Uno dei più iconici autori del supereroismo cinico e del fumetto cupo si racconta al Press Café di LCG2023 “Together”
Garth Ennis: Il mio Preacher non invecchia! (Anche se invecchia male)
Non farà Bond, Hollywood lo farebbe arrabbiare, non rimpiange la violenza del fumetto quanto la gioia degli anni Novanta, ricorda il sodalizio con lo scomparso Steve Dillon
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Lucca, 3 novembre 2023, Area Stampa, ore 16:43
di Furio Detti
Aprono il Press Café, Luca Bitonte e Alessandro Apreda, curatori della mostra “Till the end of his words”, dedicata a Garth Ennis, insieme alle altre stelle di questa edizione LCG”Together”2023, e realizzatori del documentario prodotto per RaiPlay, dedicato al maestro nordirlandese.
«Per noi è stata veramente una gioia avere a disposizione una delle sale più grandi e raffinate di Palazzo Ducale per realizzare questo tributo al maestro. Una cosa impressionante, abbiamo voluto realizzare l’interno di un pub. Ha funzionato dato che ci sono state delle persone che hanno persino cercato di bersi le birre finte che facevano parte della scenografia!»
La prima domanda per Garth:
– È la prima volta che sei ospite a Lucca. Come stanno andando questi giorni lucchesi? Hai visto la mostra?
«La mostra è davvero affascinante, una vera passeggiata nel viale della memoria. Il festival mi sta piacendo moltissimo, io e mia moglie ci stiamo divertendo tantissimo: c’è un’atmosfera fantastica, ci stiamo godendo tutto, vediamo cose fantastiche, incontriamo cose fantastiche, cibo e bevande sono fantastiche… è uno dei più bei festival a cui abbia partecipato.»
La serie per la AMC di “Preacher”: soddisfatto per l’adattamento di Seth Rogen e Evan Goldberg?
«Sinceramente non ho lavorato a stretto contatto con Seth e Evan; loro hanno tracciato la strada, e, una volta definito il progetto, gli showrunner si sono incaricati di farlo funzionare. A me va bene così. Sono molto soddisfatto del lavoro. Intanto perché mi aiuterà a vendere altri volumi, è prioritario, ma non solo: anche la longevità dell’opera mi fa piacere. Se non ci fossero stati questi show certamente non avrei avuto l’impennata di vendite che c’è stata, ma non è solo un fatto commerciale.»
Esiste un compromesso che ha dovuto accettare e che rimpiange, nel corso della sua carriera, adattamenti a parte?
«Oh boy! Sorprendentemente pochi. Persino per Preacher l’editore non ha avuto quasi nulla da ridire. Se mai ho subito in qualche modo una forma di censura, vaga, nella rubrica della posta, quando rispondevo ai lettori di Preacher. Sceglievo le lettere, rispondevo, e mi rendevo conto che spesso le mie risposte erano tagliate o modificate. Certo, quella era comunque la posta della DC comics, anche se su c’era il mio nome, beh… era comunque l’editore a “rispondere” ai lettori! Ma vi racconto un episodio buffo: una volta mi sono arrivate due distinte lettere contenenti le ricette per un sugo di carne umana! E in un’altra missiva un tizio mi ha raccontato di aver mangiato quattro porzioni di spaghetti meatball e quello che era successo dopo e poi la storia di un tipo che ha cercato di circoncidersi con un taglierino, del cotone e una bottiglia di ghiaccio! Sono state le lettere che avrei voluto pubblicare, ma ovviamente non è stato neanche lontanamente possibile. Io insistevo: erano spassose. Mi hanno sempre risposto: NO, non lo sono!»
In che modo la natura umana è esplorata tramite il conflitto e la violenza così presenti nei suoi fumetti?
«Cerco di essere il più onesto possibile a riguardo. La violenza esiste, esistono i suoi effetti. Se fossi un autore per bambini scriverei storie differenti, ma io scrivo fumetti per persone più adulte. Non devo indorare la pillola e posso permettermi di raccontare la vita per quello che è.»
Soddisfatto per The Boys? Giravano voci che tu non fossi entusiasta all’idea di portare queste storie sul video…
«Ci sono delle mie storie che avrei in effetti piacere di vedere sullo schermo e per cui insieme provo il timore di una trasposizione: sono le mie storie di guerra. Ci credo molto, mi piacciono moltissimo e da un lato vorrei tanto accadesse; eppure sono anche diffidente su come verrebbero trattate. Ho il terrore di vederle “hollywoodizzate”, se mi passate il termine. Hollywood ha prodotto opere meravigliose con i film di guerra, ma anche tante cose pessime, parecchio brutte. Ecco, io ho il timore che succeda questo con me. Mi piace scrivere storie reali, di soldati e combattenti, e cerco di fare onore alla memoria di queste persone: nel momento in cui vedessi qualcosa che va storto insieme al mio nome nei titoli di coda… la cosa mi renderebbe parecchio nervoso! Per fare un esempio c’è una mia storia, “The Eagles”, la storia di un gruppo di piloti di caccia afroamericani che, superando i pregiudizi, sono volati a combattere i nazisti. La serie Red Tales che tratta lo stesso argomento, pur non avendo infangato la memoria di nessuno, non ha secondo me reso giustizia alla memoria di queste persone: le loro storie sono state ridotte a una specie di cartone animato da sabato mattina, per come la vedo io, banalizzandola, rendendola macchiettistica. Scelta voluta dal produttore, Lucas. Ecco perché sono diffidente e non vorrei che succedesse con le mie storie di guerra.»
Come è nato il personaggio migliore dei tuoi fumetti, Preacher, e sapere se la DC ti ha posto dei paletti nella realizzazione della storia?
«Come dicevo prima, per Preacher all’epoca non ho ricevuto imposizioni. Uscivamo per Vertigo, non direttamente per DC, e lavoravamo insieme a Neil Gaiman e Grant Morrison. Stavamo scoprendo un nuovo filone di storie più adulte. Tornando a me non ricordo che ci siano stati particolari vincoli, ma non posso dire lo stesso per gli altri. Cito a esempio un episodio su Morrison che stava scrivendo una storia con un frammento sul Marchese De Sade che fu, quello sì, pesantemente censurato. Quando Grant finì di riscrivere la storia vide quello che io e Steve Dillon eravamo riusciti a fare con Preacher e ci rimase di stucco, perché riteneva che fossimo riusciti in quello che gli era stato negato.»
Chi è per te The Punisher, Frank Castle?
«A livello metaforico Frank potrebbe essere l’incarnazione della frase biblica “Attenzione alla furia dell’uomo paziente”. Io lo vedo come una sorta di forza naturale, una catastrofe che succede quando qualcosa viene portato al limite estremo e poi esplode: un’eruzione, un vulcano, il terremoto… Guardi il cielo e capisci che sta per scatenarsi un disastro.»
Vedremo Hitman arrivare sul grande schermo o per una serie TV? Ti piacerebbe?
«Mi piacerebbe ma per me è molto difficile immaginare se e quando una serie a fumetti possa diventare interessante per il cinema o la tv. Penso, come per The Punisher, per esempio al problema delle armi, l’uso massiccio delle armi sarebbe decisamente un problema.»
Come è nata la collaborazione unica fra te e Steve Dillon?
«La scintilla che fece iniziare tutto fu una chiacchierata a voce alta, nel cuore della notte davanti a una bottiglia di Whiskey sulla domanda: Cosa è possibile fare con i fumetti? La risposta: tutto. Noi volevamo raccontare la realtà con un piccolo colpo di scena. Ci sarebbe piaciuto raccontare più realtà, era un periodo in cui la fantascienza o il fantasy dominavano le storie. Noi cercavamo un ritorno a qualcosa di profondamente immerso nella realtà. Il nostro sodalizio era basato sul mutuo rispetto e fiducia: io avevo piena fiducia nel fatto che Steve avrebbe portato su carta le mie storie e Steve sapeva che io non lo avrei sovraccaricato di dettagli. La gente si stupiva di come parlassimo pochissimo di lavoro quando ci incontrava insieme, e accadeva spesso. Non avevamo bisogno di parlare del mestiere, la nostra era un’intesa istintiva che funzionava senza troppe chiacchiere.»
Quanto ti ha influenzato crescere in Irlanda del Nord durante i Troubles?
«Io all’epoca vivevo in un quartiere e dei dintorni molto tranquilli e pur avendo sentito e forse risentito certamente, come tutti, delle storie turbolente di quel periodo, non ho vissuto direttamente alcuna di esse. Forse ne è derivata una sorta di cinismo sul conflitto, nato dalla consapevolezza che nessuno aveva interesse a porre fine agli scontri. Questa visione piuttosto amara e cinica nasceva dalla coscienza che per la maggior parte delle persone è più comodo gestire un conflitto piuttosto che terminarlo. Da qui è scaturito un mio certo sospetto verso i governi e il potere, così come anche da chi non riesce a contestualizzare gli ideali anche profondi e grandi in cui crede. Tutti da ragazzi, molto impressionabili, abbiamo visto Guerre Stellari, e abbiamo tutti subito il fascino della vita da ribelle; ma una rivoluzione è brutta, sanguinosa, anche ingiusta e è raro che le cose vadano a posto come dovrebbero e che i buoni ne escano fuori vincitori o del tutto innocenti.»
La decostruzione del “supereroe” è avvenuta con Alan Moore (Watchmen), poi con te (The Boys), a questo punto dobbiamo aspettarci una nuova scossa al tema? Chi se ne occuperà secondo te?
«Non seguo tantissimo la scena, sono la persona peggiore a cui fare una simile domanda. Però posso dire che in base a quello che vedo è che ormai i supereroi sono diventati un fenomeno ben oltre l’affezione: ognuno ha sviluppato una propria versione o idea di “supereroe”, una cosa estremamente intima. Il supereroe significa quello che tu vuoi. La gente ama troppo i supereroi perché sia possibile una nuova decostruzione del genere. Al momento io non vedo nessuno, comunque, in grado di fare quello che abbiamo fatto io, Moore e – aggiungo -, Pat Mills. I tempi non sono maturi e ormai c’è troppo amore per i supereroi. Grant Morrison per esempio è un ottimo scrittore, ma anche lui ama troppo i supereroi per fare una cosa del genere.»
Eppure gli albi di supereroi, in tutto il mondo, stanno subendo una crisi di vendite. Che pensi a riguardo?
«Idealmente dovremmo sperare che i fumetti si evolvano e seguano una parabola simile a quella di altre forme d’arte, come il teatro, il romanzo, la poesia. Ma io non sono così contento di ammettere di sbagliarmi, anche se dovessi guardare ai dati di vendita.»
Ci sarà la possibilità di un James Bond scritto da Garth Ennis?
«Mi piace l’idea, ma no. Mi hanno chiesto dieci anni fa di fare Bond. Il mio Jimmy’s Bastard è una parodia. Il mio Bond sarebbe più aderente alla narrativa di Fleming, sarebbe assai più duro e cupo di quello che conosciamo al cinema. Uno che farebbe cose più tremende, probabilmente…»
Le domande di LETTERATITUDINE
– Tornando alla longevità seriale e alla continuity dei personaggi, il mondo è molto cambiato dagli anni dei suoi lavori che l’hanno resa celebre: quale è il suo personaggio invecchiato peggio rispetto all’attualità? Grazie.
«Probabilmente quello che non è più così contemporaneo è proprio “Preacher”. Un western, idealista, sul mito americano, che riflette un paese che non è più quello di un tempo, rispetto a quanto è successo negli ultimi quindici, sedici anni. Sì, è rimasta l’idea di base, ma non ha più quell’attualità che possedeva in origine. C’è da dire che è una storia degli anni Novanta. Io non so voi ma in quel periodo mi divertivo un casino e credo che pure il mondo fosse molto, molto più divertente in quell’epoca.»
– C’è ancora posto per un personaggio epico nei tuoi lavori futuri?
«Dipende da cosa intendi per “epico”. Io per esempio ho in progetto, a lunga scadenza, una serie di fumetti sull’aviazione britannica durante la Battaglia d’Inghilterra e quella di Malta, gli scontri sul Reno della Seconda Guerra mondiale, se non nel contenuto, quantomeno nella dimensione.»
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