Lei, The Special need e Nymph()maniac vol. I
Il Cinema e quel disperato bisogno d’amore che c’è.
Recensione di Ornella Sgroi
Il segreto di tutto è l’amore. E a ricordarcelo è ancora una volta il Cinema, con tre film usciti quasi contemporaneamente. Diversissimi tra di loro, eppure accomunati da uno stesso senso intimo e profondo che riconduce tutto a quel sentimento misterioso, imprescindibile tanto da diventare un vero e proprio bisogno. Un bisogno speciale. In tutte le sue forme, le sue manifestazioni, le sue sfumature. Persino le sue degenerazioni.
Proprio il desiderio di riscoprire la bellezza dei sentimenti e l’urgenza di tornare a scambiarseli in modo tangibile e reale sono il cuore pulsante di “Lei” di Spike Jonze, un inno alla voglia di emozionarsi e di esplorare il rapporto con l’altro e con gli altri. Per (ri)scoprire la cosa più preziosa che solo gli uomini possiedono, vale a dire proprio quell’umanità che rischia di estinguersi.
Tutto questo il regista Spike Jonze lo racconta con grande sensibilità ed una buona dose di umorismo, brillante e sottile, acuto, raffinatissimo. Partendo da un grande paradosso che, seppur proiettato in un futuro non troppo lontano, è molto più vicino al nostro oggi e alla deriva verso cui stanno andando i rapporti umani (non solo di coppia), nella realtà contemporanea sempre più persa nella dimensione virtuale. Quella che rende possibile l’amore tra un uomo (Joaquin Phoenix) ed un sistema operativo “donna” (cui dà voce Scarlett Johansson, doppiata in Italia da Micaela Ramazzotti, purtroppo non all’altezza dell’originale). Una partner immateriale, eppure viva e vitale, tanto da permettere al regista Jonze di rendere credibile una delle più belle scene d’amore che il cinema abbia mai concepito e che culmina in uno schermo a nero in cui tutto è affidato alle voci fuori campo, alla musica e all’immaginazione emotiva dello spettatore.
Con questa e tante altre intuizioni potenti, quasi magiche, sicuramente visionarie come lo è Spike Jonze, il regista di “Lei” ci regala un film incantevole ma anche inquieto nella sua dolce malinconia, un racconto cinematografico superlativo in cui la solitudine dell’uomo viene tagliata da una luce raggiante e il bisogno di amore sottinteso in un trascinante sentimento anche musicale, nella bellissima colonna sonora firmata dagli Arcade Fire. Soprattutto a mano a mano che nel protagonista matura la consapevolezza della propria surreale condizione, quindi del proprio isolamento, spingendolo a (ri)cercare quel contatto, quel tocco che può appartenere solo all’umanità.
Di quel contatto ha bisogno anche Enea, un ragazzo di quasi trent’anni che ha per compagno di vita l’autismo. Terzo incomodo nel suo progetto di trovare una ragazza con la quale fare finalmente l’amore. Fortuna che Enea (Enea Gabino) ha accanto a sé Carlo (Carlo Zoratti), suo coetaneo, che gli vuole un gran bene e che ha a cuore la sua felicità. Tanto da decidere di realizzare il sogno dell’amico con l’aiuto di Alex (Alex Nazzi) e di un pulmino Volkswagen, che li porterà in giro per l’Italia e per l’Europa, tra prostitute, locali hard e cliniche specializzate dove i disabili possono esplorare la sessualità.
È nata davanti una fermata dell’autobus ad Udine, mentre Carlo ed Enea aspettavano la linea 11, l’idea del documentario “The Special Need” di Carlo Zoratti, che affronta con un tocco di umana leggerezza una questione delicata, spesso taciuta, per poi trasformarsi in qualcosa di più. Soprattutto quando, dopo un certo disagio iniziale di fronte alla reazione che il mondo femminile ha all’incontro con Enea, comincia a mettere in luce due grandi verità. La prima è che il problema di Enea è più nella testa dei suoi amici che non nella sua, più una curiosità di Carlo e Alex spinti inconsciamente a ragionare secondo la loro esperienza e le loro esigenze. L’altra è che Enea vorrebbe sì trovare una ragazza, ma non una qualunque con cui fare l’amore una volta e basta, piuttosto una ragazza da amare e che lo ami, con cui fare sesso per tutta la vita.
Ecco che “The Special Need” diventa un film sull’amore e soprattutto sull’amicizia, con una vena poetica che incanta, stupisce e conquista. Con quella voglia di scoperta di un sentimento profondo e duraturo e quel prezioso senso dell’amicizia che lega i tre protagonisti, nella vita ancora prima che sullo schermo. Viaggiando on the road in cerca di risposte che, a sorpresa, arriveranno proprio da chi avrebbe dovuto suscitare le domande. Come del resto sembra sia andata anche durante le riprese, seguendo un ritmo dettato più da Enea che dal regista.
Dunque, il segreto di tutto è l’amore. Ingrediente segreto anche del sesso. Persino quando è una ninfomane come Joe (Charlotte Gainsbourg) a dovere fare i conti con questo assunto, recitato a oltranza da una sua compagna di avventure erotiche giovanili. A questa donna di mezza età e al suo racconto, raccolto da uno sconosciuto (Stellan Skarsgård) che le presta soccorso, Lars von Trier affida la sua nuova riflessione sulla sessualità con un film anticipato da una campagna mediatica costruita a suon di orgasmi e scene di sesso esplicito che gli erano valsi l’etichetta aprioristica di “porno d’autore”.
In Italia “Nymph()omaniac” arriva diviso in due parti e il primo capitolo già disponibile in sala (il secondo uscirà il 24 aprile) di porno però ha poco e niente, riducendosi ad un film molto meno scabroso e ben più doloroso di quanto i lanci pubblicitari, trailer compresi, abbiano lasciato intendere. Anche se bisognerà aspettare di vedere il resto del film per capirne davvero il senso ultimo e reale, almeno nell’ottica del regista, facile alle provocazioni spesso fini a se stesse. A giudicare solo dal volume I, infatti, questo oggetto filmico misterioso di Lars von Trier potrebbe essere niente di più di una pellicola grottesca, a volte ridicola, sessuale e poco sensuale, in cui il regista dà prova di una stonata ironia ricorrendo ad una improbabile metafora della pesca con la mosca e ad altre banali similitudini con il mondo animale. Fanno eccezione però la lunga sequenza iniziale, registicamente potente e visivamente magnetica, disorientante come il giro in un labirinto con la canzone “Führe mich” dei Rammstein sparata a tutto volume nelle cuffie, e il lungo monologo di Uma Thurman, indimenticabile moglie tradita che snocciola con crudeltà materna e psicotica le malefatte del fedifrago dinnanzi agli occhi spauriti dei propri figli.
Tutto il resto, almeno fino a qui e prima di aver visto il seguito, sembra solo fumo e noia.
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Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri
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