Diamo nuova linfa alla rubrica di Letteratitudine intitolata “Ritorno ai classici“, pubblicando uno stralcio dall’introduzione di Anna Bravo a Carlo Cassola, Un cuore arido (Oscar Mondadori, Milano 2015).
Inoltre, in occasione del 50° anniversario della nascita della collana “Oscar Mondadori“, pubblichiamo questa intervista a Elisabetta Risari (Responsabile Editoriale Classici Mondadori) che ringraziamo.
* * *
LE DONNE DI CASSOLA (stralcio dall’introduzione di Anna Bravo a Carlo Cassola, Un cuore arido, Oscar Mondadori, Milano 2015)
Fra i narratori italiani Cassola spicca per la frequenza con cui elegge a protagonista una donna, per l’ascolto che dedica alle figure femminili e per la sua visione del rapporto fra i sessi: “coesistenza” necessaria ma non per questo armoniosa, che contiene in sé il germe del conflitto, e di un conflitto a armi dispari. La Anna di Un cuore arido mostra uno dei modi possibili di affrontare questo squilibrio.
Ciononostante nel 1974 un testo di riferimento del femminismo italiano colloca Cassola fra I padri della fallocultura,[1] responsabili di aver descritto una femminilità subalterna, equivoca, debole e insieme pericolosa, e di aver imprigionato le donne nella dicotomia cultura/natura, dove al maschile spettano l’attività e il pensiero razionale, al femminile la passività e la ripetizione.
L’accusa riflette l’atmosfera di quei primi anni Settanta. Sull’onda del femminismo, sempre più donne avevano preso atto che i discorsi in circolazione non rendevano loro giustizia su niente o quasi e, dopo aver rotto il vecchio vincolo di fedeltà al mondo degli uomini, si applicavano a smontarne ideologie e stereotipi – nella quotidianità, in politica, nella cultura. A cominciare dalla pretesa maschile di rappresentare il soggetto unico e universale. La consapevolezza che i soggetti sono due, uomo e donna, e che il primo non può parlare per il secondo, era un “arrivano i nostri” della libertà così seducente da rendere simpatici ancora oggi certi eccessi di cipiglio e la perentorietà di alcune generalizzazioni.
Ma quel giudizio resta ingeneroso. Alle due autrici Cassola aveva risposto che le sue protagoniste erano donne degli anni Trenta e Quaranta. Donne, dunque, soffocate dal greve virilismo fascista innestato su una cultura patriarcale e su una religiosità bigotta. Donne intimorite dalla sessualità maschile, angosciate dal dilemma fra respingerla (e perdere il fidanzato) o compiacerla (e magari perderlo ugualmente, insieme alla rispettabilità). E se durante la guerra i ruoli maschili e femminili erano spesso cambiati, con il ritorno alla normalità si erano in buona parte ristabiliti. Come si poteva pretendere che le donne di allora fossero «campioni di razionalità e di modernità»?[2]
È una giusta affermazione di principio, ma fa torto al Cassola narratore, che in virtù dell’adesione alle sue donne riesce a vedere molto al di là dell’associazione femminilità-natura, o del paradigma dell’oppressione, secondo cui la storia è una catena di sopraffazioni maschili e di sofferenze femminili senza scampo. Le sue ragazze e spose sanno negoziare il proprio assenso alle norme, manipolare i rapporti, farsi valere, trasgredire cercando di non pagarne il prezzo. Possono vincere o perdere, resta il fatto che sono soggetti che cercano di decidere la propria vita, che a volte si fanno complici del maschile, che creano le proprie reti di relazione e esercitano facoltà e veti – avere un potere limitato non equivale a non averne affatto. Negli scenari cari all’autore, scenari del quotidiano, del privato, delle cose all’apparenza piccole e tenute ai margini, l’impronta femminile è visibilissima. Ne escono narrazioni punteggiate di scarti e ambivalenze – ciascuna donna i suoi scarti, ciascuna le sue ambivalenze.
La Anna di Paura e tristezza ha poco in comune con la Anna di Un cuore arido, che la precede di quasi dieci anni. È una bimba poi ragazza contadina, costretta a spostarsi dalla campagna alla città. Bellissima, luminosa, vivace, si misura fra ansie e speranze con il nuovo ambiente, cerca di decifrarne le regole per capire cosa si sente di accettare e cosa no. Nella campagna e nella polverosa dimora nobiliare in cui è a servizio sembra non succedere niente, ma nel suo cuore scorre molta vita presente e passata. La tenerezza provata da bambina nel rapporto con un ragazzino sfollato; la gratitudine verso la madre che ha trovato il coraggio di averla pur in assenza di un marito; la scoperta di abitudini sconosciute; l’innamoramento. Il prescelto è un alabastraio che la affascina e la turba, ma che di lì a poco parte per il servizio militare. E la forza di lei si disfa. Quando un contadino del paese, un vecchio corteggiatore cui si è data per inerzia, la mette incinta, sente di aver perso ogni valore, e finisce per rassegnarsi a un matrimonio di riparazione. Tradendo se stessa e uscendone sfigurata – corpo appesantito, bocca vuota di denti, capelli radi nascosti sotto un fazzoletto, la salute perduta per le gravidanze e il lavoro ininterrotto.
Un’altra Anna, quella di Fausto e Anna (1952 e 1958), è diversa da tutte e due le sue omonime. Nel romanzo, l’amore fra un velleitario ragazzo della borghesia e una ragazza del piccolissimo ceto medio si logora nell’indecisione di lui, che vorrebbe essere aspettato indefinitamente; al contrario Anna va avanti con la sua vita, si sposa, ha una bambina, e a Fausto riserva sì un posto nel suo cuore, ma un posto residuale, quasi un omaggio a un passato che, pur restando amabile nel ricordo, non deve interferire con il presente.
Fa storia a sé la figura femminile più nota di Cassola, Mara, “la ragazza di Bube” del romanzo omonimo, che vince nel 1960 il premio Strega e ispira il film omonimo di Comencini, dove a impersonare Mara è la meravigliosa e già popolarissima Claudia Cardinale. La ragazza di Bube è uno dei primi romanzi italiani cui si addica il termine bestseller, Cassola è ormai famoso, e sarà di lì a poco tradotto in molte lingue, invitato in giro per il mondo.
L’intreccio ruota intorno alla quasi ragazzina Mara, al ragazzo ex partigiano Bube e al loro amore fatto a pezzi dalla temperie politica e rimesso insieme da lei. Mentre in Un cuore arido, in Paura e tristezza e in gran parte della narrativa di Cassola la grande storia è un fondale lontano, qui incombe e devasta. Responsabile nell’immediato dopoguerra dell’omicidio di un maresciallo ex partigiano e di suo figlio, Bube viene processato e condannato a quattordici anni di carcere, e Mara, pur amando ormai un altro, deciderà che il suo destino è rimanere con lui.
Un momento clou è il monologo interiore della protagonista durante l’attesa della sentenza. Finora lei non ha risparmiato a Bube qualche rimprovero, come quando lo ha accusato di aver preso a botte un prete ex fascista («in cinquanta» contro «un vecchio»);[3] e non ha capito perché abbia sparato al figlio del maresciallo dopo averlo inseguito fin dentro la casa dove si era rifugiato. Ma ai suoi occhi il fidanzato è sempre rimasto un combattente per la libertà.
Ora, mentre trema all’idea di quel che il verdetto potrebbe sancire, Mara vede in lui un ragazzo senza padre, senza nessuno capace o disposto a guidarlo, incalzato dai compaesani perché faccia vendetta al posto loro colpendo un ex fascista (o un nemico personale). Vede un “poveretto”, un fuscello nel vento, cui non gioverà l’arringa tutta politica del suo avvocato, che sollecita per lui l’attenuante di aver agito in nome di particolari valori morali. Per lei, un’unica cosa si dovrebbe chiedere ai giudici: «Soltanto questo. “Un po’ di pietà […] non […] altro che un po’ di pietà”».[4]
In quel “soltanto” c’è in realtà molto, c’è la preghiera di lasciar cadere lo spirito della guerra civile, la richiesta di un unilaterale disarmo ideologico della società, che sembra prefigurare il Cassola pacifista degli anni Settanta e Ottanta, instancabile promotore di campagne per il disarmo unilaterale dell’Italia. Che a formulare quell’appello alla tregua sia Mara suggerisce un filo di continuità fra l’immagine femminile in Cassola e il suo approdo al pacifismo – all’epoca (e oggi?) dominava lo stereotipo che associa la politica e la guerra agli uomini, la pietas e la pace alle donne,[5] e Cassola sembra condividerlo. Ma anche questa volta la narrazione vince sulla teoria. Perché Mara non si limita a incarnare il desiderio di pace: fa di più, rilegge la storia dal suo punto di vista, chiamando in causa la bellicosità prolungata al dopo liberazione, l’opportunismo di alcuni politici, l’indifferenza di certi partigiani sperimentati. Cosa hanno insegnato i vecchi ai ragazzi? E il partito, che per Bube era sinonimo di verità e giustizia? Dopo la condanna, lui arriverà a condividere lo sguardo dolorosamente stupito di Mara, a chiedersi perché nessuno gli abbia detto che era male picchiare il prete, che era male uccidere il figlio del maresciallo; perché nessuno abbia fermato gli incitamenti dei paesani alla vendetta, nessuno gli abbia spiegato che rifiutarsi a quel ruolo non comportava fare la figura del vigliacco.[6] Se Mara decide di restare la ragazza di Bube, è perché ha capito quanto sia profonda la sua disillusione, quanto grande la sua solitudine.
Semplificando brutalmente le scelte delle due più note e commentate figure cassoliane, Mara e la Anna di Un cuore arido, si potrebbe dire che la prima incarna il “si deve” – sacrificarsi in nome della pietas; la seconda il “si può” – provare a essere libere.
Cassola si disamorerà presto del personaggio di Mara. Eppure la compassione è un valore fondante della sua etica, che lo apparenta al mondo della nonviolenza, da cui nei primi anni Sessanta è teoricamente separato ma emotivamente vicino. Ne La ragazza di Bube, l’appello alla pietas prende però la forma del messaggio, del manifesto calato dall’alto e dall’esterno sulla spinta dell’ideologia: è la finalità narrativa da cui Cassola più rifugge, e che in Mara forse gli ha preso la mano.
Per questi aspetti, Anna è invece una anti-Mara. Non ha messaggi da trasmettere; a differenza di lei non chiede nulla, non pensa di cambiare gli altri – ha già cambiato se stessa. Non guarda alla storia neppure per dichiararsene estranea, tantomeno è interessata a fornirne una contronarrazione. Ma in un articolo di fine anni Settanta su pace e guerra, Cassola fa intravedere un punto di incontro: mentre agli uomini, scrive, la vita sembra interessare solo a certe condizioni, alle donne è cara nel suo puro e nudo manifestarsi, senza che ci sia bisogno di conferirle valori aggiuntivi.[7] E viene in mente Mara, che accoglie la vita spossessata di Bube, viene in mente Anna, che ama la propria vita sommessa – come è sommesso, quasi elusivo, il tono del Cassola fenomenologo, cultore delle cose piccole che al mondo parlano con voce sottile.
Il che non vuol dire ovviamente assenza di significati, vuol dire che in Un cuore arido bisogna cercarli, usando lo spazio per l’immaginazione che la stringata secchezza del testo lascia a chi legge. Perché Cassola non teorizza, non spiega – come potrebbe?, lui così rispettoso del mistero che avvolge il vivere; racconta, mostra: modalità comunicativa tanto efficace quanto discreta.
Beninteso, Cassola non svaluta affatto l’impegno politico e sociale, non disconosce il valore fondativo della Resistenza. Ma non accetta che i contenuti siano dettati dalla politica, e che dettino a loro volta il giudizio su un’opera. Rifiuta, in sostanza, il primato dell’ideologia sulla letteratura.
(Riproduzione riservata)
© Mondadori editore – Oscar Mondadori
* * *
[1] L. Caruso e B. Tomasi, I padri della fallocultura, SugarCo, Milano 1974.
[2] Così osservava Cassola in un’intervista riportata in Carlo Cassola: letteratura e disarmo. Intervista e testi, a cura di D. Tarizzo, Mondadori, Milano 1978, p. 66 (citata nella Cronologia del Meridiano Cassola Racconti e romanzi, cit., p. CXXI).
[3] C. Cassola, La ragazza di Bube, «Oscar» Mondadori, Milano 2010, p. 69.
[4] Ibidem, p. 199.
[5] Un libro ormai classico che analizza criticamente l’associazione meccanica fra donne e pace è quello di Jean Bethke Elshtain, Women and War, 1987 (trad. it. Donne e guerra, Il Mulino, Bologna 1991).
[6] Cfr. le pp. 206-207 di C. Cassola, La ragazza di Bube, cit.
[7] C. Cassola, La donna, forse, è ancora l’ultima speranza, in «Amica», 15 novembre 1978.
* * *
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo