“LETTURE RICREATIVE. Traiettorie e costellazioni letterarie“ (Il Palindromo), di Salvatore Ferlita
Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo volume pubblicato da Salvatore Ferlita intitolato “Letture ricreative. Traiettorie e costellazioni letterarie” (Il Palindromo). Come è scritto sulla scheda del libro, tra queste pagine “ci si avventura dentro una certa idea del Novecento letterario, italiano e non solo, considerato non una chiosa a margine delle epoche passate ma il punto di arrivo e lo snodo cruciale della letteratura precedente“.
Qui di seguito, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Ferlita e il saggio intitolato “Un peccato di lesa maestà. Russello, Calvino e il “caso” Mondadori”.
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di Salvatore Ferlita
A mo’ di introibo
Questo libro si compone di diverse sezioni, di contenitori dentro ai quali hanno trovato collocazione saggi nati da occasioni differenti e in tempi diversi che però, prendendo il libro forma nelle intenzioni e poi materialmente, si sono in qualche modo aggregati per naturale attrazione.
Ripercorrere a posteriori le costellazioni tematiche e gli autori affrontati (singolarmente oppure in dialogo con altri nella ferma convinzione che la letteratura è sempre una vasta landa di echi), a disegno concluso, significa ricapitolare e approntare un bilancio, seppure sempre provvisorio. Spiccano certe predilezioni, un modo di leggere le carte di uno scrittore e il geroglifico di una vita che qua e là si ripresenta. Ma a comporsi, soprattutto, è una topografia di rapporti, di confronti e dialoghi intrattenuti con colleghi, sodali, maestri più o meno diretti o più o meno laterali.
Ne viene fuori insomma una mappatura non solo interpretativa, compilata orientativamente negli ultimi dieci anni, ma anche autobiografica, una cartina nella quale i sentieri tracciati, i percorsi individuati danno forma a una trama esistenziale.
Basti considerare l’ultima sezione, nella quale sono stati allineati i saggi scritti per le “Settimane Alfonsiane”, concepite da Nino Fasullo al fine di creare un confronto tra credenti e non credenti, tra ortodossia e eterodossia, a partire da una frase evangelica, scelta di volta in volta tra le più scomode e pericolose. Fa da guida l’accusa di Gesù rivolta ai suoi seguaci, quella di guardare senza vedere, di ascoltare senza udire. Ogni volta, dalla citazione proposta, è emerso qualcosa di irriducibile che appunto perché tale doveva essere perennemente interpretato. Da qui il tentativo di intravedere la segretezza attraverso le maglie di un testo, come spiega Frank Kermode nel suo Il segreto nella Parola (il Mulino 1992), di fare i conti con «la genesi del mistero» che sta alla fine della narrativa e che rappresenta appunto il segreto che produce l’interpretazione.
È un volume, questo, che segna in un certo senso il «mezzo del cammin», che fa da spartiacque chiudendo una stagione, portando a frutto lunghe, appassionanti frequentazioni.
A fare da collante, dall’inizio alla fine, è una certa idea del Novecento letterario, italiano e non solo, considerato non alla stregua di una chiosa a margine delle epoche precedenti. Tutto il contrario: lo sforzo vero è stato quello di mostrare come il secolo scorso, che breve di certo non è stato, rappresenti il punto di arrivo, lo snodo cruciale della letteratura precedente, l’approdo ermeneutico. Il secolo nel quale, ad esempio, romanzi quali Le avventure di un burattino o Cuore, dismesse le loro mentite spoglie ottocentesche, mettono in mostra la loro anima nascosta, perturbante e a tratti demoniaca. Il secolo in cui i capolavori di due poeti di altissima levatura, Boiardo e Ariosto (considerato quest’ultimo in solitudine ma anche in dialogo con Jack London), diventano delle cartine al tornasole indispensabili per comprendere schieramenti e contrapposizioni, più o meno latenti, per leggere al meglio le dinamiche e la cristallizzazione del canone.
Dietro a ogni saggio, tengo a precisare, non ci sono soltanto ore di lettura, di riletture, di accostamenti sinottici, di analisi per contiguità e opposizione, di ricerche, di piccole investigazioni, ma si scorgono anche i volti di quanti negli anni ho incrociato e dai quali mi sono arrivati suggerimenti, indicazioni (penso, ad esempio, a Silvano Nigro). Colgo qui l’occasione per esprimere loro tutta la mia gratitudine.
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Un peccato di lesa maestà. Russello, Calvino e il “caso” Mondadori
«Se non esistessero le favole illuministiche di Calvino, questo romanzo di Russello, con qualche vigorosa amputazione, potrebbe anche essere pubblicato. Ma esistono, e il loro precedente è così vistoso che il Russello non può sottrarsi all’accusa di averne, sia pure intelligentemente, ricalcato le orme» (Carlo Della Corte).
Il fantasma di Italo Calvino ha contribuito a condizionare negativamente le sorti di uno scrittore come Antonio Russello, il cui caso è esploso postumo registrando adesioni entusiastiche e tardive resipiscenze.
Lo si apprende setacciando le carte custodite nell’archivio della Fondazione Mondadori: una lettera dell’autore, diversi pareri di lettura, comunicazioni interne della direzione editoriale; sono le tessere mancanti di un puzzle che all’inizio stenta a ricomporsi, ma che una volta perfezionato ci restituisce uno dei tanti capitoli mancanti del Novecento letterario isolano e non solo.
«Russello ha qualità di scrittore» precisa subito dopo Della Corte nella sua scheda di lettura del primo gennaio 1962 relativa al romanzo Giangiacomo e Giambattista: «fantasia, prima di tutto. E certi estracci immaginosi, tra il grottesco e il ridicolo, che muovono abbastanza bene la pagina colorandola di una girandola di spunti. Ma, forse, gli manca il segno della necessità vera, e gran parte dei suoi prodotti è caratterizzata da un abilissimo, istintivo mimetismo».
Carlo Della Corte, lettore di professione reclutato dall’ufficio propaganda della casa editrice milanese, verga un parere che si rivela assai bizzarro: da un lato egli dice un gran bene dell’autore, coglie le sue peculiarità stilistiche e soprattutto la felicità affabulatoria, dall’altro ridimensiona Russello al cospetto di Italo Calvino, che si rivela la vera ossessione del lettore di professione, il quale a un certo punto chiarisce: «[…] Russello intendeva sottolineare una volta di più la frattura fra le cose come sono e le cose come dovrebbero essere. Sventura ai precursori, beni e fortuna ai mediocri che vivono la loro giornata con gli occhi a ridosso della trita realtà».
Deduciamo da questo passaggio che il romanzo in questione poteva rivelarsi come una narrazione costruita a tesi, poggiata su una piattaforma ideologica sin troppo chiara e scontata. Ma ecco cosa aggiunge Della Corte: «È un fatto però che il Russello, quando si mette a raccontare, ci piglia gusto. E allora seppellisce le sue intenzioni sotto un tal cumulo di abbellimenti e di trouvailles che il supporto ideologico finisce per essere obliterato quasi del tutto. Di scrittura gustosa e piacevole, Russello farebbe bene a togliere da questo manoscritto tante pagine che stanno lì soltanto per divertire alla buona, annacquando la struttura del manoscritto».
Della Corte in pratica promuove lo scrittore siciliano, pure quando prova a metterne in evidenza le debolezze: sta affermando nel suo giudizio che Giangiacomo e Giambattista poteva configurarsi come un romanzo prefabbricato e invece sorprende e spiazza perché il gusto del racconto, le trovate scoppiettanti hanno la meglio, stemperano il verbo filosofico in un inchiostro reattivo, corrodono lo scheletro teorico e la rigida impalcatura dottrinale.
Il parere del resto così si chiude: «Il suo gioco moralistico si dimostra più gratuito e sfuggente: lo sterzo è girato quasi per intero nella direzione del divertimento».
Ma c’è una macchia, come s’è visto, nel dattiloscritto di Russello: nell’imo delle sue pagine Della Corte intravede il peccato di lesa maestà. «Dicevamo: se non esistesse Calvino… Ma, dietro le pagine meglio riuscite, sta l’enigmatico sorriso del Barone rampante, il suo settecentesco e ironico mondo in cui superstizione e ragione contrastano con modi particolarmente insinuanti». Il lettore di professione va più a ritroso, a caccia di possibili genealogie: «E, più indietro – e incomparabilmente più grande –, c’è il Voltaire di Candido e dell’Ingenuo». Per poi chiudere così: «A me pare che Russello dia dei discreti libri. Uno per uno, si possono anche leggere. Ma non ci dà, di sé, l’immagine di uno scrittore maturo, con una univocità di intenti che si mantenga intatta sotto lo smalto di magari diverse esperienze».
Qui Della Corte in qualche modo coglie nel segno: Russello è stato uno scrittore imprevedibile, metamorfico, sfuggente. Il fatto di rifiutare la sagoma monolitica lo ha esposto a diversi rischi, la mobilità della sua scrittura e dell’ispirazione ne ha fatto un romanziere insofferente e erratico che ha dato frutti a volte acerbi, è vero (ci sono troppi titoli nella bibliografia di Russello). Si ha difficoltà a mettere a fuoco il suo vero profilo, la vena sorgiva della sua ispirazione si è dispersa in rivoli secondari, ma questo non toglie nulla a un gruppo compatto di opere, a cominciare da La luna si mangia i morti, passando per La grande sete e almeno due racconti di Siciliani prepotenti, per arrivare poi a Giangiacomo e Giambattista. Per non dire di alcuni libri postumi.
Il romanzo di Russello, con al centro Rousseau e Vico sui quali però l’autore posa subito una lente deformate e picaresca, passa pure al vaglio di Niccolò Gallo, suo conterraneo: anche in questo caso dal parere di lettura si affaccia il fantasma dello scrittore sanremese: «Il riferimento alle favole metafisiche di Calvino è fin troppo evidente, ma non preoccuperebbe se Russello fosse riuscito a introdurre consapevolmente nel genere una carica maggiore di colore e di invenzione, un più preciso senso paradossale, da teatro dei pupi». Lettore quasi infallibile, dal fiuto straordinario, qui però Gallo inciampa: a petto dell’illuminismo ricreato da Calvino e setacciato dalla sua sensibilità, quello di Russello si distingue e spicca proprio per la presenza maggiore di colore e di invenzione, per il gusto del paradosso, per un che di teatrale, quasi da fondale di cartapesta.
È Vittorio Sereni, direttore letterario già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, a incaricare Gallo della «questione Russello»; il problema rimane l’imprevedibilità dell’autore: «Tenta corde troppo diverse da un libro all’altro: è questo il vero guaio» scrive Sereni il 20 gennaio del 1962. Sullo stesso foglio, va detto tra parentesi, si legge una chiosa vergata a penna nella quale si ipotizza la segnalazione del romanzo di Russello per la pubblicazione a puntate nell’“Illustrazione Ticinese”, siglata R.C., le iniziali di un’altra figura chiave della casa editrice milanese, Raffaele Crovi.
Certo, colpiscono i pareri nettamente divaricati: da un lato Della Corte si aspettava più rigore e univocità, come abbiamo visto, sui quali però prevarica a suo avviso il gusto del paradosso e dell’affabulazione; dall’altro Gallo, il quale legge il libro di Russello a dispetto dell’indicazione di Sereni (che gli chiedeva di pronunciarsi sul romanzo «per ora senza leggere il testo» ma tenendo conto del parere già vergato) avrebbe preferito più invenzioni e trovate, un più efficace turbinio inventivo. Quest’ultimo apprezza la scrittura di Russello ma non fino in fondo, elogia il modo in cui porta avanti il racconto ma bacchetta l’autore per aver frantumato la favola illuministica «nelle più diverse direzioni».
«Il racconto si snoda facilmente, nel suo andamento di narrazione popolaresca, grazie alle doti di immediatezza coloristica del Russello». Gallo si accorge dell’irrequietezza stilistica e poetica dello scrittore favarese:
“Per giunta, la sua ricettività di temperamento, la capacità artigianale di orecchiare modi e forme in circolazione, lo portano di volta in volta a tentare strade diverse, a giocare le proprie carte nelle direzioni più inaspettate e perfino meno congeniali. Dopo il neorealismo figurato e liricizzante de La luna si mangia i morti e la coloritura a sfondo espressionistico dei racconti rifiutati ultimamente, ora qui, in questo Giangiacomo e Giambattista, costruisce a suo modo un romanzo illuministico ad usum delphini, con ambizioni di favola morale e di conte philosophique.”
La conclusione del parere è possibilista: «Allo stato attuale, per quanto abbia una sua facile piacevolezza, questo Giangiacomo e Giambattista non mi pare pubblicabile. Volendo, si potrebbe proporre all’autore un lavoro di riduzione e di affinamento. Ma in vista di un’utilizzazione nel “Bosco”, perché, anche tenendo conto di un eventuale ridimensionamento, la natura del libro e il livello dello scrittore mi portano fin d’ora ad escludere che possa figurare nella collana del Tornasole».
A questo punto occorre qualche precisazione in merito alla filiazione del romanzo di Russello dalla costola calviniana. Perché è vero che Giangiacomo e Giambattista presenta non poche affinità con Il barone rampante: è evidente che entrambe le opere derivino da un retroterra comune, nel quale trovano collocazione il Candide di Voltaire e Jacques il fatalista di Diderot, assieme ad Alice nel paese delle meraviglie, I ragazzi della via Pal, il Barone di Münchausen e Gulliver. Si va dunque dal racconto filosofico vero e proprio ai classici dell’umorismo poetico e fantastico e a quelli della narrazione d’avventura e picaresca. Ma non basta: Russello ha letto Il barone, basti pensare ai ragazzini sugli alberi (sono ragazzi imparentati, in qualche modo, con la banda dei «bambini sperduti» che trascorrono le loro giornate avventurose sull’Isola-che-non-c’è, cugini lontani di Peter Pan), all’abitudine di questi ultimi di guardare le cose alla rovescia: non è Cosimo Piovasco di Rondò che un bel giorno (il 15 giugno 1767) decide di arrampicarsi su un elce e di non scendere più? E una volta sugli alberi, Cosimo non si concede il lusso di guardare il mondo a testa in giù?
C’è pure la coincidenza dei mezzi di comunicazione utilizzati in entrambi i romanzi: Giangiacomo si tiene in contatto con l’amico Giambattista tramite un piccione viaggiatore, al quale vengono affidate le lettere di entrambi i protagonisti. Nel romanzo di Calvino, Cosimo tiene corrispondenza epistolare coi maggiori filosofi e scienziati d’Europa. E poi una sorta di comune sentire ambientalistico: l’attenzione creaturale nei confronti delle piante, il richiamo a una responsabilità comune, a una sorta di etica del paesaggio.
Detto questo, dal capolavoro di Russello però si affaccia anche Vico, una vera novità: il grande filosofo napoletano in quel frangente non godeva di particolare attenzione da parte degli studiosi e degli scrittori. Non dimentichiamo che, solo di recente, grazie a Edward Said si è tornati a parlare dell’autore de La scienza nova. Said ha rivalutato Giambattista Vico riprendendo il suo discorso sulle idee degli uomini, che sono tutte connaturate negli individui umani e quindi sono strettamente collegate alla storia reale e cambiano con il tempo, così come può cambiare la storia stessa, perché è fatta dagli uomini. Storia che è la scienza nuova cui il titolo allude. Da qui il netto rifiuto del pensiero di Cartesio, il quale dal canto suo riteneva plausibile l’esistenza di idee chiare e distinte, sciolte sia dalla mente umana che le elabora sia dalla Storia.
Giambattista Vico nel romanzo è un pensatore sbeffeggiato: la moglie lo considera un poco di buono e perditempo, i suoi concittadini lo snobbano. A un certo punto Russello ha una grande trovata: il cielo sopra Napoli è pieno di aquiloni e il mare davanti zeppo di barche. I figli del filosofo sulla scalinata reggono per il filo gli aquiloni: «A Giambattista gli si veniva a porre davanti agli occhi come un giornale spiegato; e vide che quei delinquenti gli aquiloni li avean fatti con le pagine della sua opera». I ragazzi trasformano le pagine del padre, che nessuno vuol leggere, che nessuno degna di attenzione, in fogli svolazzanti. «Uno, grande grande, indugiò di più davanti ai suoi occhi, pencolò e lui vi lesse felice, senza nemmeno uscire le braccia di sotto le coltri, quei pensieri che tanto aveva sudato a scolpire con la penna».
Ne viene fuori un’immagine che Calvino avrebbe potuto di certo allineare in quella sua efficacissima galleria di istantanee letterarie legate alla «leggerezza».
Quando si diffonde la notizia della morte di Giambattista, tutti gli Accademici si muovono in corteo dall’Università per onorare il defunto, portando sopra un cuscino rosso il manoscritto della sua opera. Ma le Confraternite e gli stessi Accademici non riescono a mettersi d’accordo sulle modalità del funerale e su come vestire il cadavere; a un certo punto le file si sciolgono, tutti se ne vanno «lasciando in asso il morto. Il quale rimase solo, in mezzo all’atrio, nell’ombra e nel silenzio». Inutile dire che qui Russello amaramente preconizza il suo destino di scrittore.
Vale la pena di ricordare che, rifiutato da Mondadori, Giangiacomo e Giambattista viene pubblicato da Flaccovio nel 1969 registrando, tra l’altro, l’entusiasmo di Giancarlo Vigorelli il quale, sulle colonne de “Il Tempo”, lo definisce «il libro italiano letto ultimamente che mi ha più sorpreso, intrattenuto, soddisfatto, pur nella sua apparente inattualità». Libro grazie al quale Russello sarà tra i finalisti al premio Campiello nel ’70, accanto a Moravia, Cassola, Gadda e Soldati.
Col marchio editoriale della Mondadori lo scrittore favarese però esordisce nel 1960, subito recensito con entusiasmo dal solito Leonardo Sciascia sulle pagine de “L’Ora”: l’autore di A ciascuno il suo parla di una «rutilante favola della Sicilia» e addita, a proposito dell’asse portante del libro, una «gitaneria» di origine isolana che si combinava «agli influssi del lorchismo».
Si tratta di un esordio ottenuto in mezzo ai marosi editoriali, come testimonia una lettera che Russello invia al direttore Orlandi il 2 aprile 1958 proprio in merito a La luna si mangia i morti, che già da due anni giace in lettura presso la casa editrice milanese. «Il mio amico dottor Mario Formenton, cognato del Sig. Alberto Mondadori, mi ha testé scritto che Ella avrebbe dato una risposta definitiva entro la prossima settimana circa la data di pubblicazione del mio libro».
L’autore in pratica vuol mettere a conoscenza Orlandi delle burrascose vicende editoriali legate al romanzo, inviato alla Vallecchi nel 1953: dopo un anno la casa editrice decide di pubblicarlo. Frattanto, l’autore invia lo stesso libro al premio «Fiera letteraria»: il vincitore sarebbe stato pubblicato sempre da Vallecchi. Arriva l’annuncio della pubblicazione del romanzo ma la casa editrice chiede che sia Giovanni Comisso, amico di Russello, a vergare la prefazione. Comisso scrive la presentazione dell’opera «molto lusinghiera» (di cui però non c’è traccia), il libro sta per uscire ma Vallecchi fallisce e il premio va in fumo.
Russello a questo punto invia il dattiloscritto alla Mondadori e dopo un anno riceve risposta positiva e un’indicazione della data di pubblicazione: il 1958. «Ho sperato nel 1958 – aggiunge lo scrittore nella sua lettera – ed è venuto. Ho paura che ci siano nuove sorprese».
In realtà per Russello il cammino è subito in salita, faticoso e impervio: i pareri di lettura custoditi consentono di ricostruire la storia del suo debutto letterario, a cominciare dalla scheda firmata da Sergio Antonielli datata 13 agosto 1956.
Il cui incipit non lascia certo dubbi: «Un buon libro, senz’altro pubblicabile».
Segue un veloce resoconto che illumina meglio la cronologia della produzione di Russello: Antonielli infatti specifica che La luna si mangia i morti è il terzo lavoro dello scrittore passato al vaglio, che spicca per «un’assai maggiore maturità espressiva, una più esperta aderenza al tema» (rispetto ad esempio all’opera giudicata precedentemente, ossia Le terre di zio Santo; da un’altra scheda di lettura si ricava che Russello aveva proposto a Mondadori anche Don Kilometro, che ha visto poi la luce postumo per i tipi di Santi Quaranta col titolo In viaggio con l’auto ferma). Il lettore apprezza il fatto che la Sicilia sia rappresentata da lontano, «con un certo distacco»; Antonielli precisa che quest’isola di banditi buoni e di carabinieri che combattono la mafia può vantare precedenti letterari, per non dire dei mezzi con cui tutto questo è raccontato, ossia «la memoria e il ricupero delle leggende dell’infanzia in fondo ad esse». Ma Russello «racconta con vivacità e freschezza, infilando serie felici di buone pagine, talune delle quali veramente belle».
Poi l’estensore del parere torna sulla maturità stilistica: questa volta le espressioni dialettali sono usate meglio, «diffuse in un tono costante, trasformate in sintassi tanto che si può parlare di vera coerenza stilistica». Pur notando qualche periodo un po’ macchinoso e qualche leggero segno d’imperizia formale, Antonielli conclude affermando che «si tratta di un buon risultato letterario»; «il libro appare organico e coerente ed è possibile che abbia buona accoglienza da parte del pubblico. Non mi meraviglierei se avesse successo e si portasse via qualche premio».
Sulla prima pagina del parere di lettura, in alto a sinistra si scorge un appunto scritto a penna, inchiostro nero: «Sentire Romanò in seconda lettura, tuttavia sarei già propenso alla pubblicazione». Siglato E.V., ossia Elio Vittorini.
Entra in scena proprio Romanò, in seconda lettura: è il 13 settembre 1956. Egli mette subito in rilievo alcune peculiarità della scrittura di Russello, come la «sintassi a scatti, di tipo fondamentalmente lirico», «l’accavallarsi dei simboli». Una «musica emotiva» gonfia e appesantisce un po’ le pagine ma il libro è valido perché ha una sua «vitalità e novità». «Il parere è dunque favorevole» conclude Romanò, proponendo però di cambiare il titolo, che gli sembra «troppo rettorico e quindi inespressivo, anche se ha un riferimento con uno dei simboli dominanti, quello della luna lupinara».
A questo punto interviene Vittorini in persona dalla Segreteria editoriale (20 settembre 1956): «Farei proposta di contratto (e con ciò lascerei cadere, beninteso, l’altro libro dello stesso, tanto inferiore a questo). Ritengo inutile (dopo i pareri favorevoli di un Antonielli e di un Romanò) sentire altro lettore».
A Vittorini risponde Roberto Cantini, il 10 ottobre dello stesso anno: «Sì, ma le restrizioni che ci vengono attualmente imposte dalle esigenze di programma ci impediscono nel momento di prendere in considerazione questo scrittore».
Sembrava fatta per Russello, ma si mettono di mezzo le restrizioni dettate dalle esigenze di programma della casa editrice.
Passa più di un anno e in casa editrice si rimette mano al fascicolo Russello: è la volta del terzo lettore, Giuseppe Cintioli, che non si mostra tenero nei confronti del romanzo: non lo convince il «linguaggio agglutinante, a scosse, a singhiozzi», lo infastidisce la «mancanza di nerbo narrativo». Legge, tra le righe, suggestioni «di tipo verghiano, e comissiano e pavesiano» (il Pavese di Feria d’agosto). Lo colpiscono però alcuni pezzi «provvisti di proprio impeto, di foga da leggenda: in merito ai rapporti del sangue; ai fenomeni della natura; alle cose nel loro aspetto più toccante». È probabile, ipotizza Cintioli, che l’autore abbia imboccato una strada «che potrebbe anche non essere sbagliata, a patto ch’egli riesca a liberarsi di tutte le frange e del falso stilismo che per ora lo opprimono»: il giudizio alla fine è negativo.
Il 4 aprile 1958 (due giorni dopo rispetto alla data in cui Russello scrive la lettera indirizzata al direttore Orlandi) Vittorini prova a tirare le somme: «Due lettori, per solito piuttosto severi, si sono pronunciati favorevolmente nel ’56. Anch’io gli diedi una scorsa, sempre nel ’56, e trovai che poteva entrare senza disdoro nella medital [Medusa degli italiani, n.d.a.]. Ora un terzo critico di più fresco gusto lo giudica invece falso e confuso». Alla luce di ciò, lo scrittore siracusano crede che sia meglio non firmare il contratto. «Potremmo tuttavia chiedergli se intanto (giacché sono passati due anni) ha scritto dell’altro, farci mandare in esame quello che eventualmente avesse scritto e prendere la decisione in base al risultato che tale nuova prova ci desse».
Nello stesso giorno si pronuncia Mario Rivoire, storico, traduttore e consulente mondadoriano: «Ho parlato con Vittorini, al quale ho fatto presente che promesse e impegni hanno a volte pari valore dei contratti. E che, d’altra parte, il suo stesso giudizio era stato, dapprima, favorevole. Pertanto egli concorda nell’accettare il romanzo, pur con il timore che non abbia ad essere seguito da altre opere, e dice che in un secondo tempo si deciderà se Medital o altra collana. Io sarei per Medital e credo che anche Vittorini finirà col ritornare al suo primo sì».
Passano undici giorni e finalmente la situazione si sblocca: «Vittorini preferisce ro.ra.do. [la collana in questione è quella di “Romanzi e racconti italiani”, n.d.a.]».
Rivoire a questo punto si pronuncia definitivamente: «Allora, facciamo come dice Vittorini: ro.ra.do. Grazie».
Russello finalmente esce fuori dal limbo, esordisce con un marchio di fabbrica di tutto rispetto. Nonostante le difficoltà incontrate, i differimenti e le incomprensioni egli non molla: l’autore di La grande sete torna infatti ripetutamente alla carica proponendo altri lavori alla casa editrice milanese, come ad esempio Venezia zero, che poi sarebbe uscito nel 1985 per i tipi delle Edizioni della Galleria (Treviso) e successivamente riproposto da Santi Quaranta col titolo La danza delle acque.
Qui Russello sceglie, come recita il titolo, la città lagunare quale teatro delle vicende narrate. Vicende che l’autore declina secondo tre diversi registri che egli stesso così definisce: una prima «pittorica», una seconda «musicale», una terza «vitrea o acquatica». Al centro della storia, il giovane siciliano Gabriele, laureato in lettere, giunto a Venezia per prendere servizio alla Banca del Sud. Lo sguardo dell’autore è una sorta di grandangolo, in grado di deformare ogni cosa, di trascendere la referenzialità del quotidiano, per attingere a un immaginario abnorme. Da qui deriva l’estraneità del punto di osservazione del protagonista della storia, il quale, «con la testa a pelo d’acqua», trova il modo d’affondare e da sott’insù vedere come «i palazzi scorrono capovolti, ora da palazzo a palazzo le ombre dei nobili con le loro mani uscenti da maniche di broccato, in un girotondo d’aspirazioni aristocratiche mediocri, si danno la mano». Per poi, alla fine, ammettere: «M’accorgo che ho imparato a vedere da un altro angolo le cose».
A leggere il dattiloscritto saranno Carlo Della Corte (20 novembre 1968), Inìsero Cremaschi (13 dicembre 1968) e Carlo Quintavalle (19 febbraio 1969).
Il primo e il terzo giudicano negativamente l’opera: Della Corte pur affermando che «Russello ha delle qualità, sa scrivere» definisce il risultato alla fine «decoroso, professorale ma incerto»; Quintavalle prende una solenne cantonata allineando il nome di Russello accanto a quello di Massino Simili, scrittore umorista mille miglia distante dall’autore favarese.
Cremaschi rimane ben impressionato, precisa che Russello «si pone su un piano di ricerca letteraria che sa poi affrontare con lucidità e discreti mezzi espressivi». Apprezza il piglio rivoluzionario anche se l’autore avrebbe potuto osare di più: «Forse è mancato il coraggio di andare più in là, di rompere definitivamente col verismo, in una parola di sperimentare fino in fondo la possibilità di una narrativa “pulita” dalle scorie romanzesche». Qui Cremaschi centra il bersaglio critico; in chiusura specifica che «un tentativo del genere poteva diventare autentica eversione, contestazione letteraria, perfino sberleffo della “significazione” – e trovare una utilità proprio nella sua apparente inutilità di gioco funambolico». Il giudizio infine è «complessivamente positivo non fosse altro che per le ardite intenzioni polifoniche e per le estreme difficoltà del percorso».
Viene fuori, da questo periplo attorno alle carte mondadoriane, l’immagine di uno scrittore inafferrabile, che non agevola il procedimento dell’agnizione. Ogni volta che egli mette mano a un’opera (ci riferiamo a quelle più riuscite), rinnega se stesso, manda in soffitta la sua storia precedente; ricomincia daccapo, inizia un nuovo cammino scegliendo il sentiero più impervio e meno conosciuto.
Romanziere polimorfico, Russello non ha tollerato le camicie di forza interpretative, le gabbie ermeneutiche; ha preferito mostrare ogni volta un nuovo sembiante. Si è trattato di penuria di coerenza poetica, di uniformità stilistica? Oppure il fatto che lo scrittore siciliano non potesse essere compreso in un solo modo, in una direzione univoca, rappresentò una sorta di deterrente critico, di castrante inibizione interpretativa?
(Riproduzione riservata)
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Salvatore Ferlita nato a Palermo nel 1974, è professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Enna Kore. Collabora a “la Repubblica” (edizione siciliana) e al mensile “Segno”. Ha scritto, tra l’altro, I soliti ignoti (Dario Flaccovio, 2005), Sperimentalismo e avanguardia (Sellerio, 2008), Novecento futuro anteriore. Saggi di letteratura (Di Girolamo, 2009), Contro l’espressionismo. Dimenticare Gadda e la sua eterna funzione (Liguori, 2011), Le arance non raccolte. Scrittori siciliani del Novecento (Palumbo, 2011), Alla corte di Federico (Bonanno, 2012) e Non per viltade. Papi sull’orlo di una crisi (Mimesis, 2013).
Per il Palindromo dirige la collana “Le città di carta”, di cui ha scritto il primo volume: Palermo di carta. Guida letteraria della città, ed è autore di Letture ricreative. Traiettorie e costellazioni letterarie. Ha inoltre scritto l’introduzione alla nuova edizione di I fatti di Petra di Nino Savarese.
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