Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?
Qual è il confine tra colpa e innocenza?
Sono queste alcune delle domande che aleggiano sulle pagine del nuovo romanzo di Rosella Postorino, giovane scrittrice già segnalatasi con il precedente “La stanza di sopra” (Neri Pozza, 2007) molto apprezzato dalla critica e vincitore del Premio Rapallo Carige Opera Prima.
Questo nuovo libro si intitola “L’estate che perdemmo Dio” (Einaudi, € 19, p. 230). Un titolo forte, accompagnato da un incipit graffiante. Una frase urlata che segna l’inizio di un’irreversibile tragedia familiare.
I temi affrontati sono quelli dell’esilio e della forza dei sentimenti. L’esilio di chi è dovuto fuggire dalle spire ferali della ‘ndrangheta; i sentimenti di chi prova a reinventarsi dentro e fuori di sé per continuare a vivere.
Comincia tutto con quella frase: “Chi focu chi ‘ndi vinni”. Caterina aveva otto anni quando la zia la pronunciò. Adesso ne ha dodici, ma quelle parole le sono rimaste addosso. Parole di sciagura. Solo che certe sciagure non possono essere combattute. Bisogna andarsene, scappare; ché la ‘ndrangheta uccide. Quattro, i fuggiaschi verso l’Altitalia: Salvatore, il padre; Laura, la madre; Caterina, la figlia maggiore; Margherita, la piú piccola. Quattro esseri umani costretti a voltare le spalle alle proprie radici e a cercare salvezza e libertà in luoghi distanti, che non sono i loro. Ma poi Salvatore deve tornare indietro. E nella vicenda si aprono nuovi squarci.
La Postorino consegna una storia dura, dolente; resa al lettore con stile sferzante e linguaggio fluviale, dal quale emerge la “voce” di una ragazzina che è dovuta crescere troppo in fretta.
Nonostante la giovanissima età, Caterina percepisce il peso delle proprie origini; ne sente quasi il marchio sulla pelle. Eppure non si rassegna: «Piú di tutti, di tutti quanti loro, di tutta la loro famiglia messa assieme, piú di chiunque altro, Caterina lo ha preteso. Il diritto di essere felice. Loro no, non ci avevano mai pensato. Come se la felicità includesse anche un prezzo da pagare, un prezzo raddoppiato, lì dove è nato il padre si vive nel solco di una disgrazia sempre in agguato, non per paura, non per senso di minaccia, per fatalismo piuttosto, non si è altro che pedine nelle mani di Dio, non si può osare chiedere di piú, non si può scegliere».
Vorrei approfondire la conoscenza di questo libro insieme a voi e all’autrice (che parteciperà al dibattito). E contestualmente vorrei discutere dei temi che esso tratta.
Per favorire la discussione, come al solito, tento di porre qualche domanda ripartendo da quelle che hanno aperto il post:
Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?
Qual è il confine tra colpa e innocenza?
E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?
Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?
Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?
Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?
Di seguito, la recensione di Sergio Pent apparsa su Tuttolibri de La Stampa.
Massimo Maugeri
——–
Quando il sole è negato ai bambini
Una famiglia del Sud in fuga verso l’«Altitalia», dove nessuno possa ferirne il futuro
di SERGIO PENT
«I bambini ci guardano», recitava il famoso film di Vittorio De Sica. I bambini nutrono la vita e la giustificano, ma sono spesso gli adulti ad agire per primi sulla spinta delle emozioni istintive, degli impulsi selvaggi, dei raziocini maltrattati. I bambini hanno fatto la recente fortuna letteraria di Ammaniti – vittime inconsapevoli, miniature dell’eterno disagio adulto – e troviamo tracce di infanzie – più malmostose e infingarde, talvolta, ma sempre giustificabili – in certe belle storie di Simona Vinci, Diego De Silva, fino ai deliri rurali e goticheggianti di Eraldo Baldini.
Rosella Postorino è riuscita, già al secondo romanzo, a imporsi nella mente del critico-lettore come una scommessa vincente della nostra narrativa. Linguaggio scaltro e vigoroso, capacità introspettive assai più mature di quello che l’età – 29 invidiabili anni – lascerebbe supporre, senso del romanzo inteso come materia da modellare con abilità e gusto: tutto questo testimonia la presenza di una scrittrice vera, che racconta storie disagiate e strazianti dal punto di vista di una che sembra aver letto tutti i libri indispensabili. E alcuni anche li cita, in chiusura di romanzo, senza per questo averci tolto il gusto di ritrovarli, sulla pagina e nel cuore.
Sono omaggi necessari, poiché tutto ciò che amiamo ritorna, nel gioco sempre nuovo dei rimandi e degli accostamenti, delle sensazioni e delle riscoperte. Ma c’è – in più – la voglia di straziare il lettore con il senso di un disagio estremo, assoluto, in tempi di lotta sempre aperta con i tentacoli del Male.
Un male che allontana Caterina di nove anni e la sorellina Margherita di quattro – insieme ai genitori Salvatore e Laura – dal sole e dalla spensieratezza naturale di Nacamarina, il paese del Sud in cui, in un’estate degli Anni Ottanta, arriva un urlo che annuncia il «focu», la sciagura. In quella landa assolata e baciata dal mare, la guerra è ricominciata, ed è una guerra di adulti che si uccidono in tempo di pace, una guerra in cui anche gli amici muoiono o mettono in pericolo la loro famiglia.
Per questo Salvatore lascia il paese e porta la sua famiglia al sicuro, lontano, in «Altitalia», dove nessuno potrà ferire il loro futuro. Ma tre anni dopo Salvatore è costretto a tornare, per la tragica morte del cognato – N’toni – e per rimettere insieme ciò che resta del passato.
In questa odissea del distacco momentaneo, l’autrice riallaccia tutti i nodi della storia, dal punto di vista di Salvatore e Laura, della piccola e ancora inconsapevole Margherita, ma soprattutto di Caterina, che – ormai dodicenne – sogna un futuro sereno in cui possano trovare spazio i suoi desideri e la volontà di crescere senza paure.
E si incontrano, i sogni e la realtà, in un miscuglio di eroi dei cartoni animati e primi innamoramenti, memorie familiari e lettere a un ragazzo rapito proprio giù dalle sue parti – Cesare Casella – fino al ricordo di zio N’toni, lo zio pacato e sorridente, il padre di Lena e di Giacomo, ultima vittima di una guerra che i telegiornali chiamano in un altro modo.
La storia familiare si intreccia, nella solenne e mai faticosa lentezza del romanzo, con la storia di un Paese in cui l’onestà deve tramutarsi in fuga per sopravvivere, e lo spaesamento diventa rimpianto, rancore, ma anche voglia di riappropriarsi di una vita a cielo aperto.
Verga, Vittorini, grandi nomi che ritornano tra le pieghe di un libro sofferto e maturo, che non concede nulla al relax del lettore, ma lo sfida – e lo accoglie – nel calore unico delle narrazioni importanti, quelle a cui – senza tante discussioni e senza gossip da primedonne di un reame a corto di lettori – si dovrebbe assegnare a scatola chiusa qualcuno dei nostri premi nominalmente più prestigiosi.
Autore: Rosella Postorino
Titolo: L’estate in cui perdemmo dio
Edizioni: Einaudi
Pagine: 344
Prezzo: euro 19
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 30 maggio)
Sono molto lieto di ospitare, in questo post, Rosella Postorino: giovane autrice che stimo moltissimo e collega redattrice del blog collettivo “La poesia e lo spirito”.
L’estate che perdemmo Dio
Un titolo forte, ho scritto sul post… accompagnato da un incipit graffiante. Una frase urlata che segna l’inizio di un’irreversibile tragedia familiare.
E in effetti quello della famiglia (una famiglia particolare) è uno degli argomenti che, in un modo o nell’altro, il romanzo affronta.
Una famiglia che scappa per sottrarsi alle spire mortali della ‘ndrangheta…
Adulti e bambini in fuga.
Ma non è facile fuggire da se stessi, dalle proprie origini, dalle proprie radici.
Tra i personaggi del libro colpisce Caterina, una ragazzina di dodicia nni che – sebbene travolta anch’ella dalla vicenda famigliare – scopre che esiste un’alternativa alla rassegnazione.
E rivendica il diritto alla felicità.
Nonostante tutto.
Come ho scritto vorrei approfondire la conoscenza di questo libro insieme a voi e all’autrice (che parteciperà al dibattito). E contestualmente vorrei discutere dei temi che esso tratta.
Seguono le domande del post…
Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?
Qual è il confine tra colpa e innocenza?
E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?
Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?
Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?
Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?
A voi…
(e a dopo!)
sono belle domande…
il libro non l’ho letto, ma l’argomento vale. Direi che viene centrato il cuore del problema: dai bambini, dai ragazzini, il compito più arduo: ricominciare gettando nuove basi. l’insegnamento, il calore sociale, possono fare diversità su questo compito.
Libro interessante, gli argomenti pure.
Le domande moooolto impegnative.
Complimenti all’autrice. Proverò a rispondere alle domande dopo un’attenta riflessione.
Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?
Il senso di colpa… montagne di libri sono state scritte sul senso di colpa, sulla vergogna delle radici… Come dire l’eterno dilemma tra natura e cultura, ambiente e dna.
Qual è il confine tra colpa e innocenza?
C’è colpa secondo me quando si accetta una sorta di determinismo: io sono questo e non posso essere altro che questo.
E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?
Difficilissimo. Il frutto non cade lontano dall’albero, ma se qualcuno ti aiuta a farlo, se c’è una spinta forte, una motivazione potente…
Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?
Penso a Rita Atria, suicida quando seppe della morte di Borsellino. Penso ai tanti figli di mafiosi che decidono di togliersi la vita per non somigliare ai loro padri.
Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?
Quando le istituzioni latitano – scuola, assistenti sociali… – non ci si può stupire che queste storie si moltiplichino.
Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?
Il libro sembra molto interessante. L’avevo già sbirciato l’altro giorno, era messo in pila in un ipermercato. A questo punto credo proprio che lo farò mio.Prima però vorrei chiedere a Rosella Postorino come nasce questa storia. Se la risposta mi convince acquisterò una seconda copia da regalare a mia nipote che fa il compleanno la settimana prossima 🙂
Vi ringrazio per questi vostri primi commenti.
Grazie a Francesca Cenerelli (benvenuta a Letteratitudine!), Alina, Maria Lucia, Alberto
Questo post ci farà compagnia per qualche giorno.
Rosella interverrà quanto prima (ponetele pure domande!)
–
Per il momento vi saluto e vi auguro una serena notte.
Il rapporto tra innocenza e colpa è la soglia su cui si muove ogni tribunale.
Ogni magistrato.
E’ quella linea di luce che passa sotto la porta, che scivola come acqua, che infine si confonde tra le assi del pavimento.
E non si vede.
La pratica giudiziaria mi ha insegnato cos’è la colpa. Cosa il dolo. Cosa l’imputabilità.
Mi ha insegnato che la minore età è compatibile con la capacità a delinquere e con la coscienza dell’illiceità.
Ma sfugge al codice penale quel mondo di mezzo in cui anche se c’è reato non c’è alternativa.Perchè il seme della colpa è prima di noi.
Come dice Italo Calvino ne “il sentiero dei nidi di ragno”:
“Pin, il codice penale … C’è scritto tutto quello che uno non può fare nella vita:furto, omicidio, ricettazione, appropriazione indebita, ma non c’è scritto cosa uno può fare, invece di fare tutte quelle cose, quando si trova in certe condizioni”.
Ecco…il limite tra colpa e innocenza è forse in quell’alternativa che non c’è. In certe condizioni.
L’ha detto Pent e lo ribadisco io ora: Rosella Postorino è un mistero gaudioso. Ha meno di trent’anni, ma la mano è ferma, da scrittrice navigata.
L’ha dimostrato con questo libro e con La stanza di sopra.
Vedo che mi ha preceduto Simona Lo Iacono, nei commenti.
Conosco entrambe, sia Simona sia Rosella. Simona non è ancora approdata alla grande editoria (io penso che abbia i numeri per farlo), Rosella invece è già stata consacrata, Neri Pozza prima Einaudi Stile Libero, ora.
Hanno in comune, a mio avviso, Simona e Rosella, il “giusto modo” di accostarsi alla letteratura: apprezzano e imparano, con un’umiltà che è rara.
A Rosella una domanda.
Quanto arricchisce il lavoro da editor? E poi. Non c’è il rischio che lavorando da mattino a sera sui libri tuoi e degli altri si perda di vista la vita?
(Io, tra Calvino che lavorava sulla scrittura e di scrittura, e Fenoglio, che lavorava solo di notte sulla scrittura, preferisco Fenoglio. Calvino è un gran “dosatore” di avverbi e aggettivi, ma Fenoglio, a mio avviso, trasmette di più).
Sì, tanto di cappello all’Estate che perdemmo Dio (con la d maiuscola, suppongo) e alla giovane autrice Rosella Pastorino. A cui vorrei chiedere se questo romanzo (non avendolo ancora letto) lo si possa ritenere romanzo d’impegno civile, pregno cioè – al di là dei disvalori riconducibili alla criminalità organizzata – di valori benefici, di aperture alla speranza, di orizzonti nuovi.
Per quanto concerne – poi – le domande e le affermazioni di Massimo, concordo con lui nel sostenere quanto non sia facile fuggire da se stessi, dalle proprie origini, dalle proprie radici.
A volte è addirittura un’utopia, dato che sovente il passato e i traumi subitì fin da piccoli s’incollano al subconscio in modo indelebile. Purtroppo.
Ma – a volte – cambiare le cose in meglio è possibile. Possibile veramente. Indagando la genesi delle cose medesime e inquadrando i fatti e le vicende in un contesto che rompa con le realtà, le tradizioni, le atrocità solite. C’è però bisogno di coraggio e di lotta tenace, forte, continua, attuata con ogni mezzo, specie la formazione e l’informazione. Nella consapevolezza, tuttavia, che i risultati non si raggiungeranno presto. Anzi. Al di fuori delle retoriche stantie.
Un saluto cordiale, A. B.
Ho conosciuto l’estate scorsa, esattamente in agosto, la scrittura di Rosella Postorino con la ‘stanza di sopra’ qui già citato. E ho divorato ‘l’estate che perdemmo Dio’. Ne ho scritto qui:
http://www.agoravox.it/Quando-leggere-e-anche-vivere-L.html
.
Rosella è autrice sensibile, acuta, attenta alla lingua e ai sensi sotterranei. La sua è una scrittura che dona, scava, incastra. Con pazienza plana e arriva.
Ci sono molti temi importanti in questo romanzo, sviluppi maturi, intensi che meritano attenzione, chiedono silenzio e riflessione, spazio per assecondare il ritmo dei capitoli, delle voci.
Un abbraccio
Rispetto alle domande, credo che la ‘colpa’ sia – in alcuni casi – un marchio, che resta sottopelle, magari non si vede ma si sente così potente da non poterlo dimenticare o ignorare. E poco importa, alla fine, ‘come’ è arrivata, questa colpa. I legami familiari, matrice portante della società e della formazione degli individui, possono portare molto ‘male’, inutile trincerarsi dietro a perbenismi di vetro. Penso anche che il peso della ‘colpa’ dipenda molto da due fattori-chiave: chi sta attorno (soprattutto il peso che si attribuisce a ) e la sensibilità soggettiva individuale.
Liberarsi da radici malefiche non so se davvero sia possibile. Questo ‘oltre’ il discorso strettamente legato a questo romanzo e alla criminalità. Le radici malefiche che si nutrono di te sin dalla crescita, che in parte entrano nella tua formazione, ti accompagnano nelle prime tappe della vita; tutto questo comunque lascia segni che diventano ‘interni’ per forza, anche se quel ‘male’ non lo hai direttamente procurato ti entra. Io credo.
Grazie per l’ospitalità.
Vorrei chiedere a Rosella Postorino se come osservatrice del meridionalismo, in particolare nell’atteggiamento di mafie e di risposte ad esse, ha riscontrato cambiamenti rispetto al passato.
Una seconda domanda, non molto a tema:
vorrei chiedere se a suo avviso c’è parità di trattamento e di sensibilità da parte degli addetti al settore e del pubblico nei confronti di autrici donne rispetto al grande mondo degli autori maschili e se la scrittura da parte di una donna può svelare aspetti non colti dall’osservatore-scrittore maschile.
Ringrazio anticipatamente,
francesca cenerelli
non ho letto il libro, ma mi ha colpito la giovane età dell’autrice rispetto al tipo di storia narrata. vorrei chiedere a rosella se, nella storia della letteratura, c’è un libro che considera come punto di riferimento.
un’altra cosa, per rosella.
nell’ambito della narrativa che si occupata del fenomeno-mafia, c’è un libro a cui ti senti legata e che magari ha ispirato proprio questo tuo romanzo?
Purtroppo non ho avuto ancora modo di leggere questo libro perché sono all’estero da un po’ di mesi, ma lo leggerò appena rientrata. Stimo molto l’autrice e sono certa che il suo libro non mi deluderà.
La presentazione di Massimo Maugeri e la recensione di Sergio Pent sono davvero invitanti. Non avendo letto il libro, ma lo farò presto, non posso dire molto se non che gli argomenti che tratta e la trama che ho intuito dalle recensioni sono,almeno per me, molto interessanti. Tanti complimenti alla giovane autrice.
Come è stato già detto, le domande sono stimolanti. Difficile rispondere. Ci provo lo stesso.
Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?
– Difficile rispondere. Ma la domanda è “vera”. Ci sono colpe che sembrano nascere con noi come una sorta di peccato originale.
Qual è il confine tra colpa e innocenza?
– A volte è sottilissimo. Un colpevole può essere innocente, o viceversa, a secondo del punto di vista da cui lo guardi. A volte giudicare è davvero difficile. Spesso è pure sbagliato.
E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?
– Mi viene in mente che una pianta senza radici muore. Si può provare a recidere le proprie, ma fino ad un certo punto
grazie per questi interventi! cercherò di rispondere alle domande che pone massimo e anche alle vostre, nel corso della giornata. intanto dico qualcosa sul confine tra colpa e innocenza. i miei personaggi sono innocenti. nel senso che loro non sono mafiosi: salvatore silvestro, il padre, non è un mafioso. loro la mafia nemmeno la capiscono: la sanno, sanno che c’è, non è diversa dalle montagne o dal mare, è una cosa della loro terra, scontata.
i miei personaggi sono colpevoli. non perché si trovino loro malgrado sfiorati dalla mafia (una parentela stretta con un mafioso) – questo può accadere, in quella terra, fa parte della “natura” – ma perché non provano nemmeno a ipotizzare di poter dire no a un certo sistema, perché se ne fanno schiacciare, ma anche servire (salvatore lavora non a caso come muratore nell’azienda edile di suo cognato, il mafioso), finché è comodo. solo quando smette di essere comodo, solo quando la faida diventa una guerra e si rischia la morte, loro scappano. nemmeno credono che sia per sempre. nemmeno sperano nella libertà. scappano perché non c’è altro da fare. e solo allora scoprono l’altrove, rispetto all’esistenza in cui il destino li avrebbe intrappolati. sofferenza, senso di colpa, umiliazione, emarginazione. eppure sono loro che vincono.
Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?
– Domanda difficilissima. Non lo so. Non saprei. Ma penso: se mio padre fosse un criminale potrei, e dovrei, condannarlo. Ma sarebbe giusto non amarlo?
Rinnovo i miei complimenti all’autrice anche in riferimento al commento che ho appena letto.
Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?
– Dovrebbe aiutare molto. Moltissimo. In ogni modo.
Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?
– Credo di sì. Proprio come ha fatto lei, se non ho capito male. Non rassegnandosi.
–
E credo, ma vorrei conferma dall’autrice, che proprio la non rassegnazione della ragazzina fornisca un messaggio di speranza.
salvatore si sente colpevole verso sua sorella, la moglie del mafioso, vedova bianca finché non diventerà vedova a tutti gli effetti. e non è vero, d’altronde, che lui l’ha abbandonata? per salvarsi la pelle, per salvare la sua famiglia nucleare, ha abbandonato la sua famiglia di sangue, in particolar modo questa sorella del tutto inconsapevole e un po’ sprovveduta come molte donne del sud della sua generazione (siamo alla fine degli anni ottanta). lui, il primogenito, uno che “culturalmente” ha secondo la comunità il dovere di proteggere i suoi parenti. come può non sentirsi un vigliacco? è colpevole. ma se fosse morto, sarebbe stato colpevole verso sua moglie e le sue figlie.
la colpa è sempre “davanti” agli altri. è un elastico che tiri da una parte o dall’altra, finché non si spezza. difficilmente, come persona ma soprattutto come scrittore, so dire chi è colpevole e chi è innocente. non mi interessa. mi interessa la contraddizione dentro cui gli esseri umani si trovano. il contesto culturale e familiare che rende frastagliata la strada che separa il bene dal male, che la acceca, come una giornata torrida di sole estivo del sud.
la colpa, insomma, è la colpa delle radici. è quella che fa vergognare caterina di essere nata dove è nata. lo stesso luogo in cui cesare casella viene tenuto sequestrato. ed è per questo che lei scrive a cesare delle lettere mai spedite: per espiare, al posto dei suoi conterranei. ingenuamente, come solo i bambini possono credere, immagina di poterlo fare lei per tutti.
io la conosco, la colpa delle radici. io al sud ci sono nata. e spesso, essendo cresciuta al nord, ho sentito che per questo sarei stata sempre in debito, in difetto. l’ho sentito per molto tempo. e questa storia, che è cresciuta negli ultimi due anni e che ha preso facce diverse in versioni diverse, mi covava dentro da molto molto prima. il nucleo di questa storia, la colpa delle radici, la possibilità di affrancarsi da un territorio condannato da un codice culturale noto a tutti fino a diventare – altrove – caricaturale (il tragico diventa spesso comico: è un modo per non combatterlo mai), io lo custodisco dentro di me forse fin da quando ho imparato la parola terroni per la prima volta.
“lo custodisco dentro di me forse fin da quando ho imparato la parola terroni per la prima volta”. alberto, mi sa che è così che nasce questa storia.
caro ausilio, credo che qualunque romanzo sincero, che si propone di parlare degli esseri umani e della loro vita, sia un romanzo di impegno civile.
caro remo, il rischio esiste, come negarlo. però è una riflessione in progress, non so darti, per ora, una risposta. grazie per quello che hai scritto.
Buongiorno a tutti,
bello, trovarsi in questo posto dove la letteratura è di casa.
Ho letto il libro di Rosella Postorino in poche ore, non è un libro breve, l’ho letto “in corsa” perchè è uno di quei romanzi che, una volta preso, è difficile lasciare.
Lo trovo un libro compiuto, importante, profondo e nuovo anche perchè affronta un tema insito nella coscienza di tutti noi da una prospettiva diversa. Il “peccato dell’origine” – come lo definisce la Postorino – lo fa un romanzo non solo italiano ma, come succede solo alla letteratura vera, la storia di ognuno. La lingua è protagonista di questo libro, laddove la Postorino sa mescolare lingua letteraria s dialetto, personaggi e lingua, lingua con sensazioni. Il lettore è protagonista, perchè la Postorino – umile, come si è già detto, e io credo che l’umiltà sia una delle principali caratteristiche degli scrittori veri – non dice mai niente di più, si impegna a togliere, lascia a noi lettori la possibilità di completare, immaginare. Protagonista è la condizione di chi, come Caterina, ama in maniera scellerata, onnipotente, ama le persone come si ama un dio, e a un dio non si dà mai la colpa, anche quando sbaglia. Protagonista è la scrittura, perchè la Postorino non si adagia mai: nonostante i risultati de La stanza di sopra, osa, studia, prova: a scrivere un libro diverso, in cui la sua “voce” c’è, risulta chiara – è la voce de La stanza di sopra e di tutti i suoi scritti – ma è una voce cresciuta, implementata, resa corale.
Solo due parole su una tematica vastissima (con l’auspicio che si tornino a studiare i classici relativi alla “questione meridionale”, da Gramsci in poi, per poter affrontare in seguito la saggistica più recente).
Non esistono “i meridionali”, ma gli individui che vivono presso un determinato gruppo socioculturale, come non esistono “i marocchini”, “gli italiani”, ecc. ecc. E’ importante sottolineare ciò, per evitare di compiere il primo passo verso un processo di stigmatizzazione, connesso allo stereotipo, processo che genera subito un fenomeno pregiudiziale.
Il Sud geografico fa parte d’un unico e inseparabile territorio nazionale, l’Italia, con la sua unica Costituzione, unica economia, uniche leggi, partiti politici nazionali, ecc. Nel Sud non ci sono “i partiti politici del Sud”, ma ci sono partiti politici nazionali. La Democrazia Cristiana che ha fatto le sue brave clientele al Sud per quasi cinquant’anni era un partito nazionale (ben legato, NON SOLO NEL SUD, alla mafia). La responsabilità dunque è stata nazionale. Per parlare di anni più recenti, il partito di Berlusconi ha conquistato a piene mani la Sicilia (e non solo), e il P.d.L. non è certo partito politico del solo Sud. Saviano ha fatto notare attraverso il suo “Gomorra” che l’economia mafiosa dei rifiuti attuata nei territori del Sud fa parte organica d’una economia nazionale (ed internazionale). Al Sud si spara (anche) al Nord si uccide con mezzi di alta finanza. Divisione capitalistica (d’un unico sistema capitalistico) dei ruoli lavorativi… Ma ci sarebbe tanto da dire…
L’aspetto che più mi interesserebbe approfondire di questo libro (sono fra quelli che non l’hanno ancora letto, ma lo leggeranno) è quello intimistico dei personaggi. Cioè cosa avvertono nel loro intimo a causa della situazione che vivono. Quali sono le loro paure, le loro certezze (se ne hanno). Come reagiscono, o come restano immobili. Su quali basi hanno deciso di impostare la loro vita in “terra straniera”.
Domanda per Rosella.
Nel libro è prevalente l’aspetto “intimistico” o quello “sociologico” ?(entrambi importanti, secondo me).
Ovvio, poi, che da padrona la dovrebbe fare, e la farà di certo, la storia.
Scrive Umberto Galimberti sulla religione giudaico-cristiana: “come di stanziamento dell’uomo da Dio, la colpa genera il dolore e la morte, che dunque non appartengono, come per il mito greco all’ordine della natura, ma all’ordine dell’infrazione.”
Ma cosa diventa la nostra colpa quando non c’è più un Dio a cui chiedere perdono?
Il senso di colpa, l’auto-accusa, è essenzialmente un processo mentale, un processo di elaborazione di un altro pensiero a sua volta precostituito, che ci appartiene a causa della nostra formazione culturale. I pensieri si formano nel tempo, dalla nascita in poi, specialmente negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Questi, sia nei contenuti che nei processi, dipendono in gran parte, dai contenuti e dai processi propri delle persone che hanno caratterizzato l’ambiente sociale ed umano dell’individuo, durante gli anni della crescita. Il contesto – direbbe Sciascia – è sempre un attore primo nella vita dei soggetti che ospita. Caterina, ne L’estate che perdemmo Dio, data la sua tenera età, non ha oggettivamente alcuna colpa personale, ma le condizioni socio-familiari nelle quali è venuta a trovarsi (il caso), inducono egualmente in lei un forte disagio nei confronti del mondo. Ecco allora che lo spostamento fisico, l’emigrazione, diventa un atto necessario non per cancellare la colpa (che in sé non esiste, ma viene ugualmente percepita), bensì per permettere alla vita di offrire altre variabili che ridisegnino il contesto, e permettano al soggetto di elaborare una concezione differente del proprio essere. Si tratta di una possibilità, il finale è aperto.
cara francesca,
il mio libro parla di sud ma io non lo metterei nella categoria di libri sulla questione meridionali né di libri di mafia. ne sono stati scritti tanti e migliori del mio, quelli di sciasciain primis 🙂 io ho scritto una storia di riscatto, di colpa e di ricerca della libertà. l’evento drammatico che ho scelto come punto di catastrofe, rottura degli equilibri (ce n’era uno anche nel mio primo romanzo, la stanza di sopra), è legato alla ‘ndrangheta come una specie di “perverso omaggio” (di accusa? di atto di dolore?) verso la regione in cui sono nata, ma avrebbe potuto essere anche un’altra “calamità”.
nella mia testa era un libro sulla famiglia. la famiglia, il luogo dell’amore maldestro. “la famiglia non è mai una cosa ragionevole”, dice salvatore a un certo punto. eppure è quella famiglia, una volta spogliata del suo vestito “istituzionale” di famiglia – proprio la famiglia allargata e istituzionale è la croce di salvatore (sua sorella sposata a un mafioso, ‘ntoni, cognato che salvatore stima, in quanto parente e in quanto amico, come se il legame di ‘ntoni con la mafia fosse un dettaglio), è ciò che lo costringe a rinunciare alla sua vita, ai suoi progetti per il futuro, alla sua stessa identità, rinunciando prima di tutto alla famiglia allargata stessa – è quella famiglia, dicevo, “sfrondata”, diventata solo singoli, irrinunciabili affetti, una famiglia come insieme nudo di persone a cui è impossibile rinunciare, che bisogna proteggere a ogni costo, per le quali si deve lottare per rimanere in vita, è quella famiglia – alla fine: sì – è la famiglia che SALVA.
cara margherita, il libro è un romanzo e io non sono una sociologa. il libro racconta l’interno – privato come se fosse pubblico – di una famiglia toccata suo malgrado da logiche mafiose. una famiglia in fuga da una faida come un extracomunitario in fuga da una guerra o dalla fame. la stessa identica cosa. l’obiettivo zoomato su una manciata di individui – i silvestro, i luppolo (la famiglia di ‘ntoni) – per raccontare non un problema sociale, da tg, ma le vite vere, plausibili, emotive, di quelle masse di persone che di questo problema sociale sono protagoniste non solo come numeri, come purtroppo rischia di sembrare al tg, ma con la sofferenza macroscopica – se vista da vicino – del dubbio di farcela, ogni giorno. è banale, ma è così.
questo è il taglio del libro.
la mafia nel libro esiste solo come editto, non si vede (non vedi padrini, non vedi incontri alla madonna dei polsi, non vedi sparatorie ecc.): è questa la differenza. si vede solo l’effetto di una faida come tante sull’esistenza privata di una famiglia in fondo comune, di persone semplici, senza strumenti culturali, che si salvano per istinto di sopravvivenza e per amore, non per presa di coscienza intellettuale. è senza accorgersene che dicono no alla mafia. non sono eroi. tanto è vero che non sono fino in fondo innocenti. l’unica che, seppur giovane, tenta di prendere coscienza è appunto caterina, la figlia maggiore. è lei, che crede nella forza dell’immaginario e della narrazione, che prova a ricostruire la storia della sua famiglia, il loro destino, e a trovarvi un senso per accettare (anche la colpa delle origini) e andare avanti.
caro luca, non avresti potuto dirlo meglio.
cara amelia, sì, è così: caterina non intende rassegnarsi: alla sua condizione, al destino che sembra previsto per la sua famiglia. è questo che rimprovera agli altri. rassegnarsi significa essere collusi.
a Rosella
Grazie per la bella risposta.
Grazie anche da parte mia per la risposta
Mi piace molto la domanda su quello che la società dovrebbe fare nei confronti di bambine che vivono in famiglie disagiate, da un punto di vista sociale. La famiglia di Caterina credo che rientri nella categoria.
Caterina è fortunata, perché dentro di lei ha il seme della voglia di riscatto che la spinge a non rassegnarsi. Non è una cosa che le è stata insegnata. E’ una cosa che è nata con lei.
Caterina ha in sé il seme della speranza.
Ma gli altri? Gli altri bambini?
Nascere in una famiglia particolare è una colpa? Nascere in un certo luogo è una colpa?
Io non credo. Ecco perché la società deve fare di tutto per intervenire. Con ogni mezzo. Fin dove può.
Bella discussione.
Complimenti a Rosella.
com’è bello questo blog: c’è un rispetto e una delicatezza che in rete non sempre si trova. merito di massimo maugeri, che è stato così gentile a ospitarmi qui.
In una recensione che ho scritto (e scelto momentaneamente di non pubblicare) scrivo che per me il libro di Rosella è fortemente religioso. Un libro di preghiera, oserei dire, mi è parso.
Caterina in questo è debole tra i deboli.
La scrittura è sorprendente, consapevole, molto matura. Le frasi calate con cura, le memorie non solo selezionate ma anche (mi viene da dire) figlie dirette dell’autrice e non di Wikipedia, e si vede.
ivano, questo commento è troppo forte e bello e diverso per non meritare che tu spenda altre parole.
uno dei registri del romanzo è la preghiera. non intendo solo nelle pagine in cui caterina prega, dico più semplicemente che uno dei toni, dei movimenti del romanzo è la preghiera. e religioso è tutto ciò che cerca di trovare un senso, di credere in un possibile ordine delle cose, e caterina ci crede, si impegna proprio in questo. se caterina mi assomiglia – e mi assomiglia – questo ordine non si chiamerà dio. eppure a questo, proprio a questo, lei non si rassegnerà mai.
da editor mi autopunisco 🙂 per la ripetizione della parola “questo” nel precedente post.
cara gianna,
la famiglia di caterina – intendendo suo padre, sua madre, sua sorella – non è disagiata. è una famiglia normale. come tante famiglie normali. non ci sono devianze di sorta, violenze o gesti estremi.
finché la faida non esplode e diventa guerra, si potrebbe credere di stare in una famiglia normale, di persone semplici, una casalinga e un muratore, come tanti. se la faida non fosse esplosa, caterina non avrebbe mai saputo di essere la nipote acquisita di un mafioso di quartiere, nemmeno uno importante, un semplice affiliato. dopo, questo segreto se lo porterà dietro per sempre. prima era un tabù, dopo è diventato un trauma, adesso è solo una colpa atavica.
cosa dovrebbe fare la società, NON per le famiglie disagiate, ma in generale affinché non esistano disagi di questo tipo: questo mi chiederei.
quando ho letto la recensione del mio libro fatta da un quotidiano calabrese mi sono commossa. coglieva delle sfumature che altri non avrebbero mai potuto cogliere. ho sentito un’appartenenza che di solito non sento (come duras, a volte dico: “non sono nata da nessuna parte”), ho pensato che era un atto d’amore, questo libro, per la mia città natale, senza che nemmeno io lo volessi.
ma lì, lì, il mio libro nemmeno si trova. lì i libri in generale si vendono poco. la calabria è la regione dove si legge di meno.
per esempio.
caro massimo, quando chiedi se per una ragazzina come caterina è davvero possibile raggiungere la felicità, io sorrido e chiedo: è davvero possibile raggiungere la felicità? 🙂 dico in generale.
“la felicità è una cosa seria”, sentenzia michele apicella, in uno dei dialoghi più belli del cinema italiano, “ecco: allora, se c’è, deve essere assoluta”.
è l’ansia di assoluto, invece, che rende infelici. del resto, come diceva borges, non è il male a corrompere le cose, ma l’infinito.
caterina è a contatto da sempre con le cose corrotte, deve accettarle e pensare di poter essere altro, di essere fuori da quella simbiosi, affrancarsi.
come ester, la protagonista del mio primo romanzo.
fanno questo, i personaggi dei miei libri, lottano contro quello che sono finché non trovano la verità proprio in quello che sono.
Ringrazio tutti per i numerosi e stimolanti commenti che avete rilasciato.
Ne approfitto per salutare i nuovi intervenuti: Simona, Remo, Ausilio, Barbara, Marcello, Sofia, Amelia, Antonella, Gaetano, Margherita.
Un saluto speciale a Luca, Gianna e Ivano (che forse intervengono per la prima volta: benvenuti!).
Davvero grazie a tutti.
Un saluto e un ringraziamento speciale a Rosella per la sua presenza (costante e ricca) nonostante sia con l’acqua alla gola per una serie di scadenze lavorative.
Forza, Ros!
Ho letto parecchi spunti davvero interessanti che meritano di essere ripresi. Non so da dove cominciare…
Ecco… parto proprio dall’ultimo commento di Rosella riguardo alla “felicità”.
Cara Rosella, tu rispondi alla mia domanda con un’altra (legittima e centrata) domanda: è davvero possibile raggiungere la felicità?
A questo punto dovremmo domandarci: cosa deve intendersi per felicità?
E in particolare, cosa deve intendersi per “felicità” dal punto di vista di Caterina?
Una cosa è certa: la ricerca spasmodica della felicità genera l’infelicità.
E in effetti, leggiamo: Piú di tutti, di tutti quanti loro, di tutta la loro famiglia messa assieme, piú di chiunque altro, Caterina lo ha preteso. Il diritto di essere felice.
Dunque… più che alla ricerca della felicità, Caterina punta al “diritto” di essere felice (che è cosa diversa).
Ma in che modo si acquisisce questo diritto? O meglio, in che modo Caterina ritiene di poterlo acquisire?
Combattendo la tentazione atavica della “rassegnazione”, credo.
Forse è lì il nocciolo della questione.
È così, Rosella?
Gli altri, cosa ne pensano?
Intanto vi invito ad assaggiare questo romanzo di Rosella, leggendo il primo capitolo.
Lo trovate cliccando qui:
http://www.einaudi.it/var/einaudi/contenuto/extra/978880619625PCA.pdf
In merito al commento di Ivano Porpora, mi son venute in mente un paio di cose.
Mi sembra un commento bellissimo per molti punti – nonostante sia breve, pure è pregno, forte, come ha scritto Rosella. Caterina debole tra i deboli: è l’unica parte che non mi quadra.
Mi spiego: che il libro sia una preghiera mi sembra una definizione perfetta: sia perchè in questo libro – come anche, per certi aspetti, La stanza di sopra – tutti i personaggi istituiscono e raccontano, implicano, un rapporto altro, più che terreno, più che familiare tra di loro. Sia perchè quella di Caterina è, secondo me, una supplica: alla felicità. Sia perchè quello di Caterina è un tentativo di espiazione delle colpe familiari – e dunque universali. Sia perchè tutti i libri, tutte le “opere d’arte” sono delle preghiere.
Per quanto riguarda Caterina debole tra i deboli, invece: è vero che chi ama molto è debole, che chi ama molto soffre, che chi ama molto – come ha detto più volte l’autrice parlando del libro – non vede le colpe di colui di cui è innamorato. Ma Caterina mi sembra un personaggio tondo. Cioè debole, debole, perchè chi ama è La Debolezza, ma anche forte, forte, perchè tiene in piedi non solo una famiglia ma, in senso lato, letterario, una generazione intera.
Se avete voglia di ascoltare le importanti parole di Rosella, apprezzare il tono della voce e i bei lineamenti… cliccate qui:
http://www.einaudi.it/multimedia/Intervista-a-Rosella-Postorino
🙂
Un’intervista davvero bella. Da qui ho colto lo spunto per porre un paio di domande.
@ Antonella Lattanzi
Bello, il tuo intervento. Vediamo cosa ne pensa Rosella.
Caterina, tra forza e debolezza…
@ Rosella
Mi è molto piaciuto anche questo tuo passaggio (in risposta a Gianna):
ho pensato che era un atto d’amore, questo libro, per la mia città natale, senza che nemmeno io lo volessi.
ma lì, lì, il mio libro nemmeno si trova. lì i libri in generale si vendono poco. la calabria è la regione dove si legge di meno.
–
Bello il riferimento al romanzo come atto d’amore per i propri luoghi. E amara la considerazione che, proprio in quei luoghi, si legge poco.
–
Rosella, a parte la considerazione che in quei luoghi si legge poco (o comunque meno rispetto ad altri)… che tipo di impatto ha avuto, questo tuo romanzo, in terra calabra? Qual è la tua percezione? Sei andata lì a presentarlo?
Per il momento chiudo qui.
Auguro a tutti una buona serata.
Cara Rosella è bellissimo quello che dici sul fatto che non ti interessa se i tuoi prsonaggi siano colpevoli o innocenti.
Credo che noi tutti siamo entrambe le cose, e che la scrittura sia l’occhio che scruta quel passaggio dall’una all’altra posizione o forse solo l’instabile e caracollante camminare – sempre – tra bene e male.
Nessun giudizio, nessuna posizione, nessuna arringa di difesa o d’accusa. Mi piace credere che il luogo della scirttura sia quella libertà segreta e animale in cui seguire, per una volta, i suoi abitanti senza allestire alcun processo. Semplicemente osservandoli in questa umanità trafitta e desiderata, in questa felicità vagheggiata o persa. In questa fragilità che siamo. Che forse possiamo solo raccontare.
E’ di noi merdionali caparci come mandorle e sbucciarci, svenderci e finanche abituarci.
Ed è per questo che trovo vera e suggestiva l’idea che ci si allontani momentaneamente dal male per evitarlo, fuggirlo, illudersi – forse – che in un altro luogo non esista.
Ma è bellissimo il ritorno a quel male come parte necessaria di noi, come ombra che si apposta comunque, che si riverbera in un rivolgimento (innocenza, salvezza?) solo se attraversata, riscoperta, navigata.
Dipanare il nodo tra luce e buio non è forse dello scrittore. Lo scrittore è anzi colui che cavalca entrambi e li racconta, smemorato e lucido, come chi si lasci cogliere di sorpresa e al tempo stesso scopra.
Ma è a romanzi come questo che si deve la percezione del bene come conquista e finanche libertà. E’ alle storie così che si deve l’idea che un viaggio, e un rimedio all’esilio, sia possibile nei libri.
Bravissima. Un abbraccio caldissimo a te e uno a Remo
@ Rosella:
ringrazio per la prima risposta (la seconda non l’ho avuta) ma capisco bene che tu abbia concentrato “l’attenzione” sul libro, come infatti è il tema del post… io invece mi riferivo alla tua preparazione, esperienza di vita e di studio, infatti non a caso chiedevo come la vedessi in qualità di osservatrice, abitante, ecc ecc nonchè scrittrice. Anche la seconda domanda era posta in questi termini.
Ma come ripeto, capisco benissimo, perciò perdona la mia curiosità che tracimava al di là del contenuto del libro. (Difficilmente riesco a valutare un libro separatamente dalla conoscenza dell’autore, perciò le domande).
ti auguro buone cose.
francesca cenerelli
@ S. Gaetano Faila.
Le osservazioni fatte da te sono indiscutibili.
Ma io non credo affatto alla globalizzazione geografica, nè culturale. Non basta identificarci in un’unica nazione e con un’unica Costituzione
Esiste un Sud e un Nord con connotati diversi.
Cultura diversa. Tradizioni diverse.
Diverso non significa nè peggiore nè migliore- significa RICONOSCERLE. Trovo significativamente diverse le popolazioni e sinceramente, anche da difendere e proteggere. Non è uniformando che si ottiene democrazia, nè legalità. Direi che è necessario fare una precisazione, perchè laddove la democrazia. DIVERSO non è da considerare nella sua accezione negativa, così come non è da considerare nemmeno la parola MERIDIONALISMO.
Imporre parole unilaterali significa creare un modello a cui tutti devono uniformarsi, un modello dettato dal più potente, dove appunto il diverso sarà emarginato.
No, non è così che a mio avviso si risolve la questione. Esiste un Sud, e per Sud si intende non un Sud geografico, ma un Sud nelle metropoli (le periferie, i suburbs) esistono realtà con alto tasso di criminalità. Che poi sia stata esportata e aiutata dal Nord, è verità.
E certo che Saviano ha parlato delle collusioni, degli affari che si stringono ovunque nel mondo, ma ricordati che il ceppo parte dal Sud, dalla terra che Saviano ha voluto raccontare per salvare dall’omertà, dalla situazione difficile, più difficile che al Nord.
Perciò non te ne avere a male, ma io continuerò a chiamare un abitante del Marocco marocchino, della Turchia, turco, dell’Afghanistan afgano, della norvegia, norvegese. E credimi, assolutamente con rispetto, anzi, con doppio rispetto per la propria cultura e tradizione, che mai dico mai spero sia sopraffatta dalla globalizzazione…
Grazie, Simona. E grazie anche a te, Francesca.
Francesca, credo che Gaetano possa essere d’accordo su molte delle cose che sostieni…
In attesa del ritorno di Rosella, ripropongo – di seguito – le domande del post… nell’eventualità in cui qualcun altro volesse provare a rispondere.
– Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?
– Qual è il confine tra colpa e innocenza?
– E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?
– Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?
– Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?
– Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?
Una serena notte a tutti.
Leggendo parte del libro, mi rendo conto di aver vissuto molte delle cose, immigrata, senza radici, senza fede………. guardandomi indietro mi rendo conto che sono diventata tutto sommato una bella persona, tenedo conto del mio vissuto. Sono fuggita assieme ai miei all’età di 12 anni dal comunismo, a piedi seguiti da soldati armati, vissuta di nulla. Non ho piu radici, non piu patria, non piu legami, ma io mi basto (a volte), e quando questo non succede il mio amore mi ricorda che le mie radici sono dentro il suo cuore. Questo è felicita, guardare i miei figli che non dovranno mai passare quello che ho passato io, nata insieme a loro, le mie radici, la mia fede, la mia felicità sono mio marito e i miei figli. Ma a volte il passato ritorna, riempie gli occhi di lacrime, la mente di ricordi, che non fanno piu male, ma ricordano sempre che la vita puo cambiare, deve cambiare grazie all’amore.
Grazie Massimo di quest’opportunità
Nicole
nicole, non sai che valore hanno per me le tue parole. grazie
cara francesca, scusa, non ho risposto per distrazione. o forse perché, essendo io una donna, mi trovo spesso a ricevere domande di questo tipo. agli uomini non vengono mai fatte. esistono gli scrittori. e poi gli scrittori donna, come una minoranza della categoria. lo so che tu hai fatto questa domanda in buona fede, anzi: proprio perché sei una donna, chiedi che cosa di diverso può dire la sensibilità femminile rispetto a questi temi. però io non posso dirlo, in modo teorico. io non posso prescindere dall’essere una donna, italiana, calabrese, con certi genitori, che vive in un certo luogo, che è bassa, che ha i capelli neri, che ama un certo uomo… intendo dire, non prescindo da nulla, mentre scrivo. epperò non ne tengo conto. io non lo so. quindi non riesco a rispondere alla tua domanda. dovrei guardarmi dall’esterno e fare il compito del pubblico, dei critici. mi sembrerebbe anche di farmi un torto, come scrittore che non vuole essere uno scrittore donna. ti prego di perdonarmi, e grazie moltissime per la tua partecipazione. credimi, però, che mi interesserebbe molto sapere da te, quando e se deciderai di leggere il libro, che cosa risponderesti tu alla tua domanda. buonanotte.
cara simona,
trascrivo queste frasi perché meritano di essere rilette:
“Mi piace credere che il luogo della scirttura sia quella libertà segreta e animale in cui seguire, per una volta, i suoi abitanti senza allestire alcun processo”.
“E’ di noi merdionali caparci come mandorle e sbucciarci, svenderci e finanche abituarci”.
“Dipanare il nodo tra luce e buio non è forse dello scrittore. Lo scrittore è anzi colui che cavalca entrambi e li racconta”.
grazie per questo bellissimo commento.
ho voglia di leggerti, presto.
caro marcello, scusami se ti rispondo solo adesso, ho riguardato i commenti e mi sono accorta che non ti avevo risposto.
come faccio a dire un solo libro importante nella storia della letteratura per me? è impossibile, sono tanti. posso dire gli autori che amo di più: duras, bachmann, lispector, lobo antunes, kristof, szabo, faulkner, fante…
guarda, l’elenco è incompleto, o sbagliato. è difficile dire.
un libro sulla mafia, invece, no: non ce l’ho.
i libri che mi sono stati vicino mentre scrivevo questo però sono soprattutto tre: conversazione in sicilia, i malavoglia, il diario di anna frank. li amo moltissimo tutti e tre. di un amore non intellettuale. li amo come si amano i parenti.
caro massimo, non sono andata in calabria a presentarlo, non ho avuto un contatto diretto, insomma. c’è quella recensione del quotidiano di calabria, però, molto bella. se la trovo, la posto. domattina.
antonella, io non ho mai visto caterina come un personaggio debole, infatti. io la vedo come il personaggio più forte di tutti, anche se si fa carico delle colpe di tutti, perché vuole essere “coscienza”. chi ama vede le colpe, secondo me, le vede anche se ama. ma vede anche il resto. pensa a lena, la figlia di ‘ntoni. come fa a non amarlo, quel padre? è suo padre. quando lo vede al balcone del sesto piano mai finito – come se lo sapesse lei che lui sta aspettando la morte – quando corre da scuola per chiamarlo e lui si gira a guardarla, le tremano le mani. è suo padre. lei vede questo, prima questo. ecco.
il commento di ivano mi interessa perché pone il problema della religione. io sono atea, e penso a dio ogni giorno esatto della mia vita. anche nella stanza di sopra, quel padre immobile, muto, quel padre che non protegge e non dà risposte: chi è altro è se non dio? ester non vuole entrare nella sua stanza, non accetta un padre che non può prendersi cura di lei, ma dopo la violenza che subisce – dopo la sua personale catastrofe – non sa fare altro che andare da lui, oltrepassare la soglia della stanza, picchiarlo e poi, di colpo, stendersi nuda sopra di lui. svegliarlo.
non pensavo a questo quando l’ho scritto, affatto. eppure, un giorno, mentre eravamo in macchina, mi sono girata verso il mio fidanzato che guidava e ho detto: è dio. il padre di ester è dio.
scusate se lo ripeto, leggo quel commento di nicole e penso che vorrei conoscerla, quella storia. che ha detto in poche righe molto di quello che volevo dire col mio libro.
Caro Massimo, chi ama, ritorna.
Difatti ritorno per dirti che ho seguito il tuo consiglio di ascoltare (e vedere) l’intervista concessa da Rosella Postorino.
Intervista esauriente, da riascoltare per farsi un’idea ulteriore – dopo la lettura di questo post – del romanzo “L’estate che perdemmo Dio” anche nella prospettiva dell’acquisto.
Un commento sull’autrice? Ha due occhi, una voce e un’affabulazione intensi, che ti catturano magneticamente. Non è una promessa della buona narrativa impegnata e profonda, è una solida realtà: non a caso naviga nel mare delle lettere non su una zattera qualsiasi, bensì su una nave bene attrezzata e per di più col vento in poppa.
Buona fortuna a Rosella, dunque.
Alla domanda, poi, se sia possibile raggiungere la felicità, mi frullano in testa due definizioni amarissime della felicità, tratte da “Il mito di Sisifo” di Camus e da “L’uva spina” di Cechov.
Camus scrive, pensa un po’, che una sola cosa è più tragica del dolore: la vita di un uomo felice; mentre Cechov dice che ai suoi pensieri sulla felicità umana si era sempre mescolato qualcosa di malinconico, diventato successivamente penoso, vicino alla disperazione, alla vista di un uomo felice. Tant’è.
Un giorno, attraversando il giardino del prete del mio paese, mi sono imbattuto in un fiore splendido. Gli ho chiesto che fiore fosse. Era il fiore della felicità, che dura – disse – un solo giorno. Se fosse durato di più, gli avrebbero dato un altro nome.
Perché la felicità è come un mito – aggiunse. Non appartiene, cioè, alle cose di tutti i giorni, al quotidiano.
Sarà anche un mito, ma io credo che la felicità consista nell’assaporare (raggiungere) pienamente, quietamente, anche ogni tanto, ciò che di più abbiamo desiderato – o desideriamo – nella vita. Oppure cercare di assaporarla, la felicità, immaginando di esserci già riusciti.
Ma fate un po’ voi. Non ho idee diverse per la mente.
A. B.
— Antonella Lattanzi.
Caterina è debole tra i deboli, e la sua forza non scaturisce da lì, perché lì migliaia di persone si sono bruciate. La sua forza scaturisce dall’opporsi a questo, scaturisce dai suoi No.
Grazie Rosella. Sei in gamba.
Ciao Rosella, le mie parole sono venute d’impeto, in automatico, dal cuore. Il mio vissuto fa parte di me. Grazie a te del bellissimo libro.
Una bella discussione. Davvero. Un piacere leggervi.
Tanti auguri a Rosella Postorino per questo libro e quelli che verranno.
Quando vuoi, io ci sono, su facebook, come pirotecnica gardin, o altrimenti con un’e-mail.
grazie a te delle belle parole
Caro Massimo, devo ancora rispondere alle tue domande ma ho paura di scrivere stupidaggini.
Perché poni sempre domande così difficili? 🙂
Sono rimasta colpita quando Rosella ha scritto che questo è un romanzo sulla famiglia. Chissà quante famiglie vivono situazioni simili!
L’estate che perdemmo Dio di Rossella Postorino, pubblicato da Einaudi, è una gran bella storia: di quelle – e non capita spesso con i libri recenti – che si leggono di un fiato e si ha anche voglia di rileggere. Chi se ne vuole fare un’idea può spulciare internet, che raccoglie numerose critiche, talune molto interessanti. Qui vorrei sottolineare due aspetti, che me lo hanno fatto particolarmente amare. Intanto, è un libro che parla di quell’infanzia che si trova a crescere in ambienti – anche se il nome non viene mai fatto – di ‘ndrangheta. Che, con la mafia e la camorra, è il serpente a tre teste che dilania il sud, divorando i suoi stessi figli: è possibile crescere non ‘ndranghetisti, non mafiosi, non camorristi se si nasce in certe famiglie, in certi paesi e come? E poi è un testo intessuto di espressioni del reggino, che per me sono il sangue che scorre veloce e trova strade che lo portano a contatto con la sorgente della vita: vertigine del respiro che sembra perdere ogni stabilità e, invece, trova il suo equilibrio. La Postorino intesse il testo di espressioni che non servono a fare colore – come è ormai di moda – ma sono strettamente parte della storia: in quanto proprio quelle parole sono il modo in cui i protagonisti percepiscono cose, fatti ed emozioni.
–
Chi focu chi ‘ndi vinni.
Malattie, morti, ma anche una persona intollerabile che bisogna sopportare: non il fuoco della passione che ti attraversa le viscere, ti consuma e ti rinnova, ma le fiamme che un vento malvagio ti porta addosso togliendoti pelle e respiro. Il male, irreparabile, che ti entra dentro.
–
Ci scialiamo.
Che, dalle nostre parti, veniva e viene pronunciato più stretto: ci scialamu: che è un piacere forte e sottile: l’acqua fresca che ti bagna la fronte assolata, una granita sul Corso, ritrovarsi tra amici intorno ad una tavola imbandita.
–
Aundi simu? Ancora ci vòli. Viaggi lunghi o avvertiti come tali. Dove alla richiesta:“Dove siamo arrivati? Dove stiamo in questo momento?” non si risponde mai direttamente: “Siamo a questo punto, ci manca tanto”, ma sempre: “Ci vuole ancora”, ovvero: “Stai calmo, abbi pazienza, non lo chiedere più”.
–
Ficarazzi. I fichi d’india hanno qualcosa d’esotico, potrebbero essere un frutto con una buccia sottile e delicata; i ficarazzi non potrebbero che essere quello che sono: una dolcezza dentro una corazza armata.
–
Lassila iri ‘a figghiola, vòli zanniàri. ‘A figghiola non si può toccare, mai. I bambini sono – erano – liberi di andare e venire e di prendersi anche qualche confidenza: di scherzare. Le questioni di puntiglio – “è lui che deve venire da me non io da lui” – diventavano (diventano?) questioni d’onore, ma le liti tra famiglie, le sciarre, dopo cui non ci si parla(va) per anni e spesso per generazioni – tanto che talora nessuno ricorda più come sono iniziate – non tocca(va)no i bambini piccoli, per i quali veniva mantenuta una specie di zona franca.
–
‘A casetta. Può essere una casa piccola, ma, di solito, è qualcosa di più e di diverso. Può essere il nome proprio di un campo,ovvero di un giardino; può essere la casupola degli attrezzi, può essere una casa più vecchia accanto ad una più nuova e più grande: e, in questo caso, è ci abitino i genitori, mentre nell’altra ci sia un figlio sposato, con la sua famiglia, o, ancora meglio, i nonni anziani.
–
‘A penso. E’ l’idea intuitiva, che non ha prove né dimostrazioni e che, spesso, prende la realtà più dell’analisi più studiata.
Bizzòlo. Ovvero ogni scalino della scala esterna, di pietra: da noi pronunciato più stretto, bizzòlu. Quando ci si riuniva in cortile nella rua, due o tre o anche di più si sedevano sugli scalini – chissà, non bastavano le sedie, o ci si sentiva meglio a vedere, da lì, un pezzo di campagna, col grano che faceva capolino nel verde. Molto usata l’espressione ‘u bizzòlu du triulu, che in origine aveva un solo significato: essere incinta senza marito, e quindi essere ridotta a piangere a lutto – tiniri triulu è piangere i morti – seduta sull’ultimo scalino di casa, prima di esserne scacciata, ma poi, si è allargato a indicare qualcuno ridotto in condizione di lacrimevole sventura.
–
Mara. ‘A mara – e così tutte le varianti, ‘u maru, ‘u maricchieddu, ’i mari , – indica una povera disgraziata, una che ha (avuto) un guaio; ‘mmara è, invece, la comare è può essere applicato a tutte le donne anziane anche sconosciute. A Napoli si usa, talvolta, chiamare Mari una Maria; a Reggio, mai.
Cara Rosella Postorino, complimenti!
Ho voluto conoscerla attraverso la sua intervista e richiesto il suo romanzo in libreria qui a Milano; è arrivato oggi. Mi sono convinto che la colpa delle proprie origini riguarda tutti Noi nel bene e nel male: una sorta di peccato originale che non ci abbandonerà mai, forse.
Con empatia,
Luca Gallina
– Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?
– Pensando alle mie radici – medio borghese – o colto allo stesso modo la colpa di non aver fatto molto di più rispetto agli esempi alti ricevuti. Come se le mie origini fossero influenti nella mia impossibilità a continuare la tradizione familiare.E’ difficile liberarsene anche se si sono avuti gli strumenti adeguati per affrontare la vita.
– Qual è il confine tra colpa e innocenza?
– L’esperienza mi insegna: che il nostro divenire è fatto di alibi continui che li accomuna entrambi.
– E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?
– Con la consapevolezza raggiunta,oggi, ritengo: che le proprie radici rappresentino una spinta necessaria e la memoria nel tempo traslerà nel futuro arricchito senza distinzione malefica o benevola delle proprie origini.
– Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?
– Il cordone ombelicale va staccato quando ci si sente in grado di formare una nostra famiglia, a prescindere da tutto.
segue%
– Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?
– La società siamo tutti Noi e non possiamo che intervenire attraverso le istituzioni precostituite.
– Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?
– La felicità non esiste,in modo permanente, se non nella capacità individuale di intravederla ovunque e scegliere il modo migliore per condividerla nell’azione e nel pensiero con gli altri.La speranza e l’amore universale, talvolta, ci possono venire in soccorso.
– P.S. Caro Massimo, grazie per le domande, spero di non essere stato O.T: ho pensato che la colpa riguardasse anche chi “è nato bene”. La colpa delle proprie origini riguarda tutti Noi nel bene e nel male: una sorta di peccato originale che non ci abbandonerà mai, forse!
– Baci & Abbracci
– Luca Gallina
Mi ha molto colpito la definizione di Rosella “la famiglia, luogo dell’amore maldestro” e poi il suo ruolo salvifico solo quando “sfrondata”, “diventata solo singoli, irrinunciabili affetti, una famiglia come insieme nudo di persone a cui è impossibile rinunciare, che bisogna proteggere a ogni costo, per le quali si deve lottare per rimanere in vita”.
Senza voler sviare il tema dal libro di Postorino, che non ho ancora letto, ma credo a questo punto leggerò, credo che questa medesima convinzione sia alla base di “La Strada” di Cormac McCarthy, che tanto successo (anche qui: vedi il “nostro” Book Award dell’anno scorso) ha avuto. McCarthy ha portato all’estremo proprio questo pensiero, liberando la sua storia da ogni elemento di troppo, credo: un bambino e suo padre, un mondo ridotto al suo limite, senza più società, senza organizzazione, senza città, con i cannibali da sfuggire, gli altri pochi sbandati che si incontrano da temere e da valutare con attenzione se il caso di aiutare o no. Alla fine rimane proprio solo l’amore tra il padre e il figlio, e il senso assoluto di protezione che governa il loro sentimento, senza null’altro.
Per questa sua “semplificazione al limite” il libro è tanto piaciuto (o da altri detestato).
maria franco, sei una grande! il dialetto è la lingua dell’emotività. è un modo più esatto di definire le cose. ecco perché l’ho usato. per uno scrittore è un’esperienza pazzesca avere a dosposizione anche quelle parole in più, per dire. nella ricerca della precisione, della parola “che squadri da ogni lato”, il dialetto è uno strumento prezioso. volevo ringraziarti per il bel post che hai scritto e soprattutto perché, dopo anni e anni che lo sentivo, ho finalmente capito il senso del detto “spassu i fora e triulu i casa” 🙂
caro carlo s., rimane questo, sì, anche se nel mio libro è travolto dal vortice di tutto il resto, e quindi nemmeno i personaggi lo sanno, che è così. grazie per avermi fatto ripensare a un libro come la strada.
caro luca gallina, il mio primo romanzo si apriva con un’epigrafe di marguerite duras: “il difficile non è raggiungere qualche cosa, ma liberarsi dalla condizione in cui si è”. credo che questa frase sia profondamente connessa a quello che abbiamo detto sulla colpa delle origini, e sul resto.
grazie di aver comprato il romanzo… 🙂
grazie per gli auguri e i complimenti a renato e alina!
Anzi, Rosella:
trovo assolutamente necessario ed importante l’essere donna, necessario ed importante parlare, forse proprio inconsciamente raccontare, dell’essere donna; trovo che non sia ancora abbastanza, nonostante tutta l’emancipazione, tutto qui.
provo a volte, una morsa dolorosa quando penso ad autrici troppo spesso dimenticate, mentre autori vengono continuamente citati. Non so, a me capita spesso, ancora più spesso dopo aver letto Il Secondo Sesso, di Simone de Beauvoir.
Lusingata, se leggerò il tuo libro, sicuramente cercherò di tracciare risposta alla mia stessa domanda.
buone cose,
francesca cenerelli
Un saluto al volo per ringraziare ancora una volta Rosella, per i bellissimi commenti, e i nuovi intervenuti: Carlo, Luca, Nicole, Maria.
Nicole, sono sicuro che hai una storia molto interessante alle spalle. Ti ringrazio moltissimo per l’aneddoto che ci hai raccontato.
Come ha scritto Rosella nella nota finale del libro (e come ha in parte precisato qui), sono molti gli omaggi più o meno espliciti a opere e autori.
Tra gli autori omaggiati: Anna Frank, Giovanni Verga, Judith Kerr, Borges, Vittorini, Ingeborg Bachmann, Manzoni…
E poi ci sono riferimenti a film, canzoni, cartoni animati…
Cara Rosella, un’altra domanda che desideravo porti è la seguente…
secondo te è più facile raccontare dei propri luoghi continuando a viverci dentro o distaccandosene?
Quali, i pro e i contro?
E secondo gli altri?
DIAVOLO, HANNO PUBBLICATO UN’ALTRA STORIA VERA. NON RIUSCIRO’ MAI A LIBERARMI DI QUESTA FOTTURA REALTA’.
UN SALUTO A TUTTI VOI.
CIAO MASSIMO, CIAO FRANCESCA CENERELLI, ROSELLA PASTORINO, CARLO S., LUCA GALLINA. CIAO MARIO FRANCO, ALINA, NICOLE, RENATO, GIANNA, IVANO PORPORA, AUSILIO BERTOLI, ANTONELLA LATTANZI, SIMONA LO IACONO, AMELIA CORSI. CIAO MARGHERITA, CIAO LUCA MIRARCHI, GAETANO FAILLA, SOFIA, MARCELLO FERLITO, BARBARA GOZZI, REMO BASSINI, CIAO ALBERTO, CIAO MARIA LUCIA RICCIOLI.
ROSSELLA, SEMBRA FASCINOSA LA STORIA E DI CERTO LO E’ IL TITOLO. SE CI METTI DIO IN COPERTINA, AZZECCHI SEMPRE, LO SAI TU E LO SA FALETTI. SE POI DIO RISULTA COME AUTORE, DI SICURO VERRA’ FUORI UN BEST SELLER EPOCALE.
@ Rosella Postorino
La Calabria è terra fertile e di tutto rispetto in diversi ambiti, specie culturali e letterari. Qui nel Veneto, i nomi di Corrado Alvaro, Leonida Répaci, Dante Maffia, Mario Strati, Corrado Calabrò, Vincenzo Padula, Vincenzo Guerrazzi, per citarne alcuni, sono non solo letti ma tenuti nella massima considerazione.
Mi permetti – perciò – una domanda che sa di scontato ma serve per comprendere l’origine della tua vis narrativa?
Gli autori appena citati, e tanti altri ancora, hanno avuto un’attrazione potente se non un valore di riferimento oltre che nella tua formazione, anche nella tua volontà d’intraprendere la strada della narrativa?
Un caro saluto, A. B.
Il titolo mi sembra bellissimo e fortemente evocativo. Ho letto il primo capitolo, e mi ha più che convinto. Infatti ieri ho acquistato il libro.
Complimenti all’autrice anche per il tono spigliato nell’intervista.
@Alessandro Cascio
Oh, perbacco!
Sto leggendo di Roberto Vecchioni, edito da Einaudi – collana i coralli : SCACCO A DIO.
Vuoi dire che…………….d’accordo!
Ciao,
Luca Gallina
alessandro cascio, qual è la nuova storia vera che hanno pubblicato? non quella del mio libro, se questo intendeva. io mi chiamo rosella con una s, e postorino con la o. dio in copertina ci sta non certo per scelte di mercato, tanto è vero che non ho scritto un bestseller, purtroppo, al contrario di faletti. in ogni caso l’autrice sono io, e questo lo rivendico davanti a qualunque dio 🙂
caro ausilio, di questi autori ho letto naturalmente alvaro, ma anche calabrò. apprezzo molto corrado alvaro, ma l’ho conosciuto tardi, quindi non ha avuto un peso molto forte nella mia formazione. intendo non come pavese, per esempio, per parlare dei miei “amori adolescenziali” 🙂
Rosella (con una esse), ora la mia recensione l’hai letta.
Ripeto: è un libro che consiglio vivamente perché è un libro feroce, e poi di ispirazione, e poi è un gradino.
Salirci sopra – e dentro – aiuta anche a comprendere la bestialità di chi canta certe canzoni e alle critiche risponde che sono cori da stadio.
C’è chi dietro quei cori da stadio gioca la propria salvezza.
Cara Rosella Postorino, grazie!
Baci&Abbracci
Luca Gallina
A Ivano, quando si parla di libri, sarebbe meglio lasciare fuori la politica, ci sono altri posti dove tirarla in ballo. I libri sono nutrimento per l’anima ed insegnameto per la vita, quindi meglio parlare (scrivere) di questo.
caro massimo, secondo me per scrivere dei propri luoghi è meglio distaccarsene un po’, soprattutto fisicamente. altrimenti si rimane troppo coinvolti. è quello che sto cercando di fare anche io nel mio piccolo.
ciao a tutti.
Nicole, non sono d’accordo. I libri non sono nutrimento per la vita, ma vita. Quindi i libri sono, e direttamente, politici (anche quando non parlano di politica).
Secondo me, chiaro. 🙂
caro massimo,
non so rispondere davvero a questa domanda: ci sono scrittori che parlano dei propri luoghi continuando a viverci, e altri – come me – che invece pensano sia utile distaccarsi per poter vedere le cose da un “altrove”, e metabolizzarle. in fondo anche salvatore, il padre del mio romanzo, fa questo. quando ritorna a nacamarina, sente per la prima volta la sua diversità. è perché l’altrove che prima non poteva nemmeno immaginare lo ha cambiato, senza che lui lo sapesse.
però, nel mio caso, non è stata una scelta. ho vissuto in città diverse e, se ci pensi, nel mio primo romanzo ho raccontato una storia ambientata in una provincia di mare, che assomigliava molto al luogo in cui sono cresciuta (imperia). ma l’ho raccontata da roma, solo dopo essere venuta a vivere a roma. si può dire che solo quando sono approdata a roma – e mi mancava per la prima volta tutto – ho iniziato a scrivere sul serio.
Cari amici, vi ringrazio tutti per i vostri nuovi commenti.
@ Alessandro Cascio
Caro Alessandro, premesso che questo libro di Rosella (a mio giudizio) è davvero bello, mi permetto di segnalarti un libro che – a quanto pare – è proprio scritto da Dio. Dicono che sia il più grande bestseller di tutti i tempi:
http://www.ibs.it/code/9788821562266//bibbia-via-verita.html
😉
Cara Rosella,
grazie per i tuoi interventi e per quest’ultimo commento in particolare.
Ti confesso che anche io avrei difficoltà a rispondere a quella domanda. In fondo non facciamo altro che adeguarci alla vita, e la nostra scrittura ne segue i percorsi (anche rispetto a dove ci è dato vivere).
Nei precedenti commenti si è parlato di felicità (per via di una delle mie domande).
Molti di voi hanno fatto ricorso a citazioni appropriate. A me – di riflesso – viene in mente lo stracitato incipit di Anna Karenina (sulle famiglie infelici).
Però, per farvi sorridere, volo un po’ più basso e cito Al Bano e Romina.
http://www.youtube.com/watch?v=fs8r-8EJ4c8
Cos’altro è la felicità se non: un bicchiere di vino con un panino?
Be’, mica hanno tutti i torti…
🙂
CIAO ALESSANDRO CASCIO. DIAVOLO D’UNA LETTERATURA… C’HAI RAGIONE. FAMMI SAPERE QUALI SONO I LIBRI CHE TI HANNO FOTTUTO DI PIU’. CURIOSA…
Ho aperto il libro stanotte verso le tre. Le prime trenta pagine mi sembrano incoraggianti e sono convinto che la lettura andrà a buon fine. Ritorno sul luogo del delitto dopo essermi imbattuto casualmente nell’opus primum di Rosella Postorino e aver apprezzato (e ormai credo interamente metabolizzato) le atmosfere statiche e in penombra della “stanza” (per i curiosi, ecco più o meno cosa ne pensavo poco dopo aver chiuso il libro e ne scrissi per pickwicki: http://www.pickwicki.com/pages/_Book.aspx?BID=CadzeTUFMC21xTlURPXZwQ%3d%3d ). Riguardo all’ “estate” naturalmente non mi esprimo prima di aver chiuso il libro ma seguo con interesse il vivace dibattito nato tra le pagine!
Ho finito di leggere il libro della Postorino una settimana fa e ne consiglio la lettura. Sono d’accordo con Maugeri sul linguaggio fluviale e con Pent sulle capacità introspettive dell’autrice. Adesso sono curioso di leggere il precedente romanzo.
Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?
(se la causa del male sono le radici l’unica colpa sarebbe nel far finta di nulla, nel non prenderne consapevolezza)
Qual è il confine tra colpa e innocenza?
(il confine varia, è soggettivo e mutevole. a seconda degli individui e delle società. una cosa che è colpa per qualcuno può essere innocenza per altri)
E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?
(non credo sia possibile, se non rinnegando in parte se stessi)
Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?
(si può amare un padre pur non condividendone lo stile di vita? credo di sì, ma fino ad un certo punto)
Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?
(molto alta. ma non è solo questione di responsabilità. è anche una questione di prevenzione sociale)
Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?
(la ricerca della felicità prescinde dal contesto esterno in cui ci troviamo a vivere. riusciamo ad essere felici nella misura in cui riusciamo a guardarci dentro ed a vederci per come siamo. e ad accettarci così)
grazie per la bella occasione e auguri a rosella postorino.
Gentile Rosella Postorino, una curiosità. E’ già alle prese con la scrittura di un nuovo romanzo?Ho letto il suo primo e mi è piaciuto molto. Avrò il piacere di leggere anche questo.
La felicità secondo Albano e Romina è proprio forte. 🙂
Domanda per Rosella: se dovessi pensare ad una colonna sonora per il tuo romanzo che musica sceglieresti?
Grazie ancora per i nuovi commenti.
Saluto gli ultimi intervenuti: Luca, Sebastiano, Alfredo, Mariella.
Gianna, un bicchiere di vino ed un panino per te:-)
Carina la domanda sulla colonna sonora…
Sì Rosella, scusa per l’errore. Quando vengo qui gioco sempre, Massimo lo sa. Massimo, era proprio quello che intendevo. Un saluto particolare a Francesca. Fra, quello che davvero mi è piaciuto è stato Cecità di Saramago, nella stessa collana di Rosella (che qualsiasi cosa dica, non deve curarsene perchè pubblica Einaudi che è una garanzia, mica Il Filo 🙂 ). Mi ha cambiato la vita Memorie di una Ladra anche se Pulp di Buko, Fight Club di Palhaniuk e il primo di Dave Eggers sono stati significativi. Compro 10 libri al mese, ma 7 li lascio a metà perchè, come diceva London, non vale la pena spendere tempo per qualcosa che non ti assale dall’inizio, vista la mole di libri pubblicati. Storie vere, storie di vita ordinaria, mafia, camorra ndrangheta e politica preferisco lasciarli ai giornalisti a meno che non sia la Biografia di Andy Warhol o Gesù Cristo. E’ la fantasia il punto di partenza per cambiare il mondo, non la passiva constatazione della realtà. Possiamo lottare contro la mafia, ma non cambierà nulla se non riusciremo a far leggere Il piccolo principe a un giovane Totò Riina. Baci a tutti.
Giusto, Alessandro. “Il piccolo principe” dovrebbero leggerlo tutti. Ma non sarebbe male leggere un testo come – ad esempio – “Cose di cosa nostra” di Giovanni Falcone. Forse farebbe un baffo a un giovane Totò Riina, ma potrebbe risultare formativo per il giovane figlio del ragionier Rossi.
Rimane implicito il fatto che ognuno ha i suoi gusti:-)
alessandro cascio, non sono nella stessa collana di saramago, e non credo nemmeno che un editore sia garanzia di nulla, lo dico a mio discapito, ma è così.
trovo molto banale e riduttivo che lei parli di “passiva constatazione della realtà”. è una frase che mai legherei alla letteratura. troppo facile la sua divisione tra fantasia e realtà. di certo non il mio, ma moltissimi grandi romanzi lo dimostrano.
cara mariella, mi perdoni se rispondo solo ora, ma sono stata invitatata a una bella manifestazione in ciociaria per il weekend, con altre scrittrici e altre donne interessanti. davvero due belle giornate.
no, per ora non sto scrivendo nessun nuovo romanzo. ho scritto una pièce teatrale, la trova nel volume collettivo WORKING FOR PARADISE, uscito per bompiani i primi di giugno.
grazie per avermi letta e a presto.
r
sceglierei la canzone ederlezi di goran bregovic, parecchi album di joni mitchell, naturalmente tutto de gregori e molto de andré, siracusa di ivan graziani, qualche canzone dialettale e vita rubina di moltheni, ma anche due canzoni moooooolto pop del 1987, bella d’estate di mango e gente di mare di tozzi e raf (sic!), insieme alla colonna sonora di candy candy e kiss me lycia 🙂
cara gianna, lei (solo se lo ha letto) invece cosa sceglierebbe? 🙂
Cara Rosella,
io sono siracusana, come Simona Lo Iacono… e la canzone di Graziani è bellissima… dopo Cristina d’Avena e i Cavalieri del re…
🙂
W Mango, Tozzi e Raf…
Torniamo seri. Concordo sul fatto che non si può discriminare la realtà rispetto alla letteratura e viceversa.
Un libro basato sulla cronaca non è da meno rispetto a una storia inventata e viceversa.
La parola fine. Ora ho detto quello che ne penso e ne penso bene per cui vi consiglio la lettura del romanzo… ho enumerato qualche ragione, per i più arditi, su pickwicki: http://www.pickwicki.com/pages/_Book.aspx?BID=FpoxlA6UhliNzrxiqZgh7g%3d%3d#
Spero che condividiate il piacere di leggere, anche questa volta, con me.
caro luca, grazie mille per la tua recensione, che è perfetta, nel senso che ha colto del romanzo proprio quel che il romanzo voleva fare: e mica succede sempre 🙂 un abbraccio
Un saluto e grazie per i nuovi commenti.
Rosella, poi mi dirai del tuo weekend letterario… si direbbe molto interessante:-)
Grazie per essere intervenuta ancora.
Grazie mille a Rosella per aver confortato le mie virtu’ critiche. E grazie a Massimo per aver ospitato una vivace conversazione sul suo blog. A voi dedico un caro saluto e -vedendolo poco meno che realizzato- un passo celebre e forse abusato (ma so che mi perdonerete):
“Quelli che mi lasciano
proprio senza fiato sono i libri
che quando li hai finiti di leggere
e tutto quello che segue, vorresti che l’autore
fosse un tuo amico per la pelle
e poterlo chiamare al telefono
tutte le volte che ti gira”
J. D. Salinger, Il giovane Holden (trad. it., Einaudi)
Il libro inizierò a leggerlo presto, ma per candy candy ci esco pazza 🙂