È stato MARCO BALZANO, con il romanzo “L’ultimo arrivato” (Sellerio), a vincere la 53^ edizione del Premio Campiello, ottenendo le maggiori preferenze dalla Giuria dei Trecento Lettori anonimi e superando gli altri quattro concorrenti: Paolo Colagrande con “Senti le rane” (Nottetempo), Vittorio Giacopini con “La Mappa” (Il Saggiatore), Carmen Pellegrino con “Cade la terra” (Giunti) e Antonio Scurati con “Il tempo migliore della nostra vita” (Bompiani).
Di seguito proponiamo:
– un video tratto dalla serata della premiazione, svoltasi il 12 settembre 2015 al Teatro “La Fenice” di Venezia e condotta da Geppi Cucciari e Neri Marcorè
– il contributo che Marco Balzano ha scritto appositamente per Letteratitudine, dove “racconta” il suo romanzo (vincitore, appunto, del Premio Campiello 2015).
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MARCO BALZANO racconta il suo romanzo L’ULTIMO ARRIVATO (Sellerio) – vincitore del PREMIO CAMPIELLO 2015. Le prime pagine del libro sono disponibili qui
La storia di un bambino e di un viaggio, le avventure e le disavventure di un piccolo emigrante con la testa piena di parole. «Balzano mostra come la letteratura sappia, e possa, parlare del mondo che ci circonda» (Marco Belpoliti, l’Espresso).
C’è un paese che confina con quello dove abito io e questo paese si chiama Baranzate. È una piccola città alle porte di Milano. Una volta, dopo i tagli della riforma Gelmini, ci sono pure finito a fare qualche giorno di supplenza. In classe c’erano due italiani e una ventina di stranieri. Un odore denso aleggiava tra i banchi, come se fossimo a un mercato indiano. Non che io sia stato mai da quelle parti, ma il mio olfatto lo immagina così, con l’aroma troppo umano di quella prima media di Baranzate. E poi ci sono passato per nove mesi, per i controlli di routine che Anna doveva fare in gravidanza. Nei reparti dell’ospedale Sacco i cartelli hanno sempre la scritta in arabo, cinese e spagnolo. Altro che l’internazionalità dell’inglese. Poi, poco più avanti, c’è il campo nomadi, da cui venivano tre o quattro dei ragazzetti che avevo in classe.
Da alcuni studi risulta che Baranzate sia il terzo comune d’Europa per immigrazione. Un’immigrazione che, per altro, si addensa in una sola parte della città, e principalmente nella famosa via Gorizia. In quella via ci ha vissuto anche mia madre, emigrata a 14 anni con zio Nicola, suo fratello maggiore. Due terroni, che in quella via avranno ritrovato compaesani o almeno corregionali. Gente che si piazzava lì, giusto il tempo di avviarsi una vita dall’altra parte dello stivale. Poi, una volta che la vita si era avviata, se ne andava e non ci tornava più. Anche chi ci abita oggi fa così. Anche loro riconoscono chiaramente un posto arrangiato e non hanno intenzione di farselo andare bene per troppo tempo. Via Gorizia è da sempre la via degli ultimi arrivati. Con i palazzoni affacciati sulla strada e le fabbriche intorno che da qualche anno, se non hanno già chiuso, faticano molto più di ieri o hanno lasciato il posto ad altro. Adesso lì dentro non ci trovi più i terroni ma cinesi, arabi, peruviani, nordafricani. Ecco, se dovessi dire da dove nasce l’idea primordiale del romanzo, risponderei che comincia dalla contemplazione di via Gorizia. Dalla metaforicità di questo luogo, che trova molti analoghi alle porte delle città del triangolo industriale.
Poi qualcuno, non mi ricordo chi, mi ha raccontato che negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta ci arrivavano anche bambini, che scappavano dalla fame e da un futuro che non poteva riservare nessuna sorpresa o speranza di miglioramento. Dunque mia madre lì dentro non si sarà potuta sentire nemmeno la più piccola. La notizia mi ha colpito e in fretta mi sono messo a studiare l’argomento. Ho letto saggi sociologici, anche molto datati ma che mi restituivano la percezione di allora: alcuni aneddotici, altri statistici, altri ancora di interviste. La conclusione era chiara, dell’emigrazione infantile non se n’è parlato molto. E se n’è raccontato ancora meno. Poi ho intervistato questi bambini emigranti, oggi più o meno settantenni. Un signore mi rimandava a un altro. Un ex compagno di fabbrica, di partito, un vicino di casa, un parente… Mentre facevo le interviste la storia non mi era ancora chiara, ma avevo capito che volevo scrivere sia del bambino che dell’adulto, uno solo non mi bastava. Sarebbe stato celebrativo il bambino, riduttivo l’anziano. E così nella storia si sente prima la voce del “picciriddu”, un Ninetto pelleossa di dieci anni che fa fagotto e se ne va da San Cono col cuore stretto, e un Ninetto pelleossa sessantenne che scorrazza per Milano in bicicletta cercando di rifarsi una vita. Lasciare la palla al bambino è stato divertente: la sua voce ha spazzato via tutte le paure di scivolare nella retorica. I bambini trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto, dice Leopardi. Ed è verissimo. Potevo farlo parlare come volevo, farlo saltellare di qua e di là come un passero. I suoi occhi potevano descrivere in presa diretta l’esplorazione, la sua mente doveva essere impegnata a vivere e non a pensare di vivere. Così lo spettro di finire nel sociologico e nel resoconto si è allontanato. Altrimenti avrei buttato tutto. Sì perché io volevo raccontare una storia, una vita: certo, realistica, ma il realismo deve complicare il reale, non riferirlo. E infatti Ninetto è prima di tutto un uomo, con la sua unicità: ha un gusto tutto suo per la parola, ha sogni ricorrenti strampalati, una concezione di Dio che glielo fa immaginare come una mano grande e invisibile che lo sostiene e non lo fa cadere. Anche se poi cadrà. Lo vediamo sul treno del sole – così si chiamava il convoglio che portava al Nord gli emigranti in quegli anni – che cerca di fare amicizia, poi a Milano dove lavora come galoppino di una lavanderia e matura giorno dopo giorno una progressiva insofferenza per il paesano Giuvà, il contadino con cui emigra perché la sua famiglia non può partire insieme a lui. Gliene combina di tutti i colori, a Giuvà (sì, certo, il nome è un omaggio a Fontamara di Silone, il romanzo dei poveri cristi): gli mozzica il pollicione del piede mentre dorme, gli ride dietro, lo sfotte davanti a tutti e poi lo abbandona scappando su un tram. Finalmente libero. E finalmente solo. Dopo arriva la vita in locanda con una squadra di muratori abruzzesi e poi la vita in una baracca di legno con altri muratori, calabresi questa volta. Qui conoscerà Maddalena, che sposerà con la fuitina. Insomma è tutta un’avventura: fino a quando compie quindici anni. Allora, come praticamente tutti gli emigranti con quella storia, entra in fabbrica. A scandire il tempo, da quel giorno, ci pensa la catena di montaggio, che espelle la varietà del mondo in nome della stabilità economica e della fine della fame. Nemmeno sposarsi con Maddalena – allegra, gioviale, capace di metterlo in riga – scaccia una malinconia che si infiltra sempre più dentro. La vivacità della vita in strada è un ricordo che rotola indietro e anche se Maddalena è un’ottima cuoca e vorrebbe aprire una trattoria sul mare la routine della fabbrica soffoca tutto, anche i sogni. Restano le paure più profonde e un’esistenza che sembra scorrere a prescindere.
Tutto questo ricorda Ninetto quando se ne sta con le mani dietro la nuca, sdraiato sulla branda del carcere di Opera. Non sa dire invece perché ha usato il coltello che l’ha portato in cella per dieci anni. Ora non è più il 1960, siamo nel 2007, e tra poco sarà libero. Potrà ritornare da Maddalena, che l’ha odiato ma l’ha aspettato. A casa lui e lei vorrebbero dirsi tante cose ma dopo dieci anni non è facile: così lui fuma alla finestra e lei cucina o guarda la televisione. La complicità tra marito e moglie fa capolino solo qualche giorno, quando ci si sfiora per sbaglio una mano o un lembo di vestito. Niente è più uguale, nemmeno Milano, che pure Ninetto gira in bicicletta col naso in aria, fermandosi a fumare sulle panchine del parco Sempione. La crisi si vede: sono spuntati i grattacieli dell’Expo, il bar sotto casa se lo sono comprati i cinesi, gente che non sa nemmeno preparare un caffè decente. Lui ai nuovi immigrati non riconosce quasi niente, non la fatica, non i traumi che sono stati suoi. Ci gira alla larga. Eppure a furia di pedalare finisce col parlarci, addirittura due marocchini gli offrono il lavoro di consegna-pizze mentre tutti gli altri gli chiedono di compilare su internet il curriculum europeo. E rieccolo ancora galoppino, ancora in giro per Milano. Come se il tempo fosse un eterno ritorno.
In tutto questo vuoto si fa strada un desiderio che già in carcere, nello squallore della cella, Ninetto avvertiva: raccontare la sua storia a chi può custodirla. Questo scrigno innocente è la nipotina mai vista. Si chiama Lisa, figlia della sua unica figlia, che ha deciso di non fargliela conoscere per dimostrargli il disprezzo per ciò che ha fatto. Ninetto da quando è nata la immagina: fantastica di portarla in giro, prenderle la mano, proteggerla dal mondo, che è sempre prudente affrontare con un coltello in tasca. La sua storia è l’unica cosa che gli è rimasta, tutto il resto si è perso per strada. Ad essere capace di scrivere l’avrebbe lasciata sul diario che gli aveva regalato il suo idolo, il maestro Vincenzo della scuola di via dei Ginepri, a San Cono, che gli faceva imparare i versi di Pascoli a memoria e gli aveva messo voglia di diventare poeta o maestro elementare anche lui. Però quella pagina è rimasta sempre bianca, la mano si irrigidiva ogni volta che impugnava la penna. Invece, quando vedrà la bambina che gioca con nonna Maddalena, e quando la strapperà da lei per qualche ora portandola in via Gorizia, in una sorta di viaggio agli inferi in cui lui veste i panni di un poco saggio Virgilio, Ninetto sentirà di non meritare perdono, ma di aver riscattato almeno parzialmente la paura di vivere senza lasciare traccia.
(Riproduzione riservata)
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Marco Balzano è nato a Milano nel 1978, dove vive e lavora come insegnante di liceo. Ha esordito nel 2007 con la raccolta di poesie Particolari in controsenso (Lieto Colle, Premio Gozzano). Nel 2008 è uscito il saggio I confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo (Marsilio, Premio Centro Nazionale di Studi Leopardiani). Il suo primo romanzo è Il figlio del figlio (Avagliano 2010, finalista Premio Dessì 2010, menzione speciale della giuria Premio Brancati-Zafferana 2011, Premio Corrado Alvaro Opera prima 2012), tradotto in Germania presso l’editore Kunstmann. Con Sellerio ha pubblicato Pronti a tutte le partenze (2013) e L’ultimo arrivato (2014, Premio Campiello 2015).
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