthurcab.splinder.com/post/3255196#more-3255196
Tutto molto bello..sulla carta. In pratica, l’esperienza fu un sostanziale fallimento e dopo un paio di anni chiuse i battenti. Nella convinzione però che l’intuizione di fondo fosse quella giusta, in queste settimane sta partendo una nuova iniziativa, sulla base di tre premesse. In sintesi:
1) lo humanistic management nasce da un network di persone che si è creato fra il 1997 e 2003 intorno all’esperienza Hamlet, la rivista dell’Associazione italiana dei Direttori del Personale. Le tre pubblicazioni che hanno seguito questa esperienza hanno avuto, fra gli altri, l’obiettivo di consolidare e ampliare progressivamente, quasi geometricamente, il gruppo. Quindi se L’Impresa shakesperiana (2002) fu firmata solo da Marco Minghetti e Milo Manara, il gruppo del Manifesto (2004) era costituito da una quindicina di persone, quello di Nulla due volte (2006) di 25 (oltre a Minghetti, Cutrano e il premio Nobel Wislawa Szymborska). Il prossimo libro non solo dovrà vedere la partecipazione di almeno una cinquantina di persone, ma il loro contributo dovrà costituire parte viva e attiva del testo;
2) Se con L’Impresa shakespeariana abbiamo sintetizzato una esperienza, fondata sul concetto di metadisciplinarietà e narratività, con il Manifesto la abbiamo teorizzata formalmente e con Nulla due volte la abbiamo sperimentata in pratica, attraverso un lavoro che cercava di fondere insieme management, poesia, critica letteraria e fotografia. Il prossimo lavoro dovrà proseguire su questa strada, accentuando il carattere narrativo del nostro discorso;
3) Hamlet era una rivista per addetti ai lavori; il Manifesto un documento teorico destinato prevalentemente alle università; Nulla due volte un libro che apriva ad un pubblico più vasto ma ancora limitato ai “lettori forti”, capaci di dedicare una attenzione impegnativa e molto tempo alla lettura. Il prossimo lavoro dovrà cercare di essere fruibile ad un pubblico ancora più vasto, mantenendo però alto il livello qualitativo della scrittura.
Per raggiungere questi tre obiettivi è venuta l’idea di scrivere un libro dal titolo Le Aziende In-Visibili: rilettura e “libera trascrizione” in chiave “manageriale” delle 55 Città Invisibili di Italo Calvino da parte di un gruppo di 55 scrittori, artisti, manager, eccetera, denominato “The Living Mutants Society”. Se i Wu Ming sono in 5, la Living Mutants Society è dunque costituita da (almeno) 55 persone, concepite come singoli neuroni di una unica mente virtuale che lavorano nel quadro di un testo che sta già prendendo corpo. Un corpo mutante, impermanente e molteplice che continuerà a modificarsi via via che perverranno i singoli contributi. Questa volta l’iniziativa sembra stia prendendo piede: già un nutrito gruppo di scrittori, manager e artisti hanno dato la loro adesione. E con il Direttore dello Humaties Lab di Stanford stiamo cominciando a pensare ad una versione virtuale del testo, che evolva insieme allo scritto in una videografica da realizzare magari su Second Life…
5) Pasolini sosteneva che “la televisione è un medium di massa. E un medium di massa non può che mercificarci e alienarci”. E poi che “nel momento in cui qualcuno ci ascolta sul video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore; che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.” Domanda. Cosa penserebbe Pasolini di Internet, considerando che il web – a differenza della televisione – crea rapporti democratici? E poi… come medium di massa, anche Internet non può che alienarci e mercificarci?
I rapporti fra televisione, internet e persone sono al centro della riflessione sullo humanistic management e ancora una volta rimandano dallo strumento operativo allo “humanistic mindset”. A titolo di sintesi riportiamo qui un brano dell’introduzione al testo di Andrea Notarnicola Televisione e teatro in azienda (il cui titolo originario e rivelatore era Format mentis), firmata da Minghetti e Cutrano: “L’esperienza descritta nel libro “Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello humanistic management” richiama volutamente (nello spirito, certo non nella lettera), quella del Manifesto dei Futuristi, i quali, di fronte all’affermarsi di un modo nuovo di sentire il mondo, provano l’esigenza urgente di esprimerlo in un linguaggio inedito, originale, non tradizionale. Si prendano ad esempio le loro “parole in libertà”, scelte per tradurre in modo efficace una sensibilità artistica dirompente rispetto a tutte le convenzioni precedenti, formatasi sull’onda delle nuove scoperte scientifiche come il telegrafo, il telefono, il grammofono, il treno, la bicicletta, la motocicletta, l’automobile, il transatlantico, il dirigibile, l’aeroplano, il cinematografo ed il grande quotidiano (l’elenco è di Filippo Tommaso Marinetti).
Una delle “parole in libertà” del nostro Manifesto è proprio “Business Television”. Perciò abbiamo chiesto ad Andrea di incentrare su di essa uno dei dodici saggi che lo compongono, ciascuno focalizzato su un aspetto essenziale della teoria (prima parte) o della pratica (seconda parte) di quello che abbiamo definito humanistic management. In quel saggio Andrea cominciava ad individuare una serie di elementi che concorrono a definire la tv, in particolare quella aziendale, “come media e come schema mentale”. Televisione e teatro in azienda, due anni dopo, articola in un modello compiuto e sulla base di nuove esperienze (essenziali per cercare di catturare la natura di un mezzo che è in una fase di evoluzione estremamente accelerata) quelle prime intuizioni. Nella prospettiva dello humanistic management, possiamo dire che cinque sono i termini chiave di tale modello: molteplicità, metadisciplinarietà, spettacolarizzazione, sensemaking, edutainment.
Molteplicità. L’Identità molteplice: questo è il titolo delle Variazioni impermanenti con cui apriamo il Manifesto dello humanistic management. E’ una scelta precisa: al centro del nuovo modo di intendere l’impresa si pone non solo, come ormai è quasi banale dire, la persona (e non la risorsa) umana, ma soprattutto il suo nuovo modo di intendere la propria identità. E’ questo un aspetto essenziale della vita contemporanea, messo con forza in luce dai più attenti sociologi di oggi, da Zymut Bauman a Richard Florida, che però molto spesso nelle imprese gli scientific manager si ostinano a non considerare. Così espone la questione Andrea: “La relazione diretta tra collaboratore/collaboratrice e impresa diviene spinosa, se consideriamo che gli individui presentano nel nuovo secolo identità via via complesse ed espresse nella loro complessità. Nel secolo scorso l’identità corrispondeva ad un uno immaginario. La vita stessa poteva essere monocorde o molto orchestrata e variata, ma comunque era una dentro una famiglia, dentro un luogo di lavoro, dentro una città. Il nuovo secolo è rappresentato dal desiderio dell’uomo di vivere non più una sola identità o una sola vita (cioè una sola storia) ma tante storie e tante vite insieme. E’ la metafora del telecomando. Negli USA la gente cerca una vita bicoastal, con una casa a New York e un lavoro a Los Angeles o magari due o tre: perché non lavorare il lunedì a Miami, il martedì a New York facendo ogni giorno una professione diversa? Perché non essere sposati con una donna a San Francisco, con un uomo a Chicago e avere due figli «artificiali» a Boston?”
Metadisciplinarietà. Alla consapevolezza della molteplicità (che non casualmente Italo Calvino poneva come uno dei sei concetti chiave indispensabili per interpretare il nuovo millennio) dell’io individuale contemporaneo, ogni manager deve poi accompagnare quella che ogni sua decisione attiva reti (di risorse tecniche, di capitali economici e di competenze umane) evolutive e interconnesse. Non può quindi focalizzarsi su un’area disciplinare chiusa, ma il suo operare deve vivere di metadisciplinarietà e di intelligenza emotiva. Quindi di “intersezioni”, come le chiama il nuovo guru statunitense della creatività, Frans Johansson, sia sul piano dei saperi caratterizzanti le funzioni aziendali di volta in volta coinvolte, sia sul piano delle aspettative ed emozioni delle persone (colleghi, superiori, fornitori, clienti, …) con cui interagisce. Occorre dunque un effettivo passaggio dalla gerarchia alla convivialità, dall’organigramma al “personigramma”, dalla prescrizione alla narrazione, che la televisione aziendale può favorire fortemente, come mostra Andrea anche in questo libro, se riesce a divenire un modo concreto di vivere insieme, drammatizzandole, le dinamiche aziendali.
Spettacolarizzazione. Una metafora pregnante dell’organizzazione aziendale (e della vita associata più in generale) è infatti quella dello spettacolo, come sapeva già Shakespeare (tutto il mondo è un palcoscenico). Lo dimostra il fatto che, negli ultimi venti anni, gli studi organizzativi e le pratiche di sviluppo manageriale hanno fatto ampio riferimento al teatro in quanto modello di interpretazione dell’impresa, oltre che come tecnologia formativa. Inoltre, la metafora teatrale si è arricchita sempre più di nuovi contributi che hanno aperto a temi organizzativi eterogenei: dalla negoziazione alla leadership, passando per strategia e pianificazione. E non basta, perché in azienda lo spettacolo non è solo teatrale, ma anche cinematografico (Fare come Hollywood, è l’incipit del paragrafo de L’ascesa della classe creativa in cui Florida mostra come l’archetipo del team ideale sia il gruppo di lavoro, composto da attori, registi, tecnici, produttori, eccetera, che dà vita ad un film) e, appunto, televisivo. Più in generale, – nota Andrea – “le persone vogliono essere riconosciute come protagoniste di una rappresentazione”. Cresce la disponibilità di ciascuno “ad essere operaio sul palcoscenico al servizio di un copione e del regista (il progetto d’impresa e il management), purché siano garantiti anche per i ruoli più brevi gli applausi a fine spettacolo. I lavoratori diventano così lavor-attori… La nuova intelligenza collettiva, inoltre, impone una condivisione dei valori, degli obiettivi, delle strategie e dei comportamenti non una volta per tutte, ma istante per istante. Se l’azienda è una rappresentazione, deve essere in diretta”. Come in televisione.
Sensemaking. Arriviamo così al cuore del problema. Concetti quali la motivazione, l’identità, la creatività, scrive Ugo Volli, non possono essere affrontati solo in termini di razionalità dell’uso delle risorse e dei piani; chiunque abbia avuto esperienze aziendali si rende conto che solo attraverso il coinvolgimento, la mediazione, il consenso attivo di chi vi collabora possono realizzarsi le decisioni e i piani aziendali; che la capacità di azione imprenditoriale è fortemente dipendente dalla qualità della comunicazione sia interna che esterna. Nelle aziende non si tratta semplicemente di realizzare un controllo e una pianificazione centrale sulla strategia complessiva, ma di far sì che ogni livello dell’organizzazione, fino alle singole persone, agisca in vista del funzionamento collettivo. Al nuovo manager, ad uno humanistic manager, si chiede pertanto di essere un sensemaker, un produttore di senso. Contro la dittatura del “significato unico” imposto dalle procedure e dalle best practices, si impone la necessità di generare nuovi percorsi di senso e di costruire imprese in cui sia possibile a tutti scoprire le molteplici possibili strade che conducono alla piena valorizzazione del proprio potenziale e quindi alla generazione di valore per l’azienda. Una di queste strade è aperta proprio dalla televisione (anche grazie all’avvento di internet e della tecnologia digitale, che sta rapidamente abbattendo le tradizionali barriere di accesso alla produzione e alla distribuzione di programmi) intesa come efficacissimo strumento di comunicazione diretta, utilizzabile lungo tutto lo spettro di relazioni interne ed esterne dell’impresa, per creare relazioni “narrative” in grado di creare e donare senso.
Edutainment. Dovrebbe a questo punto essere chiaro perché il Manifesto dello humanistic management si chiude con un capitolo dedicato all’Edutainment, firmato dal FormAttore, nonché protagonista di molte delle avventure aziendali raccontate in Televisione e teatro in azienda, Enrico Bertolino. Come spiega Andrea: “L’intrattenimento è connotato da partecipazione passiva e assorbimento. Ha lo scopo di catturare l’attenzione del cliente così come avviene quando si assiste ad una performance. … L’apprendimento è connotato da assorbimento e partecipazione attiva. I clienti sono coinvolti sul piano mentale e fisico. L’edutainment, che nasce dal connubio tra education e entertainment, propone modalità divertenti di crescita personale.” E ancora: “L’edutainment e l’infotainment, ossia l’integrazione di formazione, comunicazione e divertimento, si diffondono in quanto riescono nel contempo a soddisfare il bisogno di una diversa atmosfera, di un nuovo contesto. Si tratta di una chiave originale per integrare la comunicazione interna con lo sviluppo organizzativo, la formazione e l’innovazione strategica, soddisfacendo contemporaneamente l’esigenza di crescita delle persone sul piano emozionale.”
Per le ragioni sopra succintamente esposte, consideriamo Televisione e teatro in azienda, il primo dei volumi che, dopo la pubblicazione del nostro “Manifesto”, approfondiscono modelli, teorie, concetti, inevitabilmente “impermanenti” e quindi in continua evoluzione, che nel loro complesso costituiscono il cuore dello humanistic management. Altri ne seguiranno. Ma ciò che più importa è che tutto questo serva a diffondere presso tutti coloro che hanno responsabilità manageriali la convinzione che gestire le aziende in maniera diversa da quella tradizionale, trasformandole in mondi vitali i cui asset strategici siano l’emozione, la com-passione, lo sorpresa, la creatività, il coinvolgimento responsabile e il divertimento riflessivo, ovvero in palcoscenici dove si rappresenta una leggera commedia umana, invece che una cupa tragedia schopenaueriana, non solo si deve: si può.”
Ringrazio moltissimo il prof. Minghetti per il corposo contributo.
A dire il vero più che un contributo, il suo è un vero e proprio saggio.
Non l’ho ancora letto integralmente. Il suo testo merita di essere stampato e ri-letto con la massima attenzione. Cosa che farò quanto prima.
Di certo tornermo sul progetto dello “humanistic management”. Magari dedicando un apposito post.
Davvero molto stimolante il lavoro del prof. Marco Minghetti, ad ampio raggio come il post richiedeva, io però, se mi è permesso dire la mia, non credo affatto alla visibilità offerta dalla rete. questa affermazione sembra in contrasto con quanto sto facendo. è come affacciarsi su un immenso panorama, questo sì, si offrono idee, informazioni, immagini, incontri, ma di chi si parla, in definitiva? dei soliti “ignoti”… Bene, io cercherei una maglia rotta nella rete come consiglia Montale, e se non la si riesce a trovare, procurasi un filo tagliente. sarà che sono un po’ lento di comprendonio ma tutta questa velocità, tutto questo discutere sulla velocità che è generata dalla qualità, mi fa venire le vertigini, come a guardare in un binocolo, e attraverso un finestrino di una nave in crociera. Non so voi, ma me tutto questo mi inquieta, oltre che nausearmi, e in più, sarà forse per paranoia, mi pare di non essere proprio io quello a pensare queste cose e ad aver paura, voglio dire, a me pare che il nostro modo di pensare sia strumentalizzato oltre che schematizzato, vedi ad es. le 3 T dello sviluppo economico, come ha ricordato il prof. Minghetti, oppure le 5 W del giornalismo, le 7 P del marketing, ecc. tutto tecnica, appunto. da ciò ne deriva una totale confusione e perdità di identità, o meglio o peggio di personalità. Tutti vogliono creare tutti. e i primi gli scrittori i taglia e cuci come le comari di quartiere, alla carver o wallace, io consiglierei di andarci cauti, prima che tutta questa produzione diventi insostenibile. in conclusione, contraddicendomi, non mi resta che ringraziare internet, ma soprattutto grazie a massimo per l’opporunità.
VI CHIEDO SCUSA PER LE COSE E IL TONO DEL MIO PRECEDENTE POST. E SOPRATTUTTO MI SCUSO, SE POSSIBILE, CON MASSIMO
Non volevo essere offensiva, è stato tutto un tremendissimo malinteso.
Miriam
Per Miriam:
Miriam, non devi scusarti. Tu hai solo (legittimamente) espresso una tua opinione.
Per Marcos:
Tu dici: “Tutti vogliono creare tutto. e i primi gli scrittori i taglia e cuci come le comari di quartiere, alla carver o wallace, io consiglierei di andarci cauti, prima che tutta questa produzione diventi insostenibile.”
Non hai tutti i torti, ma Internet è pure questo… materiale che si crea, che si ri-genera e che si autoimplementa. In fondo Wikipedia non è altro che questo… pensa però che utilissimo strumento è diventato (da far concorrenza – in verità le ha surclassate – alle migliori enciclopedie del mondo). Ti ringrazio molto per i complimenti.
Non so se avete notato in alto a destra il pulsantino blu con la scritta: “La rivoluzione Internet…”. Basta cliccare e si ritorna a quest post, che diventa – come già accennato – post permanente di questo blog. Una sorta di “cantiere aperto” dove tutti coloro che hanno voglia e piacere sono chiamati ad apportare il loro contributo (all’insegna dei “contenuti” come scriveva sopra Loredana Lipperini, intesi in senso sinergico; come valore aggiunto agli spunti forniti inizialmente). Marco Minghetti e gli affiliati alla humanistic management hanno assicurato il loro apporto costante. Ma chiunque di voi avesse notizie, informazioni, commenti, considerazioni utili e da condividere, non esiti a passare dal “cantiere” e mettersi all’opera. Purché, è chiaro, siano attinenti al post.
Un caloroso saluto a tutti.
Ad una donna che chiede scusa bisogna portare dei fiori in ginocchio, ma io se genufletto capoto!
Coraggiosa amica, no!
La colpa è mia, che in un attimo di malinconia e ricordando quel triste novembre e quella morte assurda, che gettava fango sulle menti, ho rilevato il tuo livore, che probabilmente era collettivo, ma, ipocritamente, noi comunisti nascondevamo.
E poi pago pegno:penso di essere ancora comunista.
Il commento era per Miriam, scusate (ma sicuramente pubblico e per tutti)!
Maugeri, la scoperta del tuo doppio mi ha sconvolto, è stato un grande momento di umorismo involontario: a quando il “Terzo uomo” come Totò?
Probabilmente avrete letto la lettera di Francesca Mazzucato pubblicata in “Dirimpettai” (e legata a questo post). Perché non se ne perda traccia nell’ambito di questo “cantiere aperto” scrivo di seguito il link:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/03/dirimpettai_num.html
E questo è il link al blog “Books and other sorrows” dove Francesca ha commentato la suddetta lettera:
http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/03/dirimpettai_3.html
Per Francesco Di Domenico:
il Massimo Maugeri mio omonimo del nord è un bravo dirigente di Legambiente in Liguria.
Per il resto posso dirti che qui a Catania esistono più di un Massimo Maugeri (uno di questi lo conosco personalmente). E so che c’è un Massimo Maugeri di Messina che fa il cabarettista e l’imitatore.
Come vedi,Francesco, siamo in tanti… ma non interscambiabili.
Buona domenica a te e a tutti gli amici di Letteratitudine.
Per Francesco di Domenico: Ciao, forse avremo la possibilità di parlare a fondo di quegli anni e di questi e, anche del ruolo degli intellettuali. Buona domenica a te e a tutti i lettori del blog.
Le parole uccideranno i pensieri?
Ecco un esempio di come l’editoria (nella fattispecie il “Gruppo editoriale L’Espresso”) può servirsi di “Second life” (già citata da Marco Minghetti): http://www.secondlife.com
Da Repubblica.it del 26 marzo 2007
SCIENZA & TECNOLOGIA
Da stasera alle 19, per tre giorni, l’iniziativa dell’Espresso per lanciare la nuova collana di storia italiana. Il Risorgimento su Second Life.
Il passato incontra il futuro. I cittadini del mondo virtuale più frequentato potranno interagire con Garibaldi, Mazzini, Cavour…
Sull’isola Ibridarte, uno splendido castello d’epoca sarà abitato dagli eroi del Risorgimento per tre giorni. Sono tornati dal passato per raccontare le loro vicende e quelle dell’Italia, ma anche per interagire con tutti i residenti di Second Life e magari farsi spiegare da loro come si è evoluta la storia in loro assenza.
“Risorgimento, senza non ci saremmo”, così il Gruppo Editoriale L’Espresso, ha deciso con questa iniziativa virtuale di promuovere la nuova collana di libri sul Risorgimento italiano, il primo volume in uscita il 27 Marzo.
Second Life diventerà così un canale per parlare anche del nostro passato in maniera interattiva, facendo intervenire nella sala “Garibaldi” i protagonisti in prima persona, pronti a rispondere a qualsiasi domanda che i residenti di SL vorranno formulargli.
L’evento avrà inizio stasera, ma già oggi si potrà visitare l’isola risorgimentale del Gruppo Editoriale L’Espresso: dalle 19 circa incontrare personalmente Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele. Un evento unico per confrontarsi con il passato attraverso il futuro.
(26 marzo 2007)
Per dovere di precisione…
Definizione di “Second life” secondo wikipedia:
“Second Life è una comunità virtuale tridimensionale on-line creata nel 2003 dalla società americana Linden Lab. Il gioco fornisce ai suoi utenti (definiti “residenti”) gli strumenti per aggiungere al “mondo virtuale” di Second Life nuovi contenuti grafici: oggetti, fondali, fisionomie dei personaggi, contenuti audiovisivi, ecc. La peculiarità del mondo di Second Life è quella di lasciare agli utenti la libertà di usufruire dei diritti d’autore sugli oggetti che essi creano, che possono essere venduti e scambiati tra i “residenti” utilizzando una moneta virtuale (il Linden Dollar) che può essere convertito in veri dollari americani.
Attualmente partecipano alla creazione del mondo di Second Life oltre 4.790.000 utenti di tutto il mondo (dato 19 marzo 2007), e ciò che distingue il gioco dai normali giochi 3-d on-line è che ogni personaggio che partecipa alla “seconda vita” corrisponde ad un reale giocatore. Gli incontri tra personaggi all’interno del gioco si configurano dunque come reali scambi tra esseri umani attraverso la mediazione “figurata” degli avatar.
L’iscrizione al gioco è gratuita, anche se è obbligatorio essere maggiorenni. Per costruire e vendere oggetti all’interno del gioco, inoltre, occorre comprare aree di terreno nel mondo virtuale di Second Life.
Molti personaggi che partecipano al gioco sono programmatori in 3-d. Alcuni di essi hanno guadagnato ingenti somme di (vero) denaro vendendo gli script dei propri oggetti creati per essere utilizzati dentro il gioco. Second Life viene comunemente utilizzato dai suoi utenti per proporre agli altri partecipanti conferenze, file musicali e video, opere d’arte, messaggi politici, ecc.; si è inoltre assistito alla creazione di numerose sottoculture all’interno del gioco, che è stato studiato in numerose università come modello virtuale di interazione umana: le possibilità grafiche e di interazione tra partecipanti offerte dal gioco sono infatti potenzialmente infinite.”
Sono sinceramente affascinata dai vostri commenti,vi prego continuate…
Posso chiedervi cosa pensate della natura pubblicitaria occulta e possibile delle comunicazioni?(cfr.G.Altamore I padroni delle notizie BMondadori).
E della free-press ?…
Grazie ancora a tutti voi
Apporto nuovo materiale al “cantiere aperto” inserendo questo testo preso dal blog di Loredana Lipperini (e con il suo beneplacito).
http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2007/03/sympathy_for_th.html
Su Railibro, Tullia Fabiani intervista Vittorio Sabadin, giornalista de La Stampa, a proposito del suo libro, L’ultima copia del «New York Times», pubblicato da Donzelli. Se ne discute parecchio in giro e non mi pare inopportuno riproporre qualche passo della conversazione.
– Dunque, per i giornali di carta pare cominciato il conto alla rovescia: chi ne data l’estinzione al 2043 (come Philip Meyer); e chi molto prima (l’editore del New York Times si è chiesto se stamperà ancora il giornale fra cinque anni). Lei se la sente di fare un pronostico preciso?
In realtà non è possibile. Credo comunque che Philip Meyer sia stato eccessivamente ottimista e l’editore del New York Times, Arthur Sulzberger jr., eccessivamente pessimista. La realtà dell’informazione cambia troppo in fretta per poter fare qualunque previsione. Come dice Rupert Murdoch, sopravviverà chi sarà più veloce, chi potrà cioè adeguarsi rapidamente ai cambiamenti in corso. Ad essere in pericolo sono le aziende editoriali che ancora si illudono che tutto potrà tornare come prima e che rifiutano ancora di vedere le grandi possibilità di espansione del business rese possibili dalle nuove tecnologie di comunicazione. Credo che esisteranno sempre giornali di carta, ma dovranno essere molto diversi da quelli che si stampano adesso: più concentrati sull’analisi e meno sulle notizie. Costeranno di più, perché la qualità costa, avranno meno pagine e venderanno meno copie ad un prezzo più alto.
– Perché questa fine dopo secoli di lustro?
I giornali hanno perso il monopolio dell’informazione e non sono riusciti a seguire con tempestività i mutamenti sociali. Se un evento accade alle 9 del mattino, la gente ha ora infinte possibilità di documentarsi subito sullo stesso evento attraverso il web, la tv o la telefonia mobile. Nessuno aspetta più l’edizione del giorno dopo del suo giornale per sapere che cosa è successo. Se mai, dal suo giornale su carta vuole capire perché un fatto è accaduto. Faccio un esempio banale: moltissimi giornali, il lunedì, si ostinano a fare titoli in prima pagina tipo: il Milan pareggia con l’Inter 1 a 1, cosa che tutti i tifosi del Milan e dell’Inter sanno già da molte ore. Inoltre, la raccolta pubblicitaria si sta trasferendo altrove: sul web cresce del 30-40 per cento all’anno, a fronte di incrementi del 2-3 per cento dei giornali su carta. Per la prima volta ci sono in giro pericolosi concorrenti e i giornali lo hanno capito con grande ritardo.
– La free press potrebbe essere l’unica superstite nel panorama dei quotidiani cartacei?
È una possibilità. Molti giornali che prima erano a pagamento sono diventati gratuiti. Ma la free press, per come è fatta adesso, non risponde al valore sociale che i giornali devono avere. Bisogna trovare il modo di salvaguardarlo.
– Ma quali sono le origini e le caratteristiche del cambiamento in corso?
Nelle redazioni di tutto il mondo ci sono direttori e giornalisti un po’ tramortiti, convinti che bisogna fare qualcosa ma per nulla sicuri di che cosa bisogna fare. In Europa si sono ridotti i formati e si è lavorato sul design; negli Usa si è lavorato di più sui contenuti, cercando di produrre giornali che fossero di nuovo vicini ai bisogni e alle istanze sociali della loro comunità. I giornali locali che hanno seguito questa linea stanno andando bene, a conferma del fatto che il recupero dello spirito di servizio pubblico che ha caratterizzato i giornali fin dalla loro origine può essere una delle soluzioni. Ma la stampa di un giornale su carta è un processo ormai lento e costoso in rapporto ai new media, che sono più veloci ed economici. I giornali dovranno imparare a servirsene, la carta da sola non potrà più sopravvivere.
(…)
– Quali sono i rischi che il giornalismo corre nella mutazione cui è sottoposto? E quali vantaggi a fronte?
I rischi per il giornalismo sono strettamente legati alle politiche degli editori. La tendenza generale è quella di ridurre lo staff redazionale: negli Usa si è perso in pochi anni il 18% dei posti di lavoro. Per risolvere la crisi molti editori americani stanno tagliando la qualità giornalistica, cosa che li porterà inevitabilmente alla rovina. Inoltre, molti giornali in difficoltà vengono acquistati da gruppi industriali il cui core business non è nell’editoria e che ritengono che il possesso di un quotidiano li aiuterà nei loro affari. Queste persone non sono molto interessate alla qualità giornalistica o al servizio pubblico che un giornale dovrebbe svolgere. Infine, i giornalisti con maggiore esperienza vengono sostituiti da giovani con contratti a tempo indeterminato, più ricattabili dallo staff dei manager e della proprietà. Per i giornali che invece potranno continuare ad esercitare il loro ruolo con serietà si aprono nuove prospettive e qualche vantaggio: grazie al web e alle nuove tecnologie di comunicazione i giornalisti potranno, se lo vorranno, smetterla di predicare da una torre d’avorio ed entrare in contatto diretto con i loro lettori, ascoltandoli. Se lo faranno, sarà una vera rivoluzione, che porterà benefici a tutti.
Per Mariarosa:
sulla free press trovi (in parte) risposta nel commento precedente a questo (leggi l’intervista a Sabadin).
Per quanto concerne “la natura pubblicitaria occulta e possibile delle comunicazioni” ci sarebbe parecchio da dire.
Spero di farlo nei prossimi giorni.
ciao.
Ulteriore tassello riguardante il futuro dei giornali di carta.
La storica rivista LIFE chiude e il suo archivio va sul web.
Da Repubblica.it del 27 marzo 2007
http://www.repubblica.it/2007/03/sezioni/esteri/life-chiude/life-chiude/life-chiude.html
NEW YORK – L’immagine dell’America – il glamour, le celebrità, ma anche i suoi aspetti meno patinati – non sarebbe stata la stessa, senza Life. La rivista che a partire dal 1936, e con alterne fortune, ha ospitato le foto a stelle e strisce più belle, le copertine più memorabili, che sono rimaste alla storia. Adesso però, per il magazine, arriva la morte (cartacea) e la resurrezione, almeno parziale, sul web.
Ad annunciarlo, ieri sera, è stata la casa editrice, la Time Inc, che fa capo al potente gruppo mediatico Time Warner: Life cesserà presto le pubblicazioni – l’ultimo numero sarà quello del 20 aprile – e trasferirà il suo immenso archivio fotografico su internet.
Una novità, certo. Ma non in senso assoluto: infatti non è la prima volta che la rivista, nata nel 1936, chiude bottega, o comunque si trasforma. Accadde, ad esempio, nel 1972, per poi tornare in edicola a partire dal 1978. Nel 2000, nuovo stop. E nel 2004, un’altra vita: Life smette di essere un giornale autonomo e diventa un magazine allegato a 103 quotidiani, diffusi sul territorio americano.
Ma anche in questa veste più dimessa – circa venti pagine, con interviste alle celebrità e spigolature varie – le cose non vanno bene. E infatti, nella sua fetta di mercato, viene superato da ben due supplementi rivali: Parade, che fa capo all’editore Advance Publications, e Usa Weekend, di proprietà della Garrett.
Insomma, per la più celebre delle riviste a stelle e strisce, un viale del tramonto abbastanza malinconico. Fino alle decisione di ieri. Motivata così, dalla Time Inc: “La causa della chiusura è nel declino del business dei quotidiani”. Come a dire: la colpa è dei 103 giornali che vendono troppo poco, non nostra.
Sia come sia, adesso il magazine rinasce sul web. O, meglio, la sua collocazione internettiana impedirà che a morire sia il suo straordinario archivio. Una bella fetta di memoria fotografica americana: e davvero sarebbe stato un delitto, farla sparire definitivamente…
(27 marzo 2007)
Buon giorno a tutti;sono Elisa Zanola,la studentessa di Pavia in comunicazione
interculturale e multimediale che da qualche mese sta lavorando alla tesi sullo
humanistic journalism.Sto ancora riflettendo su idee,materiali,concetti,per poi
iniziare,presumibilmente verso fine aprile-inizio maggio a stendere qualcosa.
I primi 15 capitoli seguiranno le 15 variazioni impermanenti dello humanistic
managment che verranno applicate a casi giornalistici;la seconda parte
riguarderà la possibile morte del giornalismo cartaceo (che secondo le
previsioni del New York Times dovrà avvenire nel 2043)e i suoi nuovi sviluppi
attraverso i new media.
Come in “Nulla due volte” le tesi dello humanistic managment sono fatte
risaltare anche dalla bellezza dei versi di Wislawa Szymborska, io pensavo di
far precedere ad ogni capitolo un verso particolarmente incisivo ed esplicativo
di diversi poeti russi,francesi e dell’amato Leopardi.
Iniziamo dal 1’capitolo che riguarda la transazione da un giornalismo old
style , quasi tayloristico nell’impostazione della notizia (modello ANSA e
modelli anglosassoni di trasmissione della notizia), ad un nuovo giornalismo,lo
humanistic journalism,appunto,che non è più la semplice replica dei fatti ma
include una profonda personalizzazione e interiorizzazione degli stessi. Il
tutto pensavo di farlo precedere da una citazione di Valerij Jakovlevic Brjusov
che a mio parere ben sottolinea le aspettative di rinnovamento: “Ma in questi
giorni di ultime devastazioni / sorgerà,io lo so,fra gli uomini un prode./
Turbando il sonno superbo degli edifizi,/violerà con la luce il loro tacito
buio. (…)/ E giorni e notti assorbirà con ansia/ i presagi nascosti nella
polvere/ le ricerche del vero,le sacre visioni/e i canti,e gli inni alle
delizie della terra”.
Come esempio di attenzione al lato umano della notizia e non solo al mero
fatto,si potrebbe trattare della liberazione di Mastrogiacomo sulle pagine
della Repubblica:il semplice accadimento della liberazione è stato filtrato
dalle impressioni e dai ricordi del protagonista,diventando così profondamente
umano;si potrebbe parlare anche della morte di Andreatta:anche in questa
occasione i giornali hanno dato più importanza non al lato istituzionale
dell’uomo,ma al suo ritratto intellettuale ed emotivo.Gli esempi sono
numerosi,e non solo tra i casi più recenti…sto facendo invece fatica a
rinvenire dei contro modelli,forse perché,data la mia età,la rivoluzione
giornalistica,a partire dai miei primi ricordi,era già avvenuta:sto cercando di
trovare esempi di un giornalismo più antico dove il fatto,prodotto quasi
serialmente,veniva prima di tutto…magari il giornalismo telegrafico televisivo
degli anni’80,o i vecchi giornali del 1800…se qualcuno ha qualcosa da
suggerirmi,sarà ben accetto!
Un cordiale saluto ed un profondo ringraziamento.
Elisa Zanola
Cara Elisa,
intanto benvenuta in questo blog!
Immagino che qualcuno riuscirà a darti una mano. Il tuo progetto sembra interessante. Come sai questo post costituisce una sorta di “work in progress” (cantiere aperto, lo chiamo io) aperto ai contributi e alla disponibilità di tutti. Nell’ottica dell’apporto di “contenuti”.
Quindi… teniamoci in contatto.
Cara Elisa Zanola, “la studentessa di Pavia in comunicazione interculturale e multimediale…”, restare indifferenti alla tua comunicazione è difficile: sei riuscita a divertirmi moltissimo. Cosa ragguardevole e che capita molto raramente. Ad un attento esame della situazione, penso che tu debba riflettere molto prima di chiedere consigli, o addirittura coinvolgere degli sconosciuti nella preparazione della tua tesi. La tua interculturalità confonde; il metodo sfugge e il rumore dei versi percuote.
Non ci sei! Riprovaci: ma nel frattempo risparmiaci “il risorgere di un prode”!
Gianni Filote
Caro Gianni Filote,
non so chi tu sia. Io non ero ancora intervenuta in questo post perché ritenevo di non essere all’altezza. Il tuo inutile commento, però, mi autorizza a intervenire. E intervengo per dire che, a mio giudizio, il commento di Elisa Zanola, a differenza del tuo, mi pare apprezzabile e soprattutto costruttivo.
Per cui, Elisa, va avanti…
Messaggio per Massimo Maugeri: sai qual è il limite principale dei blog non moderati? Che chiunque può intervenire per scrivere qualunque cosa, andando fuori argomento e magari offendendo la gente. E questo è il mio “apporto costruttivo” al dibattito.
In effetti, Erika, preferirei (anzi, auspicherei) che in questo blog, e soprattutto in questo post, si apportassero “contenuti”.
Il problema che tu sollevi non è affatto di poco conto ed è gia stato trattato altrove (nei prossimi giorni inserirò i “riferimenti”). Devo dire che questo blog, in linea di massima, e salvo rarissime eccezioni, è stato esentato da interventi del tutto inutili (o peggio offensivi). In ogni caso, in quanto gestore del blog, qualora dovessi riscontrare commenti (eccessivamente) offensivi… sono pronto a intervenire per eliminarli.
Dovesse capitare non abbiatene a male (io credo nei dibattiti costruttivi). Del resto sul web non mancano spazi dove l’utilizzo di epiteti dozzinali (è un eufemismo) costituisce la regola.
Per quanto concerne Elisa Zanola – che è la benvenuta – posso dire che conosce molto bene il prof. Marco Minghetti (colui che ha inserito il commento più lungo – e uno dei più costruttivi – di questo post) essendo sua allieva.
Inserisco questa notizia diramata dalla Reuters, venerdì 30 marzo 2007
“Usa, lettori di notizie web più attenti di quelli dei quotidiani”
–
WASHINGTON (Reuters) – Le persone che leggono notizie su Internet hanno una capacità di attenzione più ampia dei lettori della carta stampata. E’ quanto ha stabilito uno studio Usa rifiutando il principio che i navigatori del web saltino di qua e di là non leggendo molto.
La ricerca EyeTrack07 del Poynter Institute, scuola di giornalismo con sede in Florida, ha riscontrato che i lettori online leggono il 77% di quel che decidono di leggere mentre i lettori dei quotidiani leggono una media del 62% e quelli dei tabloid il 57%.
Sara Quinn, direttrice del progetto Poynter EyeTrack07, ha spiegato che questo è stato il primo ampio studio a livello internazionale che ha messo a confronto le differenze tra persone che leggono le notizie online e lettori di quotidiani.
La ricercatrice ha detto che è stata una sorpresa scoprire che una così ampia percentuale di testi siano letti online, cosa che sfata il luogo comune secondo il quale i lettori del web avrebbero una capacità di attenzione più breve.
“Circa due terzi dei lettori online, una volta che hanno scelto un particolare articolo da leggere, leggono tutto il testo. Questo dimostra la forza di un giornalismo in un formato esteso”, ha dichiarato Quinn a Reuters, ieri alla conferenza annuale dell’American Society of Newspaper Editors, dove lo studio è stato presentato.
La ricerca ha anche evidenziato che la gente presta più attenzione a temi trattati in formato domanda e risposta o ad elenchi, e preferisce immagini di notizie e documentari alle foto in posa in studio.
Lo studio ha coinvolto 600 lettori di quattro mercati Usa, lettori del Rocky Mountain News in Denver, St. Petersburg Times in Florida, Star Tribune di Minneapolis e Philadelphia Daily News.
Ai soggetti, 49% donne e 51% uomini di età tra i 18 ed i 60 anni, è stato chiesto di leggere l’edizione quotidiana sia su carta che online, nel corso di 30 giorni. Ogni soggetto è stato dotato di due piccole telecamere montate sopra l’occhio destro per monitorare cosa stesse leggendo e poteva leggere quel che voleva. Lo studio ha riscontrato che il 75% circa dei lettori su carta è metodico, rispetto alla metà dei lettori online.
I lettori metodici tendono a leggere da cima a fondo senza cercare troppo nella pagina, leggono guardando due pagine quando hanno un giornale e rileggono alcuni articoli.
Ma i lettori online, che siano metodici o che selezionino le notizie, leggono circa lo stesso volume di testo.
Quinn ha spiegato che in un test prototipo le persone hanno risposto più correttamente alle domande su un argomento se le informazioni erano state presentate in un formato diverso da quello della narrazione tradizionale.
Questo che si trattasse di un formato a domanda e risposta, a scansione di date, su una breve barra laterale o ad elenco.
“Le persone prestano in media un 15% di attenzione in più a formati alternativi rispetto al regolare testo di una storia stampata. Su uno spazio di lettura più ampio, la percentuale sale al 30%”, dice lo studio.
Grossi titoli e fotografie nella stampa vengono guardate prima ma i lettori online esplorano barre di navigazione e minifilmati.
Quinn ha detto che altri risultati della ricerca verranno diffusi alla conferenza di Poynter ad aprile.
Belinda Goldsmith
Volevo ringraziare Massimo Maugeri per il benvenuto,ed Erika per il sostegno…Evidentemente il signor gianni filote non ha la benchè minima idea di quale sia lo spirito dello humanistic managment,nè tano meno di quello di un blog partecipativo-conviviale come questo.E se l’interculturalità confonde,la chiusura mentale SPAVENTA.
Io però non volevo spaventare nessuno…
Cara Elisa, non hai spaventato nessuno 🙂
Forse, più semplicemente, nessuno si è sentito all’altezza di darti suggerimenti.
Aspettiamo un po’. Non si sa mai.
Ciao.
Da Repubblica.it del 22 aprile 2007
Diventare ricchi con Second Life
i milionari si sono quadruplicati
di DANIELE SEMERARO
ROMA – Per molti è solo un gioco, una seconda vita parallela e virtuale con cui passare qualche ora di tempo libero. Per altri, invece, è diventato un vero e proprio lavoro, molto più remunerativo di quello reale. Stiamo parlando di Second Life, il mondo virtuale che conta quasi sei milioni di utenti iscritti e due milioni che “giocano” regolarmente. Ebbene, secondo un’inchiesta di Business Week si sono quadruplicati i residenti che, grazie all’inventiva e a un irrilevante investimento economico iniziale, sono arrivati a guadagnare più di cinquemila dollari americani (reali) al mese, lasciando, nella maggior parte dei casi, il lavoro reale.
L’economia virtuale. Il funzionamento del gioco è molto semplice: ci si iscrive gratuitamente, si scarica un software (per Windows o Mac e in versione alpha anche per Linux) con cui collegarsi al mondo virtuale, si sceglie un nome e un cognome, si crea il proprio avatar (cioè la rappresentazione grafica) e si può iniziare a girare per questa terra costituita da enormi isole e piena di negozi, ristoranti, attività commerciali, aree per adulti. Il mondo di Second Life ha un’economia integrata, “studiata – spiegano gli ideatori – per premiare il rischio e l’innovazione”. La moneta di scambio è il Linden Dollar ed esiste un vero e proprio sistema di cambiavalute: per un dollaro americano si ottengono circa 300 Linden Dollars. In una giornata tipo vengono scambiati circa due milioni di dollari statunitensi.
I “paperoni”. Il primo milionario della storia di Second Life è una donna, Anshe Chung (nome virtuale Ailin Graef), conosciuta da tutti come il Rockfeller di Second Life: con un investimento iniziale di soli 9,95 dollari ha acquistato oltre 400 lotti di terra rivendendoli tra i 1.200 e i 1.600 dollari (reali) l’uno. Al secondo posto troviamo Philip Rosedale (in Second Life, Philip Linden), uno dei creatori del gioco, che all’inizio è stato la controparte di Ailin Graef, con cui negoziava la vendita di grandi appezzamenti di terra. Ha guadagnato, insieme alla sua compagnia, oltre 19 milioni di dollari.
Non solo venditori e compratori di terra, però. Reuben Steiger, nome in codice Reuben Millionsofus, ha addirittura lanciato una propria azienda virtuale, la Millionsofus. Il suo lavoro è quello di consulente di marketing per grossi clienti. Ogni giorno qualche importante azienda o qualche politico apre un proprio quartier generale in Second Life, per farsi pubblicità. Ebbene, aiutare le aziende a interfacciarsi con questo nuovo mondo sembra essere il lavoro in assoluto più remunerativo: Steiger ha stretto accordi con nomi di primissimo piano come Microsoft, Toyota, Coca-Cola e Warner Bros, per fare alcuni esempi. Solo nel 2007 prevede di guadagnare sei milioni di dollari. Sulla stessa scia anche Sibley Verbeck (nickname Sibley Hartor), fondatore della Electric Sheep Co. che dà lavoro a 55 dipendenti: oltre alla consulenza, la sua azienda disegna anche palazzi e avatar per grandi società come Aol-Time Warner, Reuters, Cbs, Sony. Per ogni lavoro la fattura si aggira intorno ai 15mila dollari. Stessa cosa per Alyssa LaRoche (Aimee Weber) che ha iniziato disegnando vestiti e organizzando feste. Con la sua azienda, Aimee Weber Studio, ha creato una marca di abbigliamento, Preen, e viene pagata dalle aziende dai 30mila ai 100mila dollari.
Non poteva mancare, lo dicevamo, il settore del divertimento per adulti. Qui troviamo Kevin Alderman (conosciuto in rete col nome di Stroker Serpentine), che ha avuto l’idea, alcuni anni fa, di ricostruire nel mondo virtuale il quartiere a luci rosse di Amsterdam. Ebbene, con un’astuta mossa l’ha rivenduto su eBay per 50mila dollari (non virtuali!).
(22 aprile 2007)
(Il gigante di Mountain View lancia il nuovo servizio gratuito
ma non mancano le preoccupazioni per la privacy degli utenti)
Ecco Web History, firmato Google
l’archivio della nostra vita in Rete
I SITI che visitiamo ogni giorno. Le ricerche effettuate con il nostro motore preferito. I video o le immagini che hanno colpito la nostra attenzione e che abbiamo scaricato o soltanto visto. Nulla andrà perduto. Tutto rimarrà impresso in un unico archivio che potrà essere consultato in ogni momento.
Si chiama Web History ed è il nuovo servizio di Google che permette agli utenti registrati di trattenere volontariamente la traccia di tutti i passi effettuati in Rete. Per ora solo in inglese si candida ad esser l’archivio digitale della nostra vita su internet. Uno strumento di grande ulitilità, non c’è dubbio, ma che per il suo essere inevitabilmente invasivo ha subito suscitato le preoccupazioni di chi teme per la privacy degli utenti.
Ogni passo compiuto, nello stretto spazio delimitato da un browser, da oggi può diventare una traccia indelebile negli archivi del più grande motore di ricerca del mondo. Una specie di gigantesca cronologia. Per utilizzare il servizio, un’evoluzione del precedente Search History, si deve essere naturalmente in possesso di un account presso Google, avere scaricato la Google Toolbar e avere abilitato PageRank. Nella memoria di Web History verranno catalogati gli indirizzi dei siti e non il dettaglio dei contenuti delle singole pagine.
L’utente registrato potrà accedere da qualsiasi postazione alla banca dati del suo passato da cittadino della Rete. Rivedere e ricordare gli istanti della sua vita digitale senza più dimenticare nulla. Ciascuno potrà fare delle ricerche anche di singole parti di testo all’interno dell’intero archivio personale.
Solo alcuni giorni fa il motore di ricerca più famoso al mondo aveva annunciato l’accordo per l’acquisizione di Double Click, azienda leader della pubblicità sul web. Il lancio del servizio ha fatto crescere di nuovo le preoccupazioni di chi guarda a Google come ad una minaccia per la privacy per quell’ingente volume di informazioni collegate al singolo utente. Da Google rispondono che il nuovo servizio verrà utilizzato dall’azienda solo per personalizzare e rendere più efficaci le ricerche degli utenti. Ma la polemica, questo è certo, è solo agli inizi.
(23 aprile 2007)
Da Repubblica.it
http://www.repubblica.it/2007/05/sezioni/scienza_e_tecnologia/internet-cambia-business/internet-cambia-business/internet-cambia-business.html
Con l’avvento dei magazzini virtuali, sono scomparsi i limiti
dettati dallo spazio. E la nicchia può sfidare il mercato di massa
Libri, cd e dvd: non solo bestseller.
Così il web ha cambiato il business
di MAURIZIO RICCI
UNA grande catena di negozi di dischi, Tower Records, ha già chiuso i battenti. Blockbuster, il gigante dei negozi di noleggio di dvd, è in grave crisi. L'”economia del mattone”, quella fisica, reale del negozio in cui si entra, si sceglie e si passa a pagare alla cassa, cede di schianto di fronte all’offensiva dei virtuale, della musica e dei film scaricati on line. Ma, con l’ascesa di internet, mutano anche parametri e leggi del fare affari: non è più (o soltanto) la top ten ad ingrassare i bilanci. La formula magica – 80/20: l’80 per cento dei profitti viene dal 20 per cento dei prodotti – non vale più. E’ l’alba di quella che, chi sa di statistica, chiama “la coda”.
“I grandi successi, gli hits, sono il motore fondamentale che traina l’economia dell’intrattenimento” scriveva, alla fine degli anni ’90, Michael J. Wolf, un guru del marketing. E, più o meno negli stessi anni, Harold Vogel, uno studioso dell’economia di Hollywood chiariva che “gli incassi e il profitto medio del settore cinema sono principalmente determinati da pochi travolgenti successi”. E’ quello che dice il senso comune: nell’industria dell’intrattenimento – il settore più dinamico e, forse, più radicalmente innovativo delle economie moderne – contano solo il film, il disco, il programma tv che fanno saltare la cassa. E’ l’economia della scommessa: un best seller riscatta – e soprattutto copre le perdite – degli altri nove film o dischi prodotti, e che si sono rivelati un flop. Ma dopo pochi anni e la rivoluzione di internet, quel senso comune non vale più: “Se l’industria dell’intrattenimento del XX secolo era fatta di hits, quella del XXI sarà fatta, nella stessa misura, di flop” sostiene Chris Anderson, il direttore di Wired, il mensile americano della new economy.
Anderson fa l’esempio di un oscuro libro di alpinismo nelle Ande, “Touching the Void”, toccare il vuoto, uscito nel 1988 e presto scomparso dalle librerie. Dieci anni dopo, esce un altro libro di alpinismo, questa volta sull’Everest, “Into Thin Air”, nell’aria sottile, che si rivela un grande successo. E sulla sua scia, “Touching the Void” riprende a vendere. Una riedizione resta per 14 settimane sulla lista dei bestseller del New York Times. Oggi, “Touching the Void” vende il doppio di “Into Thin Air”. La spiegazione, naturalmente, è Amazon, la grande libreria del Web. A chiunque comprava “Into Thin Air” su Amazon, compariva sullo schermo, grazie ad un software automatico, anche il suggerimento “chi ha comprato questo libro ha apprezzato..” e qui una lista di libri di alpinismo. Ma questa è solo una parte della spiegazione, e neanche la più importante. Il punto chiave è che Amazon aveva ancora “Touching the Void” in magazzino.
La legge del bestseller si basa sulla scarsità. Una grande libreria (Barnes&Noble negli Usa, Feltrinelli da noi) può avere sui suoi scaffali più o meno 100 mila titoli. Un Blockbuster può offrire 3 mila dvd da noleggiare. Un negozio di musica cd per un totale di 40 mila canzoni. E, siccome lo spazio costa, deve essere sicuro di venderli. L’esempio estremo è Wal-Mart, la più grande catena di distribuzione commerciale al mondo: per rifarsi dei costi e guadagnarsi un profitto, Wal-Mart deve vendere almeno 100 mila copie di un cd. Ma solo l’1 per cento dei dischi raggiunge queste vendite. Per il restante 99 per cento niente Wal-Mart e, a scendere di dimensione, lo stesso principio continua a valere, anche via via giù per la catena dei negozi sempre più specializzati. E’ la rappresentazione quantitativa del teorema “the winner takes all”, il vincitore prende tutto, messo inconsapevolmente in musica dagli Abba. Prima del fonografo, il tenore n.2 al mondo (appena meno bravo di Caruso) poteva sperare di riempire il suo teatro quanto Caruso. Ma una volta che c’è il disco, perché prendersi la “Traviata” cantata dal n.2, quando quella del n.1 costa uguale? Il n.2, di fatto, scompare.
La tecnologia ha nuovamente rovesciato questo teorema. Nel mondo virtuale, lo spazio sugli scaffali non costa nulla. Per un distributore sul web, il disco del n.1 e il disco del n.2 sono uguali e portano lo stesso profitto. Amazon ha in magazzino non i 130 mila titoli di Barnes&Noble, ma 3,7 milioni di libri. Rhapsody, un servizio che, come Itunes, offre musica in rete, mette a disposizione non le 40 mila canzoni di un normale negozio, ma 735 mila. La prima scoperta è che questi libri, questi dischi, fuori dalla lista dei bestseller, si vendono. “Certo”, osserva Massimo Martini, di Yahoo Italia, “Internet è il regno delle nicchie. La gente ha un mucchio di esigenze strampalate e la rete è in grado di soddisfarle tutte”.
Tutto questo, la statistica, da Vilfredo Pareto in poi, lo sa benissimo. Il grafico in questa pagina è un classico della teoria della distribuzione: sulla sinistra, il ristretto numero di elementi molto frequenti e poi la lunga coda (“The Long Tail”, la lunga coda, è il titolo del libro di Anderson) di elementi sempre meno frequenti. La coda può essere lunghissima: nel caso di Amazon arriva a tre milioni e mezzo di titoli. Ciò che conta è che questa legge statistica, nel mondo virtuale, ha un significato economico, quanto basta per autorizzare Martini a parlare di “economia della coda”.
La seconda scoperta, infatti, è che la coda si vende bene. “Oggi – dicono ad Amazon – venderemo più copie di libri che ieri non avevano venduto neanche una copia, di quante ne venderemo di libri che, ieri, ne avevano venduto almeno una”. Più esattamente, una quota sempre più significativa delle vendite di Amazon riguardano libri che non stanno nella lista dei 130 mila più richiesti, quelli che, presumibilmente, ha sugli scaffali Barnes&Noble. Un quinto delle vendite di Netflix (un servizio di distribuzione di dvd a domicilio) riguarda film che non stanno fra i 3 mila più richiesti (e in magazzino da Blockbuster). Rhapsody distribuisce, in cifre assolute, più canzoni al di fuori dei 10 mila bestseller, di quanto non venda con i bestseller. In una parola, la coda pesa. Spesso, in aggregato, anche più della testa. I flop più dei bestseller.
I bestseller, naturalmente, restano cruciali per qualsiasi strategia di vendita, come riconosce anche Anderson. In particolare, per chi li produce. Per un distributore web, una copia di “Via col vento” porta lo stesso profitto di una di “Maciste nella fossa dei leoni”. Ma, per chi lo ha realizzato, non è la stessa cosa. “Godzilla”, ricorda un altro esperto di Hollywood, Edward Jay Epstein, è costato alla Sony quanto “Il re leone” alla Disney. Però “Il re leone” ha incassato un miliardo di dollari, “Godzilla” non ha neanche coperto i costi. Tuttavia, il principio della “selezione illimitata” resa possibile dalla rete significa che i bestseller non sono più gli unici attori presenti sulla scena del mercato. Nuovi attori, magari a basso costo, possono avere uno spazio, fino a ieri, impensabile. “Basta guardare al fenomeno dei blog” dice Martini: “Nella rete c’è posto per tutti”. E conferma che, oggi, l’imperativo degli affari, sulla rete, è “scendere per la coda”, acchiappare quel potenziale ieri inesistente.
Tanto più che l’economia della coda non si limita all’intrattenimento. Buona parte del fatturato pubblicitario di Google viene dall’aggregato di piccoli annunci su pagine web raramente cercate. Yahoo, dice Martini, si sforza di ampliare al massimo la sua rete di comunità, di nicchie. Fino al caso esemplare di Ebay, che aggrega un fatturato considerevole dalle vendite una tantum di oggetti unici. Svegli come sempre, la nuova aria l’hanno già annusata i pubblicitari, sempre più restii a puntare tutte le loro carte sulla tv generalista. Anche in Italia, il grosso degli spot è sempre più dedicato a telefonini e auto, ultimi prodotti dichiaratamente di massa. Per il resto, la pubblicità diventa sempre più mirata, segmentata, con il miraggio ultimo della comunicazione “uno a uno”, come quella resa possibile da internet, il cui sviluppo sembra scandire la progressiva frammentazione del mercato di massa. Le battaglie pubblicitarie del futuro si combatteranno, probabilmente, non sugli spazi per gli spot o sui numeri dell’Auditel, ma sul controllo di filtri, come i software automatici di Amazon e Google, o gli Rss, che selezionano il materiale web da inviare su un singolo pc. Forse è tempo che i sociologi comincino a rivisitare dogmi e teoremi della società di massa.
(12 maggio 2007)
Da REPUBBLICA.IT – SPETTACOLI & CULTURA
http://www.repubblica.it/2007/05/sezioni/spettacoli_e_cultura/tv-calo/network-usa/network-usa.html
Usa, più Google meno televisione: il pubblico lascia i grandi network
di ARTURO ZAMPAGLIONE
NEW YORK – Il mese scorso la Nbc ha registrato i livelli più bassi di ascolto degli ultimi vent’anni. “É solo una congiuntura statistica”, hanno subito spiegato i manager del network televisivo che fa capo al gruppo General Electric. Ma la settimana successiva i ratings della Nbc sono scesi ulteriormente, segnando un nuovo record negativo e togliendo l’illusione di un semplice incidente di percorso. E a conferma del trend, arrivano ora anche i dati complessivi delle quattro maggiori reti americane: Abc, Cbs, Fox, oltre alla Nbc, hanno perso 2,5 milioni di telespettatori negli ultimi due mesi rispetto allo stesso periodo del 2006.
Insomma, un crollo verticale, che apre nuovi interrogativi sul futuro della televisione e soprattutto sui rapporti con il mondo pubblicitario. Negli Stati Uniti la pubblicità televisiva è un mercato da 54 miliardi di dollari. Il calo degli ascolti rischia di cambiare i rapporti di forza. “Le aziende non avranno voglia di spendere per la pubblicità le stesse somme del passato”, osserva Brad Adgate della Horizon Media. E siccome proprio la settimana prossima inizierà la consueta campagna primaverile per presentare i programmi autunnali e raccogliere gli impegni pubblicitari, c’è il pericolo che i dati sulla audience si traducano in una flessione degli introiti.
Sociologi ed esperti di media cercano di offrire mille
spiegazioni per il calo dei telespettatori. Quest’anno, dice qualcuno, l’ora legale è scattata tre settimane prima del solito, con il risultato che molti americani hanno preferito fare i lavori in giardino piuttosto che guardare la televisione.
Qualcun’altro punta l’indice sulla noia e la ripetitività di molti programmi, che una volta infiammavano il pubblico e ora alimentano gli sbadigli. Ad esempio, Lost della Abc ha perso la metà della sua audience precedente (10 milioni di persone) e il telegiornale della Cbs condotto per la prima volta da una donna, Katie Couric, è sceso a 6 milioni di spettatori. Al di là di queste ragioni tecniche, ci sono comunque due fenomeni di fondo: innanzitutto Internet fa concorrenza alla televisione tradizionale, offrendo una vasta gamma di video, spettacoli e telegiornali. In secondo luogo la rapida diffusione dei Dvr (Digital video recording), che ormai si trovano nel 17 per cento delle case americane, cambia il modo di vedere la televisione.
I Dvr consentono di registrare digitalmente tutti i programmi tv, anche se trasmessi contemporaneamente da due reti diverse. Risultato: ognuno si crea un palinsesto personale. Per i networks ha un duplice svantaggio: da un lato non possono più contare su una massa critica che guarda il programma in tempo reale; dall’altro la registrazione offre la possibilità di saltare gli spot pubblicitari con un semplice clic sul telecomando.
Per il momento le grandi reti cercano di mantenere i nervi saldi. “Non mi sembra che la gente consumi meno televisione”, sostiene Alan Wurtzel, capo del servizio studi della Nbc. “Ma la vede in modi diversi e non sempre siamo in grado di misurarli”. In particolare, manca un sistema di rilevamento per gli ascolti differiti nel tempo.
All’offensiva di Google, YouTube e altri “new media”, non risponde solo il mondo televisivo classico, ma tutti gli “old media”. In una conferenza che si è appena svolta a Las Vegas, i chief executive dei Big del settore hanno cercato di contrastare l’idea che i canali tradizionali di informazione stiano morendo. E si sono coalizzati per rispondere alla sfida. “I googles che sono arrivati sono come i generali Custer del nuovo mondo, noi invece siamo i Sioux”, ha detto tra gli applausi Richard Parsons, capo di Time Warner. “Se faranno la guerra, la perderanno”. Ma per il momento sono le tivù a perdere milioni di telespettatori.
(14 maggio 2007)
Lavorare su Second Life
da Repubblica.it
(13 giugno 2007)
Lavori reali per un mondo virtuale: la Randstad, una delle principali agenzie di collocamento del mondo, offre posti pagati in Linden Dollars.
Al momento, sono tre le posizioni aperte: gestore dell’avatar di un ufficio legale olandese, più due posti come manager delle hostess nella sede virtuale di Abn Amro.
Mi sembra importante riflettere sull’operazione “V-day” condotta da Beppe Grillo attraverso il suo blog. Sono auspicabili commenti da parte dei commentatori di Letteratitudine.
*Cicerone 3*
=
=
Da Repubblica del 31 agosto 2007
=
ROMA – “Il V-Day è un virus, deve arrivare dappertutto, non in una sola città”. Per questo Beppe Grillo ha deciso non di fare una sola manifestazione, a Roma, ma di coinvolgere tutte, o quante più possibile, le città d’Italia. Il simbolo è una V rossa, tracciata sopra un 8, che ricorda quella del film “V per Vendetta”, ma significa un’altra cosa: si tratta del Vaffanculo Day (locuzione “sdoganata” di recente dalla Cassazione), l’appuntamento è per l’8 settembre ed è la nuova sfida di Grillo, animata da una macchina organizzativa decollata grazie al Web. La risposta popolare si vedrà nelle piazze coinvolte, da Nord a Sud. Lo scopo: protestare contro i politici condannati in via definitiva e che siedono sugli scranni del Parlamento, sostenere con una raccolta di firme la proposta di legge popolare per “cacciarli” dal Palazzo e soprattutto esprimere un disagio e una stanchezza per una politica che, secondo Grillo, è sempre più autoreferenziale e lontana anni luce dai cittadini e dalle loro attese.
L’obiettivo dell’8 settembre è la raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare per un Parlamento Pulito: la legge prevede la non eleggibilità dei pregiudicati, un massimo di due legislature e l’elezione diretta del candidato. La proposta di legge popolare è stata presentata alla Cassazione in luglio. “L’8 settembre – spiega Grillo – per ricordare che dal 1943 non è cambiato niente. Ieri il re in fuga e la Nazione allo sbando, oggi politici blindati nei palazzi immersi in problemi culturali. Il V-Day sarà un giorno di informazione e di partecipazione popolare”.
(31 agosto 2007)
=
=
Da Repubblica dell’8 settembre 2007
=
di CLAUDIA FUSANI
ROMA – Alla fine il “V-day” e il suo “pifferaio magico”, al secolo Beppe Grillo, sono usciti dai blog e dal web e sono esplosi nelle piazze italiane con decine di migliaia di fan e supporter in carne ed ossa e le dita della mano messe a “V”. Cittadini che chiedono “un paese più pulito” e che in due mesi, guidati dal comico genovese, hanno organizzato l’evento del V-day solo sul web.
Davanti al successo dei numeri il significato del V-day diventa secondario. Poco importa se quella “V” tirata fuori dal cilindro di Beppe Grillo significa vittoria, vaffanculo o l’inizio delle sbarco (8 settembre 1943) della società civile nel territorio della politica gestita dai partiti e non dai cittadini. Quel che conta è che l’iniziativa, lanciata il 26 giugno a Bruxelles davanti al Parlamento europeo, a oggi ha raccolto circa 300 mila firme di cittadini che chiedono una legge che faccia uscire dal Parlamento i 25 deputati condannati in via definitiva. Più in generale che impedisca l’ingresso in Parlamento a chi è stato condannato e a chi è in attesa della Cassazione. Quello che conta, oggi, è che esiste, ha una sua forma fisica, il partito dell’antipolitica.
Il cuore del V-day è Bologna dove fin dalle tre e mezzo del pomeriggio, nonostante il sole e il caldo, migliaia di persone hanno preso posto nella grande piazza Maggiore. Beppe Grillo compare verso le quattro e mezzo. Si dà un’occhiata intorno e dice: “Questa è una nuova Woodstock”. Poi snocciola uno per uno i nomi dei 25 deputati “da cacciare da Camera e Senato”. Ed è un trionfo. Cinquantamila, dice a fine giornata la stima ufficiale della questura (per Grillo sono 200 mila). E meno male, osservano alcuni, che “l’organizzazione del v-day ha provveduto a allestire nelle principali città italiane maxischermi in collegamento con Bologna, altrimenti ne avremmo avuti molti di più”.
E’ un fatto che nella piazza non si riesce ad entrare. Il palco dà le spalle al palazzo comunale. Davanti migliaia di teste, ragazzini, giovani e più anziani. Chi è presente resta colpito dall’assenza di bandiere o altro tipo di vessillo politico. “E’ questa la nostra vittoria, il nostro successo: siamo solo teste, senza bandiere” grida il comico sommerso dagli applausi.
(…)
I 50 mila di Bologna sono in collegamento virtuale con altre 179 piazze italiane e, assicura il blog del comico genovese vero e unico regista dell’evento politico-mediatico, almeno 30 città straniere tra cui Barcellona, Calgary, Chicago, Madrid, New York, San Francisco. In molte città italiane sono state raccolte da questa mattina le firme per la legge per il parlamento più pulito che oltre ad impedire la presenza di deputati condannati chiede anche siano i cittadini a scegliere i propri deputati. Mille firme a Trieste, 10 mila a Firenze, mille a Pordenone, migliaia a Torino, altre mille a Milano, duemila a Roma, tremila in Abruzzo, duemila a Cagliari.
Alla fine Grillo parla di “evento straordinario”. La domanda è: sta organizzando, Grillo, un suo partito, una sua lista? L’idea l’ha fatta balenare il ministro Giulio Santagata. La risposta di Grillo è secca: “Non hanno capito niente. I partiti sono incrostazioni della democrazia. Bisogna dare spazio ai cittadini. Alle liste civiche. Ai movimenti. Viviamo in partitocrazia, non in democrazia”.
(8 settembre 2007)
=
=
*Segue il commento di Michele Serra. Riporto un parte dell’articolo pubblicato su Repubblica dell’8 settembre*
=
=
MICHELE SERRA da Repubblica dell’8 settembre 2007
=
La rappresentanza di Grillo e del suo blog, dopo la giornata di ieri, esce dal discusso limbo del virtuale e diventa così reale da riuscire a contendere spazio (anche nei telegiornali) alla poderosa, inamidata routine dell’informazione istituzionale. Va ricordato che ieri, mediaticamente parlando, non era una giornata facile per un outsider sbucato dal suo blog. C’erano i funerali di Pavarotti, moltissimo sport di sicuro impatto (Monza, il rugby, il calcio, il basket), e bucare la copertura mediatica, ritagliarsi uno spazio importante, irrompere nel dibattito non era facile. Grillo c’è riuscito facendo leva solo su Internet, sulla piazza virtuale nella quale ha da tempo installato il suo podio di artista e di polemista. E’ come se una pura ipotesi numerica si fosse materializzata di prepotenza, come se la qualità sfuggente di un’assemblea virtuale fosse diventata quantità evidente.
Questo costringe chi dubita della forza politica e culturale di Internet (compreso chi scrive) a rifare un po’ di conti, perché la giornata di ieri, e questo Grillo lo sa, è soprattutto un colpo all’idea di onnipotenza della televisione, una breccia nel muro, un indizio non decisivo ma importante a favore del peso che la rete ha via via acquisito nel determinare orientamenti e scelte di massa.
di Vittorio Zambardino
=
C’è un rischio che in queste ore va concretizzandosi nel “discorso pubblico” di giornali e tv. Che tutti, sotto l’impressione del successo del V-Day, si mettano a discutere del “potere di internet” e del “potere dei blog”, senza realmente sapere di cosa si tratta.
Non c’è alcun dubbio che il blog di Beppe Grillo sia stato e resti la leva possente della sua capacità di mobilitazione. E a stretto rigore non è neanche vero che “tutti” lo abbiano (e lo abbiamo) ignorato, ognuno parli per sé. La domanda giusta è: quante sopracciglia di intellettuali e commentatori, di redattori capo e analisti dei media si sono inarcate davanti al tema del “potere di internet” quando Grillo non era ancora un leader di massa? Molti: erano scettici, non ci credevano, ma solo perché misuravano l’acqua con il metro, invece che con la scala dei liquidi, valutavano il mezzo internet con il metro degli altri media.
Ora si commette un errore diverso e più ampio: si riconosce ad internet un potere perché uno solo ce l’ha fatta, ignorando la “macchina sociale” che c’è sotto. Il che non sarebbe grave, se questa “macchina” non contenesse i modi di pensare, di manifestarsi e di agire di una opinione pubblica, cioè nostri, che diventa sempre più ampia e potente.
Detta in poche parole – ma ognuno dovrebbe sentirsi motivato ad appofondire – l’internet del 2007 (o web 2.0) è un “posto” che qualcuno ha giustamente chiamato “la parte abitata della rete”. No, non c’entra Second Life, un altro abbaglio da sopravvalutazione di noi giornalisti, che siamo regolarmente abituati a scambiare una parte per il tutto, pensando che la parte lo rappresenti e spieghi. Il punto è che dentro la rete si svolge, su base quotidiana, serenamente, normalmente, la seconda vita di una parte crescente di noi, dove i rapporti e la vita sono quelli di oggi, “amori liquidi” e sentimenti forti. E questo non ha niente a che fare con l’internet come la conoscemmo dieci o undici anni fa. Per la verità già allora esistevano i gruppi di discussione, le chat, le liste di distribuzione tematiche, dove avvenivano cose buone – la solidarietà, l’approfondimento specialistico – e cose peggiori (i gruppi razzisti, per esempio), come sempre avviene nelle cose umane. Un posto dove c’erano discussioni costruttive e altre distruttive.
Il massimo della vita allora, dieci anni fa, era pagare una bolletta on line o comprare un libro in America. E mentre noi perdevamo il nostro tempo a dire che lo sboom delle borse di inizio secolo era la fine di quell’illusione chiamata internet, nasceva, non notata, tutta la seconda generazione di quel “primo inizio”. Nascevano strumenti tecnologici che sono in realtà forme di espressione umana fondate sul dialogo, dove il dialogo era reso possibile dal fatto che il mio testo poteva “parlare” col tuo, “linkarsi”, dirsi che ci stavamo ponendo le stesse domande, e i nostri testi insieme diventare una sorta di onda che toccava altri siti e altre persone. Dove tutto questo poteva essere ricombinato insieme in forme di auto-editoria, cioè di libertà di espressione ignote al mondo come lo abbiamo conosciuto finora. Ora che è arrivata l’onda anomala, sarebbe il caso di chiedersi qual è la fisica che l’ha provocata.
Una delle leggi di fondo che la reggono è che siamo tutti cicale che cantano la propria canzone, anche se possiamo dare l’impressione di essere un coro uniforme. Ma quando c’è un fatto che “prende”, magari lo scandalo della morte di un ragazzo che nessuno indaga e investiga (è successo), allora le mie tre righe sono riprese dalle sue sei righe e quindi c’è un altro che aggiunge altre righe e ripubblica e poi succede ancora e ancora e ancora. Il passaparola ha conquistato il potere di fare eco, e quell’eco sta scuotendo i palazzi dei media e i ponti della comunicazione tradizionale.
La capacità di Grillo è stata quella di aver capito che quel canto era un nuovo pubblico e un nuovo inizio per un artista che era stato emarginato dai circuiti che contano. Oggi lui si propone alle cicale come la migliore di loro, ma l’onda che lo porta è un’onda possente e nessuno può sapere se vincerà l’anima degli individui (e quindi la capacità critica) o se con internet abbiamo scoperto un nuovo modo di farsi della manipolazione. A Grillo è toccato di vivere in prima persona un “leading case” forse planetario, perché fenomeni di questa intensità non se ne sono ancora conosciuti nemmeno negli Stati Uniti.
Nessuno, nemmeno quelli che studiano la rete, può ancora valutare l’energia che potrà muovere, soprattutto perché ormai la scintilla del raccordo col reale è scoccata e qui la rete si ritira, entrano in scena gli altri mezzi e il mulino di parole della politica. Ma la fisica dei primi tempi, dell’ascesa del movimento e della nascita di un leader, è stata quella dei “meme” e del passaparola: abituatevi a questi termini, potrebbe succede ancora molte volte. E quella della “conversazione” diventare la grammatica della comunicazione di massa , che da queste parti significa “fra gli individui”, di questi anni.
=
Vittorio Zambardino
=
Fonte: Scene digitali: http://zambardino.blogautore.repubblica.it/2007/09/09/la-lingua-che-grillo-sa-parlare/
Segnalo anche qui, visto che siamo in tema, che su Repubblica TV è disponibile un’intervista a Eco sul tema: “Semiologia e Internet”.
Ecco il link:
http://tv.repubblica.it/home_page.php?playmode=player&cont_id=14008
In riferimento all’ “Originale Miscellanea” di Schott, io ritengo giusto e bello che si stia diffondeno questo nuovo genere letterario della “jolt culture”, che troverà riscontro e sostegno dai lettori. Ne sono certo.
Io e mio padre siamo gli autori di “ENCY”, la risposta italiana a Ben Schott, che sarà pubblicata a breve dalla Seneca Edizioni di Torino.
http://www.senecaedizioni.com/index.php?pageid=prodotti&prodottiid=206
Qualche mese fa, stavo guardando un film, “Giordano Bruno,” la storia di un “eretico” condannato dal Vaticano e messo al rogo nel 1600 a causa dei princìpi in cui credeva. La ragione per cui ne sto parlando in questa sede è la seguente: nel film c’è un punto in cui Giordano Bruno accenna al fatto che era appena stato alla Fiera di Francoforte per incontrare alcuni degli editori delle sue opere. Ed eccoci qui, quattro secoli dopo, non solo per incontrare gli editori, ma anche per discutere nuove tendenze.
Tra il giorno in cui Giordano Bruno passò di qui e oggi, hanno visto la luce molti altre manifestazioni che favoriscono lo scambio reciproco delle idee. Per esempio, proprio la prima Fiera di Francoforte fu determinata da una nuova invenzione, la stampa a caratteri mobili. In verità, quando Gutenberg fece questa invenzione a Mainz, distante solo pochi chilometri da qui, ispirò i librai della zona a organizzare la fiera. Tutti sappiamo che l’invenzione di Gutenberg fu un importante passo – probabilmente il più significativo – verso la nascita di quell’epoca che va sotto il nome di Rinascimento, e durante la quale le idee poterono viaggiare più liberamente. Grazie a questo nuovo sistema di stampa, esse vennero sistematicamente condivise e il mondo venne rimodellato sulla base del loro apporto.
Diversamente da altri campi, come la danza, la pittura, o il teatro – dove la presenza fisica del creatore era necessaria, il libro – e più avanti, la stampa – si impose immediatamente su tutti gli altri mezzi di espressione perché poteva essere prodotto su scala industriale. I libri, come vascelli per le idee, svolsero perfettamente la loro funzione per diversi secoli, finché non persero terreno rispetto ad altri strumenti, come la radio, il cinema e la televisione.
Pertanto, il cuore dell’attuale discussione è appunto il seguente: lo scambio di idee. Gli esempi fatti mettono principalmente in evidenza un concetto di fondo: le tecnologie vincenti sono quelle che permettono alle idee di circolare e di raggiungere il più vasto pubblico possibile. Successivamente, le leggi si adeguarono a tale nuovo contesto ( e non il contrario!) – e il concetto ufficiale di copyright si sviluppò di pari passo con la nuova era industriale, in cui i costi di produzione e distribuzione erano ancora relativamente alti.
Tuttavia, negli ultimi dieci anni abbiamo assistito all’avvento del web, questo incredibile strumento che sta imponendo un nuovo modo di relazione fra le idee e che consente di oltrepassare vecchi modelli economici. Come disse Kevin Kelly, direttore del “Wired Magazine”, nel suo discorso al TED nel dicembre del 2007, il nuovo strumento di comunicazione, in termini di dati reali, sta creando un flusso equivalente a quello che coinvolge la Biblioteca del Congresso ogni due secondi.
Però, c’è una differenza rispetto agli altri precedenti settori: il web non comporta costi di produzione e di distribuzione. Per tale ragione, noi stiamo assistendo a un mutamento paradigmatico. D’ora in poi, il processo di democratizzazione di un’idea, reso possibile per la prima volta grazie al procedimento di stampa di Gutenberg, tocca dimensioni completamente nuove. A poco a poco, le persone capiscono che a) possono pubblicare virtualmente qualunque cosa e metterla sul web a disposizione di chiunque sia interessato, e che b) possono mandarsi in onda da soli, ad esempio, attraverso un loro canale televisivo – come YouTube – o un loro programma radiofonico – come BlogTalkRadio. In questo modo, non sono più spettatori passivi delle trasformazioni della società, ma interagiscono con il processo globale. Di conseguenza, purché si abbia una connessione internet, la creatura diventa il creatore. L’utente diventa qualcuno che non ha soltanto qualcosa da dire, ma che è anche in grado di condividere i propri gusti con gli altri.
A questo proposito, c’è un importante elemento di cui la maggior parte della gente non è del tutto consapevole: le persone condividono ciò che credono sia pertinente in modo del tutto libero, e si aspettano che accada la stessa cosa in qualunque sistema di comunicazione di massa.
Ma i consueti canali di comunicazione di massa faticano a capirlo: la prima “vittima” è stata l’industria discografica. Invece di interiorizzare l’emergenza di un nuovo metodo di scambio, i dirigenti delle grandi “etichette” musicali hanno preferito ingaggiare avvocati, piuttosto che ridurre il costo dei loro prodotti. Sono riusciti a far chiudere Napster nel 2001, e altri siti di musica. In realtà, hanno vinto una battaglia, ma non la guerra. Questa mossa non è riuscita a evitare che altri siti web simili nascessero e continuassero ad accendere l’entusiasmo per il libero scambio delle informazioni. Ora, provate a immaginare se, invece di ingaggiare i loro avvocati, avessero avuto la brillante idea di far pagare 0.05 centesimi a canzone. Allora, nel 2000, nessuno ne avrebbe fatto un problema, dato che questo prezzo sarebbe stato di gran lunga più basso del costo di un singolo cd. Ma il grande innovatore Napster fu costretto a chiudere i battenti nel 2001, e in seguito venne acquistato da Bertelsmann – anche se il suo intervento giunse in ritardo. Da allora, sono stati aperti altri siti, e ancora oggi qualunque adolescente può scaricare gratuitamente la canzone che preferisce da un qualsiasi sito “torrent”.
Solo adesso comprendiamo che l’industria discografica sta imparando dai suoi errori e cerca di rimediare. iTunes, intanto, si è resa conto dell’aria che tira oggi, e perciò consente agli utenti di scaricare una canzone per 90 centesimi. E’ diventata così il primo distributore di musica online nel mondo. Un’altra logica conseguenza del mutamento globale di un’epoca è il fatto che, solo qualche mese fa, il network sociale MySpace ha siglato una joint venture indipendente con la Universal Music, la Sony BMG e la Warner Music Group. Stanno creando un sito dove gli utenti potranno ascoltare gratuitamente musica, sovvenzionata dalla pubblicità, e condividere play list personalizzate con gli amici.
La seconda “vittima” del web è, ovviamente, l’industria cinematografica: i film e in egual misura le serie televisive. Grazie a computer sempre più sofisticati e a bande più larghe, i film possono essere scaricati, in alta definizione, da qualunque computer nel giro di poche ore.
Ma anche questa industria sta cercando nuovi modi per affrontare il problema. I produttori stanno consentendo agli utenti di vedere le serie televisive su portali sponsorizzati (per esempio, Southpark sul sito web di Comedy Central). Altre strategie prevedono l’adozione di metodi per promuovere i film tramite il marketing virale ( per esempio, “King Kong” o la pellicola brasiliana “Tropea de Elite”), e per creare dei network incentrati su programmi televisivi ( per esempio, il programma di Ophra Winfrey ha anche un network sul web.)
Come si può vedere, la smaterializzazione delle forme tradizionali musicali e di quelle cinematografiche (cd, dvd), associata alla possibilità di una fruizione istantanea, sta costringendo i produttori a trovare sistemi alternativi per creare, vendere e promuovere i loro prodotti.
Ma è chiaro che finché i produttori si rifiuteranno di dare voce a coloro che considerano come consumatori passivi, perderanno pubblico.
E che dire del mercato editoriale? A quanto pare, sembra più protetto da queste nuove tendenze online rispetto alla musica o ai film. A dire il vero, se ci pensate, l’editoria è stata finora risparmiata perché, rispetto ad altri media, ha più vantaggi nel nuovo panorama tecnologico.
Tanto per cominciare: i costi di produzione sono decisamente più bassi che nel cinema o nella musica. In secondo luogo, Internet è un mezzo di comunicazione che si affida in larga misura alla lettura e alla scrittura; fin dagli anni Novanta, abbiamo assistito a una crescita del mercato editoriale grazie al fatto che le persone si sono riavvicinate alla forma scritta. Non solo, ma lo scrittore è diventato – ancora una volta – il catalizzatore dello slancio. Lo scrittore è diventato anzi una pop star, com’erano i musicisti negli anni Sessanta.
Ancora più importante è il fatto che non abbiamo ancora assistito alla smaterializzazione del libro come veicolo per le idee.
Per quindici secoli, come strumento di comunicazione, il libro ha dimostrato di essere insuperabile. Naturalmente, gli e-book stanno lentamente guadagnando terreno, ed è probabile che, a tempo debito, la forma digitale possa soppiantare la carta. Ma ci vorrà ancora qualche anno, il che offre – a noi editori, librai e scrittori – una preziosa parentesi temporale prima che il web sferri il suo attacco.
Ma ciò di cui sono stato testimone in quanto scrittore è stata una sorpresa: ossia, l’incapacità da parte dell’industria del libro di capire il web. Invece di vedere in questo mezzo un’opportunità per inventare nuovi stili di promozione, gli editori si sono preoccupati di creare dei micrositi, che sono invece completamente datati, mentre alcuni di loro si sono lamentati delle “disgrazie” patite dall’industria culturale, percependo il web come un “nemico.” Questo fu probabilmente lo stesso tipo di comportamento che ebbero i monaci amanuensi nei confronti dei libri stampati nel Sedicesimo secolo.
Tuttavia, poiché i libri come strumenti di comunicazione sono ancora ampiamente utilizzati, per quale motivo non si dovrebbe condividere, e gratuitamente, l’intero contenuto digitale dei libri? Diversamente da quanto ci dice il buonsenso – e il buonsenso non è sempre una buona guida, altrimenti gli editori, i librai e gli scrittori farebbero probabilmente qualcosa di più proficuo – più dai, più ottieni.
Ho avuto la fortuna di poter constatare questo particolare, in rapporto ai miei libri, proprio in Russia, nel 1999, dove avevo avuto un esordio difficile. Date le grandi distanze, la distribuzione era scarsa, e così le vendite. Ma con la comparsa di una copia digitale pirata dell'”Alchimista” – che più tardi inclusi nel mio sito ufficiale – le vendite decollarono in modo davvero impressionante. Nel corso del primo anno, le vendite erano salite da 1000 a 10.000 copie. Nel secondo anno, volarono a 100.000 copie, e l’anno successivo si raggiunse il milione di copie. A tutt’oggi, ho raggiunto il traguardo di oltre 10 milioni di copie, in questo paese.
L’esperienza russa mi ha spinto a creare un sito web: Il Coelho Pirata. Secondo Wikipedia, un’enciclopedia libera online, il termine inglese “pirate” deriva dal latino “pirata”, e infine dal greco “peira” (%u043F%u0454 %u0440%u0430), “tentativo, esperienza,” implicitamente “trovare fortuna in mare.” Naturalmente, più tardi questo significato originale è stato modificato dai fatti, ma tutti noi sappiamo che almeno uno dei più grandi imperi del mondo deve ringraziare molto i suoi pirati – che in seguito diventarono “Sir” e “Cavalieri.”
Il Coelho Pirata resistette tre anni, alimentato dai lettori di tutto il mondo, e nessuno nell’industria editoriale lo notò – perché le vendite dei miei libri registravano un costante aumento. Tuttavia, dal momento in cui ne ho parlato in occasione di una conferenza sulla tecnologia, all’inizio di quest’anno, ho cominciato a sentire qualche lamentela. Alla fine, comunque, il mio editore inglese, Harper Collins, ha pienamente compreso le possibilità insite nell’operazione. Così, una volta al mese, nel 2008, ho caricato sul sito uno dei miei libri, nella versione integrale, perché venisse letto online. Lungi dal registrare un calo delle vendite, posso dire che “L’Alchimista”, uno dei primi titoli resi disponibili sul web, a settembre ha completato un anno intero di permanenza nella classifica dei libri più venduti del “New York Times”.
Questa è una prova tangibile dello slancio positivo della nostra industria: usate il web per promuovere, e constaterete i risultati nel mondo reale. Questa, almeno, è la forte idea sottostante al il mio website Coelho Pirata, dove compilo semplicemente i link “torrent” di tutti i miei libri da scaricare. Le persone potranno decidere da sole se vorranno poi comprare il libro. Finora, ciò non mi ha solo permesso di interagire più direttamente con i miei lettori, ma ha anche stimolato lo sviluppo di progetti in comune, come per esempio “The Experimental Witch”.
Nell’Experimental Witch Project, ho invitato i lettori ad adattare il mio libro, “La strega di Portobello”, al cinema. Questa esperienza, lanciata lo scorso anno con la sponsorizzazione di HP, My Space e Media Group (Bertelsmann, Burda, Prisma Press, O Globo), ha avuto un feedback impressionante. Registi di tutto il mondo hanno caricato su MySpaceTv le loro creazioni, e quando sono stati annunciati i vincitori, lo scorso agosto, mi sono ritrovato con 14 corti di qualità straordinaria. Inoltre, il progetto ha scatenato molta curiosità sul libro in Internet, è ciò ha fatto sì che “La strega di Portobello” sia entrata nella classifica dei libri più venduti del “New York Times” all’indomani dell’edizione tascabile negli Stati Uniti.
Ciò mostra come, persino su un terreno ostile, quello cinematografico, dove i costi di produzione sono vertiginosamente alti, questo tipo di impresa sia assolutamente possibile. Inoltre, si determina come conseguenza un fenomeno di interattività nella distribuzione e produzione culturale. Il lettore non è più solo un ricettore passivo, ma ha anche la possibilità di giocare un ruolo dinamico , e quindi di contribuire a cambiare le cose.
Ma è tutto qui? No, bisogna anche pensare al futuro del libro. In sostanza, i lettori devono venire coinvolti. Tutti noi abbiamo delle storie, tutti noi ci scambiamo delle idee, gli editori e gli scrittori hanno sempre stimolato il dibattito. E allora perché trattenersi dal farlo sul web?
Ho aperto un blog nel quale inserisco materiale multimediale, e ogni settimana invito i lettori a esporre le loro opinioni e a raccontare le loro storie. Li ho persino invitati a essere qui, in spirito, con noi. Per esempio, ho chiesto loro di mandarmi le loro fotografie, mentre tengono in mano il loro libro preferito tra quelli che ho scritto, in modo da poterle mostrare domani al mio party. Prima della fine di settembre avevo già ricevuto oltre seicento fotografie. Lettori e autori, grazie al web, sono più vicini che mai.
Tuttavia, restano ancora due problemi da affrontare: il diritto d’autore e la sostenibilità dell’editoria. Non ho una soluzione, ma siamo certamente di fronte a una nuova èra: non ci resta che adattarci o morire. Ad ogni modo, non sono venuto qui per fornire soluzioni preconfezionate, ma soltanto per proporre la mia esperienza di autore. Naturalmente, la mia fonte di reddito principale sono i diritti d’autore, ma non è su questo che mi sto concentrando adesso. Devo adattarmi. Non solo comunicando in modo più diretto con i miei lettori – cosa impensabile fino a pochi anni fa – ma anche elaborando un nuovo linguaggio, basato su Internet, che sarà il linguaggio del futuro: diretto e semplice, ma senza essere superficiale.
Chissà se recupererò mai il denaro che sto investendo nelle mie comunità virtuali. Però sto investendo in un principio, in qualcosa di cui qualunque scrittore al mondo sarebbe grato: nel fatto che i suoi testi possano venire letti dal maggior numero di persone possibile.
La rete mi ha insegnato questo: non aver paura di condividere le tue idee. Non aver paura di invitare gli altri a esprimere le loro idee. E cosa ancor più importante, non dare per scontato di sapere chi è il creatore e chi non lo è – perché lo siamo tutti.
Per illustrare ciò cui ho accennato in questo discorso, pubblicherò – nell’istante in cui finirò di parlare – il testo integrale sul mio blog: basta una telefonata per dare il via al webmaster. La stampa tradizionale non può riferire tutto ciò che succede qui, ma Internet ci dà invece la straordinaria opportunità di condividere realmente le idee, a prescindere da altre priorità.
In un certo senso, c’è qualcosa di ironico in tutto ciò: Giordano Bruno fu punito per aver espresso le proprie idee. Nel mondo di oggi, sarete puniti se non lo fate.
Grazie
(16 ottobre 2008)
Sono d’accordissimo con Coelho… il libro avràancora lunga vita ma dovrà fare i conti col web… anche i blog, che certi editori temono perché hanno paura di stroncature o di dibattiti incontrollati in rete, avranno sempre maggior peso. Vedi la scomparsa dei critici letterari…
Quello che potete leggere sopra è il discorso che Paolo Coelho ha fatto alla Buchmesse di Francoforte.
(Ciao Maria Lucia).
USA: COPIE GIORNALI CROLLANO, LORO SITI WEB DECOLLANO
———–
(Washington) – In America la carta stampata e’ in stato precomatoso mentre il giornalismo on line gode di ottima salute anche se in qualche caso cio’ non basta. I visitatori dei primi 10 quotidiani hanno raggiunto quota 252,7 milioni con un incremento di 40,1 milioni di contatti quotidiani, un aumento del 27% in 12 mesi. E’ quanto emerge dal confronto tra i dati Nielsen sulla diffusione dei quotidiani statunitensi, in continuo ed inesorabile calo tranne rare eccezioni, e il successo dei siti web delle stesse testate. Esemplare il caso del New York Times. Il giornale Usa piu’ autorevole e’ con l’acqua alla gola: nel 2008 ha venduto in media 1,077 milioni di copie contro 1,120 del 2007 ma la raccolta pubblicitaria e’ crollata del 21,2%. Il sito web (www.nyt.com) e’ invece il piu’ visitato con 18.2 milioni di contatti quotidiani (il 6% in piu’ in 12 mesi) ma gli introiti dalla rete non hanno comunque compensato le perdite dell’edizione cartacea. Il Nyt si appresta e vendere la nuova sede realizzata appena 2 anni fa da Renzo Piano per fare fronte ai debiti. In linea con le aspettative USA Today (www.usatoday.com) la testata piu’ diffusa d’America (2,2 milioni di copie) e la seconda sulla rete con 11,4 milioni di visitatori con una cresciuta del 15%. Terzo il prestigioso Washington Post (www.washingtonpost.com), il giornale del Watergate, che malgrado sia solo il settimo quotidiano Usa per diffusione (673.000 copie) e’ visto nell’edizione elettronica da 9,5 milioni di persone (+12%). A seguire il Los Angeles Times (www.latimes.com), il quarto per copie (773.000) con 8 milioni di visitatori, con una crescita record del 73%. Il sito con il risultato complessivamente migliore, perche’ quasi esclusivamente a pagamento, e’ quello del Wall Street Journal (www.wsj.com): la bibbia del capitalismo mondiale, acquistata nel 2007 da Rupert Murdoch, non solo e’ il secondo giornale per diffusione cartacea (2 milioni di copie) ma ha registrato un’impennata di visitatori, 34 per cento, pari a 7,2 milioni. In controtendenza il Boston Globe, stesso gruppo del New York Times, che perde copie in edicola e perde contatti sul web: nel 2008 http://www.boston.com ha registrato un calo del 6% di visitatori, fermandosi a quota 4,1 milioni. Al di fuori del mondo dell’informazione Nielsen conferma che il motore di ricerca Google rimane il sito web piu’ visitato con 133,8 milioni di persone solo negli Usa, seguito Microsoft (126 milioni) e Yahoo (118 milioni).
(27 gennaio 2009)
Quando il web entrerà dentro la televisione
–
La corsa dei grandi produttori verso un modello che conquisterà entro qualche anno il 40% del mercato. E rivoluzionerà la comunicazione
–
di VALERIO GUALERZI
–
L’Italia è ancora alle prese con il faticoso passaggio dalla televisione analogica al digitale terrestre, ma un’altra rivoluzione ben più clamorosa è già dietro l’angolo. Da tempo si parla della trasformazione della tv rispetto a come siamo abituati a conoscerla da oltre mezzo secolo, ma ora, come segnala un ampio servizio sul Wall Street Journal, la svolta è davvero vicina.
I grandi produttori di televisori, le maggiori aziende di processori, le società all’avanguardia nella creazione di software e i più grossi operatori del web: tutti sono freneticamente al lavoro per trasformare il grande schermo piazzato al centro dei nostri salotti in una centralina di informazioni e contenuti interattivi. “Il nuovo sacro graal dell’era digitale”, la definisce il quotidiano finanziario statunitense a rimarcare l’importanza della tv collegata a internet.
Sul televisore potenziato da un adeguato processore sarà possibile navigare la rete, consultare il giornale online, leggere libri in formato digitale, comunicare con gli amici, vedere filmati musicali e altre curiosità che hanno fatto la fortuna di siti come Youtube.
Possibilità che obbligheranno tutti a cambiare: chi oggi fa la tv, chi produce informazione e chi offre contenuti e servizi per la rete. Cambiamenti che con effetti a cascata sconvolgeranno inevitabilmente anche il mercato pubblicitario in un futuro non troppo lontano.
Secondo le ultime previsioni della società di ricerca iSuppli, già nel 2013, praticamente dopodomani, i televisori attrezzati per interagire con internet saranno nel mondo circa 90 milioni, conquistando il 40% del mercato. “Appena cinque anni fa la gente sosteneva di non voler la posta elettronica sul cellulare, ora sui telefonini vengono scambiati interi file”, spiega Patrick Barry, uno dei senior executive di Yahoo per spiegare quello che ci attende. Non a caso la web company a lungo corteggiata da Microsoft è tra quelle in prima fila nello studio di nuove applicazioni pensate appositamente per “girare” sulle tv di nuova generazione.
“La tv sta diventando il nuovo terreno di battaglia per il web”, osserva il Wsj elencando gli sforzi delle tante aziende coinvolte in questa rivoluzione. Oltre a Yahoo, tra i nomi degli altri competitori ci sono infatti molti altri giganti della tecnologia. Sia la Sony che la Samsung stanno inserendo nei loro nuovi modelli processori in grado di tenere il passo con i nuovi compiti che gli vengono richiesti, mentre la meno conosciuta Vizio ha in programma la produzione di televisori da 42 pollici da vendere al prezzo di circa 1.200 dollari dotati di ricezione wi-fi e un telecomando che assomiglia molto a una tastiera di computer.
Naturalmente di problemi irrisolti ne restano tanti, a cominciare dall’esatta interpretazione dei desideri del grande pubblico. La Adobe, ad esempio, è convinta che l’applicazione fondamentale per utilizzare i nuovi televisori sarà molto diversa da un vero e proprio browser, opzione preferita invece dalla Personal Web Systems. Un dubbio che nasce anche da problemi di postura: più di un addetto ai lavori ritiene infatti che la tv possa restare per sempre nell’immaginario e nelle abitudini delle persone un qualcosa da usare con la schiena reclinata all’indietro su una poltrona anziché piegata in avanti su una tastiera.
(25 settembre 2009)
–
fonte: Repubblica.it
La pluralità e la ricchezza degli interventi di questa sola pagina dovrebbero confortarci rispetto al nostro futuro di fruitori della tecnologia. Mai c’è stata una simile pluralità di opinioni nella storia e questo è arricchimento. Solo chi è immaturo può smarrirsi in “questo mare”, ma , non è per caso, internet è (almeno teoricamente) interdetto ai minori. Per tutti gli altri, invece, è un’opportunità. Basta coi potentati delle idee, dei guru intellettuali, tutti possono parlare di tutto. E’ una rivoluzione che io trovo bellissima, democratica e istruttiva più di tanti forum televisivi “addomesticati” Comunicare non ha mai fatto male a nessuno, a patto che ci sia la facoltà del contraddittorio…Ecco, prima non c’era.