Trent’anni fa – il 9 maggio del 1978 – moriva Aldo Moro. Se ne è discusso tanto nelle scorse settimane. In maniera più o meno diretta.
Cosa ci rimane di quegli anni? Cosa resta oltre alle ferite non ancora del tutto rimarginate?
Parliamo di quegli anni e di quello che è accaduto dopo: del post terrorismo.
L’occasione ce la fornisce il nuovo romanzo di Antonella Del Giudice (nella foto). Si intitola “L’acquario dei cattivi” (Alet, 2008, pagg. 176, euro 13).
Quattro ex militanti si rincontrano a distanza di trentanni. Un passato di terrorismo li accomuna. Fra loro c’è chi ha pagato con la prigione, chi è riuscito a fuggire all’estero, chi si è integrato nel sistema e oggi è addirittura magistrato. Ma gli scheletri del passato non esitano a riaffacciarsi sul presente quando le trame del destino chiamano al confronto. Il ricordo di un conflitto a fuoco, la morte violenta del capo del gruppo e un regolamento di conti sospetto. Chi fra loro ha veramente tradito?
Vi propongo la recensione di Monica Bardi (pubblicata sulle pagine de L’Indice dei libri del mese), e la lettura di Sergio Pent pubblicata su Tuttolibri.
Di seguito potrete leggere un brano estratto dal libro (l’incipit lo trovate qui).
Chiudo con una domanda posta da Monica Bardi nella sua recensione: è possibile vivere rimuovendo la tragedia?
Massimo Maugeri
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Recensione di Monica Bardi
Per parlare di terrorismo italiano, di un piccolo nucleo di brigatisti meridionali, Antonella del Giudice usa la stessa prospettiva decentrata scelta da Philip Roth in Pastorale americana, in cui il sogno statunitense si rifletteva impietosamente nell’immagine di Merry, ragazza obesa e balbuziente, ex terrorista e barbona, persa nel mondo e seguace di sette esoteriche. Eppure il fenomeno italiano, nell’intreccio tra società e cultura, stili di vita e ideologia, ha i caratteri peculiari che sono stati individuati (grazie al recente interesse per quegli anni, diffuso fra storici e giornalisti) e che mostrano profonde differenze rispetto a quelli del terrorismo americano, legato alla contestazione degli anni settanta e alla guerra nel Vietnam, ma isolato anche nell’esplosione violenta e sanguinosa del movimento dei Weathermen.
La prospettiva decentrata scelta dall’autrice dell’Ultima papessa (Avagliano, 2005), ora al suo secondo romanzo, risponde a quell’esigenza di stacco temporale utile a ogni bilancio e anche, forse, al tentativo di non aderire a quella “superficie rassicurante e piuttosto autoconsolatoria” dei racconti sugli anni di piombo, di cui parla Filippo La Porta nell’introduzione a un bel saggio di Demetrio Paolin, Una tragedia negata, pubblicato recentemente dalla casa editrice Il Maestrale. Analizzando una ventina di libri sugli anni settanta (i romanzi di Baliani, Culicchia, Doninelli, De Luca, Lambiase, Moresco, Villalta, i racconti in prima persona di ex terroristi come Braghetti, Morucci e Peci, le inchieste di Stajano), Paolin svolge in modo conseguente la sua tesi sulla costante rimozione della tragedia; tale negazione si esprime, a suo parere, “proibendo alcune voci, trasformando gli scenari tragici in interni di casa borghese, anestetizzando la violenza agita ed eclissando la figura del nemico”. Il romanzo di Antonella del Giudice si sottrae a questo meccanismo di rimozione proprio operando quello spostamento temporale di cui dicevamo: i membri di un nucleo armato si ritrovano dopo trent’anni, fisicamente manomessi da obesità, malattie, carcere o interventi plastici e con i loro destini disegnati da casi diversi (uno è magistrato di una qualche visibilità).
Per tutti, sommersi e salvati (c’è anche l’ombra di un cadavere e quindi il sospetto, gettato su tutti e legato alla sua morte), vale come contenitore ideale l’acquario, una villetta a schiera, perfetta per una villeggiatura impiegatizia al mare oppure per una base operativa: “Un ambiente come questo è ideale per noi: mobili svedesi a buon mercato, poltroncine di midollino, cuscini ocra stinti, soprammobili casuali, un lampadario a gocce colorate ricettato da uno scarto di arredamento cittadino, un obsoleto televisore a valvole, l’antenna a cerchio, plastificato rosso, lo schermo contro il muro come un occhio in castigo”. Nell’incalzarsi di voci all’interno di un luogo chiuso (che fa pensare a una possibile trasposizione teatrale del romanzo), gli anni settanta vengono ripercorsi attraverso la ricostruzione perfetta di un sistema di valori, di relazioni strettissime e di un linguaggio interno. L’autrice riesce, nell’intrecciarsi dei dialoghi, a stare in equilibrio, tenendo lontana da un lato l’apologia dei migliori di una generazione e dall’altro il compiacimento degli integrati nel mondo.
La domanda che rimane aperta è proprio quella posta da Paolin: è possibile vivere rimuovendo la tragedia? Ma la risposta va ricercata nella ricomposizione (sia pure posticcia) del nucleo originario, nel confronto fra uguali: sovrapporsi di voci in cui tutti sono obbligati a svelarsi, a gettare la maschera, a spiegare come è stato possibile, dopo la militanza e la violenza, stare nel mondo e arrivare integri a quell’appuntamento. Per tutti il senso va trovato insieme; solo il corpo del gruppo può attribuire colpe e fissare responsabilità. Questo il senso politico di un gesto offensivo sulla cui necessità tutti trovano un accordo, come viene spiegato in uno di quegli inserti in corsivo che costituiscono il sottotesto del romanzo, il flusso dei pensieri, il tentativo di riportare l’ordine nel caos dell’acquario, la luce nel buio: “–Ti tengo – sussurriamo l’uno all’altro. E ancora, a vicenda, a fil di fiato, come a proteggere il sonno d’un bambino, con tono di preghiera e panico: – Chi sei? Sei tu? – Ci rinneghiamo, divincolandoci come pesci renitenti all’amo che ci uncina per le branchie: non siamo, non fummo, non ne sappiamo nulla, non ci riguarda. Catalogarci per negazioni è la nostra estrema difesa per un’ultima offensiva”.
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Recensione di Sergio Pent
Nel romanzo di Antonella Del Giudice «L’ACQUARIO DEI CATTIVI» (Alet, pp. 165, e13) i personaggi sono emblematici, assoluti. Su un palcoscenico ideale, rappresentano – ciascuno a suo modo – il dilemma della nostra coscienza collettiva. Quattro persone mature, ex-militanti del terrorismo, si incontrano a distanza di trent’anni per fare i conti col passato e con il segreto della morte di un loro compagno. In una villetta di vacanza presso un mare agitato da un violento uragano, il momento dei resoconti e delle confessioni diventa l’arma di un’autoanalisi spietata, senza vincitori, in una beffarda messa in scena che determinera’ l’ultima scelta, quella forse piu’ grottesca e impensabile, ma necessaria. In un aspro delirio di umanita’ mai uscite dalla memoria di quegli anni, Antonella del Giudice mette in scena una piece impietosa e sarcastica, con personaggi tanto assurdi quanto credibili. L’avvocato Eligio Di Fiore – Floreligio – divenuto emblema di una legalita’ sempre piu’ provvisoria; Giangiorgio Scotto – Giancio – divo delle soap opera sudamericane dopo un opportuno lifting; Milo Osci – Mosci – condannato da un cancro devastante; e Terri. Terri l’Apache, la donna di tutti, il figurino esile ora tramutato in una scostante matrona infossata nel lardo. Chi di loro causo’ la morte del compagno Giulio, in una disperata azione di trent’anni prima? Gruppo terrorista in un interno: il romanzo non risponde a verita’ determinanti, ma diventa il perfetto gioco di ruolo di una generazione sconfitta.
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Brano estratto dal libro
Ma Milo la rintuzza: «Siamo tutti un po’ acciaccati, Terri, però possiamo ancora farcela. Siamo in tempo. E sono convinto che legioni di scontenti e delusi di buona volontà non aspettano che un esempio per reagire. Noi non dovremmo che attizzare il fuoco mai spento dell’indignazione, della brama di giustizia. Lo dobbiamo, Terri».
«A chi?» Terri sta a ravanare nella borsa alla ricerca di sigarette e accendino. Ma non è disattenta.
«Alla Storia.» Il tono solenne di Milo le fa il solletico per quanto le suona grottesco. Rovescia impaziente il contenuto della borsa sul tavolino mentre replica, sfigurata da una risata che le si ritorce dentro e contro: «Ma che dici? Della Storia noi non fummo che una malconcia retroguardia: fattene una ragione».
Milo tace. Si guarda le mani. Gialle zolfo. Le unghie a teschio dissotterrato.
Terri non ha tregua. Mentre ristipa in borsa – senza ricordare cosa cercasse – chiavi, biro, ricevute fiscali, caramelle sfuse, pile scariche, cicche, spiccioli, un borsellino, il cellulare dalle dimensioni fuori moda, qualche molla, tre accendini a perdere, un pacchetto di sigarette quasi vuoto, una scatolina di mentine in latta acciaccata – attacca greve: «Siamo stati sfortunati, noi, Milo, a nascere in questa era imbelle, in questo emisfero da limbo. Con tutta la forza d’amore bruto che ci bruciava in corpo, in altri tempi, avremmo fatto epica, ci avrebbero eretto statue nelle piazze e dedicato scuole. Avremmo guidato la carica, avremmo centrato, lancia in resta, il bianco degli occhi dei nemici. Invece? Eccoci qui, caro il mio Mosci: pensionati del partito armato, a giocare a rimpiattino coi ricordi, intrappolati da una pioggia di fine stagione, con una vogliaccia sorda e indefessa di linciaggi e incendi. Ma piove, Milo, e l’acqua spegne, infradicia e affoga. Nemo non c’è e non ci sarà mai più. E l’unica soddisfazione è che il responsabile delle nostre rovine, Nino Meo, ha avuto il fatto suo. Te lo immagini? Io sì, come se ora, in questo preciso momento, stesse annegando sotto i miei occhi. Lo vedo: stordito ma cosciente quanto basta, sudato freddo, incaprettato. Il tuffo.
L’acqua negli occhi. Più si dibatte e più affonda.
La morte grigioverde, ghiacciata, entra dal naso, perché Nino Meo, quella boccaccia da Giuda infame, stavolta la deve inchiavare. La lingua è un nodo, il collo contratto, il capo rovesciato indietro per istinto di conservazione, la spina dorsale tesa ad arco. Invano. Perché Nino va giù, va giù e vomita quel che inghiotte e inghiotte quel che vomita, e sa che se lo merita di morire così. Però non vuole ancora arrendersi al nulla in cui scende.
Ancora, per quella scintilla di consapevolezza che lo fa espiare, non ci crede. Resiste. E perdeil controllo delle viscere. L’amaro acido della bile gli infiamma la trachea. Gli si scioglie l’anima in acque di vergogna e orrore. Ma nessuno lo salverà.
Non c’è niente da fare, potrebbe anche squagliarsi tutto, tanto tutto è liquido e dannatamente scorre.
Panta rei, Mosci, panta rei».
Una risata da iena stravolge Terri.
«Insomma, Terri: ti va o no di tornare a combattere?» domanda ingobbendosi Milo, preparandosi a una delusione che, proprio da Terri, non prevede.
Terri si compiace di contraddirsi e di sorprenderlo.
«Sicuro che mi va di combattere. Ho una foia addosso che potrei farmi esplodere sotto la statua equestre che mi hanno negato. E non soffro di mal di testa. E non ho il cancro. E nemmeno una pubblica rispettabilità. E sono viva. Non ho mai pensato di aver torto, mai. Se penso alle mie vittime, una a una, le beccherei tutte senza esitare, come se loro dal purgatorio me lo chiedessero sbavando.
Sono cattiva, Milo, e non ho che questo rancore sordo, radicato, da offrire a una causa di cui ho perso la ragione, ma che pur doveva averne una, se a essa ho votato la mia esistenza. Tutto, tutto pur di non essere la rotellina anonima di un ingranaggio fermo. Dammi l’abbrivio, Milo, e ancora una volta girerò all’incontrario per inceppare la macchina
immobile dell’ordine.»
Milo sorride appagato, la bragia in fondo alle pupille.
Intanto dò il mio benvenuto ad Antonella Del Giudice, qui a Letteratitudine.
Una brevissima nota biografica
Antonella del Giudice è nata nel 1960 a Napoli, dove vive. È autrice di racconti e di un primo romanzo, “L’ultima papessa” (Avagliano, 2005), segnalato al Premio Calvino.
Come avete visto, da un po’ di tempo Letteratitudine gravita in zona partenopea.
Vi ripropongo le domandine…
Cosa ci rimane di quegli anni (quelli del terrorismo)?
Cosa resta oltre alle ferite non ancora del tutto rimarginate?
E poi… è possibile vivere rimuovendo la tragedia?
Leggete le recensione e il brano estratto. E poi interagite con l’autrice.
Grazie mille a tutti.
Buona giornata!
Caro Massimo, grazie dell’opportunità di confronto che il tuo palcoscenico virtuale mi offre porgendomi occasione di incontrare chi, dall’oscura platea interlocutoria che è dinanzi alla pagina di ogni autore, è il vero depositario del lavoro compiuto.
Con “L’Acquario dei Cattivi” io, come sempre quando scrivo, propongo domande più che soluzioni. La mia generazione malata di “ismi” non ha lasciato ai propri figli che i propri dubbi, la propria fragilità, e questo si rispecchia drammaticamente nei tempi che viviamo. Il fatto che i miei “cattivi” siano post terroristi è anche – ma non solo – una scelta narrativa per estremizzare il problema. Se vi saranno domande, risponderò forse con altrettanti punti interrogativi. Se qualcuno ha risposte io sono un’ottima ascoltatrice. Grazie a prescindere,Antonella
Bel post. Libro interessante. Credo che lo leggerò.
Secondo me non è possibile vivere rimuovendo la tragedia. Chi lo fa è ipocrita.
Per quanto mi riguarda di quegli anni rimane il ricordo del colore del sangue. E’ sempre rosso.
Una domanda per Antonella del Giudice.
Secondo lei i reduci dalle esperienze terroristiche sono tutti necessariamente cattivi? Se sì, perché? Se no, perché?
Grazie e complimenti per il libro.
No, non è possibile dimenticare.
Un saluto a tutti
Rina
Per Annamaria e per coloro che si fanno le sue stesse domande: io credo che i reduci del terrorismo- e quelli del mio romanzo in particolare – siano cattivi “virtuosi”. Nessuno è più cattivo di chi persegue l’iniquità credendo di operare per il bene. La tentazione di chi risponde a istanze di giustizia- che hanno un loro fondamento – con la violenza è grande solo per i deboli. Chi è davvero forte sa di poter combattere col diritto e non occorre coraggio per sparare alle spalle di chi porta una divisa o ha opinioni politiche, religiose diverse dalle tue. Detto ciò credo anche che- fatte salve le responsabilità personali – il terrorismo sia – per la mia generazione- una colpa collettiva, che inceppa la nostra storia.
Grazie mille, Antonella
Io quegli anni li conosco solo per sentito dire. E ho molti dubbi. Ma alle base c’era un ideale condivisibile, almeno a livello teorico?
I libri di storia sono pieni di racconti di stragi. Gli antichi romani hanno dilaniato popoli nel nome del sacrosanto (?) diritto a espandersi.
Chi ha diritto di giudicare?
L’ho scritto anche dall’altra parte. Questo post e quello su Francesco Costa hanno molte cose in comune, tra cui il concetto di assassinio.
Le domande
In quali circostanze potresti uccidere qualcuno?
Conosci qualcuno che sarebbe disposto ad uccidere pur di realizzare i propri sogni?
potrebbero essere applicate anche al terrorismo e ai suoi ideali
Dalle recensioni leggo che il testo della Del Giudice ha delle connotazioni teatrali.
L’autrice è d’accordo? Questa teatralità è consapevole? Qual è il suo rapporto con il teatro?
Terri è il simbolo di chi ha votato la vita ad un’ideologia che forse non la convince appieno ma che è l’unica cosa ui aggrapparsi nel vuoto della propria esistenza.
Lucio, ti ho risposto nel post su Francesco Costa. Concordo appieno.
Credo che una delle malattie italiche sia il suo non aver metabolizzato appieno il passato. Il Ventennio ancora ci perseguita, il terrorismo, gli anni di piombo da una parte sono arabo per le nuove generazioni (io ne ho solo pallidi ricordi essendo nata nel 1973, figurarsi i miei alunni e questa povera Italia smemorata e sconoscente pronta a vendersi al primo imbonitore di turno), dall’altra costituiscono i nostri precedenti malati. Non ci siamo vaccinati, tutto qui. Quindi prevedo continue recrudescenze di questi mali antichi.
Complimenti a Antonella Del Giudice. Ho letto il libro e dico che è scritto in maniera superba. Sta già lavorando a un nuovo romanzo?
@Gentile Antonella del Giudice,
il suo tema mi ha ispirato a scrivere questa mia breve recensione, che spero la interessi e voglia commentare.
Immaginiamoci la vita come una trama teatrale.
Il regista affida i ruoli ai suoi attori e, dopo aver dato le ultime disposizioni, annuncia l’inizio delle prove.
Gli attori si mettono in scena, ma non riescono a impersonarsi subito nel ruolo loro affidato; devono riprovare sempre di nuovo, e sono lieti quando il regista permette di fare una pausa.
Questo è ciò che si avvera, giorno per giorno, nella nostra società avanzata.
I ruoli sono diventati complicati, l’idoneità a comprenderli e ridar loro un’immagine viva e reale sono scarse.
Le prove devono essere ripetute; alcuni attori vengono esclusi per inabilità alle esigenze della trama; altri se ne vanno da soli per poi ritentare altrove la loro fortuna.
Gli esclusi sono demoralizzati, e premeditano la vendetta: abbasso il sistema di selezione, le ingiustizie fatte nell’affidamento dei ruoli, abbasso tutto ciò che a loro non va e che per questo va combattuto ed eliminato.
Diventano infine dei terroristi e sfogano la loro inadattabilità di assumersi un ruolo nel sistema preposto sulla prossima vittima di turno.
Dopo anni ed anni di riflessioni, alcuni si ravvedano e riescono e rientrare nel sistema societario e riprendere il loro vecchio ruolo o uno affine.
Altri rimangono nascosti altrove, dove non è facile intrecciarli; non si pentono ed hanno imparato a rimanere inosservati al margine dell’ordine sociale che li ospita.
L’identificazione in un ruolo imposto da altri non soddisfa sempre le aspirazioni di chi si crede ideologicamente e intenzionalmente in un’altra dimensione.
Non tutti si adattano quindi a recitare un ruolo, sotto gli ordini di un regista che incorpora un sistema del potere avverso ai loro intenti ed identificazioni.
La vita complessa nella società moderna racchiude tutte le ideologie del tempo, nel senso che ogni ideologia dominante crea altre a lei avverse, come per smussare la sua forza predominante e renderla più equilibrata ed equa: sono quelle dei suoi sostenitori, sia di chi s’identifichi veramente con loro e sia di chi lo faccia per opportunismo, come quelle contrarie che possono diventare offensive fino a sfociare nella violenza armata.
Che cosa fa la classe del potere, per armonizzare i contrasti ideologici e consentire un compromesso accettabile per tutti?
In verità, poco o nulla, perché sarebbe contrario ai propri interessi, così che gli schieramenti di quando in quando si formano e si combattono sempre di nuovo, destabilizzando il sistema, che solitamente ne esce però vincitore con l’uso della forza estrema e discriminazione totale degli insorti
La trama, messa in atto dal regista del sistema, attira i suoi spettatori, che applaudono senza riserva, mentre gli eliminati tramano un’altra trama, con i risultati che ben conosciamo e che, con maggior senso di solidarietà ed impegno serio, si potrebbero superare, per il benessere e la serenità di tutti.
Saluti.
Lorenzo
Cara Antonella,
so per certo che questo tuo bel romanzo è stato scritto prima che il “terrorismo” diventasse un argomento letterario, quando insomma non si pensava alle ricorrenze, ai trentennali.
Tu hai raccontato di quattro persone che , unite dall’ideologia e poi divise dal carcere o dalla latitanza, si tornano ad incontare, necessariamente. Come nell’amore folle non sanno e non possono fare a meno l’una dell’altra. E come nelle vere tragedie, nessuno di loro è davvero cambiato. Sono congelati nella loro irriducibilità, che li protegge e sostiene, rispetto alle vite, rispetto al mondo.
Come ti ha interessato così tanto questo argomento? E perchè? Trovo qualcosa di profetico in questo aver saputo individuare un tema, qualche anno fa, che manco a farlo apposta, è diventato, anche grazie al libro di Calabresi, molto di attualità.
Secondo te la vera letteratura ha un che di prfezia, per dirla alla Pasolini?
Complimenti per la tua scrittura.
emilia
Ho condiviso con Antonella dubbi e paure durante la gestazione e il parto del suo bel romanzo.
Poi l’ho letto e ho capito l’ineluttabilità delle sue scelte.
Quei personaggi ce li aveva dentro da anni, premevano per venir fuori, così, senza speranza, condannati ad interpretare all’infinito il loro ruolo di “cattivi”.
Ruolo assegnato o scelto?
C’è una possibilità possibilità di assoluzione ?
Caro Lucio, personalmente credo che – a meno che non si abbia “il piede straniero sopra il cuore” come accadde ai nostri nonni – qualsiasi ideologia che spinga a spegnere una vita sia fallimentare. Credo che la libertà degli altri – lo diceva Bakunin – estenda la mia all’infinito ma termini nel momento che intacca appunto l’altrui libertà. E il primo diritto dell’uomo è la vita stessa.
Tuttavia la fascinazione del revanscismo terrorista è sempre in agguato, soprattutto per le generazioni che non lo hanno conosciuto.
Per questo occorre stare all’erta e vedere questi reduci per quel che sono:non demòni ma poveri diavoli
Gentile Maria Lucia, sono consentanea alla tua analisi:degli anni di piombo si parla sempre con troppo imbarazzo, perchè se molti dei rei hanno scontato le pene come da Diritto, non si è invece mai voluto approfondire esistenzialmente l’argomento, consentendo addirittura agli assassini di dar testimonianza storica, come davvero fossero reduci di una guerra, detentori di verità, soldati sconfitti . Il fatto è che le colpe collettive sono più dolorose da ammettere. Il fatto è che non basta caricare su Caino tutte le croci. I reati vanno puniti, le vittime risarcite anche e soprattutto moralmente ma tutti coloro che hanno vissuto quel periodo hanno il dovere di fare mea culpa, sia se se ne disinteressavano sia se – e diciamolo!- avevano, sia pure da spettatori, scambiato la lotta armata come l’allegra brigata di Robin Hood. Attenzione! Il fascino della violenza è subdolo e sempre in agguato. Chiunque potrebbe diventare Terri incontrando un Giulio
Egr. sig.ra Del Giudice,
purtroppo non ho molto da esprimere riguardo al terrorismo politico italiano, se non una considerazione che mi sembra in sintonia con le Sue affermazioni: le regole, in una Nazione democratica, non si cambiano sparando (aggiungerei solo: e nemmeno con i bombardamenti… televisivi, spesso forma di sobillamento quasi altrettanto violenta). Inoltre da otto anni vivo all’estero e poche sono le novita’ librarie a mia disposizione, me ne dispiaccio per il Suo ultimo libro.
Sarei inoltre molto curioso rispetto al Suo precedente romanzo – segnalato dal Premio Calvino, vero? – ”L’ultima papessa”. Non l’ho letto ma l’argomento mi suscita una certa simpatia istintiva. Chissa’, si potesse averne uno stralcio qui…
Saluti Cari
Sergio Sozi
Vi ringrazio di cuore per i nuovi commenti pervenuti qui.
E dò un caldo benvenuto a tutti coloro che hanno commentato per la prima volta.
Un saluto affettuoso ad Antonella Del Giudice, scrittrice talentuosa e dalla penna sopraffina.
Gentile Lorenzo F., grazie. Effettivamente nuovi personaggi invadono la mia casa e si raccontano senza tregua. Io mi lascio attraversare dalle loro storie, scrivo per sapere “come va a finire” e di mio metto solo la passione artigiana del mio scrivere. Poi è come buttare una bottiglia in mare con dentro un HELP. Io sono infinitamente grata a chi la raccoglie.
Cara Antonella,
quest’ultima parte del tuo precedente commento mi pare particolarmente significativa (mi permetto di evidenziarla):
“I reati vanno puniti, le vittime risarcite anche e soprattutto moralmente ma tutti coloro che hanno vissuto quel periodo hanno il dovere di fare mea culpa, sia se se ne disinteressavano sia se – e diciamolo!- avevano, sia pure da spettatori, scambiato la lotta armata come l’allegra brigata di Robin Hood. Attenzione! Il fascino della violenza è subdolo e sempre in agguato. Chiunque potrebbe diventare Terri incontrando un Giulio.
La discussione si sta accendendo…
Bene!
Antonella, un paio di domande.
La prima:
da quale tua esigenza personale – se c’è stata un’esigenza personale – è sorta la pulsione che ti ha portata alla scrittura di questo romanzo?
(segue)
Ancora per Antonella…
Raccontaci qualcosa circa la gestazione di questo tuo libro.
In quanto tempo l’hai scritto?
Scrivi prevalentemente la sera o la mattina? Oppure quando capita…
Infine (almeno per ora, Antonella) ti chiederei di raccontarci la tua storia di scrittrice.
Quali percorsi di vita ti hanno portato alla letteratura e alla pubblicazione dei tuoi libri?
Un saluto speciale a Emilia Cirillo.
Come stai? E da un po’ che ti facevi viva da queste parti…
🙂
Gentile Maria, molti hanno trovato teatrale il mio testo. Questo mi lusinga e mi piacerebbe molto vederlo rappresentato. Nulla di ciò che scrivo è inconsapevole:volevo che i miei personaggi imbottigliati in questo acquario claustrofobico “si vedessero” appunto come in un cubo teatrale. Volevo che fossero verosimili ma non realistici, che i loro dialoghi rasentassero la banalità fino a diventare drammaticamente surreali nella loro ferocia. Se ci sono riuscita tocca ai lettori dirlo. E magari ad un regista di buona volontà rappresentarli in una gogna che ,più della mera scrittura -e questo solo il teatro può renderlo – li denudi fino a scarnificarne l’anime perdute
Gentile Lorenzo Russo, è vero, Milo, Giancio, Terri e Eligio avrebbero nella vita voluto essere protagonisti, ma si sono ritrovati a fare le comparse: ed è questo il loro vero damma. Per questo non sognano altro che di reiterare la loro “cattiveria”, anche se ne hanno persino perduto le coordinate ideologiche.
Caro Massimo, io sono una sana schizofrenica. Ovvero: la porta della mia “casa” è sempre aperta ai personaggi che bussano, entrano e si fanno dire. Alcuni sono più insistenti e ossessivi di altri ed io li “vesto” della mia scrittura. Coabitare coi cattivi dell’Acquario per circa tre anni,assicuro tutti, – e Emilia Cirillo e Gina Vitelli lo sanno bene – non è stato facile. Tuttavia, scrivere una storia sul terrorismo, anzi sul post-terrorismo era per me una urgenza improrogabile.
Ho vissuto con molta passione i cosìdetti anni di piombo. A vedermi adesso nessuno ci crederebbe, ma ero e mi professavo anarchica, beninteso con una istintiva repulsione per qualsiasi violenza. La mia è una famiglia socialista – anche quando la parola socialista era pericolosa
e veniva persino omessa dalla Treccani. Confesso di avere guardato ai primi atti delle Brigate Rosse come a una continuazione dell’azione partigiana che mio padre fabulava come io ho raccontato a mia figlia L’Odissea. E se avessi malauguratamente incontrato un Giulio Guacci invece di qualche ragazzino più fesso di me ? Ho trovato tra i miei vecchi quaderni persino un’ode – orrenda nello stile e nella sostanza!- dedicata alla morte della compagna Mara. A me è andata bene: mi è spuntato il dente del giudizio, ho studiato, ho lavorato, sono madre. Un giorno ho incontrato Antonella Cilento e lei mi ha incoraggiato in quello che credevo fosse solo una aspirazione adolescenziale passata. Ho vinto subito diversi premi, con vari concorsi, poi è arrivato il Premio Calvino e L’ultima Papessa, dunque l’incontro fondamentale con Andrea Di Consoli che è il mio editor e recepisce quello che scrivo spesso con più lucidità di me stessa. E scrivere è diventata vita. Infatti alla parola “scrittrice” ,così stridente, io preferisco “scrivente” perchè vi è insita la desinenza di “vivente”. L’acquario è una tappa importante del mio percorso di donna, oltre che di “scrivente”, e sono anche stata molto fortunata a trovare Alet che ha avuto il coraggio di pubblicare un libro così atipico, senza catarsi, senza personaggi in cui identificarsi.
E’ bella l’idea di lasciare che i personaggi ti invadano la casa.Molto Pirandelliana.
A me, però, piace più scrittrice che scrivente.
Cara Emilia, come ho scritto anche nella terza di copertina di Acquario- e tu sai pochi altri – chi scrive è un po’ Pizia. E non cerca storie o personaggi, sono le storie che trovano lui, e lo invasano, fino a farsi dire. Il compito di chi si propone essere scrittore – e non di fare lo scrittore – che è molto diverso – e purtroppo anche troppo comune- è quello di ascoltare e offrire la propria lingua: è quello di scendere nell’Ade del proprio Io per tirare fuori una Euridice che non somiglia per niente a quella che ha cercato, ma ormai è lei fuori, non è sua, è degli altri se non di sé stessa
cara Gina, innanzitutto grazie di essere intervenuta.non è chi scrive che deve assolvere o meno. La Storia alla fine boccia ineluttabilemente tutti.
Egr.Sig .Sozi, l’Acquario dei Cattivi non parla solo ed espressamente di terrorismo, ma di una generazione che non ha compreso bene la fortuna di vivere un’epoca senza guerre, che orfana del fascismo dei nonni, espoliata della Resistenza dei padri, vedova del ‘ 68dei fratelli maggiori si è inventata battaglie di una cruenza inutile e disperata. Tuttavia questa democrazia – con tutte le sue pecche – cialtrona e manchevole quanto si vuole – ha dato prova di essere più forte di qualsiasi istanza di totalitarismo: oggi molti di coloro che militarono nei progetti di morte hanno scontato il loro debito e, giustamente, Lo Stato che loro intendevano distruggere, li ha reinseriti nei suoi organici. Certo, come ultimamente Napolitano ha rilevato, occorre misura, e io ,come molti, per rispeto ai parenti delle vittime la cui pena non avrà mai fine, auspico da parte di coloro che che hanno ucciso, ferito, rubato etc, la dignità del silenzio, il rigore del tenersi a parte. Così come pure spero che termino le fiction facili e finalmente si racconti in modo obiettivo la Storia – i libri di Bianconi sono esemplari per chi voglia informarsi su quanto è accaduto.
Gentile Antonella Del Giudice,
che nessuno abbia mai dato voce ai terroristi all’indomani della fine delle lotta armata mi pare un’affermazione un po’ spericolata. Dalla fine del processo Moro-bis ai giorni nostri Curcio, Moretti, Morucci, Faranda, Peci, Braghetti, Seghetti, Bonissoli, Gallinari e altri, sono stati in televisione più delle previsioni del tempo e sui giornali più della rubrica dei necrologi. Hanno sempre raccontato la loro versione dei fatti, più o meno sempre la stessa. Non è un problema controllare negli archivi Rai e Mediaset quanti passaggi televisivi hanno avuto, e ancor meno difficile è controllare gli archivi dei giornali.
Non ho letto il suo libro, e le chiedo: riferendosi al terrorismo, lei quali fonti ha consultato? quali istruttorie dibattimentali? quali sentenze e motivazioni di sentenze? quali audizioni parlamentari dei servizi segreti e dell’Ucigos in merito a connessioni delle BR (o altre organizzazioni) con gruppi terroristi dell’Est o con la malavita comune? Grazie.
Grazie, signora Del Giudice. Io auspicherei il silenzio. Totale. Perche’ i giovani d’oggi, per fortuna, hanno voglia di una Repubblica piu’ europea e italiana in senso buono ed anche e soprattutto abbisognano di piu’ diritto e di piu’ lavoro in regola, di piu’ giustizia sociale e di piu’ armonia nazionale e fra Cittadini, non di rese di conti fra vecchi assassini stolti sorpassati e moribondi – se non gia’ morti.
Di uno Stato forte e disposto all’assistenza (lavoro, casa, servizi, tutto) del cittadino, ossia di uno Stato come quello degli altri Paesi europei; e poi di vita e concordia nazionale, abbiamo noi bisogno oggi, a mio personale avviso. Di un’Italia onesta, insomma, ancora lungi dal venire… e devo ammettere che se anche una ”certa” generazione ”modello P38” andasse direttamente al diavolo senza passare per i libri e le telecamere, io non ne sentirei la mancanza. Chi uccide fisicamente, ideali o non ideali, DEVE morire almeno civilmente. Col silenzio e nel silenzio.
Cordialmente Suo
Sozi
P.S.
Solo agli Storici di professione la parola, dunque. E ai loro testi – scolastici o comunque scientifici.
Ultimo Post Scriptum
Io sono classe 1965. A quindici anni andavo a scivere sui muri ”Aut. Op.” con la falce e martello affianco – Cicerone, ben piu’ saggio e ponderoso di me, mi interessava solo per ottenere la sufficienza sui banchi. Invece contavano, per me adolescente idiota ed indifeso, i frammenti di ”rivoluzionarismo” che mi mandava la societa’ intorno: una societa’ insicura perche’ disonesta e barricadera, superficiale come tutti i rivoluzionari italiani post-’45. E dunque leggevo Metropolis e gli articoli di Negri, compravo ”Il Male” e ”Lotta Continua” in edicola. Borghese, odiavo la decadenza borghese. Se qualcuno mi avesse dato una pistola forse… trent’anni fa…
Adesso capira’, penso, signora, quanto io sia completamente d’accordo con lei.
Buona giornata a tutti e grazie per i nuovi commenti.
Degli anni del terrorismo dovrebbe rimanere la capacità di analisi. Di riflessione. Non solo da un punto di vista storico. Ma giuridico.
Una delle armi più potenti per combatterlo fu infatti una legge. Una legge che concedeva incentivi e sconti di pena a coloro che avessero collaborato con la giustizia e indicato i nomi degli altri affiliati. Altra condizione per fruire dei benefici normatvi era l’abiura della propria fede.
Ecco.
E’ stata la prima legge italiana sul pentitismo.
Quella che usualmente si fa risalire a Falcone è invece un frutto degli anni di piombo e della necessità disperata in cui si trovò lo stato nel far fronte a un disagio non solo delinquenziale ma umano. Il successo del “pentitismo” in quella occasione fa comprendere che esso ha degli indubbi caratteri di efficacia in contesti di emergenza e di crisi.
La legge ebbe infatti un’applicazione pressante.
Perchè fece leva sulla lacerante divisone che regnava all’interno delle BR. Dove in realtà, nonostante la ferocia di facciata, fermentava anche confusione, sovrapposizione di ruoli, ideologismo confuso, incapacità di sapersi veramente rapportare a un filone “filosofico” forte che non fosse – al di là delle etichette leniniste- una profonda, irrisolta e malata rabbia.
Gli atti processuali di quel periodo lo dimostrano.
Pochissimi degli accoliti manifestarono lucidità. Fede consapevole.
Gli altri sbandarono e si dispersero come tutte le coalizioni umane che fingono di avere un obiettivo e un nemico esterno.
E invece dovrebbero partire da se stesse.
Credo quindi – per rispondere alla domanda di Massimo – che la tragedia non possa essere mai rimossa. Ma solo trasformata.
E tuttavia la trasformazione esige riflessione, analisi, obiettività.
Solo così il male può evolvere in bene. In bagaglio. In eredità.
Gentile sig. Gregori, forse io non mi sono spiegata bene: la penso esattamente come lei! Il mio è un libro assolutamente antireducista. I miei cattivi io li definisco “virtuosi” come virtuosi del male, alla stessa stregua dei nazisti. Ritengo offensivo intervistarli, farli parlare all’università, conferirgli dignità di sconfitti: essi sono dei perdenti, irrimediabilmente, e come tali sono dipinti nel mio romanzo, che è un romanzo tuttavia, io ritengo, esistenziale. Quello che mi interessava chiedermi e dunque chiedere è: chi sono costoro oggi, veramente, denudati delle maschere di eleganti sconfitti in cui si paludano e li paludano i mass media. Io, volevo togliere loro la maschera e mostrarli in tutta la loro miseria umana ed esistenziale. Se leggerà il libro sarò oltremodo interessata a sapere se, secondo il suo giudizio che non diverge dal mio, ci sono riuscita. Grazie.
Gentile Sergio Sozi, per scrivere il libro ovviamente non mi sono basata sui miei ricordi di borghese figlia di papà rivoluzionaria – pessima a guardarmi adesso, esattamente con lo stesso sguardo con cui, lungimirante, ci guardava Pasolini. Ho letto tantissimi libri, ivi compresi i più – ahinoi-numerosi, ovvero quelli scritti dai terroristi. Di questi ho cercato di mutuare nei dialoghi il linguaggio ambiguo e ampoloso.Io non sono nè una sociologa, nè una storica. Volevo rappresentare una commedia umana miserrima. Ho cercato anche di mettere da parte i rancori e lo sdegno di vedere certi signori parlare appunto come gli storici e i i sociologhi che che non sono.Davvero mi piacerebbe leggesse il libro per sapere se in parte almeno ci sono riuscita. Grazie dei suoi interventi.
Gentile Simona, carica appunto del bagaglio di quegli anni tremendi che ho voluto scrivere la mia amarissima commedia. Ne ho parlato come ne può parlare uno scrittore, buttando in scena dei personaggi e ascoltandoli. Ne è venuto fuori un ritratto credo impietoso, senza buonismi, senza riscatti, e un monito: all’erta, nessun è escluso. Infatti gli ultimi omicidi di Biagi e D’Antona devono metterci in guardia.
Il virus del terrorismo può – come quello della Peste di Camus- dormire anni e poi svegliarsi all’improvviso. Colpire chiunque. Ma vi ricordate la faccia del fratello di Peci_ un operaio, inncente, colpevole solo di essere il fratello di un “pentito”- ve lo ricordate quando sotto una ridicola marcetta si pronunciava la sentenza della sua condanna a morte, del suo omicidio? Io non la dimenticherò mai. E bisognerebbe che i nostri figli – io ho una figlia di 15 anni – sapessero.Gli assassini devono tacere per dignità se non per vergogna, ma artisti, intellettuali, storici, giornalisti hanno il dovere morale di raccontare.
Caro Massimo, due parole per ringraziarti dell’occasione che dai agli scrittori come me – un po’ timidi e restii e timorosi di sovraesposizioni che non rispecchiano il loro carattere – , di incontrare i destinatari di un lavoro che è una imprescindibile esigenza esistenziale ma che deve anche essere servizio, altrimenti è aria fritta. Grazie di cuore. Un saluto affettuoso
Complimenti all’autrice anche per le risposte date nel corso di questa discussione. L’argomento è di difficile trattazione e la sensazione è che lei, Antonella Del Giudice, sia riuscita a trattarlo in maniera originale.
Non posso che elargirle un sorriso dei miei.
Smile
Un sorriso anche a te, EleKtra. Non so se sia il tuo vero nome ma Elettra è un nome che mi piace tanto, se avessi avuto un’altra figlia l’avrei chiamata così
Signora Del Giudice, grazie della sua disponibilità. Un autore non scrive solo per sé: la vera essenza del suo lavoro è comunicazione. Nel blog di Massimo, come ha potuto constatare, le voci sono tante e variegate, ma la passione per i libri, la curiosità e il rispetto per chi si mette in gioco scrivendoli sono di casa…
Dall’osservatorio di chi quegli anni li ha vissuti solo in modo indiretto è difficile fare una valutazione. Per motivi anagrafici di quegli anni mi restano immagini, reportage, racconti. Poi ci sono i libri, i memoriali, la competizione per l’eccellenza letteraria attraverso il sostegno ad una parte o all’altra. Talvolta mi sembra poco e troppo, al tempo stesso, quello che questo pezzo della nostra storia ancora riesca a scatenare.
Per fortuna Antonella Del Giudice ci ha consegnato un’opera emozionante sia dal punto di vista narrativo che da quello politico-emotivo.
Non importa il nome delle vittime, l’acronimo dei persecutori: credo, piuttosto, che un fermo immagine di un decennio attraverso l’analisi e la rielaborazione degli stessi vinti debba servire a me e a tutti quelli che come me non li hanno vissuti in prima persona, ma ne vivono sulla pelle ogni giorno gli effetti. La tragedia accompagna ancora la vita di molte persone, la tragedia è ancora dentro: giusto, anzi doveroso, che se ne parli.
Brava Antonella Del Giudice.
Attendo con entusiasmo il prossimo romanzo…
Grazie Marcella
Elektra non è il mio vero nome, ma indica la mia vera essenza. Grazie Antonella.
Smile
Ringrazio ulteriormente per la cordialita’ e la disponibilita’ la sig.ra Del Giudice. E mi scuso perche’, vivendo io all’estero e lavorando nel campo della Letteratura e delle traduzioni, mi sara’ difficile acquistare a prezzo non raddoppiato il Suo libro. E’ una questione meramente economica.
Saluti Cari
Sozi
Il terrorismo di sinistra, e la mancata esecrazione, la differenza del giudizio storico tra nazismo e comunismo ( in particolare lo stalinismo), dimostrano secondo me quale potere ipnotico possiedono le parole.
Maria Fida Moro rispose una volta ad una domanda su chi avesse vinto la guerra fra stato e terrorismo, più o meno così : La guerra la scrivono i vincitori e andando in una libreria qualsiasi vendendo quello che c’è negli scaffali sembra che la guerra l’abbiano vinta i terroristi.
Maria Fida Moro ha ragione. Tuttavia personalmente sono visceralmente contraria a qualsiasi censura. Basta leggerli i libri di molti di questi EX per comprendere, con un minimo di acume, che storicamente e moralmente e culturalmente non sono che IX Come tali il mio romanzo li rappresenta, come tali li scopre.
E tuttavia non bisogna dimenticare che chi ha pagato il suo debito con la giustizia, in una democrazia sana, deve avere l’opportunità di un riscatto umano. Deve avere l’occasione di vivere, con la riservatezza dovuta ai parenti delle vittime. Quello che davvero inquieta è la smania di protagonismo che anima alcuni sopravissuti. Il personaggio più terribile del mio romanzo è Eligio, il terrorista che non è mai stato scoperto, che ha continuato la sua lotta con la toga del magistrato, che è disponibile a tutto pur di perseguire il suo torbido ideale. Il mio romanzo è anche un noir, ha un finale a sorpresa, che dà senso a tutta la narrazione.
Ringrazio tutti per i nuovi commenti.
Antonella,
sono io che ringrazio te per la tua partecipazione attivissima a questo post.
Ne approfitto per farti una domanda fuori argomento.
Stai lavorando a un nuovo libro?
Cosa bolle nella tua pentola letteraria?
Ancora per Antonella Del Giudice…
Poiché Letteratitudine è un luogo d’incontro, ne approfitto per presentarti Francesco Costa. Lo conosci? Anche lui è uno scrittore napoletano.
Puoi trovarlo qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/29/presto-ti-sveglierai-incontro-con-francesco-costa/
Cara Antonella,
sai che sono molto legata a questo romanzo. Non si dimentica, non si possono dimenticare quegli anni che oltre ad oscurare l’Italia l’hanno trasformata . Ma per me l'”Acquario dei cattivi” oltre ad aprire una nuova, originale finestra sull’argomento è anche gioco al massacro. E’ clausrofobica rappresentazione di un malessere generazionale. Il male di vivere si potrebbe dire? E’ insinuante come un serpente o come quel topo protagonista anch’esso e metafora di un mister Hide che si nasconde nei meandri delle menti umane. E teatro dell’assurdo. Quando si aspetta forse Godot o forse la morte? Cosa ne dici?
Bene che ci si occupa di scrittori partenopei, ma perchè no anche di poeti partenopei?
Da quello che si è scritto tra questi commenti traspare un romanzo che cerca di indagare sulle persone, più che esprimere giudizi su quella che fu indubbiamente una delle tante follie della storia. Peraltro molto interessanti quelli certamente fondati di Simona che dice: “nonostante la ferocia di facciata, fermentava anche confusione, sovrapposizione di ruoli, ideologismo confuso, incapacità di sapersi veramente rapportare a un filone “filosofico” forte che non fosse – al di là delle etichette leniniste- una profonda, irrisolta e malata rabbia” e conclude con “….la tragedia non possa essere mai rimossa. Ma solo trasformata. E tuttavia la trasformazione esige riflessione, analisi, obiettività.”
E per la letteratura, non per la storia politica o giuridica, rimane fondamentale domandarsi come le persone umane, a volte anche dotate di intelligenza e cultura (forse mal digerita) possano farsi abbagliare così dalle ideologie, come riuscire ad annullare le proprie coscienze, come seguire percorsi così rigidi e preordinati, miltarmente, senza un minimo di senso critico. E cosa possano pensare di se stessi in seguito, quando l’abbaglio è svanito. Perchè una società si trasformi attraverso la riflessione, l’analisi e l’obiettività (come dice Simona) è necessario che lo facciano dapprima i singoli individui, perchè una società non è che la somma di loro stessi.
E permettere anche a chi non avesse vissuto quegli anni di riflettere e metabolizzare il passato di cui sono comunque figli anche (e di più) attraverso queste storie.
Cara Antonella,
Francesco Costa sta passando da queste parti. Sarebbe bello se anche tu facessi un salto dalle sue.
Ti va?
Un caro saluto a Carlo S. che ha giustamente ripreso il commento della nostra ottima Simona.
@ Salvilina
Un poeta partenopeo (ma anche non partenopeo) può presentare le sue opere qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/category/presentazioni-di-libri-ed-eventi/
e “postare” le sue poesie qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2006/11/02/iperspazio-creativo/
I suddetti spazi sono assolutamente liberi.
Grazie per essere intervenuta.
Complimenti a tutti per la discussione e ad Antonella del Giudice per aver fatto diventare il suo acquario .. una piscina!
Infatti il grande merito di Antonella è stato quello di mettere a confronto i suoi personaggi, ed ora anche noi lettori, con un grande dramma della nostra storia repubblicana.
Però nel libro il terrorismo è solo sfondo, i protagonisti non sono terroristi ma esseri umani a confronto tra loro, con sè stessi, con il tempo nelle sue tre declinazioni, tutti sezionati dall’affilatissima precisione del bisturi della scrittrice.
Noi, invece, ci sentiamo spinti a misurarci con il contesto perchè è drammaticamente reale ma dovremmo provare a misurarci proprio con i personaggi, con i loro dubbi, colpe, debolezze che sono argomento altrettanto drammatico ed attuale, in una società che ha fatto dell’incertezza il suo imperativo.
A me il libro è piaciuto molto e lo vedrei ancor più volentieri rappresentato a teatro! Che ne pensate??
Caro Massimo, non conosco personalmente Francesco Costa, ma rimasi fulminata dal suo romanzo LA VOLPE A TRE ZAMPE. Tuttavia proprio oggi ho ricevuto l’invito alla presentazione del suo nuovo romanzo, i cui relatori sarenna gli amici Nando Vitali e Maurizio de Giovanni. Così magari ci potranno presentare ( è difficile che mi presenti da me). Intanto auguro a Costa una grande in bocca al lupo per il suo ultimo libro, che certamente, con le premesse dei precedenti, merita un grande successo.
Gentile Del Giudice, da quanto scrive mi sembra che lei sia più una persona informata che non una rivisitatrice fantasiosa. Come ha messo opportunamente in rilievo Gregori, oltre a tanti scritti pubblicati vi sono stati tanti protagonisti che hanno parlato in prima persona e, dai suoi dialoghi, mi sembra che lei abbia attinto intelligentemente. Domando solo, a tutti, siamo sicuri che siano stati detti tutti i retroscena? Potessi, chiederei per esempio a Sofri, chi finanziava il braccio armato di Lotta Continua? Non mi sembra sia stato mai rivelato. Ma su questo può forse rispondere la Simona. Quanto ad aver pagato i debiti con la giustizia (come ho già scritto dell’omicidio nel post su Costa) coloro che hanno assassinato volontariamente e gratuitamente non potranno mai saldare il debito, contratto non con gli uomini ma con l’universo.
Cara Delia, i miei cannibaleschi personaggi credo stiano peggio dei fantasmi bechettiani che hai dottamente evocato. Loro hanno un Godot da aspettare, per i miei Godot è arrivato, se ne andato e loro non possono che agitarsi disperatamente in un acquario avvelenato. Grazie per la stima e il sostegno che non mi fai mai mancare,
Cara Annita, non aspettiamo che regista e produzione…
Caro Bruno, è vero che al di là del ruolo di terroristi, i miei personaggi sono una estremizzazione di una generazione ostaggio dell’ideologia. Ci si sta dentro un po’ tutti e stretti e scomodi in questo acquario maledetto. Grazie dell’intervento
Gentile Gianmario, è vero che l’omicidio è irrisarcibile. Chi ha perduto un figlio, un marito, un padre, un amico, è condannato ad un dolore a vita. Tuttavia io resto , da convinta liberale, ostinatamente avversa a pene inemendabili. Il mio romanzo cerca di scavare l’anima di chi ha prodotto tanto male, si chiede se chi ha operato una scelta così assoluta possa riscattarsi o invece rimanga tragicamente legato al suo ruolo. C’è nel mio romanzo un nodo narrativo – quasi un “giallo” – che si scioglie con un finale a sorpresa perchè credo che chi scrive abbia il dovere di offrire ai lettori una storia e di tesserla in una lingua convincente. Per questo la piccola banda che prendo in esame non è che una misera accolita di quattro cialtroni obnubilata da ideologie confuse e da molta voglia di apparire, di non rientrare nella banalità borghese, di rappresentare qualcosa di grande che tuttavia nessuno tra loro riesce a definire lucidamente. Insomma è il loro contesto esitenziale, personale, psicologico se vuole, che mi interessa davvero. E al fondo c’è l’indice puntato su quella che è una immensa colpa morale collettiva. Poi le pene vanno espiate, e uno stato di diritto che sia davvero una libera democrazia ha il dovere di perseguire chi si è macchiato di reati tanto gravi, e nessun colpo di spugna è accettabile. Sul caso Sofri però mi permetta di coltivare il ragionevole dubbio.
Caro Massimo, dato che per me scrivere è vivere, naturalmente sto lavorando a un nuovo romanzo, ovvero nuovi inquietanti spettri invadono la mia casa e la mia pace. Ma non ne parlo fintanto che loro stessi non mi abbiano detto tutto. Fa parte della mia sana schizofrenia. Se scopro troppo i miei tanto plastici incubi, essi si dissolvono. Fintanto che non metto l’ultimo punto alle mie storie, mantengo coi loro protagonisti un riserbo sacerdotale.
Gentile Carlo S, ho particolarmnte apprezzato il suo intervento, credo che lei abbia centrato l’argomento del mio romanzo. Quando mi avventuro in una narrazione non mi figuro mai a chi mi rivolgo. Trasformo in parole la mia urgenza di dire e dare. Ma per Acquario ho spesso pensato ad una vicenda toccata a mia figlia quando frequentava le scuole medie. Le toccò un professore di Arte che, lungi dall’insegnare la disciplina che gli competeva, si lasciava andare a sciagurate logorree in una delle quali affermò che negli anni 70 ci furono uomini valorosi che, capendo tutto, imbracciarono le armi e combatterono fino, purtroppo, ad essere battuti da uno Stato corrotto ( lo stesso che ogni mese gli pagava lo stipendio) Insieme ad altri genitori, indignatissima, andai a protestare ma il preside minimizzò dicendo “tanto poi i nostri ragazzi che ne sanno di quegli anni? mica posso licenziare il professore…” Ecco, molti non sanno di quegli anni, il fascino della ribellione è sempre in agguato e i cattivi maestri sono ovunque
Il libro della Del Giudice è uno squarcio su una realtà sempre discussa, una ferita aperta, ma anche una storia semplice. La storia semplice e banale di quattro poveri diavoli, falliti e senza speranza. Condivido il pensiero di chi ha detto che vedrebbe bene una sua rappresentazione teatrale, perchè gli spazi, i pensieri, i caratteri costruiti da Antonella si prestano alla messa in scena. Anche se dubito che una pur ben riuscita resa teatrale avrebbe la forza d’impatto del libro.
Gli auguri per il successo, da parte mia, sono ovvi. Io non mi limito ad augurarlo, ne sono semplicemente sicuro!
Un connotato del libro che finora non mi sembra sia stato evidenziato è che, pur trattando del post-terrorismo, peraltro non in chiave apologetica, evidenzia un fallimento che è esistenziale, più che politico. I quattro post-terroristi sono rinchiusi in un’atmosfera plumbea, luciferina, nella quale ad un certo punto cala l’oscurità, quasi una metafora del loro essere morti ad un mondo che li ha sorpassati e ad una storia che li ha dimenticati, senza concedere loro nemmeno l’onore di una rimozione. Il loro delirio di potere, con la convinzione ad esso sottesa che tutto possa essere consentito in nome di un più alto ideale, mi richiama ai personaggi dei “Demoni”, che peccano (mi si passi il termine) prima di ogni altra cosa contro l’idea stessa di umanità, non riconoscendo più limiti nè valori. Vi è in qualche modo, nella concezione dei personaggi, una lontana eco di quei nichilisti descritti da Dostojevski?
Cara Rosanna, solo a nominare i Demòni di Dostoevskij mi tremano i polsi, e ti ringrazio anche solo di averci pensato. I miei personaggi però non hanno la luciferina e devastante superbia del principe Stavrogin, nè la lucida perversa disperazione di Kirillov, perchè sono parto di tempi meno epici e quindi, più che demòni, quattro poveri diavoli. Specchio di un’epoca in cui anche il nuchilismo è consumistico, ahimè, e sbandierato per apparire laddove non si è. Grazie per l’intervento
Grazie Gianluca, certi interventi sono iniezioni di autostima di cui a volte si necessita ( e davvero non per vanità ma per sopravvivenza)
complimenti per il libro e per una maturità di stile e linguaggio davvero (e con tutto il cuore) invidiabile: era una prova difficile, mi sembra tu l’abbia superata nel migliore dei modi
grazie Aldo
Antonella Del Giudice è il mio mito, perché mi ha permesso di vedere da vicino come nasce una scrittrice, una “grande” scrittice, dai primi racconti al primo romanzo, L’ultima papessa, una saga familiare scritta con una penna intinta nel talento.
l’Antonella del Giudice dell’Acquario dei cattivi, che ho avuto la fortuna di leggere fin dalla prima stesura, è uno di quei romanzi che mentre li leggi, e sei affascinato dal plot, ti chiedi: “Ma come si fa a scrivere così?” perché ti immerge totalmente nell’ambiente che vuole rappresentare, ti fa conoscere e amare o odiare i personaggi, con quel suo stile vagamente Gaddiano, ma tutto suo, che sarebbe impossibile imitare.
Quei brigatisti, ombre subumane di terroristi falliti, racchiusi fra quattro pareti claustrofobiche in un paesaggio desolato, fanno rabbia e pietà e ti fanno ritornare con la mente a quegli anni, quando una protesta a cui molti partecipammo, divenne follia, devastazione e morte.
La società ferita che si ribellò, li isolò e poi li rinchiuse, dopo vent’anni diventa il bersaglio della loro tarda vendetta, quasi a voler ritornare indietro nel tempo per affrancarsi dai loro fallimenti.
Geniale il finale, con l’estremo sacrificio dell’unico affermatosi proprio in quella magistratura che ha tanto odiato.
Brava Antonella! L’orgoglio di esserti amica non mi acceca e sono certa che i tuoi scritti migliori sono quelli che ci regalerai in futuro, in un “semper ad maiora” che è proprio dei rari talenti che affiorano tra le migliaia di libri degli “scriventi”
Silvana Perotti
si è capito che Silvana mi vuole bene, no? Grazie cara, soprattutto del tuo affetto
Sì, è vero che voglio bene ad Antonella del Giudice, ma il mio giudizio non è accecato dall’affetto, ma è quello espresso da molti forse con parole meno “viscerali”. per apprezzare questa scrittrice che, se non fosse una mia amica, sarei stata felice di scoprire in libreria.
Silvana Perotti
Un saluto a tutti gli intervenuti.
Un abbraccio a te, Antonella… con tantiin bocca al lupo per il tuo futuro di scrittrice.
caro Massimo, grazie infinite della “finestra” offertami e grazie a tutti coloro che sono intervenuti. Cordialmente
Ho finalmente conosciuto Francesco Costa personalmente, perchè come scrittore già lo conoscevo e stimavo. Somiglia ai suoi libri, ed è un complimento perchè i suoi libri sono intelligenti, divertenti e soprattutto verticali, ovvero hanno sempre una profondità per cui bisogna leggerli. Cordialmente
Grazie a te, cara Antonella.
Sono felice che abbia incontrato e conosciuto l’ottimo Francesco.
Uno degli scopi fondamentali di questo blog è proprio quello dell’incontro.
Torna a intervenire, se puoi (e se ne hai voglia). Anche sugli altri post.
Ogni volta che interverrai mi farai un regalo.
Massimo