L’ARMINUTA: dal romanzo di Donatella Di Pietrantonio al film di Giuseppe Bonito
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La nuova puntata di Letteratitudine Cinema la dedichiamo al film “L’Arminuta” di Giuseppe Bonito, tratto dall’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio pubblicato da Einaudi e vincitore del Premio Campiello 2017.
Di seguito: le dichiarazioni che Donatella Di Pietrantonio ha rilasciato in esclusiva a Letteratitudine e un articolo a cura della giornalista Alessandra Angelucci (che ha incontrato il cast del film per noi) con le risposte del regista Giuseppe Bonito, della protagonista Sofia Fiore e altri interpreti.
In chiusura riproponiamo “l’Autoracconto d’Autore” firmato dalla stessa Donatella Di Pietrantonio in occasione dell’uscita del romanzo dove l’autrice ci racconta la genesi di questa storia. Ne approfittiamo per ringraziare Patrizia Angelozzi per la collaborazione
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“L’Arminuta che diventa film è l’ultima evoluzione di una storia nata nel chiuso di una stanza e condivisa da tanti lettori e ora dagli spettatori nelle sale”, ha detto Donatella Di Pietrantonio a Letteratitudine. “Credo che la sua forza stia nell’aver intercettato quelle parti ferite, danneggiate che ognuno di noi porta con sé, anche senza aver vissuto gli abbandoni ripetuti che toccano alla protagonista”.
“Giuseppe Bonito ha saputo trovare quel difficile equilibrio tra un’originalità solo sua e il rispetto del romanzo, guardando con una sensibilità particolare i personaggi, nelle loro cadute e inadeguatezze, nelle fragilità e nella resilienza. Ce ne restituisce tutta l’umanità”.
L’Arminuta nel grande schermo per raccontare la maternità imperfetta
SPOLTORE – Ci sono dettagli che il lettore de L’Arminuta, scritto da Donatella Di Pietrantonio (Campiello 2017), non può dimenticare. Come l’incipit, che consegna una bambina davanti all’esperienza dell’abbandono: «A tredici anni non conoscevo più l’altra mia madre. Salivo a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse».
E sono proprio le madri, biologiche e non, come le sorelle, le figure femminili attorno alle quali si apre una storia fatta di silenzi e abbandoni, di mani tese verso l’altro. Un’altalena di addii che fanno male, dentro a un volo che spesso non ha parole per dirsi.
Nell’Abruzzo degli anni Settanta, la piccola Arminuta dovrà fare i conti col suo passato per capire davvero chi è. Un compito troppo grave per una donna così giovane. E se scaviamo in fondo alle parole, forse nella voce della protagonista c’è anche la paura di ciascuno di noi: quella di essere abbandonati. È per questo che Donatella Di Pietrantonio ha commosso i lettori, perché ha consegnato una verità: la sua, la nostra. Una storia cucita intorno all’imperfezione dei rapporti umani, quelli che si dicono sottovoce perché troppo dolorosi. Quelli che, a volte, non si possono proprio dire.
Fedele al romanzo è la trasposizione cinematografica del regista Giuseppe Bonito, tanto attesa nelle sale cinematografiche, dopo il grande successo ottenuto alla 16^ edizione della Festa del Cinema di Roma.
Sabato 23 ottobre 2021 il film è stato presentato al Cinema l’Arca di Spoltore (PE) alla presenza di una parte del Cast, accolto da un pubblico numeroso e felice di vedere nel grande schermo il racconto di tante vite: de l’Arminuta, di Adriana e Vincenzo, delle madri che hanno generato o cresciuto, di Pat che gioca in spiaggia in una dimensione senza tempo.
Bonito ha mostrato sempre grande attenzione al mondo della famiglia e alle relazioni che in essa si intrecciano, sin dal progetto Figli, nato grazie a Mattia Torre, sceneggiatore e regista prematuramente scomparso. La sfida de L’Arminuta ha in sé questa radice e si innesta su un sentimento d’amore che il regista ha da subito provato per l’opera della Di Pietrantonio e per quei volti che sono nomi e radici, e poi luoghi d’infanzia. A volte drammi irreversibili. «Pur essendo una storia ambientata negli anni Settanta, come già era evidente nel libro, il film ha degli elementi di modernità e di stringente attualità proprio in questo: la maternità come valore assoluto, al di là del dato biologico». È proprio Giuseppe Bonito a dichiararlo, mettendo in luce come il tema del suo progetto sia la maternità imperfetta: «La famiglia di origine de l’Arminuta è sì un nucleo familiare numeroso ma in esso è presente la disgregazione dei sentimenti. Sono tutti come punti che non riescono a collegarsi mai. I momenti più forti del film, infatti, sono quelli in cui le persone si toccano o si sfiorano: in quegli istanti si diffonde una energia che le unisce idealmente ma di fatto mai. E l’Arminuta sta in mezzo a tutto ciò». Un progetto che racconta anche l’uso del dialetto, ponendo l’accento sull’importanza del luogo come matrice identitaria: «La lingua abruzzese è importante, sì. Il film non l’abbiamo girato in Abruzzo ma il mio lavoro sul paesaggio è stato molto particolare e laborioso, perché doverlo ricostruire in un luogo altro è sempre difficile. Al di là di questo, nel mio film il paesaggio umano è totalmente abruzzese ed è questa, secondo me, la cosa che conta di più».
A dare prova di questo è anche l’origine delle giovani protagoniste: Sofia Fiore, che interpreta l’Arminuta, è originaria di Vasto, e Carlotta de Leonardis, nei panni di Adriana, è di Spoltore. Potenti nel loro essere sorelle dentro una storia di mancanze. Sofia Fiore narra con maestria lo spaesamento di chi dovrà accettare e perdonare. Alla prima esperienza, esprime con eleganza i silenzi e i moti d’angoscia, in un volto quasi etereo che sa tradurre i non detti: «Ho provato tanta gioia ma anche un po’ di paura quando ho saputo che sarei stata proprio io l’Arminuta. Una bellissima esperienza e auguro a tutti coloro che hanno il sogno di diventare attori o attrici di provare, perché ne vale davvero la pena. Tra le scene più difficili ricordo il bagno al mare, perché faceva molto freddo quando abbiamo girato».
Carlotta De Leonardis è il talento dell’espressività, la voce dell’istinto e della ribellione. Commovente l’abbraccio alla ritrovata sorella nel gelo della notte: in quella stretta immortale ci siamo stati tutti per pochi attimi, perché tutti, forse, abbiamo desiderato almeno una volta essere cercati – e amati – con la stessa forza che Carlotta trasmette nel ruolo di Adriana. Anche lei confessa di essersi divertita a girare il film: «Mi è piaciuto tutto e per me è stato spontaneo anche recitare in dialetto, perché io a casa un po’ lo parlo. La scena che mi è piaciuta interpretare di più è quella finale e sicuramente anche quella dal macellaio».
Presenti al cinema di Spoltore anche l’attore Andrea Fuorto, che sta riscuotendo molto successo per l’interpretazione di Vincenzo, e Aurora Barulli (Pat), che ha svelato tutta l’emozione provata: «È stato un sogno. Di solito una ragazza quattordicenne vede i film nella sua stanza, analizza gli attori e si interessa della loro vita reale. A me questa esperienza ha stravolto la vita perché, seppur per una piccola parte, ho vissuto un momento di vita unico. Mettermi in gioco mi ha aiutata a superare la mia insicurezza e la cosa più bella è stata quando mi hanno comunicato che ero stata scelta per essere Pat. Ho fatto salti di gioia, ho abbracciato mamma e papà e sono stata orgogliosa».
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Come nasce un romanzo? Per gli “Autoracconti d’Autore” di Letteratitudine, DONATELLA DI PIETRANTONIO racconta il suo romanzo L’ARMINUTA (Einaudi)
romanzo vincitore del: Premio Selezione Campiello 2017 e del Premio “Alassio Centolibri 2017
Donatella di Pietrantonio ci parla de “L’Arminuta” offrendo a Letteratitudine un racconto inedito delizioso e toccante
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Ero bambina, abitavo con la mia famiglia in un piccolo borgo del teramano, ai confini con la provincia di Pescara. Sopra di noi il Monte Camicia, così vicino da non poterne vedere la vetta. Era una contrada remota, non arrivava mai nessuno fin lì, il sentiero che portava alle case era battuto solo dai pochi abitanti. I parenti venivano in occasione della trebbiatura in estate e dell’uccisione del maiale in inverno. Erano quelli gli eventi più importanti dell’anno.
La sera, davanti alla fiamma vivace del camino, gli adulti raccontavano storie, ma vere. Nel debole chiarore del lume ad acetilene noi bambini ascoltavamo, seduti su bassi sgabelli di legno. Una volta li sentimmo parlare di una famiglia povera e numerosa che aveva ceduto l’ultimo nato a una coppia di parenti sterili. Dicevano che lu cìtile era fortunato perché quelli che lo avevano preso tenevano la roba. Molti ettari di terreno, numerosi capi di bestiame nelle stalle, il casolare rimesso a nuovo. Abitavano vicino al paese e gli avrebbero inzuccherato la bocca al piccolino, così diceva una mia zia acquisita.
“Stai attenta tu, con quella lingua lunga” ammonì poi voltandosi dalla mia parte.
Cosa intendeva, che potevo essere data pure io? Aveva suggerito più di una volta a mia madre di prendere provvedimenti nei miei confronti, “non sta bene che essa risponde”. Rispondere agli adulti equivaleva a mancargli di rispetto.
In estate conobbi un cugino di mio padre, molto più giovane di lui. Sembrava triste, sotto il cappello la fronte già segnata da una ruga profonda a forma di emme. Era venuto a trovarci insieme ai suoi genitori e non gli somigliava affatto. Loro molto scuri di carnagione e capelli, lui pallido e con la testa bianca, dietro gli occhiali le iridi di un azzurro così chiaro da sembrare trasparenti. Al mio stupore per quel suo aspetto gracile, da vecchietto precoce, mio padre rispose tranquillo:
“Non gli somiglia no agli zii, mica è il figlio. Gliel’hanno dato certi parenti alla lontana, quando teneva una decina d’anni. A essi le creature non gli venivano”.
La rivelazione mi tolse il sonno, trasformò ai miei occhi un evento eccezionale in pratica comune. Prima quel neonato di cui parlavano nelle sere d’inverno, poi il cugino Settimio.
Il suo nome raccontava quanti erano nati prima di lui nella famiglia che poi l’aveva ceduto, ma il suo soprannome era “occhi bianchi”. Mio padre non era legato a lui come agli altri cugini, che trattava quasi da fratelli. Settimio era considerato un diverso, un malato, uno che mai avrebbe potuto dare una mano nei campi. Pochi minuti di esposizione al sole erano sufficienti a ustionarlo. Veniva sempre lasciato a casa, sia nella prima che nella seconda famiglia, “sennò si coce”, dicevano. Era albino, ma non potevo saperlo. Sapevo invece che altri due fratelli erano nati dopo di lui, ma erano stati tenuti in famiglia. I suoi non l’avevano dato in quanto poveri o troppi, ma per la sua bianchezza e inabilità al lavoro. I genitori adottivi l’avevano preso lo stesso, erano già un po’ in là con gli anni e un figlio lo volevano a tutti i costi. Come bastone per la vecchiaia, diceva mia madre, sarebbe andato bene pure “occhi bianchi”.
Lo vedevamo di rado, Settimio, solo a qualche cerimonia che riuniva il parentado. Matrimoni, funerali. All’aperto portava sempre il cappello. Provavo pena per lui, con quella emme di tristezza indelebile sulla fronte. La storia sua e di quel neonato agitava i miei sonni. La condizione di figli non era sicura. Per restare figli occorrevano dei requisiti e io non ero più certa di possederli tutti. Ero troppo magra, per esempio. Un nostro vicino diceva che prima o poi il vento si sarebbe infilato sotto la mia gonna e sarei volata via, così leggera. Ma soprattutto l’eccessiva magrezza dava l’impressione che anch’io fossi troppo debole per aiutare nei lavori domestici.
“Tua figlia è buona solo per la scuola”, mio nonno paterno lo rinfacciava spesso a mia madre.
Sono trascorsi decenni da allora. Il vento non mi ha portata via e i miei genitori mi hanno sostenuta negli studi. Di tanto in tanto ho chiesto notizie di Settimio, che non incontravo quasi mai. Si era sposato e aveva avuto due figli, un maschio e una femmina. Deve averli molto amati, i parenti lo criticavano per questo: “sta sempre appresso a essi”. Solo al mare non poteva accompagnarli, anche con il cappello era troppo rischioso.
Nonostante tutte le attenzioni se n’è andato qualche tempo fa, per un tumore della pelle. La testa bianca era ormai giusta per la sua età e sulla fronte la ruga a emme si era distesa nella falsa serenità della morte. “L’Arminuta” è dedicata anche a lui.
(Riproduzione riservata)
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La scheda del libro
Per raccontare gli strappi della vita occorrono parole scabre, schiette. Di quelle parole Donatella Di Pietrantonio conosce il raro incanto. La sua scrittura ha un timbro unico, una grana spigolosa ma piena di luce, capace di governare con delicatezza una storia incandescente.
«Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo piú a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza»
Ci sono romanzi che toccano corde cosí profonde, originarie, che sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con L’Arminuta fin dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell’altra, suona a una porta sconosciuta. Ad aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia cosí questa storia dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno all’altro perde tutto – una casa confortevole, le amiche piú care, l’affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che credeva i suoi genitori. Per «l’Arminuta» (la ritornata), come la chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul tavolo.
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