Il nuovo appuntamento della rubrica PELLICOLE ITALICHE da rivedere, curata da Gordiano Lupi, è dedicato a uno dei più grandi film girati da Pier Paolo Pasolini: “Mamma Roma” (con indimenticabile interpretazione di Anna Magnani).
Il post si presta per discutere del cinema di Pasolini e della figura della Magnani (di cui avevamo già avuto modo di occuparci in quest’altro post).
Di seguito, oltre all’articolo di Lupi, la locandina e la prima parte del film.
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MAMMA ROMA (1962) – di Pier Paolo Pasolini
recensione di Gordiano Lupi
Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto e Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Consulente ai dialoghi: Sergio Citti. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Flavio Mogherini. Musiche: Carlo Rustichelli (rimaneggia Antonio Vivaldi). Aiouto Regia: Carlo Di Carlo.Assistente Alla Regia: Gianfrancesco Salma. Produttore: Alfredo Bini. Produzione: Arco Film (Roma). Distribuzione: Cineriz. Interni: Incir De Paolis (aprile – giugno 1962). Esterni: Roma, Frascati, Guidonia, Subiaco. Durata: 115’. Genere: Drammatico. Prima: XXIII Mostra di Venezia, agosto 1962. Premio Mostra di Venezia della FICC (Federazione Italiana Circoli di Cinema). Interpreti: Anna Magnani (Mamma Roma), Ettore Garofolo (Ettore), Franco Citti (Carmine), Silvana Corsini (Bruna), Luisa Orioli (Biancofiore), Paolo Volponi (il prete), Luciano Gonini (Zaccarino), Vittorio La Paglia (il signor Pellisser), Piero Morgia (Piero), Leandro Santarelli (Bengalo, il Roscio), Emanuele di Bari (Gennarino, il Trovatore), Antonio Spoletini, Nino Bionci, Roberto Venzi, Nino Venzi, Maria Bernardini, Santino Citti, Lamberto Maggiorani, Franco Ceccarelli, Marcello Sorrentino, Sandro Meschino, Franco Tovo, Pasquale Ferrarese, Renato Montalbano, Enzo Fioravanti, Elena Cameron, Maria Benati, Loreto Ranalli, Mario Ferraguti, Renato Capogna, Fulvio Orgitano, Renato Troiani, Mario Cipriani, Paolo Provenzale, Umberto Conti, Sergio Profili, Gigione Urbinati.
Pier Paolo Pasolini realizza il secondo film da regista e aggiunge un importante tassello al suo viaggio nell’umanità dolente delle borgate romane. Accattone (1961) mostra il mondo del sottoproletariato urbano della capitale visto dalla parte del maschio, con un grande Franco Citti, sublime interprete del ragazzo di vita pasoliniano. Pasolini continua l’adattamento cinematografico della sua opera letteraria (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Il sogno d’una cosa, Poesia in forma di rosa…), definendo un discorso aperto da sceneggiature importanti come La notte brava (1959), di Mauro Bolognini, tratto proprio da Ragazzi di vita. Accattone narra la vita quotidiana dei ragazzi delle borgate romane, tra litigi, notti insonni, bravate, giornate all’osteria, piccoli furti e prostitute. La Borgata Gordiani viene messa in primo piano da sapienti movimenti di macchina, carrellate, poetiche panoramiche, primi piani e mirabili piani sequenza.
Mamma Roma gode della stessa ambientazione borgatara di Accattone, ma la protagonista è una donna, Anna Magnani nei panni di una prostituta romana che vuole cambiare vita per dedicarsi al figlio Ettore. Sergio Citti è fondamentale come consulente per i dialoghi in romanesco, recitati da attori dilettanti, a parte la grandissima Magnani. Le tematiche sono quelle care a Pasolini che accompagneranno tutta la sua vita artistica: gli emarginati, il sottoproletariato confinato in un ghetto di incomunicabilità con le altre classi sociali, la sconfitta del diseredato, l’impossibilità di affrancarsi da un destino di sofferenza. Anna Magnani non lega con il regista, le rispettive visioni del mondo non coincidono, ma nonostante tutto regala un’interpretazione memorabile. La sua Mamma Roma è una madre coraggio in pena per la sorte d’un figlio ribelle, in preda alle tempeste adolescenziali, che contraccambia il suo amore ma non lo sa esprimere. “Mia madre? A me che me frega di mia madre? In fondo credo di volerle bene, perché se morisse mi metterei a piangere”, confessa a Bruna, la ragazza che lo fa diventare uomo. Vediamo in breve la trama. Mamma Roma (Magnani) decide di abbandonare la vita da prostituta quando Carmine (Citti), il protettore, si sposa, liberandola da ogni obbligo. La donna decide di dedicarsi anima e corpo al figlio, Ettore (Garofolo), che non sa niente del suo mestiere ed è cresciuto nella vicina Guidonia. Mamma Roma si mette a vendere frutta e verdura, si trasferisce in un appartamento alla periferia di Roma, segue il figlio, cerca di indirizzarlo nelle scelte femminili e di trovargli un lavoro. Mamma Roma non vuole che il ragazzo faccia la sua fine, che si seppellisca nella periferia romana, ma sogna per lui un futuro di tranquillità, con un lavoro rispettabile. A un certo punto il protettore torna a cercare Mamma Roma e la riporta sulla strada, come il passato che non si può cancellare, l’ineluttabilità del destino. Ettore viene a sapere da Bruna quale sia la vera professione della mamma, per reazione comincia a delinquere, infine viene arrestato dopo per aver rubato una radiolina a un degente dell’ospedale. Finale melodrammatico: il ragazzo muore in carcere, legato a un letto di contenzione, in preda a un delirio febbrile.
Il film è dedicato allo storico dell’arte Roberto Longhi e certe rappresentazioni scenografiche sono pittoriche, grazie alla collaborazione di Flavio Mogherini, futuro regista di scuola pasoliniana. Il finale, con il ragazzo che muore legato al letto del carcere, ricorda un Cristo del Mantegna, una scena da struggente deposizione. Carlo Rustichelli compone una colonna sonora basata sulle musiche sinfoniche di Antonio Vivaldi che accompagna sequenze poetiche fotografate in un livido bianco e nero. Violino tzigano, di tanto in tanto, interrompe la musica barocca e porta in primo piano note di musica popolare. Il ritmo è lento, cadenzato, tra piani sequenza della periferia, panoramiche, dialoghi in romanesco. Puro cinema, una gioia per gli occhi vedere una Roma notturna e seguire le passeggiate logorroiche di mamma Roma che racconta episodi di vita mescolando fantasia e realtà. Pasolini narra per immagini un’umanità dolente che sogna un riscatto impossibile ma deve rassegnarsi a un destino infelice.
Il regista compie un grande lavoro figurativo, guida con bravura una straordinaria Anna Magnani che recita in mezzo a un gruppo di attori dilettanti. Pasolini ci tiene a sviscerare il complesso rapporto madre – figlio, secondo canoni psicanalitici, facendo capire la difficoltà di un adolescente a rivelare il suo amore per la madre. Un tema caro al poeta, anche per vicende biografiche, che lo vedono molto legato alla madre, anche se il loro è un amore borghese, non certo borgataro. Ricordiamo poesie come Ballata delle madri e Supplica a mia madre, contenute in Poesia in forma di rosa, che ricalcano identica tematica. L’educazione sentimentale di un adolescente è un altro tema caro a Pasolini che lo inserisce nella pellicola ricorrendo al personaggio di Bruna, la ragazza che introduce Ettore ai misteri del sesso. Non possono mancare i volti del sottoproletariato urbano, i ragazzi di vita che tanto interessano Pasolini, fotografati nelle espressioni naturali e nella sofferenza quotidiana. Il regista indugia sui campetti di calcio sterrati, inventati dai ragazzini di borgata, con le porte segnate da giacchetti e maglioni, simbolo di un modo di giocare tipico degli anni Sessanta. Anche i rapporti tra donne che fanno la vita, segnati da amicizia e spirito di colleganza, sono in primo piano. Le parole di denuncia di Mamma Roma: “E allora di chi è la colpa? Se avevano i mezzi erano tutti brave persone”, pesano come macigni, anche se il regista non interferisce con le immagini, non dà mai un giudizio morale o politico, ma si limita a fotografare la realtà. Fantastico il finale, vero che sembra uscito da un racconto di Cuore, ma vero anche che la rappresentazione del dolore materno e delle sofferenze del figlio è drammatica e commovente. La galera non è acqua che passa, ma dolore che resta, dolore infinito. La pellicola termina con la disperazione materna e la macchina da presa si ferma alcuni istanti su quel volto dolente, da Madonna straziata per la morte del figlio, senza dissolvenze o inutili lungaggini, per lasciare il posto alla parola Fine in campo bianco.
Accattone e Mamma Roma sono pellicole non ascrivibili a un genere, si tratta di lavori molto letterari dai quali scaturisce l’intera poetica del regista. Se mi è concessa una definizione personale, senza voler essere blasfemo, parlerei di neorealismo corretto da un pizzico di melodramma pascoliano e deamicisiano, due autori molto cari a Pasolini.
Alcune curiosità. Il debuttante Ettore Garofolo viene scoperto da Pasolini mentre fa il cameriere in una trattoria, e in alòcune sequenze del film lo vediamo all’opera nel suo vero mestiere, quando è assunto per servire ai tavoli di un ristorante. Lo scrittore Paolo Volponi, amico di Pasolini, interpreta il prete al quale Mamma Roma chiede un aiuto per trovare lavoro al figlio. Gli esterni del film sono girati alla periferia di Roma, al palazzo dei Ferrovieri di Casal Bertone, al villaggio INA – Casa del Quadraro, al Parco degli Acquedotti e a Tor Marancia. Altre scene sono girate a Frascati, Guidonia e Subiaco. Notiamo spesso sullo sfondo la cupola della Basilica di San Giovani Bosco, così come si vedono le borgate con le baracche dove vive la povera gente. Un piccolo escamotage di Pasolini riesce a far convivere recitazione impostata con interpretazione spontanea. Anna Magnani non recita quasi mai in diretta insieme a un attore dilettante, ma il dialogo viene realizzato ricorrendo a primi piani uniti in sala montaggio.
Rassegna critica. Paolo Mereghetti (tre stelle e mezzo): “Il tema dell’incoscienza, o della diversa coscienza, proletaria è al centro del secondo film di Pasolini, dove il regista nobilita i suoi personaggi con richiami alla pittura rinascimentale (il Cristo mori del Mantegna), e tocca vertici di pathos senza versare una lacrima: Mamma Roma rappresenta la femminilità dolente ma indistruttibile, mentre Ettore, scettico e prematuramente deluso dalla vita, è fratello ideale di Accattone, senza esserne una scialba replica. Quella della Magnani (che pure non s’intese con Pasolini, che la accusò di voler dare al personaggio tratti piccolo – borghesi) è una delle sue migliori interpretazioni”. Morando Morandini (tre stelle e mezzo per la critica, tre stelle per il pubblico): “L’esperimento di fondere la recitazione di Anna Magnani con quella dei ragazzi di vita è parzialmente riuscito, ma contro scompensi e intemperanze e zone sorde, il film ha momenti di coinvolgente vigore stilistico”. Tre stelle anche per Pino Farinotti, ma senza motivare. Il nostro giudizio, da pasoliniani convinti, raggiunge le quattro stelle, non trova difetti a un film riuscito, che unisce dramma psicologico a scene di vita quotidiana, recitazione spontanea a impostazione tecnica, sceneggiatura priva di difetti a dialoghi realistici.
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Care amiche e cari amici,
eccoci a un nuovo appuntamento con la rubrica “PELLICOLE ITALICHE (da rivedere)”, curata da Gordiano Lupi.
Questa “puntata” è dedicata a uno dei più grandi film girati da Pier Paolo Pasolini: “Mamma Roma” (con indimenticabile interpretazione di Anna Magnani).
Il post si presta per discutere del cinema di Pasolini e della figura della Magnani…
Qualunque vostro contributo, in tal senso, è il benvenuto!
Sul post potrete visionare la prima parte del film (ho inserito, infatti, un video tratto da YouTube).
Ringrazio tutti, in anticipo, per l’attenzione che vorrete riservare a questo post e vi auguro buona serata.
Complimenti per questa iniziativa dedicata ai bei film del passato.
Devo dire che preferisco il Pasolini scrittore al Pasolini regista, ma “Mamma Roma” è davvero un gran film.
L’interpretazione della Magnani è davvero superlativa.
Adele, per me vale l’esatto contrario. Amo Pasolini con tutto me stesso, in ogni campo: saggistica, narrativa, poesia (grande poeta, Pasolini), ma credo che il suo massimo l’abbia dato proprio al cinema.
Beh, io preferisco il Pasolini scrittore ma ammiro molto anche il Pasolini regista. 🙂
Complimenti per la sua ottima ed esaustiva recensione.
sono decenni che non rivedo quel film.
che nostaglia!!!
Bellissimo! Entro la mattinata se riesco inserirò qualche notizia!
Mamma Roma è una prostituta romana decisa a cambiare vita. L’occasione le si presenta quando il suo protettore convola a nozze e, di fatto, la libera da ogni legame di possesso. Mamma Roma ha un figlio, Ettore, ignaro della professione della madre, cresciuto nella cittadina di provincia Guidonia e per il quale lei sembra essere disposta ad atti di amore infinito. Donna di grande temperamento e di inesauribile forza, smessa “la vita” allestisce un carretto di verdura in un mercato di piazza e si trasferisce con il figlio in un piccolo appartamento alla periferia di Roma. Qui, secondo i sogni della madre, Ettore potrà ottenere il riscatto della propria condizione di sottoproletario e trovarsi un lavoro rispettabile.
Il passato però riemerge presto: il protettore si ripresenta alla porta e obbliga Mamma Roma a tornare a prostituirsi, per alcune settimane. Così, la donna inizia una doppia vita: di giorno al mercato; di notte sulla strada.
Intanto, Ettore cresce nel nuovo ambiente, legandosi ad una compagnia di borgatari che organizzano piccoli furti. Si invaghisce anche di Bruna, una ragazza più grande di lui, un po’ facile ma non maliziosa, e con lei inizia una relazione. Per farle dei regali arriva a rubare i dischi della madre e a rivenderli; e successivamente per difendere la ragazza da uno stupro del branco dei ragazzi, rimedia un violento pestaggio.
Mamma Roma viene a sapere della sua relazione e si indispettisce: vuole che il figlio aspiri al meglio. Decide dunque di muoversi, per procurargli un lavoro e per togliergli dalla testa Bruna. Va dal parroco e gli chiede un aiuto per trovare un lavoro ad Ettore (servire ai tavoli in una trattoria in Trastevere). Ma il parroco le consiglia di mandare il ragazzo a scuola. Allora organizza lei un ricatto ai danni del ristoratore: fa in modo che una sua amica prostituta (Biancofiore) lo adeschi e vada a letto con lui, per poi irrompere nella stanza col protettore di lei, in modo da mettere l’uomo con le spalle al muro (e così riesce nel suo intento). Alla stessa amica, chiede di avere una relazione sessuale col figlio, convinta che dopo questa esperienza il suo invaghimento per Bruna sparisca. Non paga, regala al figlio una moto.
Quando tutto sembra andare per il verso giusto, ricompare però il suo protettore. La sua nuova vita e il nuovo lavoro lo hanno stancato e vuole tornare a sfruttare mamma Roma. Per lei, che ha sempre nascosto il proprio passato al figlio, è un incubo che si materializza.
Quando viene sapere del mestiere della madre, Ettore rientra nel brutto giro della gang del posto e riprende a rubare. Arrestato per aver rubato una radiolina ad un ricoverato d’ospedale, morirà tra i deliri della febbre mentre è in detenzione, legato a un letto di contenzione, invocando la madre.
Film costruito sull’incantevole debolezza dell’umanità disagiata che sogna il riscatto della propria condizione attraverso un impossibile avanzamento sociale. Pasolini, allievo dello Storico dell’Arte Roberto Longhi (a cui il film è dedicato), rivela il suo gusto per l’immagine e compie un riuscito esperimento di commistione tra la drammatica recitazione di Anna Magnani e quella dei ragazzi di strada.
Grazie per l’attenzione.
Ciao!
Scrittore e regista cinematografico, nato a Bologna il 5 marzo 1922 e morto a Ostia (Roma) il 2 novembre 1975. Poeta, narratore, filosofo, intellettuale impegnato oltre che regista, erede professo di Roberto Rossellini, P. non solo proseguì l’esperienza del Neorealismo, ma ne estrasse la sostanza, ne risolse le incertezze, ne superò i limiti ideologici. La sua opera cinematografica ‒ che scandalizzò anche i marxisti di sinistra, i quali videro nei suoi primi film un brutale realismo provocatore e in quelli successivi una regressione nel mito e un ripiegamento dell’autore verso una poetica individualista ‒ manifesta, oltre a un vasto raggio d’interessi culturali che vanno dalla pittura alla letteratura, dalla filosofia all’antropologia culturale, anche una straordinaria coerenza che si potrebbe sintetizzare con la frase che P. fa pronunciare al centauro Giasone nel film Medea (1969): “Solo chi è realistico è mitico e solo chi è mitico è realistico”. Anche il suo recupero del Neorealismo fu sin dall’inizio inteso a sottolineare la presenza del mito nella realtà quotidiana: il mito rappresenta la continuità, mentre la storia, che P. non trascura affatto, la differenza, il cambiamento.
La sua opera, che suscitò molte polemiche ma ottenne anche numerosi riconoscimenti e premi, mostra sin dall’origine una profonda e straordinaria compenetrazione di sacro e profano, di spietato realismo e altrettanto intensa religiosità: l’alto e il basso per P. non sono distinguibili, il sesso è sacro quanto l’anima e nella carne si manifesta lo spirito.Figlio di un ufficiale di carriera, trascorse l’infanzia in diverse città dell’Italia centrale e settentrionale e studiò a Bologna letteratura italiana: ammiratore del filologo G. Contini, che scoprì le sue poesie in dialetto friulano, e dello storico dell’arte R. Longhi, al quale doveva, come scrisse egli stesso, il merito della sua ‘folgorazione figurativa’, si laureò con una tesi su G. Pascoli nel 1945. Nel 1943 si era stabilito a Casarsa della Delizia in Friuli con la madre e il fratello (morto nel corso della Resistenza), ma nel 1950 fu costretto a trasferirsi a Roma a causa dello scandalo suscitato dalla sua omosessualità: una diversità che avrebbe in seguito sempre difeso, talvolta in tribunale, che gli sarebbe costata l’espulsione dal Partito comunista italiano e sarebbe stata anche all’origine del suo drammatico omicidio all’idroscalo di Ostia.P. esordì nella regia nel 1961 con Accattone, portando sullo schermo quei ragazzi delle borgate romane di cui aveva già proposto in letteratura il linguaggio affascinante e sboccato con il romanzo Ragazzi di vita (1955).
Di Accattone fece scandalo non tanto la rappresentazione realistica della vita di borgata, quanto la paradossale consacrazione dei volti di ruffiani, ladri, prostitute, assassini (interpretati da attori realmente ‘presi dalla strada’) attraverso uno stile ieratico dichiaratamente ispirato a Masaccio e ai pittori del Trecento toscano, come A. Lorenzetti e alle sue icone di santi su fondo oro. Essenziali per comprendere lo spirito del cinema pasoliniano sono anche i riferimenti costanti a Dante, dal primo all’ultimo film. Accattone (Franco Citti), fannullone ‘magnaccia’ e ladro, seduce con un regalino Stella, e la convince a prostituirsi, ma le sofferenze della ragazza, che lo ama davvero, provocano in lui un pentimento improvviso e fanno nascere l’amore nel suo cuore inaridito. Accattone decide di andare a lavorare ma, incapace di sopportare la fatica, torna a rubare, viene colto sul fatto e muore fuggendo.
Le sue ultime parole (“Mo’ sto bene!”) suggeriscono che ha raggiunto la pace, ottenendo con il suo pentimento la grazia, e spiegano la citazione dantesca dell’inizio del film (“Per una lagrimetta che ‘l mi toglie”), dal V Canto del Purgatorio in cui Buonconte da Montefeltro viene perdonato, nonostante le molte colpe, per essersi pentito in punto di morte. Ma tale conclusione è iscritta fin dall’inizio nello stile del film; Accattone è consacrato dalle inquadrature prima che dalla trama: l’immagine che lo mostra dall’alto di ponte Milvio mentre si tuffa nel Tevere, lo assimila a un angelo; il lungo carrello con cui la cinepresa lo riprende sotto il sole leggermente dal basso, dopo che ha rubato la collanina d’oro al figlioletto, lo mostra paradossalmente come un martire e un santo e segue il suo percorso come fosse una Via Crucis.
La Passione secondo Matteo di J.S. Bach rafforza questa sacralità del mondo quotidiano dove, come dice sempre il centauro, “tutto è santo”. Il modello seguito da P. infatti è quello delle sacre rappresentazioni medievali, in cui spesso la parte di Cristo era affidata a un ladro o a un assassino, non solo per aiutarlo a redimersi ma anche come ammonimento alla collettività, per rammentare che tutti gli uomini sono fratelli e che spesso Cristo si presenta sotto spoglie misere e insospettabili. Anche nel successivo Mamma Roma (1962) la scena iniziale è una citazione del Cenacolo di Andrea del Sarto, pur mettendo in scena il banchetto di nozze di un’ex prostituta, fra porci e oche, mentre quella finale, con i quattro carrelli panoramici sul corpo di Ettore steso e legato sopra un tavolaccio di contenzione, rimanda al Cristo morto di A. Mantegna, e consacra con ‘l’eternità dello stile’ (come aveva detto lo stesso P. altrove, parlando della poesia) i personaggi degradati di una storia comune.
Una prostituta, che porta il metaforico nome di Mamma Roma (Anna Magnani), riesce a riscattarsi e ad aprire un banco di verdura, ma i suoi sogni piccolo-borghesi vengono irrimediabilmente infranti dal ritorno del suo ex ‘protettore’ (sempre interpretato da Franco Citti). Questi, infatti, svela al figlio Ettore la professione originaria della madre, portandolo così alla disperazione e alla morte. Anche in questo caso, la citazione dantesca collocata alla fine, in cui si narra l’ingresso nella città di Dite, offre una chiave di lettura: la realtà delle borgate romane rappresenta una vera e propria discesa negli inferi. Con Il Vangelo secondo Matteo (1964), con il quale vinse il Premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia e il Nastro d’argento alla regia, appare definitivamente chiaro l’afflato religioso pasoliniano. Opera di straordinaria ricchezza iconografica, messa in scena in Calabria (Capo Rizzuto e Le Castella) e in Basilicata (a Barile e presso i Sassi di Matera), il film mostra un Cristo ascetico, combattivo, che sembra tolto di peso dalle tavole di El Greco (la Cacciata dei mercanti dal Tempio), ma non senza riferimenti cinematografici, soprattutto a Sergej M. Ejzenštejn: si pensi alla strage degli innocenti (in cui si fa allusione, attraverso la musica, al film Aleksandr Nevskij, 1938), o al montaggio delle beatitudini che proietta letteralmente le inquadrature contro lo spettatore in un vortice di effetti ejzenštejniani. Non avendo trovato nella Palestina contemporanea tracce di questa grandezza spirituale (come afferma nel diario filmato Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, 1964), P. mostra una Terra Santa in cui si mescolano in una vertigine temporale i fez dei giovani fascisti, gli elmetti medievali di Piero della Francesca o i ricchi ‘giovanottoni’ di Masolino (secondo la definizione di Longhi), per sottolineare il carattere atemporale della rappresentazione.
La lettura strutturalista della storia e del mito, che vede questi due aspetti del reale costantemente intrecciati, caratterizza l’opera di P., secondo cui la comprensione del cristianesimo richiede non un illusorio primitivismo ma, al contrario, la conoscenza e l’accumulo di tutta la cultura occidentale. Le musiche di Bach, alternate con gli spirituals e con una messa africana, contribuiscono alla potente sintesi. L’ispirazione religiosa pasoliniana appare però sempre stemperata dall’ironia e dall’autoironia, come nel piccolo capolavoro realizzato poco prima, La ricotta, episodio del film collettivo RO.GO.PA.G. (1963), che venne condannato per vilipendio alla religione di Stato, e che uscì nuovamente, dopo che P. ebbe ‘corretto’ alcune battute, con il titolo Laviamoci il cervello ‒ RO.GO.PA.G. Una povera comparsa, dal significativo nome di Stracci, interpreta il ladrone in un film su Gesù Cristo, e dopo aver rubato e divorato alcuni cestini del pranzo, muore di indigestione sulla croce.
Orson Welles, che interpreta la parte del regista, rappresenta anche una parodia dello stesso P., che ironicamente gli fa leggere alcuni splendidi e terribili versi di una poesia messa in calce alla sceneggiatura di Mamma Roma. Nei numerosi cortometraggi, sia di fiction sia documentaristici, viene in luce l’aspetto più innovativo di P., che pensa a un cinema capace non solo di raccontare storie, ma anche di scuotere, di far pensare. Nell’episodio La Terra vista dalla Luna (del film collettivo Le streghe, 1967) la morte e la resurrezione di Assurdina (Silvana Mangano), perfetta donna di casa nelle oscure e colorate bidonville di una Roma fumettistica, si concludono con la morale che “essere vivi o essere morti è la stessa cosa”. Il breve episodio Che cosa sono le nuvole? (del film collettivo Capriccio all’italiana, 1968) è uno splendido apologo platonico sulla vita e sulla morte che mostra Totò nella parte di Jago e Ninetto Davoli nella parte di Otello. Entrambi, però, sono solo due marionette di legno in un teatrino di borgata e, fatti a pezzi dagli spettatori, vengono raccolti da uno spazzino canterino (Domenico Modugno), che rappresenta la morte e che li getta nella spazzatura. Stesi sopra i rifiuti, ma finalmente all’aperto, fuori dal teatro della vita, scoprono la “straziante meravigliosa bellezza del creato”.
In La sequenza del fiore di carta (brevissimo episodio di Amore e rabbia ‒ Vangelo ’70, 1969) il giovane fannullone Ninetto, che non vuole sapere niente di politica e che porta a spasso la sua giovinezza come un grande papavero di carta, viene condannato da Dio, perché in questo mondo l’ignoranza è una colpa. Anche nei documentari emergono uno stile e una forma di scrittura filmica del tutto nuovi. La rabbia (1963), primo episodio del film omonimo diretto con Giovanni Guareschi, è un commento amarissimo sulla violenza della sopraffazione degli anni Sessanta, che si conclude con una tenera e dolce poesia dedicata a Marilyn Monroe, vista come simbolo dell’innocenza perduta. Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo è un diario sulla Terra Santa; Comizi d’amore (1965) una scioccante inchiesta sulla sessualità, realizzata insieme ad Alberto Moravia e Cesare Musatti, tesa a mostrare l’ignoranza retriva degli italiani; negli Appunti per un’Orestiade africana (1975) P. propone invece di rivisitare il mito di Oreste ambientandolo nell’Africa in via di sviluppo.Anche nei lungometraggi il regista proseguì la sua opera intenta a scuotere il pigro e indolente pubblico italiano. Uccellacci e uccellini (1966) è un apologo sull’insufficienza dell’ideologia comunista di fronte alla fame atavica del sottoproletariato. Teorema (1968), adattamento del suo romanzo omonimo, è un ‘mistero’ medievale e moderno al tempo stesso, un’allegoria in cui l’arrivo di uno sconosciuto che intrattiene rapporti sessuali con tutti i componenti di una famiglia borghese, uomini e donne, provoca una serie di reazioni in cui ciascuno viene messo di fronte a sé stesso.
Edipo re (1967) e Medea sono due rivisitazioni del mito in cui il tema dello straniero esule viene sviluppato non solo con riferimenti autobiografici, come spesso fu rimproverato a P., ma soprattutto come una grande metafora della condizione umana. Anche qui la lettura strutturale viene usata per cogliere nel mito le forme profonde dell’esistenza, forme e condizioni che ricorrono costantemente nella storia. Le sofferenze di Edipo infatti attraversano i secoli, dalle epoche più remote e arcaiche fino alla Bologna degli anni Sessanta, mentre quelle di Medea, sedotta a abbandonata da Giasone, continuano dal passato della Cappadocia fino al presente del Campo dei Miracoli a Pisa. L’opera successiva di P., la cosiddetta trilogia della vita, Il Decameron (1971, Orso d’argento al Festival di Berlino), I racconti di Canterbury (1972, Orso d’oro al Festival di Berlino) e Il fiore delle mille e una notte (1974, Gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes) raccoglie tre studi sul rapporto fra arte e vita che, lungi dall’essere ‒ come furono invece considerati all’uscita ‒ una caduta nella nostalgia di un passato inesistente o di una sessualità immaginaria, rivelano tutta la profondità del pensiero pasoliniano.
Il livido colore dei guappi napoletani nel primo, l’angoscia della notte e dell’incontro con il diavolo nel secondo, e la disperazione del piccolo Nureddin che perde la sua donna e scivola in un mondo diabolico nel terzo, si temperano solo alla fine dei tre film con un ritorno all’arte e alla ricchezza della poesia, che non è semplice illusione, ma illusione consapevole, non fuga dal mondo ma riflessione e creazione, vicinanza di morte e vita; l’arte è conoscenza, comprensione che passa attraverso la morte. “Che notte! Dio non ne ha mai fatta una uguale. Il suo inizio fu amaro, ma com’è dolce la sua fine!”: così recita l’ultima poesia di Nureddin alla fine del film, con chiara allusione all’arte, alla vita e alla morte. L’ultimo film di P., Salò o le 120 giornate di Sodoma, uscito postumo nel 1976, costituisce forse il suo vero atto di provocazione e scandalo, e per la sua brutalità rappresenta ancora un’opera inguardabile e inaccettabile: durante la Repubblica di Salò, un gruppo di lividi e ripugnanti fascisti si chiude in una villa con il fiore della gioventù italiana e la stupra all’infinito, in una sequenza di crudeltà e ferocia che rende quel luogo una metafora del mondo, mostrando come il potere sia sempre prevaricazione, in un’infinita ripetizione. Film di stile quasi giapponese, che ricorda per certi aspetti i lavori di Mizoguchi Kenji, come Chikamatsu monogatari (1954; Gli amanti crocifissi), per la semplicità delle inquadrature, lo stile senza stile, il rifiuto della retorica, che rafforzano la tremenda crudeltà della messa in scena, Salò è un’opera filosofica sul male e sulla prevaricazione.
Le immagini finali della tortura e della danza dei carnefici, che rimandano all’iconografia medievale della Danza della morte o Totentanz, rappresentano la storia come vittoria del male nel mondo e resteranno fra le più crudeli e insopportabili nella storia del cinema. Non meno importante del lavoro di regista fu la riflessione sul cinema (per la quale v. anche estetica del cinema, linguaggio del cinema e teorie del cinema) con cui P. individua nuove prospettive, in particolare negli scritti Il ‘cinema di poesia’ (1965) e Osservazioni sul piano sequenza (1967), dove delinea un’idea di cinema poetico (costituito da segni “irrazionalistici, onirici, elementari e barbarici”), contrapposto a quello prosastico-narrativo imposto dall’industria hollywoodiana, saggi poi raccolti in Empirismo eretico (1972). Da ricordare inoltre, per una ricostruzione del suo pensiero, i libri di interviste Les dernières paroles d’un inpie, entretiens avec Jean Duflot, 1981 (trad. it. Il sogno del centauro, 1983, 1993²); Pasolini su Pasolini: conversazioni con Jon Halliday, 1992; Interviste corsare sulla politica e sulla vita: 1955-1975, a cura di M. Gulinucci, 1995.
bibliografia
A. Ferrero, Il cinema di P.P. Pasolini, Venezia 1977.
S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Milano 1994.
S. Rhodie, The Passion of Pier Paolo Pasolini, London 1995.
B.D. Schwartz, Pasolini Requiem, Venezia 1995.
E. Siciliano, Vita di Pasolini, Firenze 1995.
L. Miccichè, Pasolini nella città del cinema, Venezia 1999.
G. Manzoli, Voce e silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini, Bologna 2001.
Grazie mille per i commenti e i contributi che avete condiviso!
Interessantissimo l’articolo/monografia di Sandro Bernardi!
Un grazie speciale, naturalmente, a Gordiano per aver condiviso con noi la sua “visione” di MAMMA ROMA.
Grazie a voi per aver letto, condiviso e aggiunto notizie molto interessanti.