Ho letto con particolare trasporto questo nuovo libro di Alessandro Defilippi, “Manca sempre una piccola cosa” (Einaudi): a mio avviso, uno dei migliori romanzi usciti negli ultimi mesi.
Il protagonista del libro, Giorgio Aguirre, è uno studente di medicina che non ha nessuna voglia di seguire le orme dei genitori (entrambi medici).
Giorgio vuole fare altro nella (e della) sua vita. E questo altro è in qualche modo legato a un “qualcosa in più” (una qualità?) che lo porta a diventare radiologo industriale in un’officina che produce fiancate per elicotteri. Questo “qualcosa in più” è una sorta di occhio assoluto capace di cogliere i difetti che nessun altro occhio umano sarebbe capace di individuare.
Ma fino a che punto questa caratteristica è “dono”? Non sarebbe meglio chiamarla, in qualche caso… “maledizione”?
Perché la facoltà percettiva di Giorgio va ben oltre il mero aspetto visivo… e talvolta diventa davvero scomodo gestire certe situazioni. E la capacità di individuare i difetti, ti si può anche ritorcere contro. Per questo, forse, Giorgio cerca di sfuggire a se stesso e agli altri andando in giro per il mondo, facendosi attraversare da relazioni amorose che – nella maggior parte dei casi – non gli lasciano addosso impronte tangibili.
Alle sue spalle, il Rospo: un uomo incontrato nel corso di un’esperienza lavorativa, che gli trasmette il mestiere e molto altro: una intera filosofia di vita. Il Rospo diventa l’amico per la pelle, una sorta di padre a cui fare riferimento, ma pure – a volte – un figlio da accudire… fino all’ultimo giorno.
Con una scrittura di alta qualità capace di inglobare efficacemente trama, personaggi e dialoghi – e che attraversa la Storia del nostro paese, dall’omicidio di Moro ai nostri giorni -, Defilippi narra una storia vibrante dove anche il possedere un “qualcosa in più” rischia di trasformarsi in inevitabile mancanza. Perché, alla fine, guardando dentro e fuori di noi bisogna forse rassegnarsi al fatto che manca sempre una piccola cosa.
Sono molto lieto di discutere di questo libro (e dei temi da esso trattati), approfittando della presenza e della disponibilità dell’autore (che vi presenterò meglio nell’ambito della discussione).
Per favorire la discussione provo, come sempre, a porre qualche domanda.
La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?
Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
Sulla copertina del libro leggiamo questa frase: “Così si proteggeva dalla sofferenza, nell’unico modo che gli umani conoscono”.
Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Vi invito a rispondere alle domande. Sull’ultima, Alessandro Defilippi ci fornirà la sua risposta alla fine della discussione.
Di seguito, la recensione del libro pubblicata su Tuttolibri e firmata da Lorenzo Mondo.
Massimo Maugeri
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da Tuttolibri – LA STAMPA
del 10 aprile 2010
recensione di Lorenzo Mondo
Giorgio Aguirre si laurea in medicina, ma non intende seguire la professione di entrambi i genitori. Decide infatti di trasferire dall’uomo alle macchine la sua speciale inclinazione, diventerà radiologo industriale: «Non fratture ma rotture» è il suo programma. C’entra nella scelta la ripugnanza provata alle esercitazioni di anatomia, rafforzata forse dalla notizia di un atroce fatto di sangue, il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, assassinato dalle Brigate rosse.
Giorgio è il protagonista di un romanzo di Alessandro Defilippi (nella foto), che prende il suo titolo da una citazione di Pessoa, Manca sempre una piccola cosa.
Un personaggio assolutamente originale, dotato di una vista acutissima, quasi una preveggenza, che gli permette di scoprire nelle lastre lattiginose le minime, inafferrabili imperfezioni dei materiali. Così, fin dal suo primo lavoro in una fabbrica di elicotteri, riesce a evitare disastri, suscitando nei colleghi, insieme all’ammirazione e all’invidia, un vago senso di paura. Si sente invece spronato dal vecchio Rospo, «un tecnico magro e lunare», una sorta di gnomo affettuoso e filosofeggiante, che pretende una dedizione assoluta al Mestiere, inteso come una ricerca delle Ombre, attraverso le quali occorre passare «per non restare bestie, per andare oltre».
Incalzato da una fredda irrequietezza, Giorgio lascia Torino (individuata con affettuosa aderenza in luoghi deputati e nei quartieri operai) e si trasferisce prima in Belgio e poi in Alaska, a divinare falle nelle fiancate di aerei e nei condotti petroliferi. Soltanto materne o imperiose figure di donne sembrano scuotere, nell’accensione dei sensi, la sua atonia, senza compromettere il suo disimpegno, il suo oscuro desiderio di libertà.
Il racconto di Defilippi ci consegna graffianti ritratti, nitide aperture su luoghi e paesaggi agli estremi confini del mondo, attraverso un sapiente e concitato dialogare, effettivo e mentale. E colpisce inoltre la sua confidenza, frutto di accurata documentazione, con tecniche e mestieri inusitati. Scopriremo intanto che le portiere di un aereo o le piastrelle di uno shuttle rappresentano per lui un inutile diversivo rispetto alla detestata medicina, perché la sua vista è portata inevitabilmente a individuare anche le magagne fisiche e morali degli uomini. Si spiega con questo il suo andare ramingo, la sorda chiusura agli affetti, l’egoismo che risulta con ogni evidenza autoprotettivo: «Come se delle cose, delle persone, lui non vedesse che i difetti, la mortalità. E non gli importasse che questo». Vedere dappertutto la rovina e la morte è il peccato che gli rimprovera il Rospo. Ma questa disposizione «viziosa», a quanto sapremo, è dovuta a una latente malattia degli occhi che ha acuito paradossalmente la sua vista.
Giorgio rientrerà a Torino in seguito alla morte del padre, accudirà la madre inferma, mediterà sulla lezione del Rospo, che lo esorta a un universale sentimento di pietà e alla serena accettazione dell’«infinito oscillare delle cose e delle vite», a una conclusione che è anche un inizio, mentre sul passare degli evi e delle generazioni «scivola l’ombra di Dio».
Qualcuno, più provveduto, sentirà correre nel sottofondo la speciale cultura dell’autore, che professa la psicoanalisi di scuola junghiana. Di certo, la mutazione di Giorgio è propiziata dall’amore per una donna; così forte che resiste, in una inattesa propensione al perdono, a un provvisorio, cocente disinganno (e in questa vicenda, nella sua oltranza, a noi, pur dotati di vista mediocre, sembra di avvertire una piccola falla). Ma conta anche nel rinnovamento la sua ribellione alle lusinghe di loschi speculatori edilizi, incuranti della perdita di vite umane; perfino, sintomo di guarigione in un lavacro di umiltà, il suo scacco nel prevedere una sciagura che non ci sarà. Quasi il dissiparsi di un dono che era diventato una maledizione.
Manca sempre una piccola cosa è un bel romanzo, denso di riferimenti culturali, che riesce tuttavia a essere affabile e coinvolgente. Degno, per l’uno e l’altro motivo, di attenzione e consenso.
Come ho anticipato sul post, ho letto con particolare trasporto questo nuovo libro di Alessandro Defilippi. Il titolo (ispirato una citazione di Pessoa) è di quelli che si ricordano: “Manca sempre una piccola cosa”.
E non ho alcuna difficoltà a sottolineare che – a mio avviso – è uno dei migliori romanzi usciti negli ultimi mesi.
Il protagonista si chiamo Giorgio Aguirre: uno studente di medicina che non ha nessuna voglia di fare il medico (nonostante – o frse proprio per questo – i genitoria siano entrambi medici).
Giorgio vuole fare altro nella (e della) sua vita. E questo altro è in qualche modo legato a un “qualcosa in più”: una sorta di occhio assoluto capace di cogliere i difetti che nessun altro occhio umano sarebbe capace di individuare.
Così farà radiologo industriale in un’officina che produce fiancate per elicotteri.
In verità la facoltà percettiva di Giorgio va ben oltre il mero aspetto visivo… e talvolta diventa davvero scomodo gestire certe situazioni.
E poi la capacità di individuare i difetti, ti si può anche ritorcere contro. Per questo, forse, Giorgio cerca di sfuggire a se stesso e agli altri andando in giro per il mondo, facendosi attraversare da relazioni amorose che – nella maggior parte dei casi – non gli lasciano addosso impronte tangibili.
Però c’è il Rospo: un uomo incontrato nel corso di un’esperienza lavorativa, che gli trasmette il mestiere e molto altro: una intera filosofia di vita.
Il Rospo diventa l’amico per la pelle, una sorta di padre a cui fare riferimento, ma pure – a volte – un figlio da accudire… fino all’ultimo giorno.
Ribadisco anche qui quanto scritto sul post…
Con una scrittura di alta qualità capace di inglobare efficacemente trama, personaggi e dialoghi – e che attraversa la Storia del nostro paese, dall’omicidio di Moro ai nostri giorni -, Defilippi narra una storia vibrante dove anche il possedere un “qualcosa in più” rischia di trasformarsi in inevitabile mancanza. Perché, alla fine, guardando dentro e fuori di noi bisogna forse rassegnarsi al fatto che manca sempre una piccola cosa.
Alessandro Defilippi, ovviamente, parteciperà alla discussione.
Parleremo con lui di questi suo nuovo romanzo e dei temi da esso affrontati.
E’ una bella domanda quella sulla precisione. Positiva o negativa? Ma più ancora della precisione parlerei dell’esattezza. Ho sempre pensato che l’esattezza sia una parte fondamentale della scrittura, anche quando in apparenza il testo chiede altro. L’esattezza è fondamentale ad esempio nella letteratura fantastica: se non c’è concretezza, precisione, ecco che il fantastico si sfrangia, diventa vago. Il linguaggio, io credo, deve sempre essere preciso. Come il coltello.
Per favorire la discussione provo, come sempre, a porre qualche domanda (commenti a seguire…).
La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?
Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
Sulla copertina del libro leggiamo questa frase: “Così si proteggeva dalla sofferenza, nell’unico modo che gli umani conoscono”.
Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Vi invito a rispondere alle domande. Sull’ultima, Alessandro Defilippi ci fornirà la sua risposta alla fine della discussione.
E vi invito altresì a leggere la recensione del libro pubblicata su Tuttolibri e firmata da Lorenzo Mondo (la trovate sul post)..
Dimenticavo di presentare l’autore ospite di questo post…
Alessandro Defilippi, psicoanalista torinese, ha pubblicato le raccolte di racconti “Una lunga consuetudine”, con Sellerio, e “Cuori bui, usanze ignote”, con Antigone Edizioni. Per Passigli sono usciti i romanzi “Locus animae”, “Angeli” e “Le perdute tracce degli dei”. Ha collaborato alla sceneggiatura di “Prendimi l’anima” di Roberto Faenza.
Per Einaudi ha pubblicato “Manca sempre una piccola cosa” (2010).
La discussione parte da qui… e si svilupperà con calma nei prossimi giorni.
A tutti voi, una serena notte.
Partiamo dalladomanda sulla precisione. Io parlerei dell’esattezza. Ho sempre pensato che l’esattezza sia una parte fondamentale della scrittura, anche quando in apparenza il testo chiede altro. L’esattezza è fondamentale ad esempio nella letteratura fantastica: se non c’è concretezza, precisione, ecco che il fantastico si sfrangia, diventa vago. Il linguaggio, io credo, deve sempre essere preciso. Come il coltello.
Beh, leggendo la presentazione viene proprio voglia di leggere questo libro. La trama è intrigante.
Le domande sono stimolanti proverà a rispondere domani a mente più fresca.
Però vorrei chiedere allo scrittore Defilippi se secondo lui c’è differenza tra precisione ed esattezza.
Lo chiedo dopo aver letto il suo post delle 11.30
Per Sara.
Grazie per la domanda, Sara. Credo ci sia una diffrenza reale. Preciso è un orologio, preciso è un ossessivo come me. Esatto è qualcosa che attiene invece alla realtà. L’esattezza è il rispecchiare la realtà, anche nella sua crudeltà. Ma anche io credo che riuscirò a dire cose più sensate domani. O magari cose più esatte.
Per Massimo e per Alessandro Defilippi
Il titolo del romanzo mi avvince (e convince) al pari della psicologia del protagonista Giorgio Aguirre e della trama, apprese dalla presentazione nel post e dalla recensione di Lorenzo Mondo.
D’altronde, a ciascuno di noi nel lavoro, in casa, negli affetti, nella vita, manca sempre una piccola cosa. Ma guai se non mancasse. Guai se ci beassimo di aver raggiunto con una precisione, una perfezione assolute tutto ciò che ci eravamo prefissi di raggiungere. Scivoleremmo inevitabilmente nella noia, non provando più quell’insoddisfazione che ci sprona a ricominciare daccapo o a ricercare in continuazione anche tra le pieghe dell’impossibile. L’insoddisfazione come motore dell’agire umano, in altre parole.
“Manca sempre una piccola cosa” è ispirato da una citazione di Fernando Pessoa.
Ebbene, penso che quest’altra citazione di Pessoa – tratta da Il libro dell’Inquietudine – possa giustificare più compiutamente quanto ho appena sostenuto. Ovvero: “Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi: un pozzo che guarda il Cielo”.
Massimo, alla tua domanda riguardo al modo che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza, vorrei anzitutto risponderti con quest’altra citazione di Pessoa (una delle massime figure letterarie del Novecento, di sicuro): “Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente” (v. Una sola moltitudine”). Già.
Ma cosa fanno, come si comportano tutti coloro che, credendo nella volontà propria (a volte anche altrui) come panacea di tutti i mali, si convincono che la sofferenza non è un male, non è insomma mera sofferenza, bensì un utile strumento d’azione?
Mi fermo: non voglio dilungarmi su questioni che toccano filosofie, convincimenti e sensibilità personali. Ognuno ha la sua risposta o, se volete, la sua fede.
Cordialmente.
Trovo illuminante il fatto che la capacità di Giorgio Aguirre di “vedere” la nudità dell’imperfezione, ovunque essa si trovi, derivi da un difetto visivo. Questo traduce in anomalia il suo particolare potere visivo, come è giusto che sia. Penso che il perfettibile sia l’esatta misura del nostro vivere e che, per ciò stesso, imponga una sorta di sana approssimazione percettiva. La verità nuda e cruda è un peso eccessivo, è uno shock emotivo spesso insostenibile. Schermare è difendersi. La verità assoluta è come la troppa luce e a noi è dato conoscere intuendo dall’ombra (perdonatemi la reminiscenza platonica!). Consiglio a tutti di leggere il libro di Alessandro. Fa riflettere e lascia il segno.
@Ausilio.
Certo che l’insoddisfazione è un motore dell’agire umano. E al tempo stesso è l’incapacità di stare davvero dentro le cose, dentro il divenire. Non so se l’inquietudine sia un fatto positivo a priori, ma mi pare un pezzo inevitabile del nostro vivere. “Manca sempre una cosa, un bicchiere, una brezza, una frase e la vita duole quanto più la si gode e quanto più la si inventa”. Questa è la citazione completa di Pessoa. Quindi, dice lui, quanto più intensamente noi viviamo, tanto più intensametne sentiamo che manca qualcosa, un pezzo essenziale. Ma non sarà proprio il senso della mancanza quella cosa essenziale?
Comunque, come dici tu, dobbiamo fare attenzione a non scivolare nei sofismi. E cercare ogni giorno “un bicchiere, una brezza, una frase”.
Salutissimi a tutti gli amici che non vedo da tempo e a massimo M.
…
Tema interessante per un maniaco della verità come me;
Un pignolo detestabile, come me;
Un occhio di falco che vede la forfora sulle giacche, la cellulite attraverso i pant’s attillati, e le pennellate orribili e trasversali su un muro appena verniciato, e dopo aver riscontrato tutto ciò, lo fa’ notare.
In un mondo che ha fatto dell’approssimazione la sua ideologia, un soggetto come me ne è fuori, viene messo ai margini.
In politica è un perdente, perchè la politica è l’opposto della precisione, della puntualità, la politica è l’universo del “tentativismo”, va avanti a tentativi.
Io sono un “preciso”sofferente e marginalizzato, le mie verità raccontate mi hanno sempre creato delle inimicizie, ma anche delle solide fraterne amicizie, forse quelle più intelligenti (presunzione), come quando ho detto ad un mio amico che l’explicit del suo racconto era una cagata.
Credo che l’intuizione (e l’identificazione) del tema del libro di De Filippi sia geniale, ma come sempre, penso che vi sia dell’autobiografico: l’autore si rivede nel personaggio?
Leggerò il libro, ma non prima del prossimo stipendio (quindi il 27 giugno).
Pure io sono rimasta colpita dalla presentazione del libro. E dal titolo. “Manca sempre una piccola cosa” è un titolo che potrebbe essere applicato alle vite di tutti.
Nessuno escluso.
Adesso provo a rispondere alle domande di Massimo, sempre stimolanti.
“La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?”
Ovviamente non sono sempre pregi. Dipende. Dipende da tante cose. Ma soprattutto secondo me dipende da come la precisione, la pignoleria, lo scrupolo si rivolge all’altro. Spesso vanno di pari passo con l’arroganza. Quand’è così rischiano senza dubbio di trasformarsi in difetti. E nascondono una forma di violenza.
Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
Dire a ogni costo “le cose come stanno” secondo me è un dovere morale da parte di chi conosce le cose. Non so se è sempre utile, ma di certo la falsità non può considerarsi una virtù.
Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
Io sono per la sincerità. Penso che molto spesso si parli troppo e si parli a sproposito. E’ in questi casi che il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare non solo se stessi, ma anche gli altri.
Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Starne il più possibile lontani.
Un saluto a Massimo e complimenti ed auguri ad Alessandro Defilippi. Il suo romanzo sarà uno dei miei libri dell’estate.
Manca sempre qualcosa?
Per anni l’ho pensato con grande convinzione e soprattutto l’ho pagato con moneta sonante.
Nel senso che la serenità mi sfuggiva, e con essa mi perdevo anche la possibilità di costruire squarci di felicità (su quei mattoni fatti di quotidiana concretezza).
Poi pian piano (anche grazie ad alcune grosse sconfitte e poi a una donna pratica e divertente come Tatjana, la mia seconda moglie con cui sto da diciassette anni) ho scoperto che le cose possono essere diverse.
Che senza mai adagiarsi si può imparare a “non sentire la mancanza di qualcosa”.
E dunque, facendo lo scrittore per ragazzi, vado spesso nelle scuole e nelle biblioteche a incontrare gli adolescenti. Una domanda ricorrente è: “”cosa ti piace più di tutto?”
Allora racconto: è la cosa che sto facendo, nel momento in cui la faccio.
Quando leggo un romanzo che mi appassiona non c’è nulla di più bello,
ma quando bacio mia moglie non c’è niente di più meraviglioso
e quando gioco con il cane Charlie che risponde facendo le fusa nulla è più tenero,
quando mangio una pesca croccante niente è più dolce,
quando sono sotto il palco a un concerto rock,
quando mia figlia mi abbraccia in pubblico,
quando mi raccontano qualcosa di me che avevo dimenticato,
quando sto scrivendo un libro,
quando faccio felice qualcuno,
quando cambio idea,
quando vedo un film che mi piace,
quando scopro un musicista nuovo,
quando nella libreria dell’usato trovo un libro cercato da anni,
quando conosco una persona interessante,
quando sono utile a qualcuno,
quando di sera sto serenamente con mia moglie,
quando faccio meditazione,
quando ricevo una lettera,
quando mi raccontano qualcosa di divertente,
quando inizio a leggere un libro nuovo,
quando la mia squadra segna un gol,
quando il piatto che ho cucinato mi viene bene,
quando parto per un viaggio,
quando torno a casa,
quando mi fanno un regalo inaspettato,
quando una crisi emicranica mi passa,
quando prego,
quando mi viene un’idea per una storia,
quando…
…ognuno di questi “quando” è la cosa che mi piace di più al mondo.
E quando vivo queste cose non mi manca niente.
Non riesco, a distanza di tempo, a togliermi la sensazione che il libro di Alessandro Defilippi mi ha lasciato: l’urgenza.
Forse dipende da questa scrittura che ti porta a voler continuare a leggere, a vedere cosa succede, a scoprire se Giorgio si salva.
Come se la salvezza di Giorgio, che avviene dopo vari lavori, viaggi, donne non amate, fosse per lo scrittore qualcosa di cui doveva ASSOLUTAMENTE parlare, un’urgenza di scriverne.. o forse perchè come ha detto lui lunedì al circolo dei lettori, la scrittura di questo libro è iniziata dal capitolo finale…
Molto bella questa discussione. Io credo che la nostra società si nutra delle mancanze e cerchi di accentuarlè. Più crescono le mancanze, più crescono i bisogni. E se qualcuno ha bisogno, ce’è sempre qualcun altro che può VENDERE il rimedio. Non so se rendo l’idea.
E’ un tema bellissimo!Grazie Massimo e grazie all’autore a cui faccio i migliori auguri per il romanzo che mi pare veramente accattivante, lo leggerò cercando qualche “imperfezione” e assaporandone il gusto pieno!
Comincerei col dire che precisione eccessiva,pignoleria e scrupolo applicati all’esperienza professionale forse possono essere la strada per una speciale professionalizzazione,per diventare un esperto in ciò che si fa, ma che non servirebbe a molto senza il soffio umano dell’imperfezione.Ogni uomo ha diritto di sentirsi nella specie, nell’imperfettibilità dell’umano e come tale simile ai suoi simili.Altrimenti sarebbe un’anima sofferente di solitudine e nella sua aspirata perfezione,incompleta perchè sola.Credo che sia una triste condanna il “dono” del protagonista portandolo a individuare soltanto parti di un tutto che il suo cuore non avrà mai opportunità di cogliere e vivere nella sua pienezza.Del resto anche la ricerca del’amore parte da un sentimento di incompiutezza dell’essere umano,se così non fosse l’uomo solitario basterebbe a se stesso e non avrebbe alcuna spinta emotiva a cercarsi e completarsi nell’essere amato.
Vi lascio per questa prima doanda due citazioni di diversa natura ma che amo molto.
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Meglio un diamante con un difetto
che un sasso perfetto.
Confucio
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“Imperfection is beauty, madness is genius and it’s better to be absolutely ridiculous than to be absolutely boring.”
« L’imperfezione è bellezza, la pazzia è genialità, ed è meglio essere assolutamente ridicoli che assolutamente noiosi. »
– Marilyn Monroe
Buona giornata a tutti!
Vorrei chiedere ad Alessandro Defilippi se la scrittura di questo libro ha in qualche modo colmato qualche sua personale mancanza.
La verità rende liberi! Questo, a mio parere, è il nocciolo della questione.
Possedere il dono di vedere tutte le cose fino alla loro essenza implica in sé il dovere morale di non naconderlo e di non nascondersi.
E’ un dono scomodo, la verità è spesso sofferenza per chi la coglie e per chi la riceve, ma è il passo necessario verso il libero arbitrio.
Ci facciamo scrupoli a rivelare una verità dolorosa a qualcuno che amiamo (e da cui vorremmo essere amati) per non fargli/le male e non ci facciamo alcuno scrupolo a negargli/le il libero arbitrio?
Come ci si difende dalla sofferenza? Bella domanda, se avessi la risposta probabilmente non avrei più bisogno di difendermi.
@ Marta Pollini.
E’ vero: io avevo urgenza di raccontare la storia di Giorgio e, nel leggere quel che scrivi nel tuo commento, mi rendo conto che avevo urgenza di raccontarne la salvezza. La redenzione, se posso usare questa parola. Urgenza e redenzione: mi sembrano due punti dai quali partire. La cerca che fa il mio protagonista è quella della sua salvezza.
@Maria Sinatra.
Credo che la risposta possa essere la stessa che ho dato al commento di Marta. Scrivere, comunque, credo sia la mia personale forma di redenzione. Scrivendo cerco di riempire le mie assenze, di dare un nome alle mancanze. In altre parole, cerco un senso.
@ Ari:
Già: la verita assoluta è troppo. Lo temo anche io. Un mio amico, più anziano e saggio di me, che potrei chiamare il mio Maestro, mi rimprovera talora di non saper raccontare il tragico. “Non guardi nella bocca del vulcano” -dice. Probabilmente ha ragione. Ma io forse spero ancora che possa esserci una soluzione alla complessità della vita, una possibile risposta. Un consiglio: ascolta, se non la conosci, “Che sarà”, canzone di Chico Buarque, che Fossati ha tradotto e cantato. C’è dentro molto di quel che penso.
@GIovanni Sebastiano:
Anche qui: forse la verità assoluta è troppo. Troppa luce, troppo intensa, troppo tagliente. é vero ceh la verità rende liberi, ma non temi che renda anche, talora, crudeli?
@ Alessandro Defilippi
Il suo libro mi incuriosisce molto. Volevo chiederle : che tipo di persona è il protagonista del romanzo, Giorgio Aguirre? Che tipo di lettore può rispecchiarsi e ritrovarsi in lui?
Per quanto riguarda le domande di Maugeri, dico questo.
La precisione è di certo un pregio. Diventa difetto quando la si porta all’estremo, perché a quel punto diventa ossessione, compulsione.
anche per quanto riguarda la verità, ci sarebbe molto da dire. il problema principale è che ciascuno di noi vede le cose a proprio modo. E quasi mai c’è una verità assolutamente vera, nel senso che la percezione della verità cambia da individuo a individuo.
un bel problema.
Non so se siete d’accordo…….
Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
No assolutamente no.Non credo si viva per perseguire in ogni atto l’utilità,e spesso l’utile non è la cosa migliore.
Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
La verità è un concetto molto relativo,so di non essere in linea con molti commenti già espressi,ma è proprio la soggettività della verità che la rende relativa e non assoluta.Chi possiederebbe questo dono di cogliere l’essenza e di avere il senso morale per rivelarla agli altri?Nessuno che possa essere di questo mondo,perciò io non credo alla verità come valore assoluto.Facendo un giusto distinguo fra la ricerca della verità a livello universale,sociale e collettivo e quella riguardo ai rapporti interpersonali.Intendiamoci che mai venga meno il tendere alla verità ma che mai sia presente in noi la certezza di averla fra le mani,non solo può essere dannoso ma anche pericoloso credere che qualcuno abbia in se la capacità di cogliere e donare agli altri la “Verità”
.Credo nelle sfumature,in ciò che giace fra il bianco e il nero,e non mi arrogherei mai il diritto di farne un pacco regalo con scritto sopra qui C’è la Verità,prendete e servitene tutti.Ma non posso dire che esista una regola ferrea per ogni evenienza,piuttosto credo che ci sia una bussola dentro noi stessi che ci porti a rivelare senza tradire i nostri principi e il nostro valore della sincerità di sentimenti ma non sbattendo in faccia un concetto che non esiste nell’assoluto. Tutelare noi stessi viene dopo l’aver tutelato un’armonia di relazione,un rispetto dell’altro con le sue fragilità e anche le sue incapacità di cogliere il vero,e credo che qualche volta sia molto più coraggioso nascondere la presunta verità a chi si ama invece di arrogarsi un diritto che non è detto ci sia stato dato il permesso di usare.
Spesso persone si nascondono dietro un “ma io sono sincero” ferendo e colpendo senza ritegno gli altri,senza aver cura della sensibilità altrui,ho un’amica che si arroga il diritto di dire le peggior cose noncurante delle conseguenza trincerandosi dietro il fatto che lei è una che dice sempre e sola la verità. Intanto lascia dietro di sè un deserto, persone ferite e dispiaciute,e che non le hanno mai chiesto di rivelare presuntuosamente la SUA Verità.
un caro saluto a tutti.
Ciao a tutti, sono Danilo (Arona). Entro in questo momento per fuggire quasi subito (ma rientrerò al volo tra pochissimo). Come sempre, Defilippi ti butta dentro e non ci puoi fare niente. Ma questo è un Sandro diverso dal solito, un autore che lancia una sfida intelligente al mercato a se stesso… Ci sentiamo tra un po’ con calma e intanto mi resetto con i quesiti iniziali di Massimo…
Giulio Fabbrini! certo che sono d’accordo,mentre scrivevo io mandavi anche tu il tuo commento. Abbiamo letto tutti Pirandello? Abbiamo visto Rashomon di Kurosawa?
Perciò quale verità? la tua, la mia o la sua?E chi si assume la prsunzione di conoscere quella assoluta?Io no di certo,perciò leggerò con molta attenzione tutti i vostri commenti anche quelli che mi sembrano non “veri”. 🙂
@ Giulio Fabbrini
Difficile sempre dire che uomo è il protagonista del proprio libro: troppo facile dire che non è autobiografico: non lo è ma all tempo stesso porta certo qualcosa di me. E’ un uomo in fuga e al tempo stesso un uomo in cerca, anche se non lo sa. Credo sia un uomo come molti, che non si fa domande finché non vi è costretto dalle circostanze, dal dolore, dall’amore. Credo che molti di noi ci si possano rispecchiare.
@ Francesca Giulia Marone
Siamo sulla stessa linea d’onda e di pensiero.
@ Alessandro Defilippi
Grazie per la risposta. Mi consideri un suo nuovo lettore.
@Alessandro. Sì talora la verità rende crudeli, ma il nasconderla non ci rende ugualmente crudeli, se pur non manifestandoci come tali?
“Quando sei nato non puoi più nasconderti”, per citare il titolo di un film.
@ Francesca Giulia Marone e @Giulio Fabbrini.
Anche io credo che con la scusa della verità si facciano troppo danni. Scrisse Lacan: “fare le cose in nome del bene e ancor di più nel nome del bene dell’Altro” conduce a ogni sorta di “catastrofi interiori”.
Però ci sarebbe da riflettere sull’esistenza di una verità assoluta. Forse la realtà è costruzione psicologica e il mondo che ciascuno di noi vede è diverso da quello che vede un altro. Ma dovrebbe anche esserci un mondo “vero”, oggettivamente vero. L’archetipo? L’idea?
@Danilo
Grazie, Danilo: magnifico e lusinghiero quel che dici.
@Alessandro Defilippi: Intanto grandi auguri per il romanzo! Poi mi interessava molto il ruolo del Rospo.A partire dal nome che mi suggerisce qualcosa di imperfetto,come i rospi che nelle favole aspettano di trasformarsi in un bel principe,potrebbe essere anche quella parte del protagonista profondamente inconosciuta e insondata perchè la parte più umana che se pienamente accettata gli consentirà di vivere trasformato?
grazie cari saluti
Come chi ha letto il libro sa bene, mi piacciono molto le citazioni, le epigrafi. Trovo che amplino il senso della storia. Vorrei quindi farne uso anche qui. E partirei da Ortega y Gassett, che scrive:
“A a che pro scrivere, se la fin troppo facile azione di spingere una penna su un foglio non è resa rischiosa come una corrida e se non si affrontano argomenti che siano insieme pericolosi, agili e bicorni?”
@ Francesca Giulia Marone.
grazie per gli auguri, innanzitutto. Il Rospo: non so perché l’ho chiamato così. Già altrio mi hanno fatto notare il legame principe-Rospo. Io credo soprattutto che lui sia il padre “scelto”. Un ruolo enormemente importante. Simile per me, a quello dei daimon della trilogia di Pullman. Persone/personaggi ssenz ai quali ci si sente più soli.
@Giulio Fabbrini
Grazie. Mi fa molto piacere.
@Alessandro Quindi oltre ad essere il maestro,il padre scelto diventa la sua “vocazione”? Spesso queste persone anche nella vita reale non sono mai quelle familiarmente vicine a noi,perchè la capacità di cogliere il daimon personale viene dall’esterno,da qualcosa che metterà in risalto quel seme interiore da far crescere.Anche senza aver ancora letto il libro credo che la presenza di questo personaggio sia vitale per l’esistenza e lo sviluppo del protagonista. Quale esigenza,urgenza interiore più di ogni altra ti ha spinto a raccontare questa storia?
@Francesca Giulia Marone.
Il bisogno di arrivare alla conclusione che è stata la prima cosa che ho scritto. L’urgenza di trovare una pacificazione che nei miei libri precedenti non aveva trovato spazio.
… sincerità, coraggio, accesso alle verità scomode… la sfida, forse, consiste nel fatto che dietro Giorgio Aguirre c’è uno scrittore con il terzo occhio, ma che deve “calibrare” il suo comportamento reale in un mondo scivoloso come quello dell’editoria… Per me dietro Giorgio c’è anche la metafora dell’impervio cammino dello scrittore.
Ma parto dall’inizio, così ci troviamo già troppo im medias res. Ale Defilippi, amico fraterno al punto tale che ogni tanto lo “uso” come personaggio, è sempre stato dal mio punto di vista uno scrittore “fantastico”, perla rara, di quei pochissimi che sanno muoversi tra le crepe infinitesimali di un Reale che non è tale. Ovvero, il Sandro che io ho conosciuto in quel formidabile trittico Locus Animae/ Angeli/ Le perdute tracce degli Dei, un trigono jamesiano sulla percezione e la dispercezione del quotidiano, sul Lato Oscuro della Storia e sui fantasmi dell’inconscio (tra l’altro, – per Sandro… – come la mettiamo, visto che alcune recenti tendenze della psicoanalisi sostengono che l’Inconscio sta sparendo o è già scomparso?…). Per non dire dei suoi racconti, sospesi tra le dimensioni, dove a un certo punto non capisci CHI sia il fantasma, se colui che narra o coloro che sono narrati. Nel nuovo romanzo c’è un altro Defilippi che sovverte quanto abbiamo metabolizzato – e amato- dell’autore in passato. Lo spunto, anche se viene svelato a piccolissime tappe progressive, è totalmente fantastico e degno di Corman… Giorgio dovrebbe essere cieco, affetto com’è da retinite pigmentosa, invece non solo ci vede, ma ci vede di più e la sua vista diventa ALTRA in grado di espandersi alla mente, all’intuizione e quasi alla telepatia… Al punto tale che è in grado di captare tutte le piccole cose che sempre mancano… E se mancano in un ponte o in una giuntura di un Concorde, non te lo puoi tenere dentro il potere (e il segreto)… Su una base del genere, molti autori di mia conoscenza avrebbero svolto il compitino di elaborare un banale horror paraPSI alla moda, ma Defilippi non mai stato scrittore accomodante o modaiolo… E sceglie di raccontarci la storia di Aguirre in una elegante – avvinghiante – trama “per sottrazione”, costringendoci a una lettura lenta, da assaporare e da fermentare… Una storia per frammenti di profondità clamorosa, per tappe ossessive e flash compulsivi. Con una prosa al limite dello sperimentalismo, dove il dialogo – per quanto “parlato” – è in primis sempre mentale e dove l’interpunzione classica scompare per dar vita a un Moloch letterario che è al contempo vertiginoso e ristoratore… Un Aguirre che non è “furore di Dio”, ma che attraversa le vite tracciando solchi e forgiando cicatrici… Tanto costa l’estrema sincerità.
@Danilo:
Hai ragione, come sempre: Manca sempre una piccola cosa è il tentativo di venire a patti con il fantastico, per il quale è così difficile trovare un “luogo” editoriale. E’ un trucco: un romanzo-romanzo che in realtà è un racconto fantastico e che, come dici tu, procede per sottrazione e non per accumulo. D’altronde, io credo che il fantastico sia sottrazione, sottrazione, finché non ci si trova di fronte a qualcosa che non si può più eliminare e che ci dà davvero il brivido, perché ne percepiamo la realtà. Il frisson che ci dice che siamo di fronte all’ineludibile. Al mistero.
Hai notato perfettamente poi che il dialogo del libro, che è tanto, è però sempre a cavallo tra “mondo interno” e “mondo esterno”, come se le cose che i personaggi si dicono risuonassero prima di tutto dentro di loro stessi.
Ho letto anche io dell’inconscio che forse è scomparso: pensa che magnifico romanzo potremmo imbastire tu e io su un tale argomento! Non so se sia scomparso. Certo è che sta cambiando e che è sempre più inquietante.
@Alessandro grazie per la tua risposta,il libro mi attrae non poco,l’ultimo commento di Danilo Arona mi fa incuriosire ancora di più…scrittore dal terzo occhio ,cosa rara in questo mondo dove pare che la maggioranza- parlo di letteratura….non di politica eh?, forse…-i due occhi non li sappia nemmeno tenere aperti sul mondo che ci circonda.In realtà la posizionedel protagonista prende avvio da una piccola menomazione fisica? Una ferita che diventa un’apertura sulla percezione di altra conoscenza.Anche questa lettura potrebbe dare diversi spunti interessanti, ciò che apparentemente sembra un limite può indurci a superare noi stessi e spingerci oltre.
@Francesca Giulia Marone
Una ferita-feritoia
Caro @DeFilippi, credo che questa risposta, anche se non data a me direttamente, esaudisca il mio quesito.
Buon lavoro e buon dibattito.
Didò
@ Giulio Fabbrini
Difficile sempre dire che uomo è il protagonista del proprio libro: troppo facile dire che non è autobiografico: non lo è ma all tempo stesso porta certo qualcosa di me. E’ un uomo in fuga e al tempo stesso un uomo in cerca, anche se non lo sa. Credo sia un uomo come molti, che non si fa domande finché non vi è costretto dalle circostanze, dal dolore, dall’amore. Credo che molti di noi ci si possano rispecchiare.
Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 10:21 am da Alessandro Defilippi
Prima di tutto grazie a Defilippi per la risposta!
Vorrei poi ritornare sulla domanda posta da Massimo:
Così si proteggeva dalla sofferenza, nell’unico modo che gli umani conoscono: sostituire il dolore con un dolore più grande.
Questo fa il Rospo, personaggio veramente bellissimo, padre adottivo e padre adottato (alla sofferenza per la morte del padre, sostituisce la sofferenza della solitudine).
Mi sono accorta che è vero, che gli umani, pur non rendendosene conto, scappano dal dolore per “infilarsi” in un altro dolore.
Vorrei chiedere però: é l’UNICO modo?
possibile che gli umani cerchino sempre il dolore, la sofferenza, per avere la percezione di essere vivi?
In fondo il Rospo ha fatto questo, ma poi ha adottato e si è lasciato adottare e questo ruolo è un ruolo d’amore che lo fa uscire dalla solitudine, quindi qualche speranza c’è….
Giorgio, un uomo di nessun posto?
Così “diverso” che “il Gruppo” lo isola e lo mette in angolo?
Così attento, compulsivo (le ricette culinarie…) e scomodo?
Sempre alla ricerca di un ideale paesaggio della mente… Al punto che non riconosce più il paesaggio che lo circonda?
Domande che ci fanno ragionare anche sulla scomparsa dell’inconscio?
C’è un tuo collega, Sandro – Massimo Recalcati – che ha scritto un libro di psicoanalisi clinica “L’uomo senza inconscio”. Non so se lo conosci. Sufficientemente inquietante.
E mi viene in mente il Defilippi di Locus Animae che paragonai a Cronenberg. Ma da tempo il cinema di Cronenberg non è più invaso dalle somatizzazioni pulsionali dell’inconscio. Sarà per la stessa ragione?
Ma allora da DOVE viene la seconda vista di Aguirre?… Interessanti percorsi concentrici…
@Gentilissimo Alessandro De Filippi, il titolo della Sua opera ” Manca sempre una piccola cosa”, non rappresenta già una verità?
Infatti, l’essere umano è imperfetto e nessuna persona o cosa terrena potrà interamente appagare il desiderio di perfezione insito nella sua anima. In qualità di psicoanalista junghiano come concilia il dualismo fra lo spirito laico e quello religioso?
Qual è per Lei, il senso vero della vita? E quale la Sua speranza?
Nel confrontarsi con i fedeli lettori, o con un personaggio al quale dato corpo, quanto gioca la Sua professionalità di ottimo psicologo?
Mi spiego meglio, per l’ innato dono della preveggenza e il culto dell’esattezza, riesce ad essere tollerante con le nostre inevitabili fragilità? Mi scuso per la nutrita raffica di domande, ma ancora non ho letto il libro e desideravo saperne di più.
Grazie per l’attenzione.
Cordiali saluti a tutti.
Tessy
Eccola l’inesattezza, volevo scrivere ” al quale ha dato corpo”.
Mi scuso…
Tessy (ovvero l’emblema dell’imperfezione!)
Ritorno all’argomento con cui sono entrata in questo blog, quasi introfolata. Ho parlato di urgenza e Defilippi ha unito redenzione.
Urgenza e redenzione
Non avevo unito questi due fattori, che effettivamente mi sono sembrati primari nella lettura che io ho fatto del romanzo.
L’urgenza che a me è rimasta appiccicata addosso è dovuta sicuramente alla tipologia di scrittura del romanzo, ma viene incarnata dal personaggio di Giorgio che tu hai definito in una risposta di questo blog: “un uomo in fuga e al tempo stesso un uomo in cerca, anche se non lo sa”.
Sì FORSE non lo sa, ma il suo ‘cercare’ ha un carattere di urgenza, come se, pur non sapendolo, conoscesse l’importanza vitale di questo ‘cercare’. In questa maniera di vivere ‘in cerca’ troverà l’amore e quindi il dolore.
Da persona ‘aemotiva’ e quasi crudele, proverà le emozioni primarie e tramite queste ci sarà la redenzione (o salvezza come preferisco comunque chiamarla io, ma lo scrittore sei tu, e mi adeguo…)
Insomma Giorgio, in cui effettivamente molte persone si possono in qualche modo riconoscere, porta con sé sia l’urgenza che la redenzione. Ma probabilmente la redenzione è per definizione urgente.
poi per un pò non scrivo più nulla, ma non ho ancora detto che il libro mi è piaciut o MOLTO!
@Marta.
Non so perché gli uomini cerchino il dolore. Me lo domando. Da ragazzo, passeggiando la sera d’inverno per le strade del mio quartiere ero colpito sino alla sofferenza dal dolore che vedevo negli occhi delle persone. Non credo che la sofferenza sia ciò che cerchiamo. Noi vorremmo essere felici, ma la vita è breve e la morte veloce. Allora ci difendiamo da quesa consapevolezza -che è poi quella di fondo, di base, quella irriducibile- costruendocene altre che ci paiono più tollerabilli. Perché sappiamo che c’è un prezzo da pagare. Ma, vivaddio, cerchiamo la gioia. non dimentichiamo che esiste. Forse non la felicità, ma la gioia sì, quell’attimo lancinante in cui sentiamo che tutto ha un senso. E poi, non dimentichiamo la pietà, anche verso noi stessi.
@ danilo.
Grande domanda, Danilo. Conosco Recalcati, ma non quel libro. E, parlando da psicoanalista per un momento, ho anche io avuto l’impressione che il territorio dell’inconscio si sia ristretto. Tutto pare in superficie. Ma questo -credo- è dovuto al fatto che l’inconscio è diventato -se possibile- ancora più inconscio, ancora meno percepito. Ancora più misterioso e pericoloso. Il lavoro degli scrittori è -anche- dargli voce. Oggi più che mai. Che ne pensi?
@ Tessy
Una risposta paradossale: credo che un laico come io mi sento sia anche, in maniera naturale, un uomo religioso. Un uomo che non ha il dono di conoscere il sacro, ma che lo cerca. Come fa Giorgio che, senza saperlo, cerca il senso. E quindi anche il sacro, il mistero, quel pezzo inattingibile, incomprensibile, che, solo, dona, alla fine di tutto, il senso. Paradossale, lo so. Forse regressivo, direbbero gli psicocosi. Ma per me del tutto reale. Ripeto, ascoltate CHe sarà, nella versione di Ivano Fossati. Dice già molto.
@Marta.
Questa è un’illluminazione: “probabilmente la redenzione è per definizione urgente”. Grande pensiero!
@ Tutti
Ascoltate su:
http://www.youtube.com/watch?v=wm5vQ0_VJlY
@ Didò
grazie. E buon lavoro a te.
@Didò
Grazie. E buon lavoro a te.
@Tessy
mancava un pezzo nella risposta: non so quanto conti nel libro il mio essere un terapeuta. Ceerco sempre di dimenticarmelo quando scrivo. Credo che conti il mio essere tale che la terapia e la scrittura sono le cose che mi permettono di essere me stesso.
Conosco Alessandro Defilippi scrittore, direi molto bene, e l’Alessandro amico, a sufficienza per potermi definire sua amica. Conosco la sua scrittura appassionata che non fa sconti, e che raggiunge in questo “romanzo-romanzo” nuove e più costose altezze, al punto da essere in grado, ad una prima lettura di superficie, di reggere quasi da sola tutta l’opera.
Solo dopo ci si accorge di quanto Giorgio ci parli, e risuoni dentro ciascuno di noi.
Giorgio a tutta prima non è un simpatico. E’ ispido, davvero molto “maschile” nel suo modo di muoversi nel mondo e nelle relazioni. Antagonista rispetto ad un femminile che, nei personaggi tratteggiati da Alessandro, non cessa mai di prendersi cura. Anaffettivo, com’ebbe a sottilineare Margherita Oggero.
Giorgio, però, è uno che paga. Non si possono fare troppi giri di giostra senza pagare il biglietto, e Giorgio si porta appresso il suo dono avvelenato, il potere indesiderato che da esso deriva, il dolore che ne consegue. Una negoziazione continua, come facevano notare alcuni amici che mi hanno preceduta, uno scendere a patti con una natura matrigna che così fedelmente si specchia nell’imperfezione delle cose. E dell’umano. Ed è forse l’impegno costante in questa negoziazione che opera la trasformazione. Giorgio alla fine ci sembra molto più vicino, umano, comprensibile nelle sue mancanze e quasi giustificabile. In tensione verso l’affettività, con onestà.
Sono anche io sulla stessa lunghezza d’onda di Francesca Giulia e di Giulio Fabbrini: la verità penso sia sempre inafferrabile, e il massimo cui si possa tendere (e già è difficile raggiungere) penso sia l’esattezza della sua percezione. Che sarà sempre e comunque personale e differente da quella di un altro. Un ulteriore sforzo per l’essere umano è quello di tentare di percepire il più esattamente possibile anche la verità degli altri, con la consapevolezza che non sarà la nostra.
Forse è per questo che diffido profondamente dei pignoli e degli scrupolosi.
Forse è per questo che non credo nella necessità “sempre e comunque” di raccontare le cose come stanno, e soprattutto le verità scomode.
Quanto al proteggersi dalla sofferenza credo che il modo più comune per gli esseri umani sia quello di autonascondersi proprio le verità più scomode. O almeno il cercare di non percepirle (almeno fino in fondo).
Nota al margine: credo anche io che “Che sarà” sia una delle più belle canzoni degli ultimi 30 anni. Ma alla versione ufficiale di “Mannoia/Fossati”, preferisco quella di Mannoia da sola, accompagnata solo dal pianoforte di Danilo Rea:
http://www.youtube.com/watch?v=4D2smHmWMeY
Che ne penso… Vedo un mondo invaso dalle pulsioni di quel che rimane dell’Inconscio e un uomo cieco-ma ipervedente che ne vede i segnali in forma di “assenza”… Vent’anni eri Cronenberg, adesso (forse) sei Lynch…
Al di là delle mie manie filmiche (è un gioco), Giorgio ha un inconscio “sottratto”, credo…
Ciò che riconosco sempre ad Alessandro è la sua grande capacità di permetterci (noi lettori e amici) di vedere, di fare chiarezza restando in territori pur sempre incerti. Vedere nel senso stretto della parola, portarci a sentire odori, gusti, a calpestare scenari, luoghi… per restare poi piacevolmente incantati dall’espressività dei corpi di Anne Marie, di Luise e di Kirima. I corpi custodiscono grande verità e bellezza. Si ha persino l’impressione di giocare a scacchi con le maiuscole e con le ombre cinesi dove un Rospo smilzo e dalla bocca larga ci ricorda un vecchio zio col capo chino intento a leggere un quotidiano con la lente d’ingrandimento.
Tema appassionante e sublime metafora. L’uomo maledetto dal superpotere della consapevolezza. Il malinconico destino degli dei fatti a forma di uomo.
Lo scrittore Defilippi già mi sta simpatico a pelle. E ancora più simpatico mi sta che abbia voluto scrivere per prima cosa il finale, consapevole del fatto che se lo avesse lasciato aperto, forse, di questo libro ci sarebbe morto.
Bello, mi intriga, mi piace molto chi si pone domande spaventose, e provo istintivo affetto per coloro i quali hanno una fottuta paura di darsi le risposte giuste. Come molti di voi, come l’autore stesso probabilmente, sono perseguitata da una vista da falco, una percezione del microscopico che rasenta la malattia. Per rispondere a Massimo dirò che la lucidità per me va dosata come fosse una droga mortale. E invece verbalizzare le proprie verità sempre e comunque può voler dire essere coraggiosissimi o al contrario dei completi codardi. A seconda del contesto.
Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Be’, di solito la soluzione è abbarbicarsi alla materia, che è l’opposto dell’incorporeità che tanto assomiglia alla morte. E’ il tentare di acquisire o produrre delle esperienze carnali o in qualche modo tangibili. Produrre figli, o libri, o anche orrendi maglioni fatti ai ferri. O amori soffocanti. Comprare tonnellate di scarpe, e reggiseni, e gonnelline attillate, perché, giustamente, si pensa: cazzo se ho l’armadio pieno di roba allora vorrà dire che divento immortale, perpetuo, eh sì dai. Nessun destino si accanirebbe contro uno che ha bisogno di così tanto tempo per potere indossare tutto quello che ha comprato. Non so se si è capito, per me il segreto sta nel riuscire a “disordinarsi”. E’ una lotta sanguinosa ma se si tiene duro alla fine si riescono a sollevare spesso i due angoli della bocca. E se ne ricava un immenso piacere. Roba di livello celestiale.
In ogni caso leggerò questo libro con estremo interesse e ringrazio Max per averlo segnalato.
@Faustina
Vorrei commentare più a lungo il tuo post. Lo farò più tardi perché adesso riesco giusto a scrivere queste righe in un intervallo brevissimo del lavoro.
@Danilo.
Bella l’immagine dell’inconscio “sottratto”. Me la spieghi meglio?
@Marta
non so, mi viene da pensare che se ad un dolore ne sostituiamo un altro forse temiamo la mancanza di qualcosa, forse una piccola cosa che ci rassicura di più della maledetta felicità. Perchè ci attiviamo per traformarla in una maledizione! la bramiamo tutti, la sognamo di notte e di giorno, la auguriamo anche a chi detestiamo e la teniamo assolutamente a distanza. Sarà forse paura di non meritarcela?
Giungo a questo blog per puro caso e sono rimasta colpita e affascinata dalla profondità delle riflessioni. Complimenti.
@Silvia
In parte credo che tu abbia perfettamente ragione: gli umani hanno paura di non meritarsela quella maledetta felicità.
Ma in parte è la paura tout court, e questa ci porta a rifugiarci in un altro dolore, perché il dolore lo conosciamo.
Non voglio dire che è sempre così, assolutamente no, anche il Rospo si salva, e se posso dare un mio giudizio, si salva in maniera grandiosa.
Anche Giorgio si salva, con un percorso più difficile, o che io ho percepito come più difficile perché Alessandro ce lo descrive portandoci , come dici tu, a ”sentire odori, gusti, a calpestare scenari, luoghi… per restare poi piacevolmente incantati dall’espressività dei corpi di Anne Marie, di Luise e di Kirima. I corpi custodiscono grande verità e bellezza”.
Gli umani possono e devono salvarsi, e forse non esiste “il modo (l’unico) “per proteggersi dalla sofferenza, ne esistono diversi.
Giorgio deve passare attraverso l’amore, “In tensione verso l’affettività, con onestà” come ha scritto Barbara.
@faustina invece ci scrive:
“Be’, di solito la soluzione è abbarbicarsi alla materia, che è l’opposto dell’incorporeità che tanto assomiglia alla morte. E’ il tentare di acquisire o produrre delle esperienze carnali o in qualche modo tangibili. Produrre figli, o libri, o anche orrendi maglioni fatti ai ferri. O amori soffocanti. Comprare tonnellate di scarpe, e reggiseni, e gonnelline attillate, perché, giustamente, si pensa: cazzo se ho l’armadio pieno di roba allora vorrà dire che divento immortale, perpetuo, eh sì dai. Nessun destino si accanirebbe contro uno che ha bisogno di così tanto tempo per potere indossare tutto quello che ha comprato. Non so se si è capito, per me il segreto sta nel riuscire a “disordinarsi””.
A me piace quello che ha scritto Faustina.
Vado e vengo come puoi capire… Nella “sottrazione” dell’Inconscio ci vedo una sorta di compensazione per quel che succede, per capirci, “ai piani alti”, laddove un SuperConscio (Junghiano?) visualizza – sempre più, sempre più spesso e sempre con più complicità delle tecnologie testimoniali – figure simboliche, messianiche, apocalittiche, presaghe, e/o spaventose… Sugli youtube esiste un repertorio incredibile di portali, piramidi, occhi nel cielo, croci, spirali, bad clouds che infittiscono le loro esibizioni, impressionando cellulari e videocamere… Non entro nel merito tecnologico di un’eventuale impostura (che non m’interessa soprattutto qui), ma in quello fenomenico delle dinamiche profonde, laddove “manca sempre qualcosa” per la comprensione a 360° di quel che realmente la gente vede (la Madonna che compare in Egitto davanti a centinaia di “islamici”…). E’ come se oggi la Realtà, sicuramente complice una patologia planetaria dis-percettiva, si crepasse, si sfaldasse… come se quel pezzo d’inconscio che manca giù (passami il linguaggio da portuale ubriaco) adesso fosse reperibile “su”, proiettato sul grande telone cosmico… Insomma, ce lo dovremo scrivere prima o poi questo libro… Ma, tornando ad Aguirre, lui mi sembra (anche) un prodotto di questa patologia dis-percettiva. Giorgio in questo senso è quasi un Mutante… se posso suggerire con affetto, come lo scrittore che lo ha generato…
Ho scelto di leggere questo romanzo per il titolo, che già di per sè è significativo. E poi mi sono chiesta a lungo se manchi sempre una piccola cosa, o se forse invece non ci sia sempre qualcosa in più.
I romanzi che preferiscono sono quelli in cui si sposano bene la storia e il significato, e in questo ho trovato un matrimonio molto ben riuscito (ma confesso che vale lo stesso per gli altri di Alessandro Defilippi, che sto pian piano scoprendo).
La storia è incredibile ma allo stesso tempo credibilissima, mai un cedimento alla banalità. E il significato si tiene in essa benissimo.
Perchè alla fine Giorgio, che non è uomo qualunque, che è vero protagonista, perchè ha il coraggio sempre di partire, di cambiare, di vedere e non solo di guardare, di parlare -quando serve, quando le parole non diventano pletoriche, come spesso accade nelle storie d’amore- nella sua vita interiore è “uno come noi”, uno che non smette di farsi delle domande, che non smette di soffrire. L’eroe, praticamente. Che ha doni inusuali e inaspettati, che affronta con coraggio e paura, nello scorrere della sua vita. Che è capace di grandi amori, e di grandi pudori, come è giusto che sia, in fondo.
Per rispondere almeno a una delle domande proposte, ovvero a due contemporaneamente, credo non ci sia modo di proteggersi dalla sofferenza, se non tacerla a sè stessi, a esserne capaci. Spesso si pensa che sia un privilegio degli stupidi, di quanti non conoscono sè stessi. Non ne sono sicura. A volte penso che l’intelligenza ricomprenda in toto la stupidità, perchè più domande ti poni, più possibilità ci sono che tu non trovi le risposte. Finisce che manca davvero sempre una piccola cosa.
Grazie all’autore, per questo libro e per gli altri, e a tutti voi per l’occasione di parlarne.
@ Barbara.
E’ vero che “Giorgio a tutta prima non è un simpatico. E’ ispido, davvero molto “maschile” nel suo modo di muoversi nel mondo e nelle relazioni. Antagonista rispetto ad un femminile che, nei personaggi tratteggiati da Alessandro, non cessa mai di prendersi cura. Anaffettivo, com’ebbe a sottilineare Margherita Oggero.
Giorgio, però, è uno che paga. ”
Sono del tutto d’accordo: Giorgio non è simpatico se non quando si scopre che è uno che paga. E che paga credendo di evitare la sofferenza e invece trovandosela addosso. La sua è un’educazione sentimentale, il passaggio dall’anaffettività al mondo della relazione. E colui che gli permette questo passaggio è, naturamente, il Rospo.
Eccomi qui. Intanto saluto e ringrazio Alessandro Defilippi, protagonista di questo post con il suo romanzo “Manca sempre una piccola cosa”.
Bentornato su Letteratitudine, Alessandro!
Alessandro, ci siamo incrociati :-))
Ieri mi ero dimenticato di sottolineare che tu – fra le altre cose – sei anche l’autore dell’ormai celebre articolo sul carnevale che inserito in questa sorta di post “ricorrente” (ricorrente perché ritorna in primo piano con l’approssimarsi del carnevale):
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/13/un-carnevale-da-raccontare/
Desidero altresì ringraziare tutti gli intervenuti, ringraziandoli per i commenti rilasciati finora e dando un caldo benvenuto a chi scrive su Letteratitudine per la prima volta.
Grazie davvero e… sentitevi a casa.
Manca sempre una piccola cosa, ma qui a Letteratitudine non è certo l’accoglienza a mancare. 😉
Ho letto questo libro, e l’ho amato molto.
Ho letto gli interventi, e la discussione che è scarturita dalle osservazioni di Massimo(e ringrazio l’autore per la disponibilità al dibattito).
Per quanto mi riguarda, non riesco a formulare ipotesi e teorie relative ai temi trattati, e agli stimoli proposti da Massimo, e neanche ho domande particolari da porre qui.
Per me ciò che conta è l’impatto del libro, che è perturbante il giusto.
E misterioso il giusto.
E io consiglierei questo libro perchè parla di Solitudine.
E tutti conosciamo in un modo o nell’altro la solitudine.
E quindi questo libro ci parla.
Perchè il protagonista è chiuso in un solipsismo insopportabile .
Perchè la sua distanza dal mondo e dalle cose fa male, e disturba.
Perchè leggere di tragedie ha qualcosa di grandioso e catartico.
Ma il dolore freddo e atono di Giorgio è perturbante, antico e moderno al tempo stesso.
Grazie, Laura. Credo che la Solitudine sia una “compagna” con cui – in modo o nell’altro – tutti noi abbiamo avuto a che fare nella nostra vita.
Io, intanto, ne approfitto per ringraziare e salutare: Sara, Ausilio Bertoli, Ari, Didò, Amelia Corsi, Luciano Comida, Marta Pollini…
E ancora grazie a: Maria Sinatra, Francesca Giulia Marone, Giovanni Sebastiano, Giulio Fabbrini, Danilo Arona…
E pure a: M. Teresa Santalucia Scibona, Carlo S., Silvia Broccardo, Faustina, Anita, Sara Visentin, Barbara e Laura.
(Spero di non essermi dimenticato di nessuno).
Che il libro di Alessandro e gli argomenti trattati sono di grande interesse, lo testimonia il fatto che questo post è stato inserito tra quelli in “primo piano” nella home page di kataweb blog:
http://www.kataweb.it/blog/
Lo trovate anche qui: http://www.kataweb.it/
Sezione “scelti per voi”.
Auspico che la discussione possa continuare.
Per chi si connettesse adesso, ricordo che stiamo discutendo del nuovo romanzo di Alessandro Defilippi: “Manca sempre una piccola cosa” (Einaudi).
Per favorire la discussione ho posto delle domande ispirate dal romanzo.
Le riprongo…
–
La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?
–
Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
–
Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
–
Sulla copertina del libro leggiamo questa frase: “Così si proteggeva dalla sofferenza, nell’unico modo che gli umani conoscono”.
Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Auguro a tutti voi una splendida serata (dove nulla manchi) e una buona prosecuzione.
@laura
sei una grande! Posso far mio quello che hai scritto? Mi ritrovo nelle tue righe, anche se io non ho toccato il discorso “solitudine”, anche se solitudine e dolore vanno di pari passo nel mondo occidentale in cui viviamo e in cui si muove Giorgio e anche il Rospo, e anche i genitori di Giorgio, pur nel loro gretto mondo borghese
Manca sempre una piccola cosa… quale?
Secondo me oggi manca la pazienza di raggiungere gli obiettivi piano piano, con piccoli grandi sforzi. Si vuole tutto e subito, in questa nostra società della pseudoefficienza. E questa mancanza crea frustrazione.
Complimenti a tutti per la bella discussione ed in particolare all’autore del libro.
@Maugerissimo …manca sempre una piccola cosa ma qui a letteratitudine è tutta un’altra cosa perchè noi tendiamo sempre tutti al…Massimo!!
🙂
un saluto carissimo e grazie per la bella discussione.
@ Alessandro Defilippi, okay allora leggo più tardi.
@ Grazie Marta Pollini 🙂
Continuo a seguire.
@ Faustina
Il problema della lucidità mi tocca molto. Per me significa il fatto di vedere le cose sempre da troppe angolazioni, al punto di percepire l’immobilità che ne deriva inevitabilmente. Come si può scegliere di fronte al ventaglio infinito delle possibilità?
@Faustina
Chiedo scusa: Anonimo sono io.
Un saluto e un grazie di cuore a Massimo che mi ha offerto questa magnifica esperienza.
@ Danilo.
Certo che il mondo va sfaldandosi. Sono del tutto d’accordo con te. Troppo. Troppo di tutto: informazioni, immagini, parole. A volte mi sento un conservatore, ma penso davvero che esista un limite. Non certo morale, ma legato a quella che i greci chiamavano hubrys: l’arroganza. Ma nemmeno di arroganza si tratta. Vaghiamo in un mondo oscuro e banale. Però, diavolo<, ricordiamo sempre che “siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nellatesta, e il cuore di simboli pieno”.
@Sara visentin
Cara Sara,
grazie davvero. Ho ammesso poco sopra che Giorgio è / può essere antièptico. Perché mi pare che così possa essere per un lettore. Ma dentro di me è quello che descrivi tu: un eroe oscuro e inconsapevole,che, come tu dici:
” ha il coraggio sempre di partire, di cambiare, di vedere e non solo di guardare, di parlare -quando serve, quando le parole non diventano pletoriche, come spesso accade nelle storie d’amore- nella sua vita interiore è “uno come noi”, uno che non smette di farsi delle domande, che non smette di soffrire. L’eroe, praticamente. Che ha doni inusuali e inaspettati, che affronta con coraggio e paura, nello scorrere della sua vita. Che è capace di grandi amori, e di grandi pudori, come è giusto che sia, in fondo”.
Grazie davvero.
Grazie a te Alessandro.
Nel pomeriggio ho finito di leggere “le perdute tracce”, e mi sento come se fossi in debito nei tui confronti, davvero.
I protagonisti che racconti, da Giorgio a Fabiani, da Padre Ferraris a Tesfaye, hanno in comune questi tratti, l’inquietudine e la rassegnazione, la ricerca e l’immobilità. Mi innamorano, per come sanno portare, come Atlante, il peso del mondo su di sè, per come lo accettano, pur avendone timore.
Anche Giorgio è così. Per me è davvero un eroe, e se penso a quanto mondo ha dentro di sè e a quanto questo gli pesi, non posso giudicarlo antipatico se al mondo che sta fuori dedica poche attenzioni. Salvo amare incondizionatamente chi ha scelto come mentore, necessariamente più silenzioso, e in fondo eroico a sua volta.
Buona continuazione
@Sara.
Sai, Sara, il Rospo e padre Ferraris sono, credo, lo stesso personaggio. Inquietudine e rassegnazione, ricerca e immobilità.
Hai ragione. A loro pare di portare il peso del mondo.
Al Rospo manca una donna, per essere padre Ferraris, anche se un figlio praticamente ce l’ha, e a me manca “Angeli” per chiudere questo cerchio, ma riparerò presto.
@Alessandro
Mi colpiscono moltissimo le tue citazioni, nei libri e in questi post, perchè rappresentano i miei riferimenti culturali, e mi convincono, se ancora ne avessi bisogno, che ho 20 anni in meno di quelli che mi sento, e che credo davvero di avere.
E, per continuarti, “niente se e forse, tra le occasioni avute e perse, restano solo ore scomparse, di certo hai solo quello che farai”, che mi pare un ottimo sottofondo alla lettura dei tuoi romanzi. Buonanotte a tutti, e grazie.
Ciao a tutti, mi sposto temporaneamente di tavolo lasciando per un attimo da parte i vampiri dell’altra discussione. Il rischio degli interventi degli amici è che siano letti come benevoli per definizione: ma visto che ho conosciuto prima i libri di Alessandro di lui mi sento libero di esprimere serenamente tutto il mio entusiasmo. MSUPC segna avvertibilmente una fase ulteriore della sua ricerca: da quel Locus Animae che trova un punto di forza nella china di un’ambiguità perturbante, nella crepa sottile nella realtà che costringe al confronto col Male e in fondo caratterizza le migliori prove del Fantastico moderno, al febbricitante Angeli e al suo bellissimo preludio Le perdute tracce degli dei, si intravede quella sempre maggiore “sottrazione” rilevata nei post precedenti come necessaria operazione di scrittura. Al punto che MSUPC può non essere avvertito come un romanzo fantastico – e anzi di primo acchito non si presenta come tale: storia di aziende, di appalti… Visto però che il Fantastico non è banalmente il meraviglioso ma parla delle radici profonde della realtà, costringe anzi a metterla alla giusta distanza per coglierne la pluralità d’implicazioni – e comporta anche l’imbarazzo di questa contemplazione – in questa evoluzione nella storia di narratore di Alessandro non c’è cesura. Anzi se esaminiamo MSUPC idealmente dal retro, come a vederne l’intreccio, riconosciamo un fittissimo tessuto di miti a sostenere questa moderna storia di formazione. Meglio, di iniziazione: con il protagonista che accompagnato dal suo iniziatore, il Rospo anfibio tra i livelli della realtà e maestro del Mestiere (come gli iniziatori mitici, edotti nei segreti della metallurgia e dell’edificazione), impara ad affrontare il limite e la sofferenza. Deve naturalmente affrontare, a un certo punto, la prova che ha sempre sfuggito e che gli viene recata dal drago/ciclope di turno – e dire di più non si può. Ma proprio alla luce di questo doppio livello di lettura si apprezza persino di più quella straordinaria, appassionata operazione di accostamento ai segreti della radiologia industriale e ai suoi concetti, nomi, operazioni. Che deve aver comportato una mastodontica preparazione a monte; e che dunque al contempo ci suggerisce come lo sforzo di esattezza – nel nostro Mestiere di tutti i giorni, a partire da quello sul nostro profondo – sia in fondo un nome del rispetto verso noi stessi e verso la realtà.
Grazie a tutti. Domani -credo ce ne sarà il tempo- risponderò a coloro cui non ho ancora risposto. Franco, Silvia…
Ma comunque grazie.
A domani.
Io credo che l’unico modo che gli umani hanno per proteggersi dalla sofferenza sia “raccontarla”.
Chi ha scritto il libro più letto dall’umanità, la Bibbia, lo sapeva. La Storia, per lungo tempo a solo appannaggio dei vincitori, l’ha scoperto un po’ dopo.
Non ho letto il libro di Defilippi ma grazie per la recensione….oggi corro in libreria a comprarlo.
Buona giornata e buon sabato a tutti.
Ne approfitto per ringraziare e salutare i nuovi intervenuti: Vincenzo Panebianco e Claudia.
Vorrei porre un paio di domande ad Alessandro Defilippi.
La prima è la seguente…
@ Alessandro Defilippi
Come ha rilevato Danilo Arona, questo tuo romanzo è una sorta di molock narrativo… dove i dialoghi sono incastonati nel fluire della narrazione, diventandone parte integrante (non usi segni “distintivi” come le classiche virgolette, ecc.)
Perché questa scelta? Ci sono ragioni narrative o tecniche particolari?
–
Comunque ne approfitto per farti i complimenti. Il risultato è eccellente. E il rischio di creare confusione nel lettore è scongiurato.
@ Alessandro Defilippi (seconda domanda).
Lo ha già fatto notare qualcun altro…
Il romanzo è zeppo di riferimenti tecnici relativi all’attività di radiologo industriale svolta da Giorgio.
Quanto spazio hai dato alla documentazione? E come ti sei “organizzato” in tal senso?
@ Alessandro Defilippi (terza domanda)
C’è stato un momento in cui ti è venuta in mente l’idea di scrivere questa storia? Te lo ricordi?
C’è stato qualcuno o qualcosa, in particolare, che ti ha ispirato?
Buona prosecuzione a tutti.
Caro Massimo,
Ti ringrazio ancora per questa occasione. Le tue domande sono stimolanti come sempre. Comincerò dalla prima.
I dialoghi scritti in questa maniera hanno una duplice origine. Una è la loro ascendenza letteraria: Saramago. Un’altra è la ragione per cui li ho scritti così. Sono nati già in questa forma sin dall’inizio. Credo che sia accaduto perché inconsapevolmente cercavo un modo in cui i dialoghi fossero allo stesso tempo esterni ed interni: li si sentisse cioè nel mondo esterno, concreto, ma anche nello spazio interno di chi parla e di chi legge. Avrei potuto adoperare anche la tecnica di McCarthy, che non usa le virgolette ma spazia i dialoghi riga per riga. Il risultato sarebbe stato analogo. L’unica differenza è che così tutto rientra ancora di più in una sorta di flusso. Mi pareva anche che fossero più adatti al linguaggio, alto e basso, che avevo scelto per il libro.
Seconda domanda:
Per me la documentazione è un fatto centrale. Narro spesso di luoghi che non ho visto direttamente o di cose, come la radiologia industriale, al di fuori della mia esperienza. Per farlo è necessaria l’esattezza di cui parla il Rospo. Solo la precisione dei dettagli ricrea, secondo me, la realtà, la possibilità di “fare chiarezza restando in territori pur sempre incerti. Vedere nel senso stretto della parola, portarci a sentire odori, gusti, a calpestare scenari, luoghi…”, come ha scritto poco sopra Silvia Broccardo.
Questo vale ancora di più nel campo del fantastico, mio punto di riferimento da sempre. Perchè si crei l’effetto straniante, perché si percepisca l’incrinatura, perché infine si stia nella sospensione di cui parla Todorov, è necessaria una grande concretezza. La vaghezza, a mio parere, uccide il fantastico.
Terza domanda:
Le mie storie nascono per aggregazione o cristallizzazione. Non c’è mai una scaletta -non so nemmeno costruirla- ma è come se io venissi scritto dalla storia. Così almeno mi sento, e non so mai bene dove quella scena, quel personaggio, mi condurranno. Così accade che le storie nascano da un’immagine. In questo caso era l’immagine di un uomo -non un medico- che osserva una lastra (poteva trattarsi di un fotografo) e vi scopre qualcosa che non dovrebbe esserci. Poi a questo si aggiunse una frase: “Ogni casa ha il suo proprio odore”. Ecco.
Per l’ultima parte della domanda, se vi sia qualcuno o qualcosa che mi ha ispirato, certo che è così.
Ma questa è vita e non letteratura.
Caro Alessandro, grazie per le tue risposte e per la tua presenza in questa bella e arricchente discussione.
Nei prossimi giorni, conclusa questa prima fase del dibattito, ti chiederò di inserire qualche brano tratto dal libro… in modo da farlo assaggiare ai nostri amici.
Lo farò molto volentieri.
Ora torno al lavoro. Mi farò risentire nel primo pomeriggio. Un saluto a tutti.
Grazie ancora, Alessandro.
Per oggi devo chiudere qui. Nel pomeriggio sarò a Siracusa a presentare – con Simona Lo Iacono, Luigi La Rosa e Tea Ranno – la raccolta di racconti “Roma per le strade 2” (Azimut).
Dettagli, qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/02/06/presentazioni-di-libri-ed-eventi/comment-page-13/#comment-113566
Tutti invitati, ovviamente.
Io potrò tornare a connettermi domani.
A tutti voi uno splendido sabato sera.
E’ fantastico questo spazio di discussione! Un’esperienza di “lettura collettiva” se così la posso definire. Una considerazione ulteriore: le imperfezioni che il nostro protagonista vede sono tutte, in qualche modo, all’origine di possibili sofferenze. Lui vede, con estrema nitidezza, il difetto che ad altri sfugge. Lui vede la sofferenza strutturale, se Alessandro mi consente questa definizione, e vederla, identificarla, è già un progresso, un superamento del limite. Il fascino del racconto di Alessandro è proprio nel travaglio legato alla consapevolezza del dolore. Trovo che la storia di Giorgio, sia, fondamentalmente, una storia di riscatto. Penso che nessuno soffra volentieri, ma, paradossalmente, riuscire a vedere di cosa si soffre ci offre l’opportunità di una vita migliore e piena.
@Franco Pezzini
Hai visto in filigrana, come usa dire, l’intreccio che sta, in parte consapevolmente, in parte no, dietro al libro. Il Rospo è un alchimista e il Mestiere, che cerca le Ombre, altro non è se non L’opera al nero. E MSUPC (bello l’acronimo!) è anche, se non soprattutto, un romanzo fantastico.
Un abbraccio e un grazie per la tua sottigliezza e per la tua amicizia.
Il Rospo, Tesfaye, Padre Ferraris, in qualche modo Giorgio. Novelli “cristo” che coagulano e portano sulle spalle il dolore del mondo, quello che a volte noi non riusciamo nemmeno a guardare negli occhi. Loro lo fanno, per amore, per dedizione o per forza. Ed è così solitario, e così aspro, fare il cristo. Ma regala a chi testimonia, o a chi, in questo caso, legge, l’esperienza di poter “sfiorare” davvero, qui, su questa terra, il senso profondo della redenzione. Per questo io trovo tutti e quattro questi personaggi, a livelli e gradazioni differenti, profondamente commoventi. Grazie per avermi fatto conoscere questo blog, ed avermi dato l’occasione di leggere, e contribuire. Un abbraccio.
PS: Ale, please, continua a scrivere di queste e di altre umane cose.
“Cuori bui, usanze ignote” (Antigone) è una raccolta di racconti che “illumina” anche questo lavoro… Chi vuole scoprire il Defilippi in Ombra (e dall’Ombra…) deve frequentare anche i suoi racconti, qualcuno sparso qua e là e da “scoprire”, altri racconti in antologia. L’Ombra che combatte per “mangiarsi” la luce della Realtà e il lettore “esita” perché non capisce a fondo quel che vede… Da qui l’effetto del fantastico defilippiano, nel profondo, alle radici – come suggerisce l’ineffabile Pezzini.
@Barbara
Continuerò perché è quel che voglio fare. E -spero- quel che so fare.
@Danilo
Un grazie a Danilo, che mi riporta a quello che è credo il nucleo della mia scrittura. Il mistero.
@ Ari
“Sofferenza strutturale” è una definizione che mi pare molto precisa. Mi pare di sentirci risuonare dei versi che tutti conosciamo:
“Forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”.
Vorrei spezzare una lancia per il medico Edoardo Randi, per il fascista Gualtiero Fabiani per quelli che navigano cercando di non naufragare, inciampando un po’, esattamente come tutti noi che restiamo aggrappati all’Io ma che in modo imprevisto facciamo esperienza della manifestazione del divino e che per questo continuiamo a credere nell’uomo.
@Marta Pollini:grazie!
Oltre agli interventi di tutti i partecipanti alla ‘discussione’, vorrei ringraziare in particolare Danilo Arona e Franco Pezzini, per aver puntato il faro sulla natura di romanzo fantastico de ‘Manca sempre una piccola cosa’;la triangolazione di interventi di voi due più Alessandro Defilippi è qualcosa che non capita tutti i giorni di leggere o ascoltare;grazie.
Non voglio dire tavanate perchè non conosco bene il genere, ma sono sempre più convinta che la via del fantastico sia una delle strade migliori che la narrativa possa percorrere, penso ai migliori esempi della narrativa contemporanea statunitense; i mdernissimi Eugenides, Lethem, Budnitz,anc he l’ultimo Ellis, in qualche misura, con il fantastico hanno a che fare(…. eposso dire che mi sembrate una specie di ‘confraternita del fantastico’troppo simpatica?!…..)
@Laura
Grazie Laura. D’accordissimo su Eugenides ed Ellis. Devo provare Lethem e non conosco affatto Budnitz.
Lethem, straordinario l’ultimo Chronc city’, Judy Budnitz, ‘L’odore afrodisiaco del cloro’
Da un intervento di Danilo Arona:’vent’anni fa eri Cronemberg,oggi forese sei Lynch’:!!!!!!!…..
@laura
Diavolo, certo che ho leto L’odore afrodisiaco del cloro. E la scrittrice è Budnitz. Grandi racconti.
E’ vero;sono molto belli.
‘Il nucleo della mia scrittura, il mistero’.
A me un’enunciazione di intenti di questo tipo riguardo la scrittura pare davvero molto bella.
Un saluto domenicale al volo e un ringraziamento per i nuovi interventi pervenuti.
@ Alessandro Defilippi
Caro Ale, vorrei approfittare della tua presenza per chiederti qualcosa sul tuo rapporto con la scrittura.
Quando scrivi preferibilmente? Ci sono orari della giornata che ti sono più favorevoli?
Scrivi in maniera regolare, o procedi per blocchi (a periodi)?
@ Alessandro Defilippi
Ti ricordi la prima volta in cui hai pensato: voglio fare lo scrittore?
E la prima volta in cui ti sei detto: io sono uno scrittore?
Queste domande per conoscere un po’ meglio Alessandro Defilippi scrittore (e il suo rapporto con la scrittura).
Ovviamente continueremo a parlare di questo libro “Manca sempre una piccola cosa”.
Io tornerò in serata.
Buona domenica a tutti!
Secondo me un modo di proteggersi dalla sofferenza è l’attesa. Abbiamo sempre troppa fretta di definire, di catalogare, di “capire”. Ma non abbiamo mai (e non avremo mai) tutti gli elementi: la realtà completa ci sfugge e in questa debolezza è la nostra umanità e il motivo di una necessaria solidarietà.
Il mito della perfezione ha sempre esercitato un’influenza sugli esseri umani che fin dai tempi arcaici hanno desiderato farsi simili a Dio.
Il perfezionismo è sempre una specie di malattia che colpisce la parte umana di un soggetto e lo ossifica. Essere perfezionisti infatti significa erigere uno schema di riferimento entro cui seriare, classificare, includere, esludere ecc… E’ , secondo me, su questa idea che Alessandro Defilippi impianta la storia narrata tant’è che gli mette accanto il Rospo cioè una persona da cui aspirare i pensieri. Il protagonista ha capito che dalla tragedia del perfezionismo lo può salvare soltanto la mente altrui (il Rospo)e la relazione d’amore e quindi è sempre alla ricerca di una donna ma forse anche a questa manca sempre una “piccola cosa” che non gli permette relazioni profonde e durevoli.Ha perso la capacità di emozionarsi.
Secondo me, lo “ziccoso” ha bisogno di rilassarsi ad un certo punto e, in altri aspetti della vita, diventa superficiale.
Infatti il perfezionismo a volte sfiora la nevrosi ed al nevrotico “manca sempre una piccola cosa”
Non mi piace questo tipo umano, però è interessante avere scritto un romanzo( che leggerò) su di lui.
Caro Massimo, appena mi riabiliteranno la posta ti scriverò.
Adesso rispondo alle tue domande.
Per uno scrittore di professione credo che l’orario mattutino sia il più favorevole per scrivere ma per una come me, che deve osservare altre priorità, la notte è il tempo ideale.Tutti dormono, non c’è l’angoscia della telefonata o del campanello d’ingresso e quindi posso buttarmii dentro la storia in modo coerententemente temporale e spaziale sia per blocchi sia narrativamente per continuità.
Io comunque scrivo sempre per blocchi perchè metto a fuoco episodi, fatti, eventi che espimono con calma e leggerezza il progetto totale che avevo concepito e l’idea che voglio circoli nel mio libro.
Non credo poi che ci sia un momento in cui si dica “voglio fare lo scrittore”
C’è il momento in cui idee, sentimenti, riflessioni ti straziano dentro ed hai bisogno di prendere il bisturi, allora ti siedi al computer e scrivi.
Per me è così.
Se sono riuscita a coinvolgere anche soltanto una persona a leggere il mio libro forse sono uno scrittore, ma nella realtà saranno i posteri a giudicare se lo sono o sono una perditempo.
Tuttavia sono convinta che per scrivere bisogna avere a monte non soltanto una buona conoscenza delle regole ortografiche, grammaticali e sintattiche onde evitare di fare più danni che bene con propri scritti ‘, ma di informarsi su cosa sia un romanzo. Leggere almeno il “Superuomo di massa ” di Umberto Eco.
@Massimo
Buona domanda. Quando ero più giovane scrivevo molto la sera e la notte, che mi parevano uno spazio lontano dal rumore e dalla confusione. Oggi in realtà adopero il tempo che trovo. Scrivo in genere nel mio studio, quando non ci sono pazienti. Sono fortunato perché non ho bisogno di “riti d’ingresso” molto elaborati. Come diceva qualcuno, “l’ispirazione è il gesto di avvicinare la sedia alla scrivania”. Non scrivo quasi più di notte perché arrivo alla sera molto stanco.
Cerco di scrivere sempre, ma talvolta mi devo fermare. Credo sia perché le immagini si devono riformare per raccontarmi il film mentale che diventa un mio libro.
Fin da bambino desideravo essere uno scrittore. Prima prova verso i nove anni, imitando Jerome. Verso i tredici la notte faticavo ad addormentarmi per l’angoscia di non riuscirvi.
Quanto al capire di esserlo diventato, rifammi la domanda tra altri sei libri.
@mela mondì
Spero che il mio libro le piacerà. Il tema però è un po’ diverso. Giorgio non è affatto un perfezionista. E’ uno che deve qualcosa all’esattezza, che non è perfezionismo, ma aderenza al reale. L’esattezza “è crudele”, pretende fatica. Ed è la difesa con la quale Giorgio si tiene lontano da emozioni troppo intense. Anche dalle donne fugge per timore di quel “troppo” che sente urgere dentro di sè e che lo spaventa. Il Rospo è colui che lo aiuta in un’educazione sentimentale necessaria e che lo conduce ad accostarsi al mistero.
@ Laura. Grazie delle tue parole tanto gentili – comprese quelle sulla confraternita del fantastico… 🙂 Del resto è vero che dai primi scritti narrativi dell’umanità il parlare di ciò che abbiamo dentro, nel profondo, gioca con un registro – in senso lato – fantastico. Pensiamo all’epopea di Gilgamesh, a Omero, agli stessi testi biblici che usano forme mitiche e poetiche… e avanti, compresa quella letteratura “popolare” che in realtà è tanto ricca di richiami. E che ci interpella sia nella dimensione personale che in quella sociale: l’una rimanda anzi continuamente all’altra perché noi siamo anche la nostra storia (penso allo scorcio di storia italiana compreso anche in MSUPC).
D’altra parte il fantastico, come tanto bene spiegano Alessandro e Danilo, non è tanto un contenuto quanto un modo di vedere. Fantastica è la vita, se abbiamo l’occhio un po’ attento a cogliere ombre e anche luci. Il dramma è quando, per timore di soffrire, finiamo col vedere solo le ombre – e solo quelle di una certa messa a fuoco. Ma è pur vero che nella stanza delle ombre finiamo, prima o poi, con l’incontrare l’Iniziatore – un po’ buffo, perché se no non oseremmo avvicinarci o ne resteremmo distanti, e capace di accendere il fuoco e conservarlo vivo sotto il matraccio della nostra alchimia interiore. Il fatto che poi questa operazione, che sul piano narrativo ha un inizio e una fine, sia in realtà continuamente ripetuta nella nostra vita a livelli diversi ci obbliga a una necessaria umiltà. Ma certo una caratteristica del Rospo iniziatore è di saper guardare sé come gli altri, cioè di non esaurirsi nella visione ombelicocentrica, e vivere anzi in un’apertura vitale che non risulta mai pretesa sulle esistenze altrui: e mi sembra che a questo ruolo di Rospi, negli anni, possiamo giustamente aspirare – come genitori, insegnanti, scrittori… o COMUNQUE persone adulte – per tenere generazionalmente il fuoco sotto l’athanor dei nuovi Giorgi. Nonostante tante brutture che vediamo in giro, finchè ci sarà qualcuno che accetterà questo ruolo di servizio e non di potere, il Ciclope non soffocherà il nostro sguardo.
@ Alessandro Defilippi
Ho avuto modo di capire che diverse lettrici, me compresa, si sono, come dire, affezionate al personaggio di Anne Marie. Si può dire che sia un personaggio riuscito. Com’è nata questa figura?
Nel tuo romanzo il femminile assume toni diversi e decisamente intensi. Dico il femminile perchè ogni personaggio al femminile sembra comunicarci qualcosa di fondamentale (forse archetipico?) dell’universo che lo rappresenta. Ha senso?
Per riprendere quanto sostieni sopra -Anche dalle donne fugge per timore di quel “troppo” che sente urgere dentro di sè e che lo spaventa- in cosa può consistere quel troppo? (mi sento un po’ indagatrice, ma chi se ne frega)
@ Silvia.
Il troppo è, naturalmente, la posibilità dell’amore, con quel che ne consegue: l’assumersi la responsabilità di sé e anche un po’ quella dell’altro, anche se l’altro e noi dobbiamo esere sempre responsabili di noi stessi.
Anne-Marie è un peronaggio riuscito, dici. Sono d’accordo. Io credo che lo sia perché è un personaggio del tutto immaginario. A volte la letteratura ci fa sfiorare la verità, non la realtà.
@ Franco:
Io credo che questo sfiorare la verità -non la realtà- sia nel cuore del fantastico. Credo che la letteratura ci avvicini alla verità. e che realtà e verità siano due cose distinte.
Ne sono convinto: le parole verità e realtà fotografano significati diversi. E il rapporto con la letteratura (fantastica in particolare) comporta operazioni, diciamo alchemiche, concettualmente differenti.
Buonasera Massimo. Buonasera Alessandro, piacere (stretta di mano), mi chiamo Rossella.
Non credo possa esserci argomento più interessante della Verità che, secondo me (appoggio la mano al cuore), è un Dono molto speciale che pochissimi ricevono e che in molti tentano invano di possedere. Il problema in seguito non è la Verità in sé, ma poterla comunicare agli altri e, se posso permettermi (pollice e indice sostengono il mento), ti consiglio di leggere un testo di Regis Jolivet intitolato “Saggio sul problema della sincerità” dove è trattato il problema della comunicazione…
La Verità oggettiva esiste e spesso deve rimanere come la Sfinge Egiziana, immobile e silente di fronte alle tante “verità” soggettive che, in quanto tali, sarebbe più corretto chiamare opinioni: Alessandro Defilippi (inizio a gesticolare) và già di lusso quando si riesce ad avere uno scambio civile pur pensandola in modo diverso l’uno dall’altro. Occasione per capire il livello culturale dei soggetti.
D’ estetica e di linguaggi espressivi gli artisti si servono per portare la luce.
La verità sulla tela (pennello critico) è la visibilità : il pittore astratto Paul Klee scrisse che L’ARTE non esprime il Visibile: al contrario, essa lo rende visibile. Klee studiava la composizione cellulare ad esempio di foglie o di un petalo di rosa, capiva le leggi di natura e la loro composizione, così dal piccolo disegno di intrico di linee e strane geometrie veniva fuori l’ingrandimento di visione, ma non era solo questo. Egli applicava un metodo scientifico che univa il detective al linguaggio poetico, ecco perché sulle sue tele s’intuisce il cosmico magico respiro del creato … un metodo per far entrare l’osservatore all’interno della verità delle cose, portarcelo piano con dolcezza, si serviva dell’immagine come mediatrice dell’universo, dapprima misteriosa, poi rivelatrice di magnifici segreti.
Talvolta anche la lente d’ingrandimento dello scrittore agisce così, ma, consentimi, anche le fonti della conoscenza aiutano a comprendere il Vero.
Ciao Ale Defilippi, vedo che non è esatto definire il tuo personaggio un perfezionista ma penso neanche un realista. Mi sono fatta l’idea che si tratti di un soggetto capace di cogliere situazioni e fatti nella loro concettuale portata. Si tratta di qualcuno che vede dove gli altri o non vedono o si accontentono di vedere. Allora è veramente l’infelicità, l’incomunicabilità e la solitudine.
Ma se tu dovessi definire il tuo protagonista con un aggettivo come lo definiresti ? Ma forse chiedo troppo.
A Rossella
Io nel mio romanzo “Alla corte del nonno masticando liquirizia” in cui la ricerca della verità la fa da protagonista definisco il personaggio (nonno)che non ha il coraggio di rivelare la verità e fare scelte che le permettano di viverla, un “MITO SFINGEO”.
Sono d’accordo con te, Rossella, ma quella di Klee non mi sembra la verità ma la ricerca (tutta materiale) del segreto cosmico che smuove le corde della meraviglia. La ricerca è d’obbligo ma la verità è un’altra cosa. Per la prima, secondo me, occorre curiosità, esigenza di stupirsi, di conoscere come stanno le cose, di comprendere che c’è sempre qualcosa in più; la seconda è il fatto o l’idea nudi e crudi.
La verità è diversa dalla sincerità, anche se dovrebbero andare insieme.
La verità ha sempre un carattere oggettivo, la sincerità è soggettiva poichè esprime l’interiorità della persona umana. La verità può anche far male ma la sua conoscenza fa andare a posto le cose. La sincerità a volte procura sofferenze gratuite ed inutili ; complica, a volte, le situazioni. Ci sono persone che vogliono essere sincere a qualsiasi costo e peccano di infantilismo. La verità va rivelata, la sincerità va scoperta.
La verità cammina da sola la sincerità ha bisogno dell’occhio altrui per essere compresa nella sua relatività.
Buona serata a tutti e grazie a Massimo che ci dà possibilità di confronto.
si, Mela hai fatto bene a sottolineare la differenza fra verità e sincerità.
Affinchè la prima possa fare a meno della seconda ci vuol talento. Non è un gioco da ragazzi.
ciao
Buona serata a tutti e grazie per i nuovi interessanti interventi.
Ringrazio Alessandro per aver risposto alle mie domande.
Ne approfitto per salutare (e ringraziare) i nuovi intervenuti per gli ottimi spunti forniti: Gabri, Mela Mondì, Rossella…
(Ma ringrazio anche tutti gli altri, ovviamente… )
Mi pare molto interessante lo sviluppo del tema “verità e sincerità”… così come quello “precisione ed esattezza”.
Credo siano ottime occasioni di riflessione e di confronto.
Grazie a voi, dunque.
@ Alessandro Defilippi
Caro Alessandro, ti chiedo (se possibile) di inserire – tra i commenti – uno o più brani tratti dal romanzo… in modo da farlo “assaggiare” ai nostri amici che non l’hanno ancora letto.
Brani a tua scelta… che (magari) reputi particolarmente significativi.
Ne approfitto per augurare a tutti una splendida serata e un ottimo inizio di settimana.
Una serena notte a voi.
Buonasera,
ho scoperto il blog e il libro per caso e ho letto questa discussione molto nutrita (grazie a tutti!). Non vedo l’ora di andare a cercare il libro!
Il tema mi interessa molto perché di recente sto riflettendo proprio sulle domande poste dal nostro “ospite” Massimo.
Ho anch’io qualche domanda per l’autore: il protagonista cerca la salvezza (anche se non lo sa, come lei dice), ma può anche capitare di aver paura della ricerca della salvezza… Forse proprio per sfuggire al dolore che essa comporta? Ci può essere un momento in cui l’urgenza si fa palese e si prende coscienza che il guscio – o il sistema asettico – che ci si è costruiti ci sta soffocando? O è solo la sofferenza a lungo schivata che invece arriva e costringe a guardarsi intorno?
Giorgio mi sembra perciò un personaggio molto vero: brava Laura che più su ha parlato di solitudine, del suo essere “chiuso in un solipsismo insopportabile” del suo “dolore freddo e atono”, “perturbante, antico e moderno al tempo stesso.”
Molto interessante poi il tema dell’incoscio!
Fu nella primavera del ’78, durante una lezione di radiologia, che le lastre proiettate nell’aula rammentarono a Giorgio Aguirre, studente di medicina, le ombre del mestiere paterno. L’aula era immersa nel buio e sullo schermo scorrevano le immagini di un omero fratturato in due punti. Frattura a legno verde, disse dall’oscurità la voce del professore, la tipica frattura, come sapete, che può procurarsi un bambino che cade dalla bicicletta. Arti fragili, ancora indecisi sul loro destino di cartilagini o di ossa.
L’emiciclo scricchiolava e odorava di legno, e Giorgio, figlio di una pediatra e di uno pneumologo di fama, ricordò certi pomeriggi invernali trascorsi nello studio del Padre, in via Magenta. Il Professore, come lo chiamava la Madre, indugiava tra le lastre dei suoi pazienti; le sfogliava come funebri riviste d’arte o le contemplava alla lampada del diafanoscopio: la linea che indicava l’infrazione d’un osso; una caverna nel grigio cotonoso d’un polmone; il nodo d’un carcinoma. Nelle mezze ore prima di cena (rigorosamente alle venti, con il Professore in cravatta, la Madre in abito da passeggio e Giorgio in pantaloni all’inglese di flanella grigia), il Professore accoglieva Giorgio bambino nella penombra dello studio, tollerandone o forse ignorandone la presenza alle sue spalle, appollaiato sullo sgabello girevole. Quelle radiografie erano allora parse a Giorgio un universo segreto: ombre e luce sfumavano in immagini che lui metteva da parte, giusto perché tornassero buone quel giorno di lezioni, sorprendendolo come gli odori della sua infanzia. Che ogni casa avesse il suo odore era cosa che Giorgio sapeva da tempo, e del profumo della casa paterna facevano parte anche le apparenze lattiginose che scorrevano sullo schermo.
Oltre le tapparelle che avevano oscurato l’aula, c’era il sole, quel nove maggio del ’78, e un pulviscolo sottile nell’aria. Nell’uscire, Giorgio sentì i compagni discutere animatamente di una certa Renault 4 rossa, ritrovata in via Caetani, a Roma. Ma nel tumulto Giorgio pensava alla frattura a legno verde. Aveva visto la linea scura tra i monconi dell’arto disassato prima che la bacchetta del docente la indicasse. Un brivido gli aveva percorso la schiena e lui era rimasto ad osservare la lastra come un oggetto familiare e alieno, sentendo che il suo futuro era legato a quel mondo di ombre. Era stato un riconoscimento repentino e assoluto, la moneta spezzata che viene fatta combaciare con la metà perduta.
Il problema però era la medicina, fin dalla prima autopsia. Il professore di anatomia patologica, quel mattino dell’anno precedente, aveva parlato delle vie nervose e, nel descriverne i meandri, aveva continuato, inconsapevole, a sbucciare un cervello estratto dalla formalina. Ogni tanto, con un gesto meccanico, si liberava d’un frammento di meninge incastratosi sotto le unghie. Giorgio era uscito dalla sala settoria con la mente vuota e aveva iniziato a ridurre il ritmo degli esami.
Quello che ho postato è uno dei brani dell’inizio. Giorgio giovane, che inconra il suo sguardo.
@ Mary.
Le sue domande sono estremamente centrate.:”
“il protagonista cerca la salvezza (anche se non lo sa, come lei dice), ma può anche capitare di aver paura della ricerca della salvezza”…
Certo: sono d’accordo. Forse si ha paura proprio di questo. La salvezza, è paradossale, c’impaurisce. Non ci siamo abituati.
“Forse proprio per sfuggire al dolore che essa comporta?”
Credo di sì. La salvezza implica consapevolezza.
“Ci può essere un momento in cui l’urgenza si fa palese e si prende coscienza che il guscio – o il sistema asettico – che ci si è costruiti ci sta soffocando?”
Spero sia così.
“O è solo la sofferenza a lungo schivata che invece arriva e costringe a guardarsi intorno?”
Credo sia così.
Spero e credo, naturalmente, sono cose diverse.
La sede dell’Alyeska Pipeline Service Company è un grattacielo, piccolo per il metro del luogo, ma pur sempre un grattacielo. L’ascensore porta Wayne e Giorgio al terrazzo sulla cima. Sta scendendo la sera, ma l’aria gelida è limpida, si vede la città per intero e le montagne sembrano a un passo. Wayne fa un cenno, indicando il panorama davanti a loro: lo vedi quello, domanda.
Quello è un serpente metallico e scuro che esce da Valdez e scivola verso nord, fino a perdersi in lontananza. È il TAPS, dice Wayne, e porta il petrolio. Collega costa nord e costa sud, Prudhoe Bay e Valdez. Scuote il capo, ridendo. Il petrolio è come il sangue: dove c’è il petrolio è il centro del mondo, non la frontiera. Noi siamo al centro del mondo.
Giorgio annuisce nel vento freddo. Si tira su il bavero, infila le mani in tasca. Gli pare di intuire quel che intende Wayne, l’orgoglio d’esser parte di un meccanismo essenziale. Si guarda intorno: le montagne sono coperte d’alberi innevati e il tramonto strappa un ultimo riflesso ai ghiacciai. Accanto a lui, Wayne ha estratto una bottiglia da un quarto di litro e ne beve un sorso, poi la tende a Giorgio, che beve a sua volta e fa conoscenza con il whisky canadese.
Giorgio in Alaska
La cena è stata un successo: il Rospo ha fatto il bis del roast beef, sebbene un po’ troppo cotto, e della torta, mentre il risotto l’ha guardato con diffidenza, perché lo zafferano è un imbroglio e ce lo mettono solo per il colore, piuttosto versami da bere, ché questo Barbaresco parla.
Più tardi hanno accompagnato a Villa Azzurra la Madre, allegra anche lei per i Martini e il Barbaresco, giusto in tempo perché il medico di guardia non sgridasse tutti e tre per il ritardo; poi Giorgio ha condotto il Rospo a casa e ora indugiano per un ultimo bicchierino. Sta davvero bene tua madre lì? È lei che è voluta andarci?
Giorgio non risponde subito. Mi ha detto che ci si trova a suo agio, dice, scrollando le spalle. Ormai faticava a camminare e gente in casa non ne voleva. E poi, da quando è invecchiata, non riesco a capirla. Sembra che abbia qualcosa in testa.
Il Rospo brontola appena; i vecchi, dice, i vecchi, è difficile capirli: inseguono qualcosa, ma lo sanno soltanto loro. S’interrompe bruscamente e beve un sorso di grappa. Giorgio lo fissa da sopra gli occhiali da presbite che porta da un paio d’anni. E tu, domanda, che cosa insegui? Non lo so nemmeno io, ma cambiamo discorso. Tua madre m’ha detto che cucinano anche bene. Pare, e si è fatta degli amici; è importante l’amicizia.
Il vecchio tace, si alza, spolvera una storta di cristallo con un pennello da imbianchino.
E tu, domanda dopo un po’, ne hai di amici? Giorgio esita, sorpreso: ho te, risponde; siamo amici da quasi venticinque anni. E chi ti dice che siamo amici? E cosa, altrimenti? Io sono il tuo Maestro, cacciatelo bene in testa. Rospo, io ho cinquant’anni e tu vai per gli ottanta, vuoi che fondiamo la Scuola Filosofica dell’Ospizio? Tu non hai rispetto, quel che conta non è l’età del corpo carnale, ma la finezza del corpo sottile. E che sarebbe il corpo sottile? Sono i nadi e i chakra, i canali e i centri dell’energia, della kundalini. Kundalini? Questa è nuova; hai letto qualche altro libro dei tuoi? È il serpente che s’annida dentro di te e tu devi liberarlo. È la tua energia, il tuo talento, e tu ancora te lo tieni stretto, non lo lasci respirare. Io di serpente ne conosco uno solo, lo chiamavamo così a scuola. Sei sempre il solito ignorante, e devi ancora imparare a vivere. Me lo ha detto anche una ragazza, tanti anni fa. Aveva ragione lei, e tu sei un crapone. Crapone e gadano, con quei capelli lunghi e grigi. Mi fai ridere quando parli in piemontese. Ti farò anche ridere, ma intanto da quindici anni scappi e me la meni. E sto bene qui e sto bene là, e son contento su e che divertimento insegnare giù. E intanto, sul campo non ci vai, e la gente t’invecchia attorno e tu non te ne accorgi nemmeno.
S’è fatto silenzio tra i due.
Che cazzo vuoi dire, Rospo, sibila Giorgio.
Che non te ne frega niente di niente. Basta che ti lascino tranquillo. Può cascare il mondo e tu ti sposti.
Non rompermi le scatole. Ho fatto quello che volevi tu: insegno all’università, guadagno bene e non faccio male a nessuno.
Questo è vero. Né male né bene, fai. A nessuno.
Il Rospo ha continuato a lucidare i suoi alambicchi e i suoi distillatori. Passa un po’ di tempo e i due tacciono, non si guardano. Poi il Rospo riprende, la voce normale: aveva la faccia triste, tua madre, borbotta.
Non sa che dire, Giorgio, e s’interroga su quale sia il luogo a cui la Madre sorride ogni volta che va a farle visita e lei, seduta nella carrozzella, rimane a fissare il bosco oltre il terrazzo, e lui nell’andarsene si gira, una, due volte e lei è sempre lì, ad ogni sguardo più piccola, in attesa dell’infermiera che più tardi verrà a prenderla e la ricondurrà in stanza, come si ritira una camicia stesa al sole ad asciugare.
Giorgio e il Rospo
Bellissimi brani. Grazie. In settimana acquisterò il romanzo. Voglio vivere le esperienze di Giorgio.
Con i suoi occhi.
@ Sara
Grazie
@Defilippi, non so se la tua fosse una domanda retorica o meno, magari nemmeno la ricordi.
In ogni caso voilà la tua risposta-domanda?
Il problema della lucidità mi tocca molto. Per me significa il fatto di vedere le cose sempre da troppe angolazioni, al punto di percepire l’immobilità che ne deriva inevitabilmente. Come si può scegliere di fronte al ventaglio infinito delle possibilità?
Mmmmmh la lucidità regala un nel po’ di tristezza e per me andrebbe mitigata se si è con gli altri, se non altro celata. I maestrini piacciono poco a tutti. Interiormente si vive come dato strutturale del sé, ci si è nati, e regala l’immobilismo che dicevi, lo fa ad opera di una cosa strana se ci pensi: hai mai provato un tremore parossistico che alla fine paralizza? Non so se sei un medico, ma è anche un vero sintomo clinico di malattie purtroppo serie.
Ai ventagli si risponde per me chiudendo gli occhi e annusando l’odore di quello che potrebbe essere, la vista non c’entra, il cerbello solo se fa da sonar. Pipistrelli, ecco mi piacciono gli uomini pipistrello. 🙂
Oggi proverò ad aquistare il libro.
@Faustina.
Sono un medico e capisco quel che intendi. Su un piano simbolico è avere tutto aperto che impedisce di scegliere. Ma scegliere significa non aver più tutto aperto.
Una discussione particolarmente stimolante, questa che coinvolge Alessandro Defilippi ed il suo nuovo romanzo.
Ammetto che non avevo mai letto nulla di questo autore, e dunque devo essere grato a letteraritudine per avermelo fatto scoprire.
I brani che sono stati inseriti nei post mi hanno coinvolto anche a livello emotivo. Mi è piaciuto soprattutto quello con il Rospo, mi pare che sia l terzo.
Un bravo ad Alessandro Defilippi.
Ovviamente acquisterò il libro.
Poi ci sono le immancabili domande di Massimo a cui non è possibile sottrarsi.
E dunque.
La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?
Secondo me dipende dal fine. La precisione, la pignoleria, lo scrupolo sono pregi quando sono finalizzati al bene di qualcosa o di qualcuno. Quando cioè servono per migliorare. Se invece diventano, come spesso capita, occasione per mostrare la nostra superiorità, in questo caso diventano difetti.
Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
Userei lo stesso approccio usato nella risposta precedente. Per prima cosa, però, secondo me sarebbe bene che imparassimo a dire “le cose come stanno” a noi stessi. Cosa non facile.
Molto meglio dire “le cose come stanno” agli altri.
In questa seconda ipotesi dire “le cose come stanno” può diventare occasione per sfogarsi. Non sempre è utile.
Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
Difficilissima domanda. Non so rispondere.
Magari prima ci penso un po’, poi dico la mia.
Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Tenersi impegnati al massimo per allontanarla, per aggirarla, per non farsi avviluppare da essa. Ma è una lotta impari, per noi fragili creature.
@Marco Vinci.
Direi che Massimo ha provocatoriamente messo accanto precisione e pignoleria, cioè una qualità e il suo quasi grottesco eccesso. Il problema, credo, è quantitativo, come forse avrebbe detto Hegel: ciò che è buono in una data quantità, diventa cattivo o negativo quando si supera un limite, un confine. Anche il pane, anche il sole… Così il problema della quantità ci riporta a quello del limite. E della nostra arroganza.
@ Alessandro Defilippi
Sì, sono perfettamente d’accordo. E tanti complimenti e auguri per il libro
Vorrei leggere tutti commenti ma non posso.
Questo post però mi tocca nell’intimo perchè De Filippi sei sicuro di chiamarti De Filippi, un’ sarai ir mi marito sotto mentite spoglie?
No ecco, mio marito alla citazione compulsiva non ci arriva. PPPPP
–
Insomma io questo soggetto umano, l’ho sposato. E ho un rapporto ambivalente con codesta genìa, perchè facile a dire il troppo stroppia, in medio stat vistus e tutte queste cosarelle, ma l’umano si definisce e noi abbiamo delle marche di fondo – io per esempio sono sintetica e strafalciona come vocazione – c’è poco da fare. C’è un certo modo esistenziale, che credo questo libro descriva bene – che non può conoscere mezzi termini, perchè non obbedisce a una norma etica, ma a una norma psichica. Non è precisione altruistica e negoziazione con ossessione privata e simbolica.
Secondo me, accendere la luce sul se, chiarisce molto. In questo senso è molto utile la domanda di massimo (ciao massimo:) – è sempre bene dire la verità?
Al di la della ingenua assunzione di verità oggettiva – la differenza dell’ossessivo è che trascura sempre il vantaggio dell’altro. Senza fare esempi drammatici, ma per proporre un esempio semplice. Una donna povirillina è dinnanzi a un vestito nuovo – che le sta male.
Dansi due ipotesi:
a. lo sta per comprare
b. l’ha già comprato e ora è a una festa con quello addosso.
Dirle la verità ha la stessa funzione nel beneficio di lei? Dirlo quando sta per comprarlo è cosa buona e giusta per lei. Ma dirlo quando è alla festa è solo un modo per farla stare male, e perchè invece chi lo dica, soddisfi degli squilibri psichici suoi.
Mo’ mi fermo qui- ma torno dopo
@zauberei
‘Un penso d’esse ir tu’ marito.
Non mi pare, perlomeno. La citazione compulsiva è divertente, comunque. Patologicamente divertente, almeno. D’accordo sulla norma psichica, molto ben detto. E giusto quel che dici dell’ossessivo, ma anche qui, mi pare, è questione di quantità. Un po’ d’ossessività attiene all’ostinazione, che è legata alla capacità di vivere. Troppo non va. E non c’è una regola, però.
Scusa per la risposta da psicoanalista.
Davvero non c’è una regola?
Ci sono molte marche di fondo che trovano il loro confine nel beneficio che diventa maleficio, per se o per gli altri alle volte penso che non vi sia differenza. Il ben fare in fondo è unico. C’è un momento dell’ossessione che travalica il suo complemento oggetto – che lo dimentica, che diventa schiava solo di se – mentre prima poteva contare sull'”anche”. A quel punto – come tutte le dimensione nevrotiche perde la doppia valenza e diventa solo lesiva per se prima di tutto.
Comunque – stante le premesse il libro mi incuriosisce – bravo Massimo che l’hai segnalato:) e facico in bocca al lupo all’autore. La risposta psicoanalitica era perfetta, la domanda partiva da una premessa credo di sapore analitico (io sto più indietro, ma ecco ho fatto ora la mia domanda di ammissione alla mia scuola di specializzazione)
Temo di no, che non ci sia una regola e non sono nemmeno convinto che il ben fare sia unico. Mi pare ci siano molti modi di fare il bene e il male e anche di modellare quella gelatina intermedia in cui in genere ci muoviamo. Certo che esiste quel momento di cui parli, che mi pare sia analogo come concetto a quello della quantità di cui faccio uso io.
Benevenuta alla scuola di specializzazione, comunque. E grazie per l’augurio.
È la conoscenza dei princìpi universali che legiferano la realtà relativa, che apre all’essere la possibilità di vincere la sofferenza, senza doverla combattere, attraverso la comprensione delle finalità alle quali la vita è asservita, che superano le contingenze e le limitazioni esistenziali. Quella che tu hai definito con l’espressione “occhio assoluto” è la vista, interiore e spirituale, donata dall’Assoluto a un individuo qualificato a non impazzire in seguito al crollo della mente individuale di fronte alla Verità universale. È possibilità conosciuta da tutti i popoli che vantano al loro interno persone speciali, le quali guardano il Cielo nella speranza di essere le prossime a poter gioire di quella sofferenza liberatoria.
grazie anche da parte mia a Massimo Maugeri per aver segnalato questo libro di Alessandro De Filippi. La lettura delle pagine messe on line dall’autore mi hanno definitivamente convinta che sarà un libro che amerò.
Desideravo ringraziare i nuovi intervenuti per il loro commenti, dando come sempre il benvenuto a chi interviene per la prima volta.
Un caro saluto, dunque, a Mary.
Mary, visto che hai scoperto il blog per caso… adesso rimani, please.
Saluti e ringraziamenti a Marco Vinci, Faustina e Sara.
@ Zauberei
Grazie a te, cara. I tuoi interventi mi fanno sempre sorridere… :-))
E grazie anche a Vajmax e a Loretta.
Un ringraziamento speciale va, ovviamente, a Alessandro Defilippi… soprattutto per i brani gentilmente offerti (tratti dal suo nuovo romanzo).
Tutti e tre belli.
Particolarmente interessante il terzo, che contiene i dialoghi… praticamente mimetizzati all’interno del testo.
È una tecnica rischiosa, questa usata da Alessandro per quanto concerne i dialoghi (mi riferisco alla scelta di non usare simboli distintivi… come le virgolette). Il rischio è di confondere il lettore. Ma Alessandro, come avete visto, è proprio bravo. La scrittura fluisce bene, senza intoppi. E l’effetto, a mio modo di vedere, è… ipnotico.
Il post è aperto per nuovi eventuali interventi.
Magari qualcuno ha ancora voglia di rispondere alle domande poste…
Intanto chiudo qui, augurandovi una serena notte.
anche a me sembra molto interessante sia il dibattito sia il libro di Defilippi. vorrei chiedere all’autore in quanto tempo ha scritto il romanzo.
per rispondere alle domande.
a) La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?
d’accordo con la maggior parte dei partecipanti. ogni cosa portata in eccesso diventa difetto. persino la bontà (diceva mio nonno)
@ aurelio cosimi
Una domanda interessante. Pochi la fanno. Circa tre anni, il tempo per me medio.
b) Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
anche qui d’accordo con la distinzione tra verità e sincerità.
bisognerebbe sempre essere sinceri con se stessi, intanto. ed opportuno pensare che di verità, a volte, ce ne sono più di una.
esempio classico: il bicchiere d’acqua a metà, è mezzo pieno o mezzo vuoto? qual è la verità, in questo caso?
@ alessandro defilippi
grazie per la risposta. considerando che lei svolge altre attività e che da quanto ho capito i romanzi sono corposi mi sembrano tempi molto rapidi. complimenti.
avrò anch’io il piacere di leggerla.
c) Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
il tacere può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi quando il rischio che la verità scomoda possa essere strumentalizzata è alto.
d) Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
accoglierla e trasformarla in qualcosa d’altro.
spero che le mie risposte abbiano avuto un senso. un saluto a tutti e al padrone di casa in particolare
Accanto al concetto di “precisione” ed a quello di “esattezza” ne proporrei un altro. Quello di “accuratezza”.
Chi punta alla precisione è sempre accurato?
E chi è accurato è sempre esatto?
Scusate, era solo per dare un contributo alla discussione. Non certo per produrre filosofismi.
Complimenti a Defilippi per il romanzo.
@ federico.
E’ vero: non sempre che è accurato è esatto. Strano? no. non direi
Però è anche vero che chi è esatto deve per forza di cose essere accurato. O no?
@ Alessandro Defilippi
Il personaggio Giorgio Aguirre è più accurato, o più esatto?
Grazie ad Alessandro Defilippi per la risposta e grazie a Massimo per il benvenuto! E… certo che rimango! Con tutto quello che c’è da leggere! 🙂 Inizierò a preparare una lista delle prossime letture!
Quanto alle domande iniziali, ecco qualche risposta:
1) La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?
Quando diventano aride dimostrazioni di sé. Per me precisione e scrupolo sono qualità (sempre “cum grano salis”!), la pignoleria invece è un difetto.
2) Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?
Sì, per chi è disposto ad ascoltare e a discuterne. No, per chi le dice, non sempre, almeno.
3) Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?
Tacere verità scomode è praticamente omertà, e qui senso del dovere e bisogno di sopravvivere (letterale o metaforico) sono sui due piatti della bilancia, e non c’è equilibrio.
4) Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Isolandosi, costringendosi alla chiusura e all’aridità del cuore.
@sara.
Non lo so. A volte credo che esista un’esattezza del cuore che prescinde dall’accuratezza e che è un dono.
Ma è una risposta molto istintuale e incerta.
Volevo porre una domanda allo scrittore Alessandro Defilippi, ma avete chiesto praticamente tutto 🙂
Pero ci provo lo stesso e chiedo
@ Alessandro Defilippi
In un precedente post ho letto, se ricordo bene, che nel libro ci sono tante citazioni. Quale, fra le tante, a parte quella che ha ispirato il titolo del romanzo, ritiene la più bella? E quella a cui si sente più legato?
Ci ho provato 🙂
@ Veronica A.
Che bella domanda. Grazie. Credo che per me le citazioni siano come Facebook per altri: una definizione dell’identità.
La più bella forse è quella di Ibn Arabi:
“Si è fatto il mio cuore ormai capace di ogni forma”
Difficile dire quella che amo di più. Una di queste è certamente:
“Mille anni al mondo
mille ancora che bell’inganno sei anima mia
e che grande questo tempo
che solitudine
che bella compagnia”.
Di questa non vi dico i due autori. Ma è davvero facile.
Grazia ancora per i nuovi interventi e per gli ulteriori stimoli forniti.
Un caro saluto a Aurelio Cosimi, Federico, Sara, Veronica…
Mary, considerati assunta!
Grazie anche per i tuoi interventi negli altri post.
@ Alessandro Defilippi
Caro Ale,
a questo punto la fatidica domanda…
Qual è – a tuo avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?
Rullo di tamburi, in attesa della risposta…
Ne approfitto per spendere due parole sul precedente romanzo di Alessandro Defilippi.
Si intitola: “Le perdute tracce degli dei”:
http://www.ibs.it/code/9788836811151/defilippi-alessandro/perdute-tracce-degli.html
Ecco la trama:
Ambientato in Abissinia nei primi anni della conquista italiana, “Le perdute tracce degli dei” mette in scena non solo il clima della dominazione fascista – la volgarità degli occupanti, la composita, variegata società dei dominatori italiani che popola Addis Abeba, le resistenze della popolazione locale, spesso legate ad antiche tradizioni e a secolari credenze – ma anche il misterioso retroterra culturale e religioso di un paese poco conosciuto che i rozzi dominatori, che giudicano quel retroterra semplicisticamente “barbarie”, non riescono ad afferrare.
Caro Alessandro, ti andrebbe di dirci qualcosa in più su questo libro?
Magari – se vuoi – potresti farci assaggiare qualche brano anche di questo.
Ma la discussione su “Manca sempre una piccola cosa”, se volete, continua…
Non so se potrò tornare a collegarmi…
Nel dubbio, vi auguro una serena notte.
Caro Massimo,
mi farebbe molto piacere parlare de “Le perdute tracce degli dei”. Ho potuto ricollegarmi solo ora poiché stasera lavoravo, ma se possibile, domani darò la mia risposta alla domanda e cercherò di parlare del libro. Serena notte a tutti.
Leggere i commenti di Arona mi mette sempre di buon umore! Grazie per aver segnalato il libro massimo, spero che non faccia paura, anzi se fosse così avvisami perché (come Danilo sa bene) sono molto sensibile alla paura 🙂
La mia ricerca è ancora alle origini: faccio ancora fatica a capire le cose come stanno davvero… quelle semplici intendo… ma non demordo.
un abbraccio
Liz
@Liz
Penso di poter rispondere io. No. Non fa paura.
Gentile Alessandro Defilippi, ho seguito il dibattito sin dall’inizio e ho letto tutti i commenti.
Complimenti a lei ed a tutti.
Volevo chiederle una cosa sul suo personaggio Giorgio.
Che tipo di rapporto ha Giorgio con l’altro sesso? Come si relaziona alle donne?
Grazie.
@ Maria Lunetta.
Domanda questa davvero troppo difficile. Tutto il libro è anceh il tentativo di capirlo.
Grazie a te, cara Liz Buccia 🙂
Un ringraziamento anche a Maria Lunetta. Il rapporto di Giorgio con le donne è senz’altro centrale nel romanzo… se sei curiosa, motivo in più per leggerlo. 😉
@ Alessandro Defilippi
Caro Ale,
rimaniamo in attesa della risposta alla fatidica domanda. :-))
E non dimenticarti de “Le perdute tracce degli dei”…
Credo che, come dice il Rospo, “l’unico modo che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza sia crearsene un’altra maggiore e inconsapevole”.
E se lo dice il Rospo… 🙂
Gli effetti della propaganda fascista sembrerebbero perenni, dal momento che persino mio padre, comunista con alle spalle due anni di campo di concentramento nazista, vissuto nel nord della Germania a sedici anni di età, crede che il colonialismo italiano sia stato diverso da quello di altre nazioni. Un colonialismo “buono”, ripagato con l’ingratitudine da rozzi selvaggi che non hanno saputo apprezzare lo spirito di sacrificio col quale orde di deficienti criminali, piombate sulla popolazione sbigottita mortalmente dai gas tossici, hanno sì saccheggiato monumenti sacri agli indigeni, ma lasciando in cambio strade, tuttora senza una buca, e scuole che hanno avuto il compito di raggelare il sole.
Le ombre.
Presenze che ci perseguitano in tutto il romanzo, intese come aspetti oscuri di tutta l’esistenza. Malattie, difetti, carenze.
“Il tempo arriva alle spalle” e talvolta la realtà è fatta di ombre.
Mi viene in mente il mito della caverna di Platone: gli uomini sono rinchiusi in una caverna e prendono per realtà le sole ombre che possono vedere. Se potessero camminare verso la luce, proverebbero dolore e resterebbero abbagliati (proprio come Giorgio) e stenterebbero a credere questa nuova verità. Solo un po’ alla volta, soffrendo, imparerebbero a distinguere la penombra e poi la luce, fino a vedere il sole.
È necessario fare i conti con le proprie ombre e con quelle degli altri.
Le fratture.
Non è necessario avere una buona vista per vederci bene e scrutare a fondo nelle cose. Non sempre vedere bene si percepisce come un vantaggio, alle volte sarebbe meglio non scorgere determinate fratture che ci caratterizzano o che caratterizzano le persone che ci stanno vicine; scorgere una frattura in una persona cara è ancora più difficile, quasi una maledizione. (“Le persone erano piene di difetti e lui non voleva più vederli”).
Il senso della frattura è quindi il tema dominante; fratture intese come difetti che vivono negli oggetti, ma anche nelle persone (su due piani differenti: fisico e mentale). Qui parte anche il tema della caducità della vita; anche il più piccolo ed impercettibile difetto può compromettere un gigante (una petroliera, un concorde o la stessa personalità di un essere umano).
Il serpente.
Si affronta anche una parziale ineluttabilità del destino, come se ognuno di noi avesse una strada da percorrere; una strada che innanzitutto va scoperta, accettata e infine intrapresa. Un primo problema è proprio quello di scoprire il proprio talento, il proprio serpente, quindi la propria energia (“uomini e cose sono fatti allo stesso modo: canali dove scorre l’energia”). È quindi necessario vedere questo talento, dargli voce e fare in modo che ci accompagni. È inutile reprimere certi aspetti di noi stessi, anche quelli che ci fanno più paura, proprio per evitare di “aver paura d’aver paura”. Anche perché gli aspetti di noi stessi che ci fanno più paura sono presumibilmente quelli che si riveleranno punti di forza. Bisogna saperli riconoscere e portarli avanti con consapevolezza, forse anche con un po’ di leggerezza “senza complicare le cose semplici”.
Quando Giorgio accetterà la sua più grande paura, di questa si libererà (le Grandi Officine non crolleranno, diversamente dalla sua premonizione, il Rospo morirà senza che Giorgio si sia accorto dell’ombra che, inesorabile, stava crescendo).
Non è, quindi, Dio.
I frangiflutti.
Fondamentale, nella vita di una persona, è avere dei frangiflutti, qui interpretati dalla mamma e dal papà; probabilmente Giorgio non è stato mai capace di vedere bene né suo padre, né sua madre, considerandoli, forse, medi e scontati; sono due figure trattate, ingiustamente, senza la dovuta riconoscenza da parte di Giorgio.
Proprio quando uno dei suoi frangiflutti viene meno (la morte del padre) ecco che Giorgio si fa prendere dal “lato oscuro della forza”; è il momento il cui Giorgio è più debole e la debolezza lo porta ad accettare l’aiuto diabolico dello spadaccino, come un Faust che vende la propria anima.
Le figure genitoriali verranno riscattate alla fine; la mamma, amore incondizionato, con la sua “vista” profetica, interpreterà il ruolo di Cassandra: “ogni cosa ha il suo prezzo”, “c’è sempre un prezzo per tutto, anche se non lo si vuol pagare” e il padre scopriremo essere non un “imbecille, che non ha mai capito un cazzo”, ma un Uomo forte, integro e incorruttibile.
Il Mestiere.
Tema che con veemenza viene ripercorso. Per il Rospo rappresenta tutta una vita, fatta di dedizione e di abnegazione, anche se il Mestiere lui lo impara sul campo, non è provvisto di una particolare luccicanza a riguardo. Giorgio invece è nato per quello, ce l’ha dentro, il Mestiere gli è stato donato da Dio.
La guida.
Diverso è il rapporto che si instaura col Rospo, dapprima visto come un uomo totalmente votato al Mestiere, dal quale poter “imparare rubando con gli occhi”, poi come una guida capace di porlo davanti alla realtà nella giusta prospettiva arricchendo l’operato con la sua razionalità, la sua saggezza, il suo bizzarro equilibrio, annaffiando la vita di Giorgio di “grappa ai mirtilli”. Sarà Virgilio nell’inferno, interpreterà la sua coscienza, lo andrà a riafferrare, lo incalzerà nei suoi doveri, lo aiuterà ad accettare di vedere ciò che Giorgio non vorrebbe vedere: “ti devi tenere i tuoi occhi e quel che ci vedi”; inoltre, sarà lui a dirgli che “le persone ci sono finché ci sono” e che “bisogna star con loro, non scappare”. Tutti dovremmo avere un Rospo: una luce che illumina le nostre ombre, qualcosa che divora gli insetti pericolosi, il boccone amaro che per forza dobbiamo mandare giù se vogliamo continuare a nutrirci.
Il Rospo fa finta di dormire quando Giorgio prende coscienza del suo “problema” esponendolo e tirandolo fuori. Probabilmente perché ormai non è più necessario un responso: la stessa presa di coscienza rappresenta l’inizio di una risoluzione.
Mai si palesa il suo vero nome, non sappiamo molto di lui, sappiamo che morirà (per tutto il romanzo l’ombra della morte del Rospo angoscia il lettore) ma per quanto ci riguarda potrebbe essere da sempre esistito.
La fede e l’ombra di Dio.
Il tema di Dio e dell’amore sono affrontati marginalmente per tutto il romanzo, ma arrivano timidamente e quasi dal cielo con la figura di Arianna, la Beatrice del romanzo. Arianna è colei che guida Perseo (“libero e randagio”) nel labirinto, dove il labirinto rappresenta Giorgio stesso e il Minotauro il talento di Giorgio, quel talento che deve affrontare.
L’incontro con Arianna (avvenuto, peraltro, grazie al diabolico, torbido, ambiguo spadaccino!) diventa il punto di svolta della maturazione Giorgio la cui vita è “rinnovata dall’amore”; è lo stimolo e l’ispirazione per una propria introspezione, forse anche spirituale. Arianna è anche intesa come la metafora del pensiero umano, è la padrona del filo del ragionamento, incarna la razionalità, senza la quale il coraggio di Giorgio non può avere successo.
E da qui tutto comincia, “da dove sta bene”.
Il Diavolo.
E’ lo spadaccino, uomo vestito di nero, distinto e potente, dall’ “occhio sinistro dalla palpebra molle, semichiusa”.