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LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI, di Massimo Mila
Manni, 2015
a cura di Claudio Morandini
Massimo Mila (1910-1988) è stato, oltre che un musicologo importantissimo, uno scrittore valente. Il gusto della scrittura letteraria, mescolata in bell’equilibrio con la terminologia propria della disciplina, si sente nelle opere più celebri, nei vari saggi dedicati a Mozart come nelle pagine dedicate all’amico Bruno Maderna (Maderna musicista europeo, Einaudi 1999). Anche nella Breve storia della musica, consultato ancor oggi e periodicamente ristampato, capolavoro concentrato di sintesi di epoche e scuole, Mila riesce a evitare le trappole della sintesi e del sommario e inserisce momenti di puro gusto letterario, lo stesso sparso generosamente in L’arte di Béla Bartók (prima pubblicato da Einaudi, ristampato nel 2013 nella BUR) o in Compagno Strawinsky (Einaudi 1983, BUR 2012).
Potremmo continuare a citare titoli per un pezzo, perché Mila è lontano da ogni specializzazione, ha coltivato interessi che hanno attraversato ogni epoca della storia musicale, con un occhio di riguardo nei confronti della contemporaneità: con Nono, Berio, Maderna era in fitta corrispondenza e di loro sapeva intravedere inaspettate prolessi nelle opere di musicisti dei secoli passati, come se tutta la musica fosse un fitto dialogare di uomini e di opere.
Il gusto di Mila per la scrittura, al di là dell’oggettività puntigliosa della terminologia musicologica, si avverte forte anche nell’ultimo libro a suo nome, Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi, che Manni ha da poco pubblicato nella collana Studi con la cura di Tito M. Tonietti, che di Mila è stato allievo. Si tratta di dispense scritte per un corso universitario di Storia della musica e rimaste inedite fino ad oggi. Sul compositore di Busseto Mila aveva già pubblicato altro: La giovinezza di Verdi (1974) e L’arte di Verdi (1980, entrambe ora raccolte sotto il titolo Verdi sempre dalla BUR) si soffermavano con pienezza di analisi sulla produzione matura e sulle opere maggiori, ed erano opere compiute, pensate per le stampe, lavorate fin nelle virgole – e, come dire, diplomaticamente levigate nei giudizi più severi proprio per l’ampia destinazione editoriale. Diverso (e proprio per questo interessantissimo) è il caso del libro edito da Manni: dal momento che i destinatari erano gli studenti del corso accademico del 1963-4 e non i frequentatori del teatro d’opera, Mila è stato assai poco cauto ai limiti della ferocia nelle osservazioni critiche. In più, non ha portato a termine il lavoro sui dettagli formali, lasciando qualche ripetizione, qualche tournure faticosa, qua e là anche qualche incongruenza (Tonietti ne propone, con discrezione, delle correzioni), perché lo scopo di questi scritti era pratico e immediato. Eppure, anche in questo testo che per forza di cose non ha ricevuto l’ultima revisione dell’autore, si apprezzano quelle formule stilistiche con cui Mila ha impreziosito i suoi saggi maggiori, quell’apparato di metafore e similitudini con cui ha reso comprensibili alla semplice lettura le opere musicali – con cui ha espresso, in questo caso, l’idea di “bruttezza” di quegli “anni di galera” (tra il 1843 e il 1849) secondo lo stesso Verdi, fitti di frettolosi melodrammi scritti di malavoglia per onorare alla meno peggio gli impegni e perciò discontinui nella qualità, troppo ossequiosi nei confronti delle comode convenzioni dell’opera lirica, poco attenti a tradurre in musica con audacia di soluzioni i moti dell’animo.
Mila, da posizioni debitrici a Croce, applica al vocabolario operistico verdiano i criteri di una “critica stilistica” che si focalizzi sulla “qualificazione drammatica della melodia”, vale a dire sull’espressione dei valori drammatici più congeniali al compositore, lontani da ogni scorciatoia retorica (Tonietti lo mette in luce nella Postfazione). Nelle opere degli “anni di galera” Verdi non ha saputo (non ha potuto, in parte non ha voluto) esprimere compiutamente in musica questi valori, o lo ha fatto solo a tratti, a momenti, talvolta, si direbbe, quasi per caso.
Mila, dicevamo, denuncia senza reticenze il cattivo gusto di certi momenti e le deleterie soluzioni musicali: a proposito di un “Duettino melodiosamente melenso” nell’atto terzo de La battaglia di Legnano, Mila scrive: “Scena letteralmente disgustosa, per il vacuo edonismo melodioso e il celestiale fremito di arpa che l’accompagna”. E dei Demoni nella Giovanna d’Arco si legge che “cantano vittoria sopra un sommario e brutale arpeggio, una specie di «Allarmi, siam fascisti!», scandito a tutta forza”. Nella medesima opera, “Giovanna risponde con un’atroce Cabaletta… su un accompagnamento dozzinale di tonica e dominante”. Diverse melodie (Cavatine, Cabalette, i bersagli preferiti di Mila) sono definite “perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica”, “innegabilmente dozzinale”, “sciocca e fatua” oppure “tronfia e pomposa”, sempre “gaglioffa”, “pigra”, “francamente brutta”, “stiracchiata troppo a lungo”, “cincischiata”, “d’una lacrimevole banalità”, quando va bene “stentorea”.
“Un’altra categoria del brutto verdiano” (la prima è appunto quella della melodia oziosa e della sciatteria brutale dell’accompagnamento) sta secondo Mila nel suo opposto, in certe ricercatezze fini a se stesse, non calibrate sulle esigenze drammatiche, nel “gusto dell’ornato e del ribobolo”, nello sfoggio di una sapienza strumentale in realtà ancora da dimostrare. E anche in questo caso gli esempi non mancherebbero.
Più sottile, ma non meno tagliente, la perfidia con cui Mila giudica i numerosi momenti di puro ossequio alle convenzioni del teatro d’opera. A proposito di un pezzo de La battaglia di Legnano: “La Cavatina, d’espressione tenera ed affettuosa, è convenzionalmente canora, e non si può riconoscerle altro pregio che quello della brevità”. Oppure: “Risveglio, segnato da banale frase ascendente dell’orchestra”. Anche quando si arrende alle convenzioni del linguaggio musicale nel descrivere aspetti della natura Verdi attira le critiche di Mila: ne Il Corsaro: “Si annuncia una vela: il movimento di agitazione orchestrale che sottostà alle esclamazioni del coro inizia dapprima, in maniera piuttosto fastidiosa, con banali scalette di cinque note che sembrano esercizi pianistici per principianti”.
C’è un intento polemico, nel corso accademico e in questo libro, dichiarato più volte, e indirizzato contro gli esaltatori di tutto il Verdi, anche quello più corrivo e facile, che in quegli anni tornavano a farsi sentire dopo decenni di critiche severe su tutto Verdi da parte di detrattori (Mila li chiama “nemici” altrettanto snob). Mila prende di mira i primi, soprattutto, ma non manca di prendere le distanze dai secondi. Tutto Verdi va studiato, scrive il musicologo, ma non ha senso pensare di studiare dei capolavori, o di presentare le opere più acerbe e frettolose come recuperi di capolavori. La renaissance verdiana è proseguita nei decenni, e perdura ancor oggi, facilitata dai mezzi di riproduzione, ben attestata nei cataloghi (non solo quelli di repêchages, anche quelli delle etichette maggiori) e nei cartelloni delle stagioni liriche. Chissà che ne avrebbe pensato Mila, che all’epoca di questo saggio analizzava la musica di Verdi, in mancanza di altri supporti, basandosi per lo più sulle riduzioni per canto e pianoforte oltre che su sporadiche esecuzioni (le sue ipotesi sull’orchestrazione sono quasi sempre azzeccate, a dimostrare l’acutezza della sua analisi).
Mila, assai severo con il Verdi più scadente e arrendevole, sa però mettere in luce i dettagli di pregio, le soluzioni inaspettatamente riuscite, le zampate da leone, o meglio i prodromi di quello che in età matura, con piena consapevolezza di mezzi e con minori vincoli contrattuali addosso, Verdi avrebbe realizzato compiutamente. Ed è abilissimo, Mila, a dissezionare arie, scene, recitativi e momenti strumentali, alla ricerca della gemma di valore, spesso incastonata tra parti tirate via, progressioni armoniche banali, cliché operistici – delle “autentiche intuizioni drammatiche” perse tra “obbrobriose banalità”. Spartito alla mano, scava nella musica, distilla i momenti più nobili e anche quelli “adeguati” che nella mediocrità di tante scene fanno la figura di gemme anch’essi: perché è vero che il saggio è dedicato al Verdi “brutto”, ma è anche vero che si possono rintracciare, anche nelle opere più stanche e corrive, momenti che anticipano la potente originalità della produzione successiva (non solo verdiana: più volte è citato Mussorgsky, una volta addirittura Luigi Nono), e che rischiano, a una lettura o a un ascolto disattenti, di rimanere soffocati, di essere rovinati da quello che segue o da quel che precede. Mila parla proprio di “contabilità, data la presenza e la giustapposizione di parti riuscite e di parti malamente tirate via”: e aggiunge amaramente che in arte le seconde nuocciono alle prime assai più di quanto le prime possano giovare alle seconde.
Come si diceva, Massimo Mila non ha intenti polemici nei riguardi di Verdi, bensì dei verdiani a tutti i costi: e sa riconoscere al musicista i suoi meriti anche nella produzione meno felice; sa anche distribuire le colpe, che non sono del solo compositore, ma anche di impresari, librettisti svogliati o inadeguati, pubblico desideroso di sensazioni a buon mercato, cantanti schiavi di vanità da primedonne – tutte figure a cui Verdi di lì a qualche anno saprà imporsi.
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