Dedichiamo questa nuova puntata di Letteratitudine Cinema al film “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica: un grande classico del cinema italiano restaurato per la presentazione nella sezione Classici del festival di Cannes (71° edizione dall’8 al 19 maggio)
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LADRI DI BICICLETTE di Vittorio De Sica: se il restauro è memoria del presente
Pedinamento: con questa parola il grande Cesare Zavattini sintetizzò il senso dei movimenti della macchina da presa del cinema del Neorealismo e così anche di “Ladri di Biciclette” (1948), il film di Vittorio De Sica, vincitore di un Oscar e restaurato per la presentazione nella sezione Classici del festival di Cannes (71° edizione dall’8 al 19 maggio).
In “Ladri di biciclette” avviene un pedinamento cioè il rincorrere a piedi, seguire i passi di un altro, cercare di catturarlo. Nel film chi rincorre sono un padre e un figlioletto che cercano di recuperare la loro bicicletta. Il film è esile nella trama ma complesso nelle suggestioni, di temi e di soluzioni di regia. Quel pedinare quando si parla di cinema del Neorealismo (ancora considerato dai cinefili l’espressione massima e irraggiungibile del cinema italiano: a torto o a ragione?) è metaletteratura o metacinema. È stare alle calcagna dell’oggetto di rappresentazione, è farlo muovere in uno spazio proprio e ristretto (dalla miseria, dall’infelicità, dall’inadeguatezza all’etica del boom economico che il prestito americano pareva garantire oltre che promettere), è preferire la panoramica dal basso nelle scene d’insieme o indietreggiare col carrello fino a cogliere lo scoramento e la disperazione nel piano americano dell’imbianchino Antonio Ricci e del piccolo Bruno, cui De Sica concede più di un primissimo piano, e dettagli sugli occhi, sulle sue lacrime di vergogna asciugate con la manica della giacchetta da finto uomo o dettagli sulle mani che rabbiosamente spolverano il berretto da vero monello, fino a quel taglio sulla mano che stringe d’avvilita alleanza proletaria quella del padre.
Maestro indiscusso del Neorealismo, Vittorio De Sica, che aveva fatto il cinema dei telefoni bianchi, scende per strada e trova Lamberto Maggiorani (Antonio) e Enzo Stajola (Bruno), affida loro il ruolo di coppia drammatica, ammiccando a quell’altra coppia malinconicamente comica che furono Charlie Chaplin e Jackie Coogan in “Il monello”. Non è il furto (lì di un’automobile, qui di una bicicletta), non il girovagare per la città, non l’irrigidimento dei sentimenti tra pietà e affetto né la rappresentazione della povertà, tantomeno l’approccio al tema – un sogno quello di Charlot, la cronaca quella di De Sica – ma è quel bambino, quei suoi occhi bagnati, spalancati, pudichi, adulti, mortificati su cui i due registi hanno stretto il patto con il pubblico e con la cinepresa. Appartiene all’aneddotica la cura del montaggio di Chaplin che ridusse 120mila metri di pellicola in poco più di 2mila per incollare la drammaticità del film nella velocità del comico: solo la faccia birbante del suo giovanissimo attore poté permettergli di farlo. La realtà cinematografica, diremmo. Il cinema che non abbellisce la realtà che anzi è il famoso “spaccato di vita quotidiana” spesso con un sole dell’avvenire rivelatosi nel tempo latitante. Lo stesso realismo letterario che già la narrativa verista, verghiana soprattutto, aveva consegnato alla staticità di una Sicilia irredimibile, arcaica o di più atemporale. De Sica sostiene che quella realtà bassa, minima, troppo comune anche nei sentimenti abbia “nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo“. Per questo senso del reale De Sica crea un film in cui il ritmo è alternato tra la velocità di corse e rincorse e di scene di massa alla lentezza dei primi piani sui personaggi.
Non solo dei protagonisti, fotografie in bianco e nero di un’umanità disgraziata: il malore del ladro con quella faccia che sarà dei borgatari pasoliniani, la piena figura della santona (una Sibilla rovesciata, esempio di quella cultura ancestrale cui il cinema del neorealismo non fu assolutamente scevro), le dame di carità (le beghine crepuscolari) sono impressioni di pellicola e brandelli di letteratura. “Ladri di biciclette” è un film di oggetti. I manifesti cinematografici di Antonio, le gavette dei poveri alla mensa di carità, le lenzuola impegnate al Monte di Pietà, la mozzarella in carrozza che fa il filo, i ricambi ammassati nelle bancarelle di Piazza Vittorio (il film è ambientato a Roma) sembrano feticci. Come la bicicletta, feticcio di un riscatto impossibile. In bicicletta sono andati tanti personaggi in celluloide da Audrey Hepburn in “Vacanze romane” (prima di salire per l’indimenticabile gita in vespa con Gregory Peck) a E.T. del film di Spielberg, da Silvana Pampanini di “Bellezze in bicicletta” alla piccola saudita Wadjda di “La bicicletta verde” di Haifaa Al-Mansour, dal commediografo Molière in un film del 2013 fino all’emozionante “Le biciclette di Pechino” diretto da Wang Xiaoshuai che è un tributo al film di De Sica: schietto realismo per fare il ritratto alla gioventù cinese e alle contraddizioni della Cina. La bicicletta come oggetto magico che si deve riscattare e trovare, come simbolo di una condizione sociale. Così, il film di De Sica ritorna nelle sale e il restauro acquista una valenza maggiore della contingenza artistica. Il restauro è a cura della Cineteca (che si è avvalsa della collaborazione tra gli altri dell’Istituto Luce- Cinecittà e di Compass Film) ed è stato realizzato dal laboratorio bolognese “L’Immagine Ritrovata”. Un’operazione costosa (intorno ai 100mila euro) e necessaria per salvare uno dei film cult del nostro cinema (in agosto è già stato presentato a Venezia). Ma cult non è una parola granché significativa per dire cosa sia “Ladri di biciclette”, che è l’elegia in chiaroscuro del popolo. Per questa ragione riportare “Ladri di biciclette” alla sua origine (il restauro è in digitale e recupera il bianco e nero) sembra avere il valore di un’operazione culturale di grande attualità. Realistica se per realismo s’intende un meccanismo di verosimiglianza in cui l’oggetto d’arte riflette l’oggetto del mondo. Il mondo di “Ladri di biciclette” è il popolo, lo sguardo di Zavattini e De Sica è disincantato, non ha artificio (la scelta degli attori non professionisti è una scelta di pensiero e di poetica), muove anzi una denuncia. Come fu per il verismo, come è nel suo figlio meticcio, il Neorealismo. Le accuse di paternalismo mosse al cinema di Visconti, Rossellini, De Sica giungono oggi come l’eco falsata e roca del populismo. La bicicletta da materia di straniamento diventa il cane di Pavlov. La bicicletta è il sogno di una stabilità nel lavoro che è stata rubata o ha preso una via di fuga, il sogno del benessere che fu della classe operaia e piccolo borghese degli anni del secondo dopoguerra si è infranto anche adesso. Oggi riguarda tutta la classe media mentre la povertà aumenta, malcelata dietro un astruso entusiasmo verso il futuro dell’economia globale. Commentando il suo film De Sica chiedeva “Che cos’è infatti il furto di una bicicletta, tutt’altro che nuova e fiammante per giunta? A Roma ne rubano ogni giorno un bel numero e nessuno se ne occupa”. Se nessuno se ne occupa, ci si arrangia, come nell’amaro finale di questo film e la battuta “nun voglio ‘mpicci, lascialo sta’. Bongiorno a tutti e grazie” con cui si chiude la parentesi da delinquente di Antonio Ricci più che compatimento sembra la consapevolezza della perdita d’innocenza, che è la cifra di “Ladri di biciclette” come fu di “Sciuscià ”la necessità dell’arte di arrangiarsi. L’arte e l’innocenza della povera gente cui manca oggi un cinema che ne sappia davvero raccontare la vita. Ora che anche Ermanno Olmi, l’erede di quel cinema, ci ha lasciato.
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