Nuova puntata di Letteratitudine Cinema con nuovo intervento di Alessandra Montesanto: critica cinematografica, docente e saggista.
In questa puntata ci occupiamo di “Mank”: film del 2020 diretto da David Fincher.
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Mank: genio e consapevolezza
Molti, moltissimi conoscono il film Quarto potere, uscito nel 1941 e vincitore dell’Oscar, diretto, prodotto e interpretato da Orson Wells. L’enorme successo della pellicola è da attribuire anche alla sceneggiatura, scritta a quattro mani dallo stesso Wells e da Herman J. Mankiewicz, detto “Mank”. E proprio il diminutivo è il titolo del film che David Fincher ha dedicato alla figura controversa dello scrittore, interpretato da un ottimo Gary Oldman.
Ogni situazione proposta al pubblico è una rielaborazione di Mankiewitz del periodo in cui scrisse Quarto potere, ma anche della sue accuse contro Hearst, il magnate che ispirò la figura del Cittadino Kane (Citizen Kane è il titolo originale dell’opera di cui stiamo parlando).
Fincher per il suo Mank decide di lavorare su due linee temporali: la prima, ambientata negli anni ’40, vede il protagonista costretto in un appartamento in seguito ad un incidente in auto, alle prese con la stesura della sceneggiatura e affiancato da due pazienti figure femminili che fanno da contrappeso a quelle maschili: un’infermiera tedesca e una segretaria dattilografa. La seconda linea temporale è quella che risale al 1934, anno che vede l’America della Grande Depressione e la California delle elezioni che oppongono Frank Marriam a Upton Sinclair. La Metro Goldwyn Mayer, collusa con il partito repubblicano grazie all’influenza di Hearst, sabota la campagna elettorale del concorrente democratico con la realizzazione di cortometraggi di propaganda e questo uso del Cinema segna la rivoluzione del mezzo tecnico come strumento per manipolare la massa non istruita. Mank decide di non realizzare quei corti, ma lo farà un suo collega che in seguito – a causa del senso di colpa per aver tradito la missione artistica del Cinema e della sua professione – si toglierà la vita.
Un gioco a tre, quello che si dipana sullo schermo, tra i personaggi di Orson Wells – vanesio, irascibile, dittatoriale – Hearst – arrogante e prepotente – e Mank – talentuoso, volgare, vizioso e molto solo. Ma anche i personaggi comprimari formano un affresco ricco di sfaccettature perchè ognuno di loro ha una sua verità da raccontare e, proprio sulla dicotomia tra verità e finzione, si basa l’analisi concettuale del film di Fincher (come tra l’altro si evince dalle sue opere precedenti: Seven, Fight club, The social network, Millennium, per citarne alcune). Tramite il moltiplicarsi dei punti di vista, il regista statunitense vuole dimostrare che la verità non sia mai univoca; la ricostruzione della nascita di Quarto potere, infatti, è per lo più filtrata dai ricordi e dalle opinioni di Mank: siamo, quindi, di fronte ad una verità del tutto soggettiva che, a tratti, attinge dalla realtà e a tratti no.
Vediamo il Mankiewicz nella realtà: pare che avesse idee politiche conservatrici, che si fosse rifiutato di far parte del sindacato degli sceneggiatori e che, durante la Seconda Guerra mondiale, fosse un’isolazionista. Nel film, invece, si fa promotore di un salvataggio di un gruppo di ebrei, si rifiuta di scrivere i cinegiornali per i Repubblicani e si confronta duramente con il magnate.
Quarto potere è un duro je accuse contro il Potere anche economico, contro la corruzione politica e contro l’industria cinematografica asservita a entrambi e che, nel suo caso, ha sfruttato i cineasti. Siamo, allora, nella dimensione della post-verità: quella di Fincher che narra quella di Mank, in un gioco intellettuale stimolante che comprende anche il nostro vivere Presente nella critica alle condotte politiche – dall’alto – con le loro conseguenze sui cittadini, che reagiscono, dal basso.
Mank è molto interessante anche per le scelte stilistiche: vi sono, infatti, numerosi omaggi al linguaggio filmico di Wells quali, ad esempio: l’uso della profondità di campo per riprendere le tavolate e gli ambienti, il montaggio creativo (vedere la sequenza del ballottaggio elettorale durante la serata di gala); oppure l’idea di scambiare le bottiglie di alcool (il nostro sceneggiatore era un’alcolista e un giocatore d’azzardo) con quelle di sonnifero; le diagonali per trasmettere al pubblico la tensione e, infine, il forte contrasto del bianco e nero che rende drammatica l’atmosfera.
Ma torniamo alla scrittura: il finale vede un confronto tra Mank che parla di Don Chisciotte e Hearst che racconta la storiella di una scimmietta ammaestrata. Il primo, fa dell’eroe spagnolo un giornalista bugiardo che finge falsi ideali per essere amato dalla massa ed essere votato; il secondo, identifica Mank con una scimmia ammaestrata, convinta di poter comandare sul suo padrone, quando invece è lei stessa ad essere manovrata.
Mank è un uomo controverso, contraddittorio come tutti, tragico e incompreso: capirà, con la stesura in soli novanta giorni della sceneggiatura del capolavoro di Orson Welles, quanto sia importante l’Arte (la Settima, in questo caso) per denunciare l’odio e le menzogne che hanno indotto al suicidio un onesto lavoratore e alla sconfitta un avversario politico: per cosa? Per il Potere, simboleggiato dalla fastosa villa di Hearst che, nel film di Fincher, diventerà la “Xanadu”.
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Il trailer ufficiale di “Mank”
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Credo che sia molto importante, oggi, lavorare con le ragazze e i ragazzi e, per questo, propongo, per le scuole, laboratori anche in Dad di Cinematografia, sul linguaggio filmico e sui temi che, di volta in volta, si vorranno affrontare.
Alessandra Montesanto: (lale.monte@gmail.com – peridirittiumani.com)
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