Non so se ci avete fatto caso, ma qualche giorno fa (per l’esattezza il primo febbraio 2007) La Stampa ha pubblicato un articolo di Javier Cercas dal titolo: Verità, non stile voglio da chi scrive. Il sottotitolo mi è parso ancora più interessante: Un pamphlet contro i preziosismi ridicoli degli autori firmato dal dimenticato Felipe Azaiz si dimostra di straordinaria attualità.
Per farvela breve qualche settimana fa, in un negozio di libri usati, l’autore dell’articolo si imbatte in un opuscolo pubblicato a Tolosa nel 1946 dal titolo Arte di scrivere senz’arte. L’autore è un certo Felipe Alaiz. Cercas acquista il libro, lo legge e ne rimane estasiato.
*
Ora vi riporto uno stralcio del succitato articolo (che potete leggere per intero cliccando qui). Poi, se vi va, ne parliamo.
*
“L’Arte di scrivere senz’arte (…). Si tratta di un piccolo saggio sullo stile condito, com’è prevedibile, di buone intenzioni e di ingenuità, ma anche, com’è meno prevedibile, di geniali stravaganze (…). Comunque, a me sembra fondamentalmente esatta la sua concezione di stile che, tra noi, continua a essere essenzialmente decorativa. Il lettore, incapace di avere fiducia in se stesso, spesso non si fida del proprio gusto, ma di quello che gli assicurano gli debba piacere, e ciò non è quasi mai l’efficacia o l’emozione, ma esclusivamente l’apparenza o l’ornamento: l’aggettivo desueto, l’acrobazia sintattica, la metafora vanitosa. Questo lettore trova degno di merito che lo scrittore scriva «destriero» invece di «cavallo», «cilestrino» invece di «azzurro», quasi cercasse indizi che gli chiariscano se ciò che legge abbia o no il diritto di piacergli. Questo lettore dimentica che la frase «i consueti accadimenti che si verificano nella via» non è letteratura, mentre lo è la frase «quel che succede in strada»; dimentica che il fine della letteratura non è la bellezza, ma la verità, supponendo che le due cose non siano la stessa; dimentica che quello che sembra letteratura non è mai letteratura, perché scrivere bene è l’opposto di scrivere belle frasi e perché la vera arte è quella che nasconde il trucco (o, come recita il precetto latino: «Ars est celare artem»); dimentica, infine, che bisogna incominciare a darsela a gambe quando uno scrittore viene definito «uno stilista», termine che quasi sempre è sinonimo di inutilità o di verbosità (o delle due cose insieme), perché lo stile vero rasenta quasi sempre l’assenza di stile. Poche persone l’avrebbero detto meglio di Hannah Arendt quando, parlando dello scrittore meno imprescindibile del XX secolo, afferma: «L’unica cosa che attrae e seduce il lettore nell’opera di Kafka è la verità» alla quale egli arriva «con la sua perfezione senza stile», visto che «qualsiasi stile distoglie dalla verità, bella per se stessa».
Questa è l’idea centrale del libricino di Alaiz, che si rifà a Buffon il quale afferma che lo stile è l’uomo, e a Flaubert che sostiene che la forma sta alla profondità quanto il calore sta al fuoco, per poi lanciarsi in un’arringa rabbiosa contro lo stile ornamentale di quelle opere «rese stucchevoli dai preziosismi» schierandosi a favore di un’arte libera da impostazioni, obliqua o ellittica manifestazione della personalità di chi la crea.”
*
A questo punto incalzo… e faccio l’avvocato del diavolo. Vi domando: non è che la letteratura italiana, nel suo Dna, sia un po’ malata di stilismo e di accademismo? Non è che sia questo uno dei motivi per i quali all’estero la filano in pochi? Non è che sia questo uno dei motivi per i quali i lettori italiani prediligono spesso la letteratura straniera?
Ho fatto l’avvocato del diavolo, eh? Dunque non insultatemi!
Caro Maugeri,
non ho alcun dubbio sulla risposta che invio. (qui ho scelto – invio – perchè mi è nato sul momento il dubbio se darle del tu o del lei)
comunque sia, certamente lo stile proprio io non so cosa sia, se qualcuno me lo avesse spiegato prima che io iniziassi a scrivere, non lo avrei neanche capito e quindi, per questo non nutro alcun dubbio nel ribadire che forse posseggo tutto ma non lo stile, chissà se sia vero, spero di no, per la continuazione della tradizione letteraria vigente, ma non dubito di non averne…Peccato!
La verità invece, costei mi abbonda, straripa da ogni sinapsi, l’amigdala ne è stracolma, anche le tasche pur bucate ne contengono sempre un barlume che spesso a fatica cerco di tenere celato nel fondo….ma ti dico, che anche quando mi sforzo di non fare abuso di verità, prima o poi mi inizia un dolorino al fondo schiena, mi si blocca la gamba come se dovessi frenare all’improvviso e eccotela rispuntare vivace, intraprendente, coraggiosa come sempre, la verità come un olio portentoso galleggia e beata lei, non va a fondo come me che invece pur grassetta non so nuotare….in un mondo dove la verità è accantonata, dimenticata, quasi odiata….usurpata ma per dirla tutta, scopiazzata e copiaincollata……Ciao
Devo dire che a volte ho la sensazione che in Italia ci si preoccupi di più di imbastire “belle frasi” piuttosto che creare “belle storie”. Che sia un male endemico?
In Italia più che di “stilismo” siamo malati di “provincialismo”. In Italia esistono, più che in tutti gli altri paesi del mondo, case editrici che pubblicano solo stranieri. Non è solo una questione di stile, mancanza di storie o poca verità in quello che si scrive. Il provincialismo esiste e non solo in editoria, ma anche nella discografia, nel cinema, nella pittura. Basta ascoltare una radio qualsiasi e fare una veloce percentuale di brani per capire che siamo sempre e comunque attorno all’80% di musica straniera. I thriller se non sono americani non si vedono, i libri horror se non sono firmati King non si vendono. Provincialismo. Altro che mancanza di stile.
Concordo con il pensiero di Andrea Cacciavillani. Non credo che il libro di un autore italiano non venga acquistato in Italia perchè si lavora più di stile piuttosto che di verità… ho avuto spesso l’impressione che quando si stringe un libro ‘straniero’ si prova un gusto diverso, come fosse molto più ‘buono e succulento’… o meglio, ci si illude che sia così… è un pò come una moda che ci portiamo dietro da tempi innominabili. Sulla questione, invece, che la letteratura non è stile ma verità sono d’accordo al sessanta per cento. Nel senso che, partendo dal presupposto che un testo deve trasmettere qualcosa, le modalità con cui questo ‘qualcosa’ vengono portate a conoscenza del lettore, a mio parere, fanno la differenza. Certo, usare termini complessi o frasi contorte per impressionare attraverso il linguaggio non lo definirei neanche stile. Però lo stile è lo strumento che ha lo scrittore per ‘metterci del suo’, se mi permettete l’espressione. Se tutti fossero lineari, con pensieri semplici e trasparenti, se tutti usassero parole di uso comune o comunque di facile comprensione… mi sembra una grossa limitazione alla libertà espressiva del’autore. Se io voglio usare la parola ‘destriero’ anzichè ‘cavallo’, avrò i miei motivi. Giusti o sbagliati. Fa parte di me, di quella che sono nel momento in cui sto, appunto, scrivendo.
Scusate, ma voi davvero pensate che in Italia tutti scrivano in modo da sacrificare eventuali verità sulla vita a uno stile eccessivamente ricercato, in cui invece di “celeste” si scrive “cilestrino”? E ciò varrebbe, a vostro avviso, anche per le torme di cantanti, calciatori, vallette, divi in disarmo che penetrano con tanta facilità nel mondo delle patrie lettere? E in un paese in cui l’editing, generalmente, appiattisce ogni opera omologandole alle altre per uno stile che si vorrebbe immediato e diretto, ed è quasi sempre anonimo e a tratti gergale? Il risultato è che parecchi libri si somigliano terribilmente perchè somigliano al loro editor piuttosto che ai rispettivi autori. All’estero non ci filano, per usare l’elegante eufemismo, soltanto perchè l’italiano non lo si parla da nessuna parte, mentre l’inglese è l’esperanto di oggi, il tedesco si parla in tre nazioni, e lo spagnolo è diffuso in gran parte dell’America Latina. Tutto qui. Non sollevate questioni di lana caprina, per carità, perchè la narrativa nostrana è già sciatta abbastanza da non aver bisogno di ulteriori alibi per peggiorare ancora. Avere uno stile è per un artista inevitabile, che sia di facile fruizione è quanto gli si augura, ma che un libro debba essere svelto e funzionale (e noioso) quanto un soggetto cinematografico è un abominio di cui molti editori hanno la loro parte di responsabilità. D’Annunzio è lontano, credetemi, e il male è semmai proprio nell’incapacità di rinvigorire stilemi che potrebbero ancora dare molto (oltretutto, se uno usa “cilestrino” invece di “celeste”, potrebbe essere un fine umorista, non ci avete pensato?). Meno minimalismi e più invenzioni, per favore, e soprattutto meno goliardia (a cinquant’anni, oltretutto, fa un po’ senso…)
Francesco Costa
E una giusta via di mezzo? Non mi piace l’affermazione che “una storia buona ma scritta male può sempre funzionare, mentre viceversa no”. Spesso lo “stile” ti aiuta a trovare le “parole migliori per chiamare le cose”. Spesso la storia vola priva di un adeguato supporto grammatico/sintattico. C’è chi è forte da una parte e chi dall’altra. Insomma direi che la “letteratura” italiana propone di tutto un po’. Farei invece qualche riflessione sugli stranieri. Ricordiamoci che sono tradotti dai nostri bravissimi traduttori italiani! Che a volte sono i reali responsabili del successo. Mi è capitato più di una volta di leggere capolavori stranieri in lingua e di trovarli piatti o al contrario illeggibili, mentre le traduzioni li rendevano sublimi (per questo avrebbero diritto alla loro percentuale…). Insomma questo argomento è un ginepraio ma personalmente mi annoio quando leggo scritture piatte, dunque mi piacciono gli scrittori che fanno una ricerca “innovativa” sul linguaggio.
buona settimana
Elisabetta
Credo si tratti di modi differenti di intendere il romanzo. Gli americani prediligono più le storie, in Italia i nostri scrittori danno più rilievo alla forma scritta e la storia passa in secondo piano. Certo in molti casi la scrittura dei romanzi italiani perde di spontaneità e si percepisce una ricerca quasi ossessiva delle frasi a effetto, della parola giusta…dello stile insomma. A volte ho la netta sensazione di leggere un romanzo costruito col vocabolario e il dizionario dei sinonimi e dei contrari.
Ma questo è ciò che le nostre case editrici pubblicano: lo scrittore di successo. Che poi questo scrittore sforni romanzi solo perchè ha un contratto da rispettare, poco importa.
Non c’è la ricerca del nuovo autore perchè non c’è il coraggio di investire nel nome sconosciuto. E’ la solita storia del cane che si morde la coda e il lettore continuerà a leggere storie asfittiche o a comprare narrativa straniera.
Avete tutti ragione, quindi il vostro è un esprimersi con “stile”. Mon sarò certo io a dirmi di averlo o meno.Ci mancherebbe, allora gli esperti e i critici che ci stanno a fare. Già è tanto che me li scrivo, me li pubblico da sola i miei libri…e il colmo della storia, pensate che vi potrebbe accadere di aver appena sfornato un libro che ritenete non dico bellissimo ma un po’ originale e qualcuno si faccia avanti e vi proponga di farne un altro con i testi contenuti nel vostro libro e che, dulcis in fundo, vi dovreste anche pagare da soli…e chissà mai se questo terzo “incomodo” andrebbe mai venduto o fatto conoscere da più di venti persone…..Siamo un paese circondato dal mare, forse una volta il mestiere più diffuso era quello del marinaio…e tante cose mi ricordano quello stesso modo di mantenere le promesse!!!!!!!Saluti. Ah!, ditemi se lo stile detiene il primato della velocità…oppure più sei svelto e più soccombe….chissà come e chissà perchè….Per me questa storia dei libri stranieri mi dà un fastidio cane…..se non fosse per i miei corsi di lingue e di letteratura straniera di decenni fa, gli stranieri li studierei o li leggerei proprio alla fine del percorso…non so ma ne abbiamo tanti di autori italiani che hanno scritto e che scrivono da non capire il motivo che non gli si debba dare la precedenza….E poi con un oceano di mezzo chi ce lo dice che certe idee non provengano dai nostri cervelli e non da talenti stranieri!!!!!Nutro seri dubbi…..
La letteratura italiana soffre del male di cui soffre tutta la società italiana: scarsa professionalità. Abbiamo un tasso di sviluppo economico che il Governo definisce alto ma che è di un quarto inferiore a quello medio europeo, e su Rai 3 solo pochi mesi fa Jacona ci ha mostrato in che condizioni lavorano i ricercatori del Politecnico di Torino. Il nesso ricerca-crescita (che dovrebbe significare anche crescita occupazionale) dovrebbe essere noto a tutti, ma la politica non se ne occupa.
La letteratura versa nelle medesime condizioni di scollamento. Non è un problema di leziosità: è un problema strutturale.
Negli USA le scuole di scrittura creativa quasi non esistono, nel senso che la scrittura creativa fa parte dei corsi universitari. E negli USA c’è un’industria degli agenti letterari professionali che selezionano ciò che c’è davvero di buono fra i nuovi talenti, e che sono in grado di spiegare a degli editori all’altezza del compito perché quel nuovo scrittore potrebbe essere un successo mondiale, e gli editori, se ci credono, prevedono budget di molti milioni di dollari per lanciarlo worldwide. In Italia, uno nuovo scrittore che non è un granché ma che è molto simpatico perché molto sincero, ci ha spiegato in una intervista – mi parere a Repubblica – che se lui non avesse frequentato a lungo un certo circolo di intellettuali romani, Mondadori non avrebbe mai pubblicato il suo romanzo. Dimenticavo: si tratta di Piperno.
Non è esattamente così, perché Mondatori ha pubblicato anche il sottoscritto che non ha mai fatto parte di alcun circolo culturale, però il clima è quello descritto da Piperno.
Sorge anche – tuttavia – una domanda legittima: cosa produce l’industria professionale americana? Dan Brown?
Obiezione corretta. Non compero mai i best seller per legittima suspicione, ma ho voluto fare una eccezione per Il Ladro di Aquiloni e mi sono rifiutato di finirlo. Direi che è peggio dei fogliettoni di Moccia.
Però… esiste un però: l’industria professionale americana accanto a Dan Brown ha prodotto anche Don DeLillo, Philip Roth, Jonathan Franzen… tutti nomi che stanno benissimo accanto a quelli di Flannery O’Connor, William Faulkner, Sherwood Anderson…
Facciamo la controprova, la letteratura italiana che cosa ha prodotto negli ultimi vent’anni che riesca a non arrossire se capita in libreria accanto a Calvino o Pavese?
Via, non scherziamo!
Renato Di Lorenzo
Lo stilismo non c’entra nulla. Anzi più si scrive male e meglio è. Mai letto nulla di Licia Troisi? Stella del fantasy nostrano, pubblicata per ragioni ignote da Mondadori? E le varie fatiche della Panariello?
Carissimi, ho letto con vivo interesse il dibattito sull’ultimo post di Maugeri. Niente alibi, scrive Francesco Costa, siamo italiani.; un po’ come “niente sesso siamo inglesi”. Penso, e su questo ci ritorniamo sempre, che in Italia si produca tutto: buona letteratura, letteratura di genere, “letteratura” giornalistica. Il fatto è, che viviamo in un paese ad alta densità di popolazione e la nostra produzione letteraria, soffre di questo rapporto matematico squilibrato. Soffriamo noi, lettori, per questa sovrabbondanza di produzione che ci disorienta. Soffrono gli scrittori, costretti ad allinearsi fra presunti colleghi: giornalisti, calciatori, sociologi ( categoria potentissima), psicologi (altra categoria imbarazzante) e politici; soffrono gli artisti, chi lavora nel teatro e anche nella musica. La tecnica ( e il commercio) giocano i propri ruoli, ma NON SI SCRIVE UN BUON LIBRO SENZA TECNICA E NON SI AMA UN LIBRO ( un’opera, uno spettacolo) di sola tecnica. E allora che fare? Parlare, offrire le nostre riflessioni, porre quesiti, aprire un movimento d’opinione sui temi dell’arte. Perché scrivere è arte. Chiarendo, fra noi, cosa intendiamo per arte. Fin che non risolveremo questa questione non ne verremo a capo, limitandoci a lamentazioni od osservazioni che, in un modo o nell’altro, già conosciamo e abbiamo fatto nostre. L’Arte, che nella sua derivazione latina ci rimanda alla tecnica, è un’azione creatrice che si esprime per fantasia, tecnica e conoscenza. E per azione creatrice, intendo, la capacità che un’opera ha, di estendersi, espandersi, di ricrearsi provocando emotività, interesse e partecipazione. Sono un’artista, vivo ( a volte con fatica) del mio lavoro; per ansia comunicativa, scrivo e partecipo ai blog degli scrittori sperando di trovare ( fra chi ha facilità di parola) risposte e condividere ragionamenti. Ma se il nostro ragionare finisce sempre e inevitabilmente nella ricerca, del perché di un mancato sviluppo commerciale ( questo è sempre il tema di fondo), allora, prospettive non ce ne sono. Saremo destinati, noi lettori, a naufragare in un mare assurdo di proposte, e sarete, voi scrittori, destinati ad allinearvi, come concorrenti, in una corsa.
Non si uccidono così anche i cavalli?
Ciao, Miriam
Noto che questo post non è passato indifferente. Dunque, ritengo di aver svolto degnamente il mio ruolo di avvocato del diavolo.
Provo a “rilanciare”, riprendendo alcuni degli interventi letti (ma sono tutti interessanti).
FRANCESCO COSTA sostiene che il nostro è un “un paese in cui l’editing, generalmente, appiattisce ogni opera omologandole alle altre per uno stile che si vorrebbe immediato e diretto, ed è quasi sempre anonimo e a tratti gergale. Il risultato è che parecchi libri si somigliano terribilmente perchè somigliano al loro editor piuttosto che ai rispettivi autori”.
Domande per Francesco: se i libri somigliano al loro editor piuttosto che ai rispettivi autori, la colpa è attribuibile alla eccessiva ingerenza degli editor o alla servile arrendevolezza degli autori? E poi: secondo te il problema dell’ “eccesso di editing” è solo italiano?
Francesco dice pure che “All’estero non ci filano (…) soltanto perchè l’italiano non lo si parla da nessuna parte, mentre l’inglese è l’esperanto di oggi, il tedesco si parla in tre nazioni, e lo spagnolo è diffuso in gran parte dell’America Latina”. Domanda: perché in Italia si legge così tanta narrativa anglosassone e americana (e non in lingua originale ma tradotta in italiano)? Perché in Italia leggiamo così tanta narrativa spagnola (anche in questo caso… non in lingua originale ma tradotta in italiano… vedi i vari Navarro, Asensi, Falcones, Zafòn)? Mentre non succede il contrario?
RENATO DI LORENZO sostiene che “l’industria professionale americana accanto a Dan Brown ha prodotto anche Don DeLillo, Philip Roth, Jonathan Franzen… tutti nomi che stanno benissimo accanto a quelli di Flannery O’Connor, William Faulkner, Sherwood Anderson…
Facciamo la controprova, la letteratura italiana che cosa ha prodotto negli ultimi vent’anni che riesca a non arrossire se capita in libreria accanto a Calvino o Pavese?”
Chi risponde a Renato?
Per esempio… Umberto Eco e Claudio Magris?
MIRIAM RAVASIO invece scrive: “Sono un’artista, vivo (a volte con fatica) del mio lavoro; per ansia comunicativa, scrivo e partecipo ai blog degli scrittori sperando di trovare (fra chi ha facilità di parola) risposte e condividere ragionamenti. Ma se il nostro ragionare finisce sempre e inevitabilmente nella ricerca, del perché di un mancato sviluppo commerciale (questo è sempre il tema di fondo), allora, prospettive non ce ne sono. Saremo destinati, noi lettori, a naufragare in un mare assurdo di proposte, e sarete, voi scrittori, destinati ad allinearvi, come concorrenti, in una corsa.”
Pur accettando la tua critica, Miriam, non credo che tu possa trovare risposte partecipando a blog di scrittori. Del resto non credo che uno scrittore debba fornire risposte. O comunque, non sempre. È già tanto, credimi, se riesce a porsi (e a far porre) delle domande. Nei prossimi giorni pubblicherò qui la mia recensione a “Everyman”, il più recente romanzo di Philip Roth (autore citato da Renato Di Lorenzo). Ti garantisco che Roth non fornisce alcuna risposta. Racconta la morte in maniera nuda e cruda. E lo fa come solo i grandi sono capaci di fare. Ma non dà risposte.
Sui ragionamenti, invece, ci possiamo confrontare. Io sono contrario all’eccessiva commercializzazione dell’arte (ma attenzione… anche qui… cos’è arte? Cos’è artigianato? Chi è in grado di stabilirne con esattezza la linea di demarcazione?). E poi disapprovo (perché la considero falsa) la figura romantica, mitizzata e retorica dell’artista maledetto alla Van Gogh. Colui che vive la propria arte del tutto alienato da sé. Credo che da che mondo e mondo tutti i grandi artisti (e artigiani) con un po’ di sale in zucca – da Michelangelo a Leonardo Da Vinci – si sono posti il problema dello sviluppo o del “mancato sviluppo” commerciale della propria arte (o del proprio artigianato). Senza farsene ossessionare, giusto; altrimenti si rischia la fine dei cavalli da corsa. E comunque l’importante è che poi l’arte (o l’artigianato) la si produca. Altrimenti qualunque tipo di dibattito in merito rimarrà arginato nei limiti delle chiacchiere da bar. Su questo non ci piove.
Questione di stile (di Sergio Sozi)
La triste omologazione antropologico-culturale che – partendo dall’immagine, proseguendo con le modalità di pensiero e finendo con il linguaggio in ogni sua forma – sta oggi fagocitando il Mondo, prende certamente avvio da un luogo geografico (gli Stati Uniti) e da un dato di fatto storico: la facile vittoria di questi ultimi nel Secondo Conflitto Mondiale.
Una specie di ”contratto non scritto” è stato, dunque, nel 1946, stipulato fra l’Italia sconfitta e l’America trionfante, fra le macerie di una cultura millenariamente fondante per il Mondo quanto divisa internamente da atavici dissidi politico-civili. Questo ”contratto” destinava il nostro Paese alla guida della cordata di colonie culturali che Washington si era appena guadagnata, pagandole un pugno di morti ma anche molte risorse finanziarie investite.
Quel contratto di sudditanza non sembra oggi esser scaduto solo perché l’insicurezza (e dunque la debolezza) della cultura italiana richiede continuamente i ”conforti psicologici” del ”padrone”; riassumendo un po’ iperbolicamente: una sorta di ”Sindrome di Stoccolma” si è impadronita dell’Italia, la quale ora non può piú fare a meno del proprio aguzzino.
Il suddito, liberandosi, si sentirebbe perso in una modernità per lui ininterpretabile e dunque, piuttosto che intraprendere un dignitoso e doveroso cammino in compagnia di questa terribile autonomia culturale e filosofica, meglio sentirsi succubi di qualsiasi moda d’Oltreoceano.
Ma perché siamo giunti, proprio in coincidenza con la conquista delle libertà repubblicane, a tanta autoumiliazione? E come giungeremo, in questo contributo, allo ”stile italiano”, oggetto prettamente letterario del nostro riflettere?
Vediamo.
In primis, dobbiamo tenere in debito conto che il nostro popolo è stato segnato da un lunghissimo periodo storico di travagli ed infamità politiche intestine (dalla caduta dell’Impero Romano al 1861) e che dunque gli unici punti di riferimento morale-culturale restano tradizionalmente due: la cultura Latina e il Papa della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Ogni altro dettame ideologico-etico-morale resta subordinato all’ovvio strapotere di questi due ”assi portanti” storici, è innegabile; lo si vede riflesso sui prodotti letterari da San Francesco a Tomasi di Lampedusa.
Dunque, seguendo il filo logico della Storia (indissolubilmente legata alla produzione scrittoria), anche la nostra Letteratura ha avuto origine dai fasti della Latinità, abbondantemente ripresa anche dagli scrittori (apologetici o meno) cristiani (chi non ha avuto, ditemi, fino a pochi decenni fa, come Stella Polare o almeno come riferimento ineludibile Ovidio, Virgilio, Catullo, Petronio, Orazio o Cicerone?).
Ne consegue che la colonna vertebrale della Letteratura italiana non si può non identificare, anche tutt’ora, nell’insieme delle tradizioni stilistiche codificate dalla Letteratura Latina – e dunque Greca antica – che le stanno ”dentro”, che ne costituiscono ogni singolo osso e ossicino.
Per fare qualche paragoncino, osserviamo che se i principali Paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Spagna, l’area tedesca) hanno compiuto il difficile ”trasbordo” dall’identità latina all’identità nazionale durante il Medioevo, questo non è avvenuto in Italia. Per non dire della Rivoluzione Francese, che ha reciso del tutto alla ”Franca Contea” (come direbbe Stendhal) il cordone ombelicale della Civiltà Classica. E la conseguenza resta lapalissiana: il permanere da noi delle tradizioni precedenti, anche ben dopo il Risorgimento.
Dunque, nel 2007, cosa potrebbe scegliere, come punti di riferimento artistici, culturali e etici, un autore italiano serio, non superficiale o versato nel mercimonio intellettuale, che volesse mantenere una propria identità culturale senza ricorrere a rifugi campanilistici o a fughe internazionalistiche?
Credo, in buona sostanza, che per un italiano sarebbe ridicolo (o disonesto) sforzarsi di scrivere come un autore mitteleuropeo o anglosassone, visto che l’identità italiana, la sua particolarità e il suo ”segno distintivo” nel Mondo, restano i legami con la Cultura Classica, tramite Dante, l’Umanesimo poi Leopardi e infine il Manzoni. O infine Gadda, magari.
Inutile e dannoso (ridicolo, ripeto) scopiazzare i moderni, quando si ha una sensibilità antica. Molto meglio, piuttosto, sarebbe per noi trovare e proporre al Mondo qualcosa di antico per riumanizzare questa modernità di cui i piú avvertiti autori statunitensi lamentano i molteplici difetti.
Sergio Sozi
Chi può stare vicino a Calvino e Pavese senza vergognarsi?
Ma è ovvio… Melissa P.!
Tradotta in non so più quante lingue e con 3 milioni di copie vendute per un libretto che non è neppure lontanamente paragonabile al genere erotico.
Melissa P.!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
M’è stato sufficiente che l’abbia acquistato una mia amica….appena l’ho saputo non le ho dato più le copie dei miei libri in dono…e perchè mai dovrei farlo, si tenesse tutti i nodi al pettine di Melissa….e se li sbrogliasse da sola senza l’aiuto di fuggire lontano serenamente con la mia poesia.
La falsa semplicità di scrittura non costa nulla. Sorella della sciatteria, alla mano di tutti, è piena di ostentazione il che non toglie che incontri spesso in Italia favore e incredibile fortuna. Il nostro popolo
avendo in tutto o in parte abbandonato il dialetto dei padri, usa ormai il linguaggio piatto dei media, fatto di frasi fatte e luoghi comuni, che sta diventando la lingua ufficiale dell’intera penisola.
Contrariamente a quanto si afferma, abbiamo autori italiani molto apprezzati nel mondo la cui scrittura è ben lontana dalla prolissità, dalle barocche costruzioni stilistiche. Essi hanno fatto di quella semplicità che
si consegue dopo lungo esercizio un punto d’arrivo e non di partenza, consapevoli che il fine ultimo è la naturalezza e la concisione.
Ecco cosa mi è capitato di leggere tra le pagine di un libro di successo: “Il freddo intenso non mi dà la possibilità di distendere le gambe per l’irrigidimento dei muscoli”.
Non bastava dire: “Ho le gambe intirizzite dal freddo intenso?”.
Solo qualche none: DACIA MARAINI viene tradotta in diciannove lingue; la “contestata/osannata” ORIANA FALLACI viene letta in trentadue paesi del mondo. Letti ovunque sono pure LUCIANO DE CRESCENZO, ANTONIO TABUCCHI e molti altri.
Forse certa indifferenza nei nostri confronti non si deve, a mio avviso, ad un eccesso di “stilismo” quanto a snervanti e barocche prolissità.
Maria Luisa Papini Pedroni
Massimo, i contenuti danno SEMPRE delle risposte. Ciao, buonanotte, Miriam
Miriam, i contenuti non danno risposte. Le risposte le può trovare semmai chi ne fruisce (dei contenuti). Ed è probabile che le “proprie” risposte siano differenti da quelle “altrui”. Così come è altrettanto probabile che molti non trovino risposta alcuna.
Ma questa mi pare filosofia vacua. Buonanotte a te.
P.S. Però potremmo mettere su un simpatico duetto filosofico, che ne dici? Tu pensi alle immagini, io ai testi. Mica male, no?
A me l’articolo segnalato da Massimo Maugeri ha fatto molto divertire.
Per il resto penso che stile e verità possono benissimo coesistere. Ma non sono una addetta ai lavori.
se gli scrittori italiani si impegnassero a scrivere storie più interessanti penso che venderebbero più libri, sia in italia che all’estero. altre considerazioni valgono come scuse banali.
Davvero ci sono autori italiani che privilegiano lo stile al contenuto? Non credo proprio. I fenomeni letterari di oggi sono piatti sia dal punto di vista dei contenuti (banali e stupide e ripetitive e sdolcinate storie d’amore), sia nello stile. Io non leggo romanzi italiani (a parte quelli di Umberto Eco, che però pubblica un romanzo circa ogni quattro anni), perché non mi piacciono e perché non offrono niente sul piano stilistico. E allora sapete che faccio? Leggo i classici dell’Ottocento, in cui trovo il contenuto e lo stile raffinato. Gli autori italiani non li prendo neanche in considerazione, quando sto per iniziare a leggere un nuovo romanzo: tanto so che parleranno delle stupide storie d’amore e dei soliti problemi che affronta anche il cinema di oggi. Sì, perché questa crisi, come ho già detto, rivela che stiamo attraversando il “neo-decadentismo”. Siamo all’ultimo posto nel cinema di oggi, che secondo me è patetico, ripetitivo e inguardabile perché molti attori NON SANNO RECITARE. Lo stesso dicasi per la letteratura. Perché acquistare il libro di un autore italiano che non conosco? Cosa mi può offrire, culturalmente? Come può colpirmi più di un libro di Dostoevskij, più di “Anna Karenina”, più di “Madame Bovary”? Non può! E allora non lo compro! E poi, diciamocelo, il costo è anche proibitivo: 12 euro per un libro che talvolta è di sole 100 pagine o poco più, sono proprio sprecati. Non ci lamentiamo se l’editoria attraversa la crisi; non ci lamentiamo se anche il cinema e la musica sono in crisi.
Posso dire inoltre che siamo “scarsi” anche sui generi “di consumo” (a parte Faletti, che secondo me pur scrivendo thriller riesce a coniugare trama avvincente, stile ricercato e approfondimento psicologico): chi scrive fantasy in Italia? Horror? Gialli (a parte Lucarelli e Camilleri – del quale, ad ogni modo, contesto l’uso del dialetto)? Fantascienza?
Zero, zero, zero! Siamo piatti, piatti, piatti!
Ecco il “neo-decadentismo”: rendiamocene conto, e rendiamoci conto che la nostra letteratura (quella VERA) è stata grande sul serio, in passato, ma oggi, Umberto Eco a parte, siamo letteralmente RIDICOLI.
James Utopia
Miguel Mejides ha detto una grande verità alla Fiera del Libro di Pisa, quando parlava della letteratura cubana: “Un popolo che soffre produce una buona narrativa perchè ha molte cose da raccontare”. A mio parere in Italia c’è davvero poco da raccontare. In compenso tutti vogliono scrivere e imparare l’arte del come si fa, magari a puntate e a dispense. Affrettiamoci che in edicola c’è Baricco pronto a insegnare al popolo come si sfornano best seller!
Gordiano Lupi
Sono “arrivato” sul mio blog preferito, che da oggi chiamerò “letteratitudine maugeriana & dintorni” appena adesso dopo qualche giorno di assenza e vedo, cari amici, che con i vostri commenti su questo avvincente post non avete perso tempo, anzi avete scritto quasi un…libro. E gratis. Da parte mia ho ben poco da aggiungere. Negli ultimi anni ho letto pochi libri italiani e molti classici stranieri (per ovvie ragioni tradotti). Non mi sono mai sentito uno scrittore (un vero scrittore infatti scrive novelle, ballate, racconti, romanzi, io no, non mi ci sono mai cimentato) ma un giornalista che si “diverte” a scrivere libri divulgativi sulla musica e i musicisti. Secondo il mio modestissimo parere, lo stile deve essere pertanto funzionale alla chiarezza, all’efficacia comunicativa del messaggio che si vuole dare. Essere compresi quando si è letti deve costituire la prima regola necessaria per chi scrive.
Per il resto, da giornalista prima che da pseudo-scrittore, ho sempre cercato sin dall’inizio della mia lunga (sic) carriera di raccontare la realtà, le storie, i fatti della vita rispettando la loro verità.
Ma siamo/siete così sicuri poi che la verità sia sempre e solo una. A mio avviso ci sono sempre diverse verità, anche se molti di noi – cronisti, scrittori, critici etc. – sono spesso accecati dal loro edonismo e dalla voglia ossessiva di “apparire” (ce n’ è molto, ahinoi, in giro) o ammanigliati da un’ideologia, da un partito, da un potente che li protegge e li sostiene, e fanno dunque finta di non vederle le verità “altre” che si celano dietro l’apparente, unica verità. Se non vi ho convinto,”sparatemi” altri 22 commenti se ne siete capaci? E fatelo di notte, come fanno Massimo e Miriam. A proposito voi due, ma non dormite proprio mai?
– io non sarei neanche così convinta del dogma della chiarezza. Mi sembra un’intenzione ottima e più che auspicabile nei terreni della divulgazione scientifica, ma se è vero che trovo insostenibile il linguagigo volutamente astruso, mi infastidisce violentemente la distorsione dei concetti perchè dobbiamo essè democratici. E comunque, non metterei sullo stesso piano saggistica per esempio e letteratura, obbediscono a destini diversi.
– Ho provato sulla mia pelle, cosa vuol dire tacciare di astruseria ciò che in arte e letteratura non ho amato perchè non ho capito. Dopo più attenta considerazione, e qualche informazione più ho scoperto che il problema non era nella mancata chiarezza di chi mi comunicava, ma nella mia personale pigrizia mentale.
– Per quanto riguarda il dibattito proposto. Non farei generalizzazioni. In Italia ci sono scrittori dalle teste più disparate, ma devo dire che una certa ricerca linguistica mi appassiona molto. Gadda. Io posso leggere Gadda fino alla fine dei miei giorni.
– Infine, per quanto possa amare una gran quantità di scrittori americani, comincio a essere un po’ satura dell’effetto invasivo dell’americanità sui nostri scrittori. La prosa giovane e fresca, non famose tante pippe come la vecchia Europa, sesso droga e rocchenrolle e anche macari un po’ de politica. Io se leggo in giro n’artro po’ de prosa giovane me sento male.
é vero che la letteratura italiana – che espressione musicale! Quanti e quali autori racchiude e quali responsabilità si prende un autore ad avere dietro le spalle tanto po’ po’ di opere!!! – si porta appresso un retaggio di stilismo difficile da guarire, ma penso a Carofiglio, così asciutto e vero, a Camilleri che cidà storie scritte nel suo particolare pastiche stilistico ma storia che si fanno leggere, ai vari cannibali e a Melania Mazzucco, che riesce a combinare una lingua quotidiana a poeticità veramente degne della nostra cultura che non dimentichiamo mai è umanistica e molto deve ai classici, sempre nel bene e nel male. Credo che un autore italiano possa guarire dallo stilismo leggendo molto di tutto, scrivendo ciò che sente veramente, captando i nuovi linguaggi ma servendosene per dire una parola di verità, che è ciò che un lettore chiede a Guerra e pace come a un fumetto… Maria Lucia Riccioli
Credo che in Italia ci sia dell’ottima letteratura. Credo che se all’estero non funziona molto e qui da noi si preferisce leggere altro dipenda dal nostro assoggettarsi a pubblicità, televisione e scelte di marketing. Cose che spesso poco hanno a che fare con la letteratura. Credo anche che bisognerebbe farla finita con la creazione di sette mistico letterarie tipo siamo tutti minimalisti, oppure è valido solo il romanzo storico classico, o anche il vero linguaggio è solo quello della strada. Credo anche che bisognerebbe dare molta meno importanza ai premi e molta più importanza al contenuto dei libri. Fuori dalle troppe parrochiette esistono ottime scrittrici e scrittori italiani. Sono convinto che un buon libro debba contenere, per primo, una buona storia. Ma questo non basta, è fondamentale che questa storia sia scritta bene e che lo stile di chi scrive sia riconoscibile. Ma senza una buona storia rimane l’esercizio di stile che, secondo me, da solo non serve a nulla. Gli stili, i tipi di linguaggi che si usano sono per me tutti validi se assoggettati a una buona storia, se utilizzati al fine di meglio rendere la storia. Ogni storia ha bisogno del suo linguaggio e ogni scrittore che si rispetti ha il suo particolare stile.