Ricordiamo il grande scrittore francesce Marcel Proust (Parigi, 10 luglio 1871 – Parigi, 18 novembre 1922) in occasione del centenario della morte. Ringraziamo Paolo Di Paolo per il contributo che pubblichiamo di seguito
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Non fa un rumore più forte la morte di un gigantesco scrittore, è sempre e comunque un soffio, un sibilo – ma può arrivarti alle orecchie anche dopo cent’anni. Così per Marcel Proust, morto oggi un secolo fa, che sì, è assediato dai cliché: impervio, noioso, snob. Però guardate quanti libri su di lui per questo centenario, guardate come parla ancora anche a chi non l’ha mai letto (non è obbligatorio), a chi non vuole leggerlo, a chi l’ha letto solo un po’, a chi l’ha dimenticato.
L’ho scoperto a diciassette anni e credo – senza esagerare – che non sarei lo stesso se non l’avessi incontrato. Ero esaltato, ho riempito di segni i poveri volumi dei Meridiani con la traduzione di Giovanni Raboni. Poi sarei stato a Iliers, che oggi si chiama anche Combray (un luogo che cambia nome grazie a uno scrittore!), a Cabourg/Balbec, ma oggi voglio manifestare per lui una gratitudine profonda, come per un parente o un amico o un maestro; e provare a ribadire che poche esperienze letterarie possono essere così intense (anche se fatte solo per segmenti).
Dunque, come scrivevo qualche tempo fa sulla “Stampa”:
pur essendo ben consapevole dei quintali di bibliografia proustiana, e cioè del fatto che sulla “Recherche” sia stato in effetti detto tutto, direi che l’unico modo per leggerla o rileggerla è spazzare via, con un gesto anche piuttosto brusco, madeleine, auto-fiction, presunta prolissità, self-help. E farci una semplice, stupida, ingenua domanda; farla alla scrittrice Valérie Perrin, che liquida Proust in modo molto molto stupido, a nostro fratello, allo zio rivisto a Natale, ai fan attempati della Ferragni, e agli studiosi di letteratura e agli influencer, perfino agli scrittori contemporanei. Non importa che abbiano letto Proust, che lo amino o lo detestino. Importa che siano vivi, e in qualche modo vitali. Bene, la domanda è la seguente: che cos’è la cosa che vi fa più paura in assoluto, escludendo la morte?
È probabile che, formulata in modi diversi e più o meno precisi, la risposta sia, nella sostanza: il tempo che passa.
Non c’è altro da aggiungere. Il solo, irreversibile, inoppugnabile e disperante tempo che passa. Quello che comporta rughe sul viso, perdite di posizione e di gente amata, distanza vertiginosa e in qualche modo stupefacente dalla propria stessa giovinezza. Mi piacerebbe incontrare un solo essere umano che abbia superato i venticinque anni e non sia sconcertato e segretamente angosciato da tutto questo. Ecco. La notizia è che Proust ci aspetta tutti qui.
Al varco di quella intermittente presa di coscienza, della conseguente nostalgia, e del desiderio di riavere indietro qualcosa. Un uomo nato nel 1871 e morto nel 1922 impiega un decennio della sua esistenza in un’impresa letteraria che funzioni come una macchina del tempo, consentendogli di attraversare gli anni nel verso contrario al loro fluire. Noioso, freddo? Al contrario, mette in gioco – per tornare indietro nel tempo – ogni fibra del suo corpo, ogni strato della capacità sensoriale (i profondi giacimenti del suo «sottosuolo mentale»), e un inarrivabile dominio della sintassi. È il re delle subordinate, delle metafore che inglobano altre metafore; costruisce frasi che, lette a voce alta, fanno letteralmente mancare il fiato (e non in senso figurato). Ma soprattutto sa che, per riavere qualcosa indietro, bisogna votarsi all’esattezza, alla minuzia, alla precisione estenuata: nessuna pioggia è uguale a un’altra, bisogna dire di quella pioggia arrivata davanti al negozio dell’ottico, con gocce d’acqua «simili a uccelli migratori che spiccano il volo tutti insieme». E, per dire, il copriletto a fiori della stanza in cui abbiamo passato le vacanze estive non può essere, non è un qualunque copriletto: ha un odore preciso, e questo odore – scrive Proust – è un odore «intermedio, appiccicoso, insipido e fruttato». E andiamo avanti, andiamo avanti per ore, per giorni: il fogliame di un castagno, un libro in cui ci s’imbatte con stupore nel nome di una persona conosciuta, l’odore buono dell’aria nelle sere d’estate, lo spettacolo stesso dell’estate, «lo spettacolo totale», e tua nonna che non aveva ironia se non per sé stessa e ti bacia con gli occhi, gli asparagi freschi e il sentore che resta nell’urina, campanili come gigantesche brioche. I viola e gli azzurri nelle nuvole, «talmente belli». Le sere burrascose e miti di febbraio. I viaggi che non abbiamo fatto. E le case, le strade, i viali, «fuggitivi come gli anni». Ho finito lo spazio, ma non il tempo, il tempo per riavere il tempo leggendo Proust. Volevo dirvi anche di una certa luce implacabile da far desiderare di sottrarsi alla sua attenzione, di certe note prolungate emesse al mattino da volatili invisibili, del sentiero dei biancospini, di quella volta che sono stato a Iliers e di una frase che dice che la nostra immaginazione «è come un organetto di Barberia scassato». Ma sarà per un’altra volta; e poi sono di nuovo troppo commosso, come sempre se parlo di Proust, e niente, mi dispiace per Ken Follett e Valérie Perrin, mi dispiace tanto.
© Marcel Proust
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Marcel Proust è stato uno scrittore, saggista e critico letterario francese, la cui opera più nota è il monumentale romanzo Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps perdu) pubblicato in sette volumi tra il 1913 e il 1927.
La sua vita si snoda nel periodo compreso tra la Comune di Parigi e gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale; la trasformazione della società francese in quel periodo, con la crisi dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia durante la Terza Repubblica francese, trova, nell’opera maggiore di Proust, un’approfondita rappresentazione del mondo dell’epoca in questione.
L’importanza di questo autore, considerato uno dei maggiori scrittori della letteratura mondiale, è legata alla potenza espressiva della sua originale scrittura, ed alle minuziose descrizioni dei processi interiori, legati al ricordo e al sentimento umano; la Recherche infatti è un viaggio nel tempo e nella memoria che si snoda tra vizi e virtù.
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