In quel genere di attitudine del tutto personale rappresentato dalla lettura è raro che io mi sbilanci, ma una volta tanto mi sentirei di prescrivere la lettura di un libro: si intitola “Le sacrestie di Cosa Nostra”, di Vincenzo Ceruso, editore Newton Compton.
E’ un libro di quelli che mettono in fila i fatti uno dietro l’altro, in modo che parlino da soli. I ragionamenti, quelli, vengono di conseguenza, e sono lasciati all’intelligenza del lettore.
Io, per dire, sono uscito dalla lettura rafforzato nell’idea che la chiesa sarà pure “santa”, “cattolica” e “apostolica”, ma di sicuro non è “una”. Nel senso che assume di volta in volta un atteggiamento differente a seconda dei contesti. Solo all’apparenza padre Pino Puglisi e don Agostino Coppola sono in contraddizione fra loro. Al contrario: rappresentano due volti fra i cento diversi che la chiesa è capace di rappresentare. Ognuno di essi copre un segmento di mercato, in modo che a ogni interpretazione della fede, anche la più perversa, corrisponda una rispettiva chiesa. C’è il prete mafioso e il prete antimafioso, così come c’è il prete pedofilo e il prete antipedofilia.
Se i mafiosi non trovano contraddittorio uccidere e pregare, anche la chiesa cattolica non trova contraddittorio assumere un aspetto proteiforme, in modo da trarre il massimo profitto in ogni circostanza.
Ferma restando la buona fede di individui come padre Puglisi, quello della chiesa, in Sicilia come altrove, è un puro gioco delle parti.
Roberto Alajmo
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Le sacrestie di Cosa Nostra
di Vincenzo Ceruso
Newton & Compton, 2007, euro 9,90, pagg. 270
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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio Palermo è una cipolla.
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Aggiornamento del 4 ottobre 2007
L’ufficio stampa della Newton & Compton, di comune accordo con l’autore del libro, mi invia il prologo. Ringrazio e pubblico qui di seguito. (Massimo Maugeri)
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Prologo
Non fai più parte di questo mondo.
Il capomafia Leoluca Bagarella
rivolto a un nuovo affiliato a Cosa nostra
La sagrestia è una terra di mezzo. Non sei in chiesa ma neppure al di fuori di essa. È uno spazio in cui sacro e profano si mescolano. Vi si trovano gli arredi sacri e i paramenti liturgici.
Il prete lo usa per cambiarsi prima delle funzioni. Ma è anche un posto dove ci si può fermare a parlare tranquillamente, senza il timore reverenziale che si prova nel luogo deputato al culto. La gente entra, chiede informazioni, parla con il sacerdote, talvolta si confessa. Questo libro è un reportage sulle sagrestie di Cosa nostra: «Un poco come un viaggio senza precedenti, un viaggio da inviato speciale non già sulla mafia, ma “dentro la mafia” […]. Un lungo, fantastico viaggio, dentro un mondo anche per me sconosciuto: una esplorazione, una scoperta. Un viaggio dentro la mafia e “sotto il mondo”…» (Felice Chilanti, in «L’Ora», 15 settembre 1963).
Parlare di “sagrestie di Cosa nostra” ha un duplice significato: in un senso puramente geografico, si riferisce a quante si trovano in territori dove il controllo della mafia è profondamente radicato e tendenzialmente assoluto; poi vi sono le sagrestie per le quali i padrini hanno una particolare predilezione.
Sono quelle che i padrini sentono come cosa propria, dove celebrano le loro festività, si sposano, battezzano i figli, in cui si muovono a proprio agio, dove la loro presenza non è imposta per via autoritaria, ma in cui sono bene accolti; non come peccatori in cerca di redenzione, ma proprio per quello che sono: personaggi di rispetto, mafiosi riconosciuti e, in quanto tali, ossequiati. Ovviamente, le due cose non sempre coincidono. Le sagrestie di Palermo racchiudono molti dei segreti dell’Onorata società. Il viaggio ci condurrà in chiese molto diverse tra loro. Dalla chiesa di Maria SS. delle Grazie, nel cuore della terribile “mafia dei giardini”, alla chiesa di San Giuseppe, nel pieno centro storico del capoluogo siciliano, così amata dall’infelice Vincenza Marchese, sposa del sanguinario Leoluca Bagarella; dallo splendido duomo normanno di Monreale alle chiese del SS. Crocifisso e di Maria SS. del Carmelo, nelle borgate di Coceverde-Giardina e Ciaculli, per decenni occupate quasi militarmente dalla spietata famiglia dei Greco; senza dimenticare la chiesa, anzi le chiese, del mite e forte don Giuseppe Puglisi, ucciso dai sicari mafiosi il 15 settembre del 1993. Non solo San Gaetano, nel famigerato quartiere palermitano di Brancaccio, la cui liberazione il coraggioso prete pagò con il martirio; Puglisi maturò la sua resistenza alla mafia nei primi anni di sacerdozio, trascorsi anche in condizioni difficili, in diverse chiese della diocesi di Palermo, lasciando ovunque segni tangibili della sua presenza amica. Il suo ultimo incarico come parroco, in un territorio ad alta densità mafiosa, fu il tragico epilogo di una vita spesa per il Vangelo e contro tutto ciò che Cosa nostra rappresenta in Sicilia. Ma quale interesse possono avere i rappresentanti di un’organizzazione criminale che movimenta decine di miliardi di euro dappertutto, si occupa di traffici internazionali di stupefacenti, decide la vita e la morte di migliaia di affiliati, a inserirsi nella vita di una parrocchia o, comunque, a intromettersi nelle vicende religiose dei suoi membri?
A titolo esemplificativo, si può rispondere a questo interrogativo raccontando una storia. Ciccio Pastoia era il braccio destro dello “zio Binnu”, cioè Bernardo Provenzano, l’ultimo capo dei capi di Cosa nostra (“zio” è un titolo onorifico abbastanza diffuso in Sicilia), arrestato nell’aprile del 2006. Grazie a questa fiducia don Ciccio, originario di un piccolo paese dell’entroterra siciliano, chiamato Belmonte Mezzagno, si era ritrovato a comandare in mezza Sicilia e a decidere su ogni genere di affari, dalle poche centinaia di euro per il pizzo di un negozio fino ai miliardi di euro per il futuro ponte sullo Stretto.
Ciccio Pastoia prendeva ordini solo dal capo e a lui solo riferiva. Ma aveva commesso un errore. Si era fidato troppo della sua autonomia e aveva ordinato un omicidio senza informarne Provenzano. Quando venne arrestato i giornali pubblicarono alcune intercettazioni telefoniche, in cui Pastoia metteva a punto il piano per il delitto e diceva chiaramente ai suoi complici che a Provenzano era meglio non dire niente. Decise di non attendere la punizione e di suicidarsi in carcere. Ma ciò non venne ritenuto sufficiente. Ha ricevuto la condanna fin nella tomba. All’indomani del funerale il loculo venne interamente distrutto; per ammonire e intimidire i vivi, certamente, ma anche per esprimere un giudizio sulla sorte ultraterrena del traditore. L’ambizione del sodalizio mafioso sembra essere quella di non fermarsi neppure di fronte alla morte, ma anche a questa apporre il proprio sigillo.
Quale altra organizzazione di malviventi si preoccupa del destino trascendente dei propri membri?
È un compito, questo, in genere riservato alle religioni. I terroristi legati al mondo dell’estremismo islamico, che abbiamo imparato a conoscere sotto la sigla di Al Qaeda, la rete criminale di Osama Bin Laden, ci hanno in effetti abituato all’immagine di uomini e donne che commettono azioni orribili, sgozzano, sequestrano, si fanno saltare in aria, massacrano vittime innocenti e sono disposti a farsi uccidere senza dubitare che, in cambio di ciò, riceveranno una ricompensa ultraterrena. Tutto questo ci disgusta ma, in un certo senso, ormai non ci stupisce più. Abbiamo familiarizzato con l’idea. È possibile che i mafiosi pensino ai loro crimini come azioni legittimate da una finalità religiosa?
Per rispondere a questa domanda dovremmo riuscire a pensare come pensa un appartenente a Cosa nostra. E non è facile.
Possiamo aiutarci con il lavoro di storici, psicologi e sociologi, ma ancora più utile potrebbe risultare lo studio di uno specialista molto particolare. Si chiama Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “capitano Ultimo”. È l’uomo che ha catturato, dopo ventisei anni, Totò Riina, detto “’u curtu”, uno dei più feroci capimafia mai esistiti. Nel suo libro, un manuale di tecniche investigative destinato alla Scuola di perfezionamento di polizia, il militare espone il problema di come prepararsi a un conflitto asimmetrico, tra lo Stato e un nemico inferiore per forza e quantità, che però trova proprio nella sua presunta debolezza il vantaggio di cui servirsi sul terreno:
Il nemico invisibile, non strutturato, non convenzionale è la minaccia che stabilisce la nuova dottrina di lotta: non più muro contro muro, non più vuoto contro pieno, ma piccolo contro grande, leggero contro pesante, semplice contro complesso, poco contro tutto […]. È immediata l’intuizione dell’importanza fondamentale che nei conflitti moderni assume la funzione dell’esplorazione nascosta by stealth e la tecnica che la spalma sul terreno. Vince chi ha la superiorità informativa sull’avversario, non chi ha maggiore capacità di fuoco (Ultimo, La lotta anticrimine.
Intelligence e azione, Roma, Laurus Robuffo, 2006, pp. 48, 49).
Se c’è una cosa che la storia della mafia (e dell’antimafia) dovrebbe insegnare, è che Cosa nostra ha saputo costruire una «superiorità informativa sull’avversario», cioè sullo Stato.
Per dirla in altri termini, i mafiosi sanno chi siamo noi ma noi non sappiamo chi sono i mafiosi. Cioè, non sappiamo come pensano, come si muovono, cosa sta loro a cuore. De Caprio spiega che per lottare sul terreno dei mafiosi occorre imparare a «interiorizzare l’avversario per prevederlo».
Un analista del fenomeno criminale – la cui conoscenza non è finalizzata all’azione repressiva – potrebbe parafrasare questa formula così suggestiva: interiorizzare l’avversario per studiarlo.
In qualche misura, dovremmo fare come il protagonista di un celebre film, Donnie Darko. Il personaggio principale è un poliziotto che si infiltra nelle fila della mafia americana. Lo fa così bene che arriva a identificarsi con gli esponenti di quel mondo criminale, fino a creare un sincero legame d’amicizia con il piccolo mafioso che lo ha introdotto nella “famiglia”, impersonato da Robert De Niro. Tutta la sua vita ne esce sconvolta.
In una scena litiga con la moglie, che lo accusa di comportarsi come i criminali che dovrebbe arrestare, di essere come loro. Lui le risponde urlando: «Io sono uno di loro!».
Ovviamente, a nessuna persona normale verrebbe in mente di procurarsi una pistola, trafficare in droga e iniziare a chiedere il pizzo ai negozi sotto casa, per riuscire a carpire qualcuno dei segreti dell’universo mafioso. E infatti non è necessario arrivare a tanto. Secondo il popolare protagonista dei
romanzi di Sir Arthur Conan Doyle, il celebre Sherlock Holmes: «È difficile che una persona usi ogni giorno un oggetto senza lasciarvi impressa qualche traccia della sua personalità, che un osservatore esperto non può non decifrare». La mafia usa fin dalla sua nascita tradizioni e simboli della religione cattolica. Tracce del passaggio dell’organizzazione segreta Cosa nostra si possono rintracciare nelle sagrestie, negli archivi delle confraternite, nei santuari, nel silenzio dei cimiteri, nei chiostri dei conventi, nei percorsi delle processioni.
Un buon punto di partenza sono le “santine”, le immagini religiose, che vengono utilizzate per la “punciuta”, la rituale affiliazione degli adepti:
Sono entrato a far parte della famiglia nel 1974: io e Umina Salvatore. Ci portarono in campagna, da mio padre […]. Poi hanno preso una candela accesa, hanno disinfettato un ago facendolo bruciare al fuoco e ci hanno punto il dito. Pigghiaru a santa, ci dettiru fuocu e nna’ misiru nna’ manu, poi ci fecero giurare: io giuro di essere fedele alla famiglia, se io dovessi tradire le mie carni saranno bruciate come brucia questa santina. Queste sono le modalità per potere entrare nella famiglia. Poi c’è stata la baciata (trascrizione di un interrogatorio in «Giornale di Sicilia», 16 maggio 1987).
È la descrizione della cerimonia di affiliazione dalla viva voce di un ex mafioso, un certo Vincenzo Marsala, diventato collaboratore di giustizia negli anni Ottanta del secolo scorso.
È un racconto fresco ed essenziale, dove il contaminarsi di dialetto siciliano, italiano scolastico e parlato rende, anche linguisticamente, la mescolanza di arcaico e di moderno di cui è impastata la mafia. Se Cosa nostra è abituata a descrivere se stessa come manifestazione della società tradizionale, indubbiamente in questa elaborazione ideologica ha un ruolo da definire l’adesione dell’uomo d’onore al cattolicesimo:
Per incoronare un capo non si sceglieva mai un giorno a caso. Per esempio a Riesi, tra le miniere di zolfo e il vino nero come inchiostro della contrada Judeca, un boss ha presentato pubblicamente il suo delfino nel giorno più importante di quella comunità: la festa della Madonna della Catena. E così fu anche nel 1963, quando Francesco Di Cristina si affacciò dal balcone della casa più grande e bella di Riesi e baciò suo figlio Giuseppe. Sotto quel balcone dodici uomini portavano a spalla la statua di gesso della Madonna. Non c’è mafia senza chiesa. Non ci sono mafiosi senza fede. In tempi antichi e in tempi moderni. Si possono scannare cristiani come capretti, si possono sciogliere bambini nell’acido, si possono strangolare uomini e poi gettare i loro corpi in fondo al mare e poi… pregare (Attilio Bolzoni, in «la Repubblica», 9 giugno 1997).
Cosa intende l’affiliato a Cosa nostra con religiosità? Che ruolo ha questa religiosità nella cosiddetta cultura mafiosa? È esistita (o esiste) un’ideologia, o meglio, un sistema di valori condiviso, che ha fatto da cerniera tra mafia e parte del clero siciliano?
Possiamo rispondere a queste domande solo se partiamo da un presupposto: per un membro di Cosa nostra la mafia stessa esaurisce la sfera della religiosità. È una delle intuizioni di Giovanni Falcone: «Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi ad una religione».
Nulla viene prima e nulla viene dopo di essa. Nell’Ottocento lo avevano già capito. Scriveva un delegato di polizia in un suo studio, nel 1886:
Si è parlato lungamente di riti di iniziazione. Si racconta in tono leggendario che dopo il 1866 girava per vari comuni una specie di missionari, i quali andavano facendo proseliti per una causa che, camuffata a religiosa e politica, sotto le finte cioè di far trionfare la religione ed abbattere il governo usurpatore e scomunicato, metteva capo realmente al delitto. Furono da costoro introdotti riti tra il mistico e il settario, che con brevi varianti si resero poi comuni alle varie associazioni di malfattori […]. I soci avevano segni di riconoscimento e ben presto il tenebroso sodalizio si sparse in vari comuni. Vuolsi che all’atto del giuramento l’iniziato dovesse anche tirare un colpo di pistola ad un crocifisso colà appeso, quasi per dimostrare che dopo aver sparato al Signore non avrebbe esitato ad uccidere qualunque persona, anche a lui cara (Giuseppe Alongi, La maffia, 1886, p. 102).
Sono storie e metodi che riguardano un mondo arcaico e ormai scomparso, sostituito dalle strategie di una moderna holding criminale-finanziaria, che opera in borsa e non si preoccupa più di crocifissi e giuramenti?
Forse. O forse no. L’onorevole Lo Giudice, un deputato regionale siciliano di una certa importanza, recentemente arrestato, intercettato al telefono durante un’indagine, parlava dell’organizzazione mafiosa con un suo amico: «Conosco i parrini, anche se non faccio parte della Chiesa».
I “parrini”, i preti in siciliano, sono i mafiosi; la Chiesa di cui si parla qui è la mafia siciliana, Cosa nostra. Con questa colorita espressione, il politico intendeva sottolineare la sua vicinanza, la sua intimità, con il mondo degli uomini d’onore, nonostante il fatto di non essere formalmente affiliato all’associazione. In maniera non molto diversa, un capomafia si rivolgeva qualche anno fa a un nuovo aderente dicendogli: «Non fai più parte di questo mondo»; per fargli intendere quale vita lo attendeva, quasi assimilandolo a un convertito a una nuova religione, più che a uno spietato sicario. Sappiamo inoltre che per riferirsi alla famiglia mafiosa di San Filippo Neri, un quartiere della periferia nord di Palermo, meglio conosciuto come ZEN, i seguaci della cosca usano un’espressione: la Chiesa.
No, non si tratta di procedimenti superati, come cercheremo di dimostrare. La gran parte della documentazione che useremo è basata sugli scritti degli esponenti ecclesiastici, sulle dichiarazioni di chi ha combattuto la mafia, sulle rivelazioni dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, sulle comunicazioni e sulle lettere degli uomini d’onore. Una fonte primaria sono le interviste rivolte a religiosi che operano, con la funzione di parroco, in alcuni quartieri palermitani considerati ad alta densità mafiosa: Brancaccio, Ciaculli e Settecannoli.
Un grande reporter, recentemente scomparso, ha scritto: «Esistono tre tipi di fonti, la principale delle quali è la gente. La seconda sono i documenti, i libri e gli articoli. La terza è il mondo che ci circonda e in cui siamo immersi: colori, temperature, atmosfere, climi, i cosiddetti elementi imponderabili e difficili da definire, e che tuttavia costituiscono un elemento importante del nostro lavoro» (Ryszard Kapuscinski, Autoritratto di un reporter, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 64).
È una fonte primaria anche l’esperienza e la testimonianza personale di chi scrive, e che in quel territorio vive e risiede.
Questo non è necessariamente un vantaggio, poiché la vicinanza con l’oggetto del mio studio ha richiesto uno sforzo ulteriore di lucidità durante l’analisi; dall’altro lato vi è il vantaggio di poter osservare, in determinati momenti, quella che è la vita quotidiana di Cosa nostra, sapendo leggere connessioni e significati di un mondo in cui si assiste, senza tregua, all’alternarsi di grigiore borghese e di follia omicida. Le fonti orali che ho utilizzato sono indispensabili quando si indaga su una realtà quale quella mafiosa, connotata da segretezza e da mancanza, il più delle volte, di fonti scritte. Il lavoro
di un ricercatore sulle tracce di Cosa nostra non è talvolta dissimile da quello di un normale investigatore, che deve sapere infiltrarsi, leggere le connessioni, lavorare con frammenti per ricostruire l’insieme completo: «Ricondotti ad un unitario sistema di coerenze interpretative, i vari elementi
“indiziari” acquistano un convincente valore probatorio» (G. C. Marino, L’opposizione mafiosa, 1996).
Nel caso dei rapporti tra chiesa e mafia, non mancano gli indizi per ipotizzare una strategia di Cosa nostra volta a infiltrarsi all’interno del tessuto ecclesiale. Per un mafioso non solo mafia e religione si conciliano perfettamente ma, si può dire, il problema in genere non si pone neppure. Un collaboratore di giustizia, in un’intervista a Rita Mattei, così spiega come poteva conciliare mafia e religione: «Io e mia moglie siamo religiosi. Mi hanno insegnato che la mafia è nata per amministrare la giustizia. Quindi, nessuna contraddizione. Anzi, sa che ora, davanti a Cristo, mi sento un traditore? Quando ero un assassino andavo in chiesa con animo tranquillo. Ora che sono un pentito no, non prego serenamente» (T. Principato – A. Dino, Mafia donna, 1997, p. 131).
E i sacerdoti cosa ne pensano? La Chiesa non è un monolite.
Le sue relazioni con la mafia non possono essere comprese sotto facili slogan. Da un lato vi è il religioso carmelitano Mario Frittitta, che ha ammesso di aver officiato i sacramenti e celebrato messa nel covo del padrino Pietro Aglieri; dall’altro vi è don Puglisi. Tra questi due poli vi è un ampio arco di posizioni che questa ricerca ha cercato di rappresentare, seppure parzialmente, nel modo più fedele possibile. La storia della Chiesa di Palermo è necessariamente diversa dopo l’assassinio di padre Pino Puglisi in una misura che forse ancora non cogliamo pienamente, ma la sua stessa figura per essere compresa appieno, va inquadrata nella storia del cristianesimo del Novecento. E poi vi sono le strategie che la mafia mette in atto nei confronti del clero, per cercare di strumentalizzarlo e indirizzarlo, là dove questo può essere utile ai suoi scopi. Gran parte del libro si preoccupa di indagare intorno ai metodi utilizzati da Cosa nostra per riuscirvi.
Una lettura che non vuole dimenticare un filo rosso di resistenza cattolica alla mafia, lungo tutto il Novecento, che va da don Giorgio Gennaro, ucciso dai Greco di Ciaculli nel 1916, a don Giuseppe Puglisi, e passa attraverso l’esperienza di una rivista come «Segno», nata a Palermo, quella del Centro studi Pedro Arrupe, creato dai gesuiti nel capoluogo siciliano, o di sacerdoti come il salesiano Baldassare Meli e il gesuita padre Antonio Damiani, nei quartieri palermitani dell’Albergheria e del Capo. Ciò che ci interessa non sono tanto le colpe degli uomini o delle istituzioni, ma le conseguenze delle loro decisioni. E precisamente le conseguenze, sul piano religioso ed ecclesiale, di una egemonia mafiosa in Sicilia che si è consolidata nell’arco di almeno due secoli.
Un libro molto particolare quello che presenta qui il “nostro” Roberto Alajmo. Un libro che, forse (dico “forse” perché non l’ho ancora letto), presenta delle verità scomode.
Una recensione che, vi confesso, ha messo un po’ in crisi la mia “coscienza cattolica”.
Se devo proprio “dirla tutta” (cito il titolo della rubrica di Roberto) ho pensato (ma ve lo sussurro a un orecchio, non riferitelo a nessuno, eh?): ma non poteva inviarmi un’altra “cosa” il buon Roby?
Ma sapete bene che sono a favore dei dibattiti (anche accesi, purché civili e rispettosi di persone e opinioni). Ecco. Credo che questo libro, e la recensione di Roberto, si prestino benissimo per un confronto che, spero, possa essere costruttivo.
Del resto, l’aspetto “religioso” e paradossale degli uomini di mafia – e le incongruenze di una “certa chiesa” – non mi pare siano una novità.
Siete invitati a partecipare!
Dimenticavo di dirvi che Roberto Alajmo potrà intervenire e rispondere a vostre eventuali domande a partire da domattina.
P.s. Qualcuno di voi ha già letto questo libro?
buona segnalazione, la tua, maurizio.
alajmo è bravo a dire (riflettere) quanto basta.
Lo sto leggendo in questi giorni. E’ una specie di libro inchiesta. Su ibs c’è scritto questo.
Sicari in crisi mistica e teologi con la lupara in mano, ecclesiastici infedeli e assassini devoti, sacerdoti come padre Puglisi, che muoiono su ordine di Cosa Nostra, per non aver tradito quello stesso vangelo. Questo libro racconta la storia del “tenebroso sodalizio” dei mafiosi con preti e religiosi. Un’inchiesta sulla mafia “sub specie ecclesiae”: attraverso i palazzi arcivescovili e le chiese di campagna, tra una festa popolare e la processione di un santo patrono, lungo le chiese della desolata periferia di Palermo e le navate del duomo normanno di Monreale. Cosa Nostra è una confraternita criminale con le sue tradizioni e i suoi segreti. Per il mafioso, battesimi, cresime, matrimoni e ogni altro genere di sacramenti non fanno parte di un cammino di fede ma entrano in un sistema di alleanze e di giochi di potere interni alla consorteria. Le vie delle sagrestie, allora, si intrecciano con quelle dell’eroina e la religione diventa uno strumento funzionale alla morte e al predominio criminale.
Scusate ero io: Vabbé che uso un nickname……
@ Remo Bassini:
Ciao Remo, come ti va?
Immagino che per Maurizio intendessi Massimo.
È una vita che mi sento chiamato Maurizio anziché Massimo. Immagino sia il cognome (MAUgeri) che richiami alla mente Maurizio.
Comunque grazie 🙂
E grazie anche da parte di Roberto.
Sotto l’aspetto dottrinario, la Chiesa Cattolica Romana e’ una; sotto il profilo dell’umanita’ che ne prende parte e’ molteplice. Normale e naturale come in ogni altra Fede monoteistica basata su Testi rivelati. Facciamo bene a ”svestirne” le umane ambiguita’, ma che cio’ non presti il fianco a degli attacchi generalizzati e feroci: non si spara mai ”nel mucchio”, urge distinguere, capire e sentire. E secondo me anche aver Fede.
Sergio Sozi
Un po’ stringatina la recensione. Mi piacerebbe saperne di più. Non è il solito attacco alla chiesa, vero? Perché se no non ci vedo nulla di nuovo. Un libro alla moda, direi.
Bravo Sergio, ben detto!
P.S.
Con la Fede si supera e si abbatte la malafede.
Sergio
A Rosa:
si’: direi proprio un libro alla moda, anche se magari potrebbe rivelarsi utile per farci ricordare qual e’ la retta via. Tutti noi abbisognamo di moniti per non deviarne: anche da parte laica. Critica costruttiva? Spero di si’, se no e’ proprio solo moda postmoderna.
Sergio
scusate, perché dite che è un libro alla moda?
perche’ dal 1968 la Chiesa e’ sotto accusa e di libri nella fattispecie ne esce uno a settimana.
Sozi
Facciamo questo esempio.
Esistono 1000 (è un esempio paradossale) case editrici underground di cui 700 sono oneste e 300 sfruttano i propri autori, le così dette case editrici a pagamento.
Ora un autore non puà accusare tutte le case editrice piccole solo perchè una si è comportata male con lui.
Ora translate questo esempio con i sacerdoti.
Ne esistono 900 che contrastano attivamente la mafia e 100 che la appoggiano.
Per quei cento non si può condannare la chiesa, le pecore nere esistono ovunque in tutti i mestieri.
Detto questo è giusto fare libri inchiesta come questo perchè chi sbaglia deve pagare.
Caro Francesco,
il concetto e’ giusto, solo… l’esempio purtroppo e’ sbagliato.
Con simpatia e affetto
Sergio
P.S.
Adesso mi sto aspettando l’inizio delle bordate, dei siluri e delle stoccate contro il sottoscritto: cosa aspettano ad arrivare? Strano.
nessuna bordata sergio. segno che qui ti vogliono bene.
il libro però mi sembra interessante.
Certo, Luisa, certo: qui ci vogliamo tutti bene, ma cio’ non toglie che la si pensi in molte differenti maniere, soprattutto su tematiche incandescenti come questa della Chiesa. Normale scontrarsi su posizioni diverse. L’importante e’ il rispetto. Io rispetto queste critiche alla Chiesa, solo che non le condivido qualora divengano una scusa per attaccare la mia religione – anche se io mi considero un catto-pagano, a dirla tutta. Pero’ la Chiesa ha le idee chiare sul suo mandato temporale, e’ la gente che le ha confuse. Dobbiamo tutti conoscere piu’ a fondo i concetti dei quali e’ composta la Chiesa attuale. Studiamo e poi critichiamo… senza salvare le pecore nere che si mescolano al branco dei moralmente sani, naturalmente.
Sergio
Perchè dici che l’esempio è sbagliato?
Io sono cattolica, ma sono molto contenta dell’uscita di un libro come questo. Il motivo è semplice: vorrei una Chiesa più pulita.
Mi piacerebbe che non ci fossero preti pedofili, o mafiosi, o usurari. Lo so che sono una minoranza, ma proprio per questo è bene che se ne parli, perché questa minoranza lercia venga estirpata.
Ben vengano libri, inchieste e servizi che mettono in cattiva luce le cose negative. In tal modo, secondo me, aumenta la possibilità che il positivo prevalga.
E’ ora che la si finisca col dire: “E’ il solito attacco alla chiesa, niente di nuovo”, “Rimango della stessa idea, tanto siete tutti uguali ad attaccare la chiesa, specialmente ora”, “Mi fodero le orecchie di prosciutto”.
Io che parte della chiesa è così l’ho sempre saputo, mi è sempre passato per osmosi. La chiesa è fatta di uomini, non necessariamente più buoni degli altri. Non è questo libro che mi rafforzerà in quello che dentro, e fin da piccolo, ho sempre saputo. Nella chiesa, così come in altri contesti, ci sono i Puglisi e i Ciotti. Da altre parti altri, come loro. Nella chiesa, come in altre parti, molti bastardi.
E non vorrei che qualcuno si affannasse a cercare di capire se sono cattolico o anticattolico o agnostico: non è minimamente afferente alla questione.
Benvengano i libri pro e contro la chiesa, pro e contro gli americani, pro e contro l’omosessualità. Purché siano scritti da gente onesta.
Pier Paolo Piccioni
A Francesco:
stavo ironizzando… sui piccoli editori, niente di piu’. Insomma scherzavo grassamente.
A Pier Paolo e alla sig.ra Di Giorgio:
concordo appieno con Loro. Solo che sarebbe ora il caso di fare anche delle proposte migliorative, oltre che andare a mettere il dito nella piaga; questa sarebbe una bella novita’: qualcuno che indicasse COME risolvere i problemi, non che semplicemente dicesse ”esiste tal problema”… che questo ormai lo sanno tutti.
Sozi
Sono d’accordo, Sergio Sozi. Il punto è che i libri/inchiesta servono proprio a mettere il dito nella piaga. Questo è il loro compito. Ad altri quello di indicare soluzioni o formulare proposte.
Bene. Ma, poiche’ qui di autori che svelano i lati nefandi degli italiani ce ne sono migliaia e nessuno che invece propone soluzioni, allora diciamo che mi sono stufato, ovvero che ho raggiunto la saturazione rispetto a questo dilagante atteggiamento polemico distruttivo. Perche’ io definisco troppo comoda la condizione del giornalista-scrittore d’inchiesta, se per chi incolpa e moraleggia su carta non c’e’ anche il contraltare del proporre soluzioni. Eh no! Ci vuole poco a dar la Croce addosso agli altri: chi e’ veramente bravo, mi dia anche le soluzioni, insieme agli scandali! Vediamo se e’ altrettanto bravo (con rispetto parlando del caso che trattiamo in particolare, naturalmente: non mi sto riferendo personalmente a Ceruso e/o Alajmo).
Sozi
Sergio, se un prete è mafioso deve andare in galera come gli altri. Questo è il modo più ovvio ed elementare per risolvere il problema. Ed è compito delle istituzioni. Su questo sarai d’accordo con me, immagino.
Poi sta alla Chiesa sforzarsi di fare pulizia al suo interno e trovare le soluzioni. Lo deve a se stessa e a noi, suoi fedeli.
Certo che sono d’accordo, Erika. Questo pero’ e’ ovvio e pure sancito dalle Leggi da anni annorum: un cittadino-prete e’ un cittadino, per il giudice; allora, a che serve stare a a fare tanto mercato delle nefandezze? Chi ha qualcosa da dire vada in Questura e lo dica a chi di dovere. Punto. Ma facendo cosi’ non ci si guadagna sopra, anzi si rischia qualcosa senza neanche esser confortati dai pubblici encomi.
Io, se sapessi qualcosa di un prete corrotto o quant’altro, mica ci scriverei un libro sopra: andrei in caserma.
Sozi
Dimenticavo: andrei in una caserma perche’ l’editore non e’ un carabiniere ma un imprenditore.
Sergio
Come immaginavo questo è il classico argomento che divide.
Vi ringrazio molto per i vostri civilissimi commenti e vi auguro una buonanotte.
Naturalmente il dibattito rimane aperto.
Dimenticavo di ribadire che domani Roberto Alajmo dovrebbe intervenire rispondendo alle vostre sollecitazioni.
Sarebbe interessante se al dibattito potesse partecipare anche l’autore del libro.
Come sempre equilibrato Sozi.
La questione è secolare e accompagna da sempre la storia della Chiesa. Ci saranno SEMPRE grano e zizzania insieme, ricordiamolo, finché il grano sarà abbastanza maturo per essere mietuto e la zizzania pronta per bruciare nel forno. Gesù però ci mette in guardia perché – leggiamo il Vangelo, anzi tutta la Bibbia e potremmo scoprire che è il più grande bestseller di tutti i tempi e che ha un super-Autore che tra l’altro ha creato tutti gli altri! – ci dice che siamo mandati come agnelli in mezzo ai lupi e dobbiamo farci furbi come i serpenti pur restando candidi come le colombe. Bravi allora coloro che ci aiutano ad aprire gli occhi. Ricordiamo però che la giustizia spetta a Qualcuno più in alto di noi e che dobbiamo stare tranquilli: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una mola da asino e lo buttassero in mare”.
Cara Maria Lucia Riccioli,
io mi sento piccolo e credente. E soprattutto un piccolo-credente, ma fermo come uno stagno nel mio modesto credere. E credo anche che le tue parole siano vere. Vere come Gesu’. E credo (anzi: penso) inoltre che i lupi travestiti da agnelli debbano finire – qui, in Italia, sulla terra, secolarmente – in gattabuia. Poi con Dio, ognuno se la vedra’ da solo: ognuno di noi in ragione e proporzione di quanto di malvagio ha fatto in vita. Due sono le giustizie: una, terrena, fallace ma non sempre, e l’altra, sempre esatta, divina. Poiche’ quella divina funziona sempre, noi dobbiamo corroborare l’altra per far si’ che divenga meno difettosa possibile. Facciamolo denunciando i criminali. Tutti.
Sozi
Difficile credere che un fenomeno sociale come la mafia non possa avere ricadute ed effetti su un paradigma sociale come la chiesa.
certo sarebbe auspicabile che fosse la chiesa ad influenzare la mafia e non viceversa.
certo quando penso che i figli di toto` riina erano tutti regolarmente battezzati……….
Auguro buona giornata a tutti voi. Potrò leggere i vostri successivi commenti solo in tarda serata.
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@ Roberto Alajmo:
Roberto, ne approfitto per chiederti un parere sulla questione sollevata nel post precedente: “Lavoratori di oggi: “Risorse umane o riserve umane”?. Ti scrivo il link (se ti va di scrivere due parole ti sarei grato se potessi farlo lì):
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/01/lavoratori-di-oggi-%e2%80%9crisorse-umane%e2%80%9d-o-%e2%80%9criserve-umane%e2%80%9d/
Buongiorno a tutti.
Un saluto a Roberto Alajmo. Era da un po’ che non spuntavi da queste parti 🙂
Ora vado di fretta, ma più tardi torno.
Smile
cari amici, viva il dibattito! Grazie per i commenti al mio libro, anche se molti tra voi non lo hanno letto. Come scrive Massimo Maugeri, questo è il classico argomento che divide. Vorrei però tranquillizzare quanti pensano che sia il solito attacco alla Chiesa. Chi lo ha scritto è un credente che ama la Chiesa di padre Diana, di don Puglisi e di don lorenzo Milani e che vuole aiutarla a liberarsi da quanti commettono il male nel suo nome (non solo mafiosi…). La denuncia, ma direi soprattutto l’inchiesta è quella che prevale nel libro, ma se vi è una parte costruttiva è nell’esempio di Padre Pino Puglisi, un prete ucciso dalla mafia nel 93. Penso che padre Pino abbia dato a tutti, credenti o meno, una testimonianza alta di come si resiste al male con la sola forza della parola e della cultura. Grazie e a presto. Vincenzo Ceruso
A Vincenzo Ceruso.
La ringrazio per il suo intervento ad effetto tranquillizzante. Mi scuso un po’ per i miei commenti precedenti. Sa, non avendo letto il libro pensavo che potesse essere uno di quei soliti libri contro la Chiesa o con effetto denigratorio. Ce ne sono tanti in giro, molti pubblicati dopo l’effetto del Codice da Vinci di Dan Brown.
Ho capito che il detto ‘il ferro si batte quando è caldo’ vale anche per il mercato dei libri.
Il fatto che lei si presenti come un “credente che ama la Chiesa di padre Diana, di don Puglisi e di don lorenzo Milani e che vuole aiutarla a liberarsi da quanti commettono il male nel suo nome” mi fa molto piacere e mi dispone favorevolmente nei confronti del suo libro. Può dirci qualcosa in più su questo suo lavoro?
In effetti, la mia non era proprio una recensione; era una riflessione.
Presupponeva che qualcuno potesse prendersela con me, non certo con il libro, e senza averlo letto per giunta.
Quanto alla chiesa vittima di complotti post-sessantotteschi, mi rifiuto di commentare.
Scusi Roberto Alajmo, perché si è inalberato? Nessuno se l’è presa con il libro di Ceruso, né tantomeno con lei. Si faceva un discorso in generale, mi pare. Del resto, non avendo letto il libro, almeno per quanto mi riguarda, non c’è la possibilità di entrare nel particolare.
E poi non mi pare di aver letto opinioni a senso unico. Lo stesso Sozi, il più “ostico”, ha precisato quanto segue (con rispetto parlando del caso che trattiamo in particolare, naturalmente: non mi sto riferendo personalmente a Ceruso e/o Alajmo).
Io, ero una “piccola” mangia- preti, oggi, continuo a pensare che Dio non esista, ma credo fermamente che senza il pensiero di Dio all’uomo resti poco! Pochissimo, o molto: una vita infernale e disperante (senza speranza). Da ex atea quasi militante, guardo con gran diffidenza a quei credenti, che, appunto, credono in pochi preti. Non sono credenti, sono solo mitomani. In questi anni ho letto e studiato molto il pensiero di don Milani: nessuno è stato vittima, come lui, di manipolazione ideologica. Se rileggiamo, CON SINCERITA’, i suoi pensieri e li confrontiamo con la massificazione stereotipata con cui, una certa politica, ce li ha presentati; non possiamo provare che un senso di confusione o smarrimento. A scuola, il pensiero di don Milani è stato completamente stravolto: quel prete non sopporterebbe, nemmeno per un istante le sciocchezze, che in suo nome, hanno fatto tendenza. Don Milani era austero, sgradevole, persino maschilista, eccentrico e anche iracondo, un cattolico aspro. Pur tuttavia la scuola di Barbiana, le riflessioni che da quell’esperienza sono scaturite restano un fondamentale pedagogico per tutti. Don Milani era un agguerrito anticomunista, anti totalitario e il suo impegno nacque proprio per contrastare l’azione sociale dei dopolavoro associativi, presenti nell’immediato dopoguerra, in Toscana e in Emilia. Difendeva i poveri dall’ignoranza; li ammoniva dai facili traguardi, indicava strade difficili da percorrere con fatica ed impegno… Era un artista e, infatti, la sua opera, nella sua originalità, ancora si espande interagendo di là da ogni banale strumentalizzazione.
Non ho letto il libro, posso solo dire, che per la copertina avrei scelto un’altra immagine.
alla signora Fazzi
Il mio libro nasce da una ricerca svolta nei quarieri di Brancaccio e di Ciaculli che, per chi non li conoscesse, sono due borgate di Palermo ad altissima densità mafiosa, in cui Cosa nostra è radicata fin dalla sua nascita, cioè da quasi due secoli. Sono stato agevolato in questo dal vivere in questo territorio e dal fatto di vedere da vicino la vita quotidiana della mafia. Le interviste ai parroci di questi quartieri, che nel libro sono poste alla fine, sono quindi all’inizio del mio lavoro. Per dire come il mio interesse primario sia stato quello di capire prima di giudicare. Certo, non mancano i giudizi nel libro, e le prese di posizione, ma credo non siano mai pregiudiziali. Lo scopo principale del lavoro è quello di vedere concretamente i modi con cui la mafia si è storicamente infiltrata nel tessuto ecclesiale. Su questo si è detto e si è scritto molto. Io, senza essere uno storico di professione, provo a farlo documenti alla mano, ma anche con la passione di chi non rinuncia a sperare nella sconfitta di Cosa nostra.
Grazie a lei per la sua gentilezza e a quanti avranno la pazienza di leggere il libro. Vincenzo ceruso
A Massimo.
Perché non inserisci una porzione di testo come hai fatto altre volte quando si è parlato di libri? Un assaggino, così possiamo renderci conto meglio.
Smile
alla signora Ravasio.
Forse mi sono spiegato male. Io non credo “in alcuni preti”. Credo che la chiesa in cui io mi riconosco non sia quella in cui si riconosce, per fare un esempio, il capomafia bernardo provenzano e sia più vicina a quella di padre Puglisi e di altri come lui o come don Milani. Nulla più. Grazie
La ringrazio molto Vincenzo 🙂
A me la copertina pare efficace! Nel senso che… rende l’idea.
Smile
Le parole di Vincenzo Ceruso mi confermano l’impressione positiva che avevo avuto di questo libro. Il male va sempre (sempre) stigmatizzato. È bene conoscerlo, il male, prima di combatterlo. Chi ha il coraggio di stanarlo va sempre lodato.
Leggerò il libro con piacere.
Ringrazio Vincenzo Ceruso per essere intervenuto e l’ufficio stampa della Newton & Compton per avermi inviato il prologo del libro autorizzandomi a pubblicarlo.
Penso che dalla lettura del prologo si possa capire meglio il senso e la validità dell’inchiesta di Ceruso. A me pare un lavoro importante e coraggioso. Peraltro, si torna a parlare di mafia dopo un periodo di “strano” silenzio ed evidenziando aspetti che non erano ancora stati analizzati con la dovuta profondità.
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Vi invito a tornare a dibattere dopo la lettura del prologo.
Seconda e definitiva precisazione:
1) Non mi rivolgevo personalmente al sig. Alajmo;
2) Non ho parlato di ”complotti sessantotteschi” contro la Chiesa;
3) Ribadisco la seguente scelta personale: se io sapessi qualcosa di incriminabile e comprovato riguardo a chicchessia commetta appunto crimini (preti, comunisti, nichilisti, liberali ecc. compresi) andrei a denunciarli dove, appunto, si denunciano i criminali, ovvero in questura o in caserma. Questo e’ il modo che personalmente ritengo il migliore e il piu’ efficace per combattere il crimine. Poi ognuno lavori come vuole: ogni editore e’ un imprenditore che contrattualizza gli autori che vuole lui e ogni autore e’ un lavoratore che sceglie di lavorare per l’editore che meglio si confa’ alle sue esigenze contrattuali. Punto.
Con Cordialita’ e rinnovato rispetto verso tutti
Sergio Sozi
Leggendo il prologo le impressioni positive sono ulteriormente confermate.
Scusa Sergio Sozi, non avevo letto il tuo commento.
Quello che scrivi mi sorprende alquanto. Che significa, che il giornalismo d’inchiesta non dovrebbe avere più ragion d’essere?
Saviano non doveva scrivere Gomorra ma piuttosto andare a denunciare ai giudici?
Stella non doveva scrivere La Casta ma piuttosto andare a denunciare ai giudici?
Potrei farti altri mille esempi.
Ma hai mai pensato che chi scrive di certe cose si prende rischi ben più grossi di chi, in silenzio e anonimamente, va a denunciare?
Non so gli altri cosa ne pensano. Non me ne volere, ma io rimango un po’ allibita.
P.S.
Ringrazio personalmente il sig. Ceruso per essere intervenuto con rigore, serieta’ ed equilibratezza nel dibattito. I suoi intenti sono encomiabili quanto le sue precisazioni doverose e frutto di reale impegno ed onesta’ profonda. Spero pero’ che ora si vedano gli effetti evidentemente auspicati da tutti, autore, editore e lettori: qualche delinquente finisca in galera e si dia un ulteriore colpo alla mafia e similari. Insomma attendo l’effetto dell’inchiesta-denuncia.
Sozi
Ecco, quest’ultimo commento mi pare più ben calibrato.
Pace e bene 🙂
La mia, cara Erika, e’ una constatazione: se tutto resta come era prima – e cosi’ e’ in realta’ – significa che tanto scrivere e parlare di delinquenza non serve a nulla. Salvando la liberta’ di denunciare coi libri la criminalita’, insomma: a cosa serve?
Forse il singolo cittadino che si impegni quotidianamente e prenda il coraggio di denunciare alla polizia i delinquenti sarebbe piu’ efficace di mille libri scritti su questi argomenti.
La vedo cosi’.
Ciao
Sergio Sozi
P.S.
Attenzione:
Stella parla di cose ingiuste ma legali, dunque il suo libro e’ utile;
chi parla di delinquenza, si riferisce a leggi giuste gia’ esistenti, quindi secondo me sarebbe meglio che denunciasse chi vi contravvenga.
Sergio
Ultimo commento alla cara Erika:
sei sicura che l’anonimo cittadino palermitano che vada a denunciare ”anonimamente” sia piu’ coperto di un Saviano? Al cittadino comune, nessuno da’ la scorta armata.
Sergio
Dunque mi confermi che, a tuo avviso, il giornalismo d’inchiesta è inutile.
Saviano ha sbagliato? E tutti quelli che hanno scritto di mafia in questi anni?
E chi ha scritto contro la classe politica che ruba?
Guarda, mi fai un po’ innervosire e un po’ sorridere al tempo stesso 🙂
Vorrei conoscere le opinioni degli altri.
P.S. Lo hai letto La Casta? Stella fa anche denuncie ben precise su certi illeciti “non puniti” o “non punibili”
Mi permetto di intervenire nel merito come “addetto ai lavori” ma senza esprimere opinioni sul lavoro altrui. Avverto spesso, però, una sorta di confusione tra giornalismo di denuncia e giornalismo di inchiesta. Quello di denuncia è esclusivamente l’allarme di un fenomeno. Quello di inchiesta è (o almeno dovrebbe essere) estremamente dettagliato e può, automaticamente, diventare di denuncia. Faccio un esempio minimale. Se un cronista gira la città intera a contare le luci pubbliche che di notte sono spente e quelle che rimangono accese di giorno senza alcuna utilità e fa un elenco dettagliato di strade e orari, potrebbe dimostrare senza esplicita “denuncia” che le aziende che si occupano di illuminazione sprecano palate di euro che i cittadini pagano. Spero di essere stato utile.
Precisazione ottima ed Utile, grazie Enrico. Solo che il nocciolo del problema resta lo stesso: bisogna far si’ che le luci inutili vengano spente di giorno e accese di notte quelle spente. Se l’azienda fa orecchie di mercante, a cosa serve scriverne? Meglio fare un reclamo ufficiale o un esposto ouna denuncia. Cosi’ le cose devono esser vagliate da un organo separato ed indipendente.
A me fa arrabbiare il fatto che in Italia si chiacchieri tanto di tutto ma le cose restino li’ come ai tempi del feudalesimo. Questo si’: mi fa ridere.
Sozi
P.S.
Solo se i delinquenti finiscono in galera e le cose cambiano, il giornalismo di questo tipo e’ utile.
Sergio Sozi ha ragione….parzialmente. Potrei fare un elenco di casi (grandi, medi e piccoli) risolti da inchieste giornalistiche. E’ anche vero che a volte le cose restano immutate, come nel Gattopardo, perché chi di dovere non prende provvedimenti. Ma esiste anche un altro aspetto da non sottovalutare. I giornali sono pieni di denunce, segnalazioni, soffiate e quant’altro delle quali gli autori non rilasciano manco un pezzo di carta, uno straccio di pezza d’appoggio. “Lei deve scrivere che in quell’azienda pubblica si ruba”, dicono. Ma si guardano bene da offrire la benché minima prova. Perché allora la denuncia non la fanno alla Procura della Repubblica? Le castagne dal fuoco le deve togliere il giornalista esponendosi in prima persona? Già, perché noi garantiamo l’anonimato della fonte. Ma senza un “pezzo di carta”, possiamo beccarci una querela….e di questo potremmo dire chissenefrega….ma più che altro, che cacchio di servizio diamo al pubblico? Il resoconto di una delazione anonima? Ne saresti contento?
A Enrico Gregori.
Accetto la lezione di giornalismo solo perché so che sei il capo della cronaca nera del Messaggero 🙂
Ancora a Sergio Sozi.
1) A proposito di giornalismo di denuncia o d’inchiesta e sulla sua efficacia. Un esempio classico e noto: mai sentito parlare di scandalo Watergate?
2) Il cittadino non denuncia o perché se ne frega, o perché ha paura, o perché non ha le prove, o per più motivi in varie combinazioni. A maggior ragione ben vengano i libri di denuncia/inchiesta ecc. Almeno certe cose vengono dette e si scuote l’opinione pubblica (che a qualcosa serve sempre).
3) Scrivere sulla mafia, sulla camorra, e sulla ‘ndrangheta non serve a nulla: mandate in galera i criminali.
Scrivere di una classe politica corrotta è truffaldina non serva a nulla: votate politici onesti.
Scrivere sulla Birmania non serve a nulla: mandate a casa i cattivi e… potere al popolo.
Scrivere della fame del sud del mondo non serve a nulla: date loro il pane.
– Ma maestà, il pane è finito.
– E allora? Date loro le brioches!
Un libro per ricordare Don Puglisi
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dalla Redazione di Vita.it (redazione@vita.it)
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04/09/2007
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Il 15 settembre ricorre l’anniversario della morte di Don Puglisi
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Il 15 settembre 2007 Don Puglisi avrebbe compiuto 70 anni. Nello stesso giorno ricorre l’anniversario del suo assassinio per mano della mafia. Il sacerdote venne infatti assassinato il 15 settembre del 1993, nel quartiere palermitano Brancaccio.
Un libro indagine ne ricorda la figura esemplare e coraggiosa e al contempo racconta la storia del “tenebroso sodalizio” dei mafiosi con preti e religiosi. “Ma un prete, a Brancaccio, non era mai stato nemico della mafia”.
LA SAGRESTIE DI COSA NOSTRA, di VINCENZO CERUSO (Newton Compton Editori, in libreria il 13 settembre) affronta un tema scottante mai reso pubblico, un libro ricco di documenti, testimonianze e interviste che fanno luce sui legami solidi e segreti tra mafia e organizzazioni religiose.
Cosa Nostra è una confraternita criminale con le sue tradizioni e i suoi segreti. Per il mafioso, battesimi, cresime, matrimoni e ogni altro genere di sacramenti non fanno parte di un cammino di fede ma entrano in un sistema di alleanze e di giochi di potere interni alla consorteria. Le vie delle sagrestie, allora, si intrecciano con quelle dell’eroina e la religione diventa uno strumento funzionale alla morte e al predominio criminale.
Il giudice Giovanni Falcone diceva che «entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi ad una religione» e per questo introdursi nelle Sacrestie di Cosa Nostra equivale a conoscere i dogmi e i riti di questa setta violenta e spietata. Per conoscere la mafia dall’interno. E per affrettarne la sconfitta.
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Vincenzo Ceruso è nato a Palermo, dove vive e lavora. Laureato in filosofia, già ricercatore presso il Centro Studi Pedro Arrupe, è militante nel mondo del volontariato cittadino. Da diciassette anni lavora con minori a rischio di devianza in alcuni dei quartieri più difficili di Palermo. Analista della criminalità mafiosa, si è occupato negli ultimi anni di tematiche riguardanti le connessioni tra mafia e religione. Collabora con le riviste «Segno», «Narcomafie », «Aggiornamenti sociali» e «Popoli».
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Fonte: http://www.vita.it
http://www.vita.it/articolo/index.php3?STAMPA=S&NEWSID=84151
Erika,
non mi sono spiegato a sufficienza (anche se persone competenti nel campo come Enrico Gregori mi danno parzialmente ragione); dunque volevo sottintendere quanto segue:
Le inchieste senza conseguenze non servono a niente: se la mentalita’ resta la stessa (il cittadino resta impaurito e taciturno) e le Autorita’ non si muovono sollecitate dal libro-inchiesta, il libro-inchiesta resta un libro. Niente piu’ che un (ottimo, come in questo caso di Ceruso) libro. Un libro fra tanti che auspica cose che non giungono. Allora meglio la Procura direttamente, sempre auspicandosi che di Ceruso ce ne siano tanti altri.
Sozi
P.S.
A Cicerone e a tutti:
E ora tolgo il disturbo e lascio esprimere gli altri, che ho troppo invaso un campo non mio – senza volerlo. Quindi taccio – sperando di non aver offeso involontariamente nessuno, eventualmente chiedo scusa a chi si sia sentito offeso da qualche mia opinione.
Sozi
Scusatemi l’ultimissimo pensierino:
io vorrei una societa’ di giusti, non una societa’ disonesta con quattro eroi morti ammazzati. E per fare questo servono in primis delle buone famiglie, scuole ed istituzioni. Il resto serve a poco, anche se e’ democratico che ci sia.
Buonanotte
Sergio
Ciao, sono Giulia, una ragazza di 14 anni. Volevo chiedere al signor Ceruso se dopo aver scritto questo libro ha un po’ paura.
Suppongo che Erika parlasse di “lezione” in senso bonario. Il mestiere mi consente delle osservazioni di carattere “tecnico”, ma non posso e non voglio (ci mancherebbe) condizionare le coscienze. Perché ognuno ha la propria. Caro Sergio, sei un idealista. Tradotto: una persona per bene. Le tue aspirazioni sono condivisibili ma tendono alla realizzazione di un mondo perfetto. Giornalisti (tutti) che affrontano i problemi. Cittadini (tutti) che detestano lillegalità. Investigatori (tutti) che riescono ad arrestatre i cattivi. Pubblici ministeri (tutti) che fanno reggere le accuse contro i cattivi. Giudici (tutti) che condannano e mandano davvero in carcere i cattivi.
Ecco, per far funzionare alla perfezione questo sistema perfetto di un mondo perfetto ci vorrebbe Dio in terra.
Ovvio che l’alternativa non può essere il nichilismo. Ma a volte mi sorprendo a pensare che questo paese potrebbe fare un passo avanti, magari minuscolo, quando ognuno tenterà di fare bene almeno il suo mestiere.
Io, in tanti anni, ho visto magistrati che credono di saper fare i poliziotti e viceversa. Giudici che fanno i pm e viceversa.
Giornalisti (tanto stronzi) che credono di saper fare tutto meglio di chiunque. E tanti illustri cittadini che saprebbero fare perfettamente il giornalista. Più o meno come quando ognuno di noi sa benissmo che in attacco ci deve stare Inzaghi e non Iaquinta. E se il CT fa il contrario beh, è un coglione.
Mi piacerebbe, tanto per cominciare, andare dal veterinario e sostenere questo dialogo:
“Lei sa curare la diarrea al mio gatto?”
“Sì”.
“Lei chi metterebbe al posto di Inzaghi?”.
“Non sono cazzi miei”.
“Bravo. Le affido iil mio gatto”
Caro Enrico,
e’ vero e ne sono orgoglioso: sono un idealista e un narratore, critico e poeta, e faccio il piccolo e modesto lavoro dell’insegnante e giornalista culturale; non pretendo altro e sto bene cosi’: per giunta felicemente sposato e con prole.
Ma posso sottolineare per via dell’esperienza personale che l’Italia oggi e’ un Paese eccezionale e deviante: nel resto d’Europa, i disonesti sono una minoranza e le persone normali la maggioranza. Dunque cerchiamo di tornare alla normalita’. Sollecitando la scuola, le istituzioni e le famiglie affinche’ riindirizzino la strada sbagliata di questo nostro Paese. La sollecitazione, secondo me, non passa per stampa ed editoria, ma nelle aule scolastiche, in quelle parlamentari e giudiziarie e, soprattutto, nelle cucine delle famiglie. La decadenza non e’ una peculiarita’ di tutti gli europei, ma soprattutto di noi italiani: mettiamole un freno con la Legge e l’impegno quotidiano, non con le chiacchiere.
Buona Notte
Sergio
Domanda per Roberto Alajmo e Vincenzo Ceruso:
A proposito di “religiosità fuori luogo”.
Mesi fa sulla copertina del Magazine del Corriere della Sera apparve una foto del governatore della Sicilia Totò Cuffaro con in mano una Madonnina. All’interno della rivista c’era un’intervista in cui Cuffaro sosteneva di aver affidato alla Vergine il Pil della Sicilia.
A voi che impressione ha fatto quell’intervista?
A Vincenzo Ceruso.
A suo avviso questo libro che tipo di reazione ha suscitato, o sta suscitando, all’interno degli ambienti mafiosi?
P.S. In bocca al lupo.
Smile
il libro è di certo interessante. secondo me è inutile domandarsi se i libri hanno la forza di cambiare il mondo. sicuramente, almeno i libri buoni, come sembra questo di ceruso, danno la possibilità di conoscere cose nuove e possono contribuire ad allargare menti e mentalità.
Caro Attilio, a questo proposito non posso che confermare quanto già scritto, e specificare: se a monte si decide che della fede ogni interpretazione è lecita, ogni interpretazione è lecita.
Vi segnalo, che sul numero 40 del settimanale Left Avvenimenti, in edicola da oggi, c’e´una mia intervista con Vincenzo Ceruso a proposito del suo libro (pp. 38-39). Ciao a tutti, Paolo
Ecco, caro Sergio, il tuo ultimo commento lo sottoscrivo in pieno. O, come dicono quelli che parlano bene, lo faccio mio. Si dà troppa importanza al ruolo del giornalista, manco fosse un missionario o un crociato. Io, da sempre, la vedo così. Grazie al mestiere che fa (e non certo perhé è più intelligente o più fico) il giornalista accede a luoghi e a persone che gli altri, magari, vedono solo per televisione. Il compito del giornalista a quel punto è INNANZITUTTO capire cosa sta succedendo e poi racontarlo agli altri in maniera chiara dando tante notizie utili.
Il resto è assolutamente eventuale.
Enfatizzare certe funzioni è becero e comodo.
Prova a pensare per un attimo al mondo del calcio. Una squadra va male e i giornalisti la criticano. L’allenatore dice “ecco, la stampa è contro di noi. non sono cose che fanno bene al morale dei ragazzi. tutte queste critiche ci condizionano e ci fanno giocare male”.
Improvvisamente quella squadra va bene e la stampa sottolinea l’efficacia e la bellezza del gioco. L’allenatore quindi dice “abbiamo fatto gruppo, i nostri attaccanti sono entrati in forma, e finalmente gli allenamenti vanno nella direzione del nostro ruolino di marcia”. Chiedo: doveva forse dire che se la squandra va meglio è perchè i giornalisti ne parlano bene? Ovviamente NO. Esattamente come prima, però, avrebbe dovuto dire che andavano male perchè erano dei pipponi………e forza Roma (non c’entra nulla, ma mi è venuto) 🙂
per attilio ed elektra.
L’on. Cuffaro, se non ricordo male, ha affidato l’interaa Sicilia nelle mani della Madonna, cosa in se lodevole, ma che forse sarebbe più compito di un vescovo che di un governatore. A parte questo, ho pensato che invece di fare il teo – con in salsa siciliana il presidente farebbe meglio ad affidare se stesso alla Madonna e magari dimettersi dalla carica che ricopre in attesa che le sue responsabilità penali vengaano accertate in sede processuale. Per quanto riguarda le reazioni che ha suscitato in ambito mafioso, che dire? spero di non conoscerle mai! battute a parte, è sempre difficile entrare nella testa di un mafioso, per cui quello che a noi può appaprire innocuo per loro può costituire un pericolo e viceversa. Certo, il fatto stesso che ci poniamo questi interrogativi, senza contare tutti quelli che solo scrivendo hanno subito minacce o hanno addirittura perso la vita, dovrebbe essere sufficiente a far riflettere sullo stato della democrazia nel nostro paese.
Salve a tutti e crepi il lupo.
Grazie per la risposta, Vincenzo.
Smile
Chiedo venia per la mia piccola latitanza.
Intanto ringrazio ancora una volta Vincenzo Ceruso e Roberto Alajmo per la partecipazione.
Vincenzo, sono convinto che questo libro ti darà molte soddisfazioni!
–
@ Paolo Izzo:
Ciao Paolo, quando possibile potresti “postare” tra i commenti l’intervista pubblicata su Left Avvenimenti?
Un saluto a Erika Di Giorgio e Sergio Sozi, protagonisti di un duetto surreale ben moderato da Enrico Gregori 😉
Un terzetto inedito il vostro.
Il dibattito continua!
Se avete da dire o da chiedere scrivete pure.
Invito l’ufficio stampa Newton & Compton a inserire tra i commenti le recensioni che arriveranno.
Ciao Massimo, ciao a tutti. Ovviamente l’intervista è molto più bella se letta direttamente su Left (per l’impaginazione, le foto, i sommari e tutto il resto). Tra l’altro il numero 40 di Left è un gran bel numero…
Comunque eccola qui, come richiesto:
da Left n. 40, 5 ottobre 2007, pp. 38-39
La zona grigia
Intervista a Vincenzo Ceruso
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Nel libro “Le sagrestie di Cosa nostra. Inchiesta su preti e mafiosi” lo scrittore palermitano descrive il filo rosso che lega la Chiesa all’organizzazione criminale, tra omertà e collusione
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di Paolo Izzo
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Frati con la lupara, sacerdoti che durante l’omelia sbeffeggiano i pentiti di mafia, alti prelati che negano l’esistenza di Cosa nostra o non vedono differenze tra una strage mafiosa e l’aborto. Cecità e omertà, quando non vera e propria collusione con la mafia, sembrano caratterizzare una parte del corpo ecclesiastico siciliano ancora oggi. A raccontarlo in un libro (Newton Compton, 9,70 euro) dal titolo “Le sagrestie di Cosa nostra. Inchiesta su preti e mafiosi”, non è un anticlericale sfegatato, bensì un credente cattolico, da anni studioso della criminalità mafiosa, Vincenzo Ceruso, laureato in filosofia, già ricercatore presso il Centro studi gesuita “Pedro Arrupe”, impegnato nel volontariato a Palermo.
–
– Ceruso, se un tempo si parlava della mafia come di uno Stato nello Stato, oggi lei sostiene l’inclinazione di Cosa nostra a muoversi come una Chiesa nella Chiesa. Ci spiega meglio?
“La strumentalizzazione della religione non la scopro io: fin dalle sue origini la mafia ha utilizzato simboli, linguaggio e tradizione della Chiesa per consolidarsi al suo interno e trasmettere un’immagine di sé alla popolazione. Cosa nostra usa la religione come collante con la società civile perché i mafiosi non sono degli emarginati. Medico, avvocato, uomo politico, oltre che killer o mandante, in Sicilia il mafioso è il vicino di casa. Ed è anche un cattolico, che tenta di insinuarsi nel tessuto ecclesiale, spesso con successo, a partire dalle confraternite”.
–
– Lei racconta che ce ne sono circa 230, con ben 20.000 confrati, nella sola Palermo e che nel 2005 il Comune ha stanziato 3,5 milioni di euro per feste religiose di ogni tipo.
“È dimostrato che queste associazioni, pur esprimendo una devozione popolare di tutto rispetto, in certe zone sono facilmente permeabili a infiltrazioni mafiose, così come avviene per altri strumenti ecclesiali, basti pensare agli affari che girano intorno ai cimiteri, alle Opere pie. Non è tanto per i soldi, perché quelli li fanno soprattutto con altre attività, quanto per un fatto di consenso sul territorio che diventa anche consenso politico, da barattare nel momento in cui ci sia l’interlocutore giusto. Il fatto principale è l’ansia di “rispettabilità” che muove il mafioso”.
–
– Nel suo libro c’è anche la denuncia di un percorso inverso di connivenza: da un lato Provenzano che “usa” la Bibbia, dall’altro i molti ecclesiastici che si lasciano usare dai mafiosi.
“Anche se si è molto parlato di un “codice Provenzano”, sono ancora soltanto ipotesi. Quello che si può dedurre dalla lettura dei “pizzini” è che la Bibbia viene utilizzata come una grammatica elementare per la gestione del potere; per codificare un’autorità, sia all’interno che all’esterno. Perché la mafia è anche una comunità politica e come tale ha bisogno di un alfabeto del potere. Poi, come diceva Falcone, entrare nella mafia equivale a convertirsi a una religione. Mafia e religione hanno la stessa dimensione totalizzante”.
–
– E anche un’idea simile di trascendenza. Penso alla storia di Ciccio Pastoia, suicida in carcere per aver tradito la fiducia del suo boss, e all’onta che lo segue fin dopo la sepoltura, con la profanazione del suo loculo. Lei lì si chiede: “Quale altra organizzazione di malviventi si preoccupa del destino trascendente dei propri membri?”.
“L’ultima giustizia, l’ultima parola deve essere quella dell’Organizzazione. E c’è una volontà di legittimare le azioni criminose con una finalità trascendente. Il problema è che per il mafioso la vera giustificazione, la vera chiesa è in Cosa nostra. Per tornare a come si ponga la Chiesa rispetto a tutto ciò, bisogna considerare che la mafia ha un radicamento secolare in Sicilia. Occorrerebbe una “cultura”, per poter opporsi, che soprattutto in passato è mancata”.
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– Lei ricorda la strage mafiosa del 1963, quando fu la Chiesa valdese a prendere le distanze per prima. Quella cattolica arrivò invece in colpevole ritardo.
“La Santa sede richiamò il cardinale Ruffini, allora arcivescovo di Palermo, perché intervenisse a “dissociare la mentalità della cosiddetta mafia da quella religiosa”. Il problema oggi è quasi lo stesso. Ci sono segnali di speranza dalla società civile e dalla Chiesa stessa, ma rimane quanto detto dal giudice Roberto Scarpinato: senza una zona grigia nella società la mafia sarebbe già stata sconfitta da tempo”.
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– La zona grigia della Chiesa sono dunque le sagrestie?
“Sì, innanzitutto come luogo dove persone non direttamente affiliate alla mafia la favoriscono in qualche modo. Ma anche luogo fisico, dove i mafiosi utilizzano strumentalmente i sacramenti: se un capomafia fa da padrino di battesimo, da testimone o si sposa, istituisce un’alleanza militare e giuridica con un’altra famiglia. Si dovrebbe indagare meglio su come, attraverso i sacramenti, cambiano per esempio i traffici di droga. Secondo me ciò non è sufficientemente percepito in ambito ecclesiale, perché sfugge la vera dimensione del fenomeno. L’affinità della mafia con la Chiesa è anche nell’essere una miscela di arcaismo e di modernità. Non destinata a scomparire con colletti bianchi e giochi in Borsa. La mafia esiste perché esiste una ritualità che le consente di perpetuarsi e trasmettersi nel tempo e nel territorio, di generazione in generazione”.
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– A chi ha dedicato il suo libro?
“A don Pino Puglisi. Ho avuto l’onore di conoscerlo quando insegnava nella mia scuola, prima di trasferirsi a Brancaccio. La Chiesa di padre Puglisi è quella che amo io. Il suo messaggio va oltre la Chiesa, perché è il messaggio di un uomo libero che non si piega di fronte al potere mafioso. Un uomo disarmato e non violento che usa solo la parola, la cultura per ribellarsi a un sistema. Il fatto che sia morto, per l’eredità che ha lasciato in questa città, non ne segna la sconfitta. La mafia non uccide in modo gratuito; lo fa quando percepisce qualcuno come un pericolo per se stessa. Padre Puglisi l’ha ucciso perché ne aveva paura.
Grazie mille Paolo.
L’intervista è molto bella. Complimenti.
Sono sicuro che leggendola online molti saranno stimolati ad acquistare Left (per rileggerla su carta e per gustarsi molte altre cose).
A presto
Eh…Sanctae Romanae Ecllesia…con la scusa di andare incontro alle “pecorelle smarrite””… ne combina di tutti i colori…ma se se accontentasse solo dei colori….sarebbe già un bene….
Non ho fatto in tempo a leggere tutti i commenti alla recensione…comunque sia penso che quando l’autore dice
“Ferma restando la buona fede di individui come padre Puglisi, …” lasci intravedere una realtà in cui pochi sono i sacerdoti realmente e sinceramente impegnati nella lotta contro la mafia e contro altri mali della nostra Sicilia (non sempre necessariamente ed esclusivamente legati alle sue vicende peculiari)… E’ frequentando invece quelle microrealtà che sono le parrocchie che ci si rende conto di come siano tante le persone veramente impegnate in questo campo (ecclesiastici e laici, di tutte le età), il cui operato non merita di essere messo così in secondo piano (con il rischio che si generi indifferenza, diffidenza o addirittura disprezzo)… Il loro compito non è per niente facile e merita di essere sostenuto, in primo luogo a livello mediatico, mentre oggi non si fa altro che parlare della “cattiva” Chiesa…
a luciage
cara Lucia, il commento “ferma restando la buona fede…” è di Alajmo e non mio. Anch’io penso, e li conosco, che ci siano tanti sacerdoti e laici cattolici impegnati sinceramente contro la mafia. Il mio libro vuole anche contribuire ad aiutare la chiesa a difendersi dalle infiltrazioni della mafia, che per sua natura tenta di inquinare ogni settore della società. il primo modo per sconfiggere il male è quello di conoscerlo e nel mondo eccesiale (non solo, certo) c’è ancora tanta carenza degli strumenti necessari per difendersi da Cosa nostra. Un saluto. Vincenzo Ceruso
Scusa l’irruzione ma non posso fare a meno di passare e ascoltare la recensione e i commenti sul libro.
E’ uscito a settembre,ma ho avuto modo di ascoltare la testimonianza di una persona che poco tempo fa risiedeva lì a Brancaccio e partecipe della parrocchia di SS.Maria delle Grazie (accanto a quella di S.Gaetano). Beh ha letto il libro(io l’ho prenotato e ancora mi deve arrivare) e dall’intervista del suo ex-parroco(ex perchè questa persona non è più lì,ma si è spostata qui,nella provincia di Messina) c’è qualcosa di non chiaro.
Sono più esplicito:nella parrocchia di SS.Maria delle Grazie esisteva già un movimento attivo tra i fedeli,mentre stando all’intervista,il sacerdote non lo tiene in conto o anche darsi,dice che non esiste.
Approfitto della discussione(sperando che vi sia una risposta da parte di tutti, e in particolare dell’autore e di Massimo).
Come dire..tutto questo per contribuire ad aiutare la chiesa a difendersi dalle infiltrazioni della mafia=) Per -consolidare- un movimento o una comunità che a quanto pare,già da allora,si era messa in avanti a questa missione. Anche a SS.Maria delle Grazie.
Se potete rispondetemi.
Chiedo a Massimo di darmi risposta via email alexxandro89@alice.it. Io spero di passare nuovamente di qua così possiamo parlarne.
tpax!Ale
Ciao Alex, grazie per il commento.
Lo notificherò senz’altro all’autore del libro.
Caro Alex, ti rispondo volentieri, per quanto mi è possibile. Infatti, come leggerai tu stesso, io ho raccolto integralmente l’intervista del parroco, ora ex, secondo criteri che non sempre vanno per la maggiore tra gli studiosi, ma sono molto appprezzati dagli storici cosiddetti oralisti. Al di là dei tecnicismi, più o meno interessanti, intendo dire che non vedo il motivo per cui il parroco abbia potuto nascondermi un aspetto positivo della sua parrocchia, quindi credo che il movimento in questione sia sorto in data successiva all’intervista . A parte questo, dovresti precisare la natura del movimento associativo di cui parli, se legato ad attività catitative o devozionale, se è ispirato ai nuovi movimenti ecclesiali o legato a dinamiche locali e così via.
In ogni caso, sono ben lieto per ogni fermento che si produce nella realtà ecclesiale siciliana e sarò altrettanto felice di darne conto nei prossimi lavori. Grazie. Vincenzo Ceruso
Io non so se ho molto tempo a disposizione, tuttavia desidero incontrarvi, chissà anche a qualche altra tua presentazione a Palermo o nella zona.
Aggiungimi alla rubrica,il mio indirizzo di posta elettronica è alexxandro89@alice.it
Il movimento si chima ‘fides vita’ed è legato al disagio sociale ed è nato prima dell’intervista.
A presto
Alex=)