Nell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del romanzo “Lascia stare il la maggiore che lo ha già usato Beethoven” di Alessandro Sesto (Gorilla Sapiens, 2015).
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Recensione di Claudio Morandini
Nell’allegro (ma non troppo) romanzo di Alessandro Sesto c’è molta musica, anzi forse c’è proprio tutta la musica, nonostante i brevi e gustosi capitoletti si soffermino per lo più sul tran tran di una scalcinata band di giovani rocker che battono balere e pub della provincia veronese e dei dintorni. Certo, domina il rock, con tutto ciò che il rock si porta dietro – l’immediatezza insofferente, la paziente routine delle prove, l’enfasi eroica, il tributo al linguaggio codificato dai grandi antecedenti, l’ambizione di rappresentare il mondo e insieme l’incomprensione del mondo, fino al sapore eroico dell’umiliazione e al senso di sconfitta. Ma, oltre al rock, nelle lunghe e scombiccherate conversazioni riportate come se fossero state trascritte parola per parola (il titolo da lì viene, da una di quelle sbrodolate sedute di autocoscienza), il linguaggio semplice del rock viene annodato a riflessioni filosofiche, in cui si scomodano umoristicamente auctoritates superciliose come Adorno, Cioran (citato già alla prima riga, giusto per essere chiari), Nietzsche, Kant e quant’altri. Il loro pensiero sulla musica sta lì (che so, ad apertura di pagina: «Nella musica, ciò che non è straziante è inutile», «La musica è il rimpianto del paradiso»), nei retropensieri dei cinque rocker disillusi ma ostinati, e un po’ consola un po’ amareggia, perché l’idea alta di musica che promana dai loro ragionamenti è inattingibile, soprattutto in un contesto di profonda provincia in cui la musica è ridotta a contorno, anzi a sfondo, a distrazione purchessia. Dal confronto umiliante e frustrante tra quei modelli alti, che siano filosofi, compositori classici o anche jazzisti o rockstar d’altri tempi, nasce quel particolare senso dell’umorismo che permea tutto il libro, che costringe al riso e contemporaneamente immalinconisce. Al tempo stesso, la contaminazione tra Nietzsche e La Bamba, tra il virtuosismo necessario a eseguire Scarlatti e le goffe tirate del tastierista sul suo strumento, tra le vicende assurde dell’opera lirica che appassiona la nonna e altre vicende ancora più assurde su cui a un certo punto si imbastisce un improbabile musical quasi subito abbandonato, tra l’alto e il basso insomma, finisce per abbassare quell’alto, per tirarlo giù dal piedistallo in un’operazione di degradazione divertente e anche catartica per chi ha penato su quei filosofi o si è sentito schiacciato da sindromi di Stendhal all’ascolto di quei grandi e sente, nei loro riguardi, un misto di amore e di odio frustrato.L’io narrante, come anche in un romanzo di ambientazione analoga ma di spirito assai diverso come Le rockstar non sono morte di Valerio Piperata (e/o, 2014), è il batterista, ruolo determinante, compattante, talvolta la vera mente pensante del gruppo, che però si colloca sempre a sudare nelle retrovie, dietro a piatti e tamburi, lontano dai riflettori: forte di questa condizione filosoficamente favorevole, di questa posizione defilata, e per ciò privilegiata, può dunque osservare l’agitarsi degli altri, ascoltare e soppesare lo svolgersi dei fatti.
La tragicomica routine della band non si sviluppa in un romanzo vero e proprio, non sceglie la strada consueta del plot: preferisce la successione di capitoli quasi tutti di breve estensione, a sottolineare la staticità della situazione, la mancanza di prospettive, lo schiacciamento della provincia indifferente, anche il permanere di certe ossessioni frustranti dei personaggi. Sono capitoli-canzoni, hanno quella durata lì, e tornano, proprio come canzoni, sui temi-base cari al gruppo e a chi fa vita di musicista, giocando su cento possibili variazioni.
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