Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine “Saggistica Letteraria” è dedicato alla figura di Luigi Pirandello con questo contributo di Emma Di Rao
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Luigi Pirandello: dal suo involontario cadere sulla terra a dimissionario dall’esistenza
di Emma Di Rao
“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli di un altipiano di argille azzurre sul mare africano”. Con un linguaggio che è stato privato della sua funzione logico-comunicativa e ricondotto ad espressioni quasi aurorali, Luigi Pirandello immerge la propria nascita, facente parte di un comune destino di sofferenza e casualità, in un’atmosfera irreale e sospesa. In tale evento, verificatosi il 28 giugno 1867, si cela un surplus di significato che può dedursi dalla stessa concezione dell’autore: esso rappresenta, infatti, solo uno degli innumerevoli eventi connessi con l’involontario cadere dell’uomo sulla terra, in seguito al quale, strappato al divenire cosmico e condannato a consistere in una forma limitante e limitata, egli è destinato ad una perenne lacerazione fra molteplici scelte esistenziali. Una di queste scelte, una delle possibilità di ‘Pirandello persona’ è, a nostro avviso, quella di ‘Pirandello scrittore’, che potrebbe configurarsi come una maschera capace di osservare e rappresentare la tragedia dell’esistere con il distacco di chi “ha capito il gioco”.
“Forestiere della vita”, al pari dei suoi personaggi, l’autore affida loro la propria prospettiva, una prospettiva dolente e critica, derivante dal “vedersi vivere” e dall’aver acquisito la consapevolezza che non sarà possibile ricomporre l’unità della coscienza, stratificata e sottoposta alle oscure pulsioni dell’inconscio. Ciò potrebbe trovare origine in un’esperienza personale, in una crisi di identità, come suggerisce una lettera del 7 gennaio 1894 alla futura moglie: “ In me son quasi due persone. Tu già ne conosci una; l’altra, neppur la conosco bene io stesso”. Ed è anche per questa ragione che in molti suoi testi la personalità appare soggetta a un processo di sdoppiamento dell’io che, come ha osservato Franco Zangrilli, diviene il referente delle inquietudini, delle instabilità interiori e delle schizofrenie dell’uomo contemporaneo.
Se si tiene presente che l’anima – da intendersi sul piano psichico, non spirituale-religioso – è percepita, nell’opera del Nostro, come un non luogo, come un campo di eventi in cui tutto è vero e tutto è falso a seconda delle circostanze, non ci sfuggiranno ulteriori implicazioni, come, ad esempio, il fatto che l’autore non è più autorevole garante di una vicenda coerente che rifletta l’organicità del reale.
Chi, infatti, si addentri nell’ universo della scrittura pirandelliana per rinvenirvi una verità o un ordine possibile può cogliere soltanto il non senso dell’esistenza e la tragica assurdità della condizione umana. Il lettore è inoltre destinato a imbattersi in una moltitudine di personaggi stravolti dalla sofferenza, attori di “quella molto triste buffoneria” che è la vita, la cui quotidiana rappresentazione costringe alla scelta di una maschera da indossare. Quest’ultima, deprivata di un qualsiasi principio ontologico che la giustifichi, viene a coincidere con una forma rigida e statica in cui l’uomo, separatosi dal flusso inconsapevole del divenire, rimane per sempre intrappolato.
Nell’ambito dell’interazione sociale, giudicata da Pirandello del tutto artificiosa, si assiste dunque ad “una vicendevole imposizione di parti prestabilite, che, d’altronde, permette di riconoscere un’identità istituzionalizzata”. Come più volte è stato osservato, l’uomo pirandelliano non può infatti prescindere dall’accettazione collettiva, ma, nel contempo, aspira a liberarsi dalle finzioni del vivere civile e da ogni costrizione morale e sociale. Lo si evince chiaramente da un passo dei Quaderni di Serafino Gubbio: “Inevitabilmente noi ci costruiamo, vivendo in società…già, la società per se stessa non è più il mondo naturale, è mondo costruito anche materialmente. Dentro queste nostre costruzioni restano ben nascosti i nostri pensieri più intimi, i nostri più segreti sentimenti. Ma ogni tanto, ecco, ci sentiamo soffocare; ci vince il bisogno di gridare fuori, in faccia a tutti, i nostri pensieri, i nostri sentimenti tenuti per tanto tempo nascosti e segreti”.
Risulta evidente che lo spazio entro cui ogni identità si colloca è sicuramente contraddittorio, definendosi, da una parte, come anelito ad una dimensione libera ed autentica e, dall’altra, come prigionia e inevitabile solitudine. Una solitudine che non deriva solo dall’essere rinchiusi in una forma, ma anche dalla sostanziale incomunicabilità cui sono condannati gli individui a causa dell’ingannevole maschera verbale. Il ricorso costante, da parte dei personaggi, al ragionamento al fine di far coincidere prospettive conflittuali è infatti votato all’insuccesso, anche se testimonia comunque l’importanza dell’alterità. Si potrebbe addirittura sostenere che lo sguardo altrui, necessario all’affermazione dell’identità, è l’elemento che contribuisce a disgregare quest’ultima. A ragione, il vivere sociale, nella poetica di Pirandello, è stato paragonato a un palcoscenico straniante, a una festa sinistra, priva di giocondità – come quella rappresentata nella novella C’è qualcuno che ride -, il cui senso è ignorato da tutti.
La dissociazione della coscienza, scaturita dal vedersi vivere “come davanti a tanti specchi quanti sono gli occhi degli altri”, si coniuga, nel personaggio pirandelliano, con l’angoscia derivante dalla scelta di una maschera che, nel teatro dell’esistenza, coincide con una costruzione del tutto innaturale e non definitiva: “Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar la parte del vivo?…Maschere, maschere…Un soffio e passano per dar posto ad altre. Ciascuno si racconcia la maschera come può – la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori.”.
Significativo, al riguardo, quanto osserva la studiosa Anna Frabetti, la quale intravede nel concetto di maschera un duplice livello di significazione, metaforico ed espressivo, nello stesso tempo. La maschera, che si concretizza nell’interpretazione di un ruolo, rinviene una sorta di correlativo espressivo nella propensione di Pirandello a connotare la figura umana per mezzo di un tratto distorto e iperbolico della fisionomia o per mezzo dell’alterazione delle proporzioni corporee. Lo scrittore agrigentino risulta così “grande visionario dell’anamorfosi, straordinario pittore della sconciatura e della disarmonia”. Indubbiamente, nel corpus delle Novelle per un anno, il cui carattere aperto e la cui frantumazione in autonome schegge narrative corrispondono alla parcellizzazione della vita stessa, si rileva che il venir meno di ogni tratto autentico della figura umana e il prevalere di particolari anomali concorrono a creare quei ritratti “sconciati” in cui la descrizione iperespressiva evidenzia elementi spesso sgradevoli o repellenti. Occorre però ricordare che tale rappresentazione di una natura umana dai tratti caricaturali e abnormi è anche la rappresentazione di una soggettività sempre negata e impossibilitata a realizzarsi. Insomma, come ha osservato Gesualdo Bufalino, è la frantumazione dell’identità a tradursi a livello espressivo in un “disturbo della visione”, ovvero in una deformazione delle maschere fisionomiche. Cristallizzazioni esemplari della disarmonia e dell’inautenticità, le maschere assurgono, come afferma Graziella Corsinovi, a “simboli emblematici, densi di continui rinvii psicologici ed esistenziali”.
Vale la pena ricordare che il prototipo di tutte le maschere pirandelliane, in virtù del suo valore paradigmatico, è quello delineato nel saggio sull’Umorismo, ovvero la “vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili”, che “pietosamente s’inganna” di conservare l’amore del giovane marito. In questo caso, il ricorrere al trucco non solo muta vistosamente i lineamenti, ma finisce per sovrapporre una seconda maschera a quella già indossata, come accade a molti altri personaggi “imbellettati”, fra cui Enrico IV, “nel quale l’evidenza sguaiata del trucco diviene espressione visiva dalla sua condizione di erma bifronte”.
Ed ancora, Anna Frabetti pone in relazione l’inautenticità artificiosa della maschera pirandelliana con la concezione della maschera, di radice heideggeriana, formulata da Ludwig Binswanger, con riferimento al Manierismo in ambito figurativo, culturale ed esistenziale. In Tre forme di esistenza mancata, lo psichiatra e filosofo svizzero sottolinea come l’elemento costitutivo del Manierismo sia l’angosciosa, disperata impossibilità di essere se stessi e, insieme, la ricerca di un appiglio in un modello attinto alla “pubblicità del Si”. Tale espressione, nel significato di “si ritiene”, “si dice”, indica, secondo Martin Heidegger, il rischio della conformità, l’indifferenza quotidiana che soffoca, nella dimensione pubblica, ogni tratto originale.
Sia la maschera pirandelliana che quella manieristica si configurerebbero come una sorta di corazza imposta dalla società cui è necessario appartenere, una corazza resa necessaria dall’incapacità dell’uomo di aderire alla propria “ipseità”. Secondo la studiosa, è proprio l’adeguarsi dell’uomo pirandelliano e dell’uomo manieristico ad un modello prefissato, al fine di far parte del ‘gioco’ sociale, a sortire come esito, per la totale innaturalezza, la deformazione e la “sconciatura”.
Inoltre, come nel Manierismo si attribuisce importanza al cerimoniale e alla forma esteriore, così nell’opera dello scrittore agrigentino si assegna centralità alla ‘parte’: nel suo scritto Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, egli ribadisce che “il macchinismo è voluto, è la maschera per una rappresentazione, il giuoco delle parti, quello che vorremmo o dovremmo essere, quello che agli altri pare che siamo, mentre quel che siamo non lo sappiamo neanche noi stessi; la maschera è la goffa,incerta metafora di noi…”.
D’altra parte, l’alternativa alla “mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontari” è una voragine, un abisso “a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo d’impazzire”. Una pazzia che somiglia a un’inquietudine angosciante, a una fuga verso una realtà in cui gli eventi risultano privi di ogni consequenzialità logica e che rappresenta una dimensione ‘altra’ da contrapporre a quella che opprime l’individuo. I folli, pertanto, sono “i diversi”, coloro che, respinti dal giudizio ordinario e convenzionale della società, scelgono la diversione, la fuga, l’altrove. In tal modo, l’individuo finisce per collocare se stesso al di fuori della vita, in una sorta di inconsistenza priva di quella maschera in cui si sommano i vincoli sociali, come accade a Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila: nella scelta radicale della dissoluzione della sua persona, questi rifiuta persino il proprio nome in quanto etichetta che non può racchiudere la vita fluida e indeterminata cui egli ha deciso di aderire. Se infatti molti personaggi pirandelliani restano disperatamente agganciati a un nome, a un atto che la vita fa scontare loro come una condanna senza remissione, altri, invece, decidono di svuotare quel nome e quell’atto di ogni contenuto e significato.
L’ultima produzione pirandelliana potrebbe testimoniare, come ha sostenuto Gabriella Corsinovi, una “riconquistata leggerezza dell’Essere”, ovvero una riconquistata libertà dalle finzioni psichiche e dal tormento della parola-logos. A conferma della nuova condizione dell’io, il mago Cotrone, nei Giganti della montagna, dichiara: “Io mi sono dimesso. Dimesso da tutto: liberata da tutti questi impacci ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci disperde e solleva in misteriose lontananze. Guai a chi si vede nel suo corpo e nel suo nome.”.
Questo è il Pirandello – ribadisce la studiosa – che vorrebbe ricomporre la lacerazione provocata dalla caduta originaria, quando “l’uomo è precipitato dall’Essere all’Esser-ci per la morte”.
La propensione verso la fragile consistenza del sogno sembra dunque imporsi nell’ultima fase dell’iter sia letterario che esistenziale, come si evince da alcune dichiarazioni dello scrittore, quale, ad esempio, quella contenuta nello scritto Insomma la vita è finita, in cui si legge: “Ormai preferisco sognare che vedere”. Subentrano, a questo punto, le esperienze di suggestiva evanescenza e le atmosfere fantastiche della raccolta Una giornata, i cui personaggi non sono ritratti con i moduli espressionistici che si addicono a chi è “alla ricerca di una comunicazione-scontro col mondo”, ma con stilemi decisamente surrealistici, del tutto consoni a chi si muove in una dimensione atemporale e in una indeterminatezza spaziale. E mentre la morte apre un varco sull’oltre e conferisce finalmente l’autenticità negata in vita, si sfalda il legame con la maschera corporea e con la fisicità “sconciata”.
Accanto a luminose visioni oniriche, come quelle di Effetti di un sogno interrotto e de Il chiodo, si osservano, adesso, forme chiaramente denarrative: la maggior parte delle novelle facenti parte dell’ultima raccolta s’interrompe infatti “su un’esitazione tra veglia e sogno, tra reale e irreale” e su una sospensione interpretativa accentuata dal travalicare nel lirismo fantastico. Basti pensare alla novella eponima Una giornata che sembra assolvere un compito conclusivo, anche se risulta più verosimile credere che lo scrittore agrigentino non abbia mai rinunciato a rilanciare il messaggio della fondamentale incompiutezza di ogni operare.
“Poetica allegoria della vita dal punto di vista della morte”, questo testo è ritenuto una sintesi ideale di diversi motivi presenti nell’opera pirandelliana: un uomo, privo di nome, di voce e di volto, gettato da un treno in corsa in una stazione di passaggio, si ritrova in una città sconosciuta e fra una moltitudine di uomini “sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno”. La vicenda sembra alludere al tema dell’individuo che, ‘gettato’ nel mondo e posto in una situazione da lui non voluta, sperimenta nel vivere civile il più totale disinganno esistenziale. Il corso della vita è qui sintetizzato simbolicamente dalle diverse scene che evidenziano lo smarrimento conoscitivo del soggetto, il quale, in un presente del tutto immobile, vive una condizione tale di straniamento da non riconoscere i segni della sua identità. Quando egli cerca poi in uno specchio la conferma della propria esistenza, vede scorrere su quella lucida superficie le numerose immagini del suo passato. Da una remota lontananza, gli occhi di un bambino scoprono nel viso di un vecchio che la giornata della vita sta volgendo al termine, mentre la fredda lastra diviene sinistra metafora di morte.
Estraneo a se stesso e agli altri, condannato a consistere in forme stabili e determinate, l’uomo, davanti alla morte, è ancora irreversibilmente solo, ma, finalmente libero dalla limitatezza asfittica della ‘trappola’, può dimettersi dall’esistenza.
Non può negarsi che la disumanizzazione surreale che accompagna il processo di liberazione dalla maschera corporea debba intendersi come la ricerca, da parte dell’autore, di forme espressive atte a rappresentare la nuova condizione dell’uomo. A noi piace comunque condividere l’ipotesi suggestiva di chi ha ritenuto che Pirandello, ormai presago della morte imminente, abbia voluto concedere ai suoi ultimi personaggi una libertà che va oltre la fantasia e la follia, ovvero la libertà della morte. Come il protagonista di Una giornata, lo scrittore si dimetteva forse dalle proprie maschere, anche da quella di ‘Pirandello scrittore’, e riconosceva nella morte il superamento di ogni parcellizzazione dell’esistenza, nonché la liberazione da quel mondo in cui, una notte di giugno, sotto un pino solitario, in una campagna d’olivi saraceni, era stato lasciato cadere.
Ed infine, nelle sue disposizioni testamentarie, “Bruciatemi. E il mio corpo sia lasciato disperdere”, affiora la speranza nutrita dallo scrittore di tornare alla forza dinamica del flusso ininterrotto della vita, dopo aver preso commiato dalle azzurre argille e dal mare africano.
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