Gordiano Lupi
Mario Bava (1914 – 1980) può considerarsi a ragione il padre dell’horror italiano. Non vi fate ingannare se trovate i nomi di John Foam, Marie Foam o John M.Old. Si tratta sempre di Mario Bava sotto pseudonimo anglofono, come usava per registi e scrittori horror negli anni sessanta. Il figlio Lamberto, per una sorta di omaggio al padre, ha spesso utilizzato il nome di John M.Old jr..
Bava ha inventato gran parte dei trucchi cinematografici e delle trasformazioni visive tutt’ora in uso e prima ancora di diventare un artigiano della regia è stato un formidabile maestro della fotografia. La definizione di artigiano fu coniata dallo stesso Bava durante un’ intervista rilasciata a Luigi Cozzi nel 1971 per la rivista Horror. Infatti il cinema italiano di quel periodo disponeva di budget limitati e Bava era un grande economizzatore, un artigiano capace di fare film validi con poca spesa.
Mario Bava
Gli esordi nel cinema lo vedono in sodalizio con l’amico Riccardo Freda prima ne I Vampiri (1957) e poi in Caltiki, il mostro immortale (1959). Soprattutto in Caltiki (dove per esigenze di produzione diventò John Foam) Bava girò gran parte delle sequenze mostruose ponendo un marchio indelebile sull’opera finita. Lo stesso Freda ha sempre attribuito il film a Bava, dicendo che fa parte del suo modo di fare cinema. Di sicuro l’ameba gorgogliante che sommerge e divora esseri viventi fu ideata da Bava che la costruì utilizzando budella di animali.
Il suo primo lavoro da regista è La maschera del demonio (1960), ancora oggi uno dei più celebrati. Si tratta di un film sulle streghe girato in bianco e nero ma dotato di una stupenda fotografia ed è noto che la buona riuscita di una pellicola horror dipende molto dalla fotografia. La protagonista è Barbara Steele che interpreta il doppio ruolo di vergine e strega. La storia è tratta molto liberamente da Il Vij di Gogol e sceneggiata da Ennio De Concini. Il film ebbe un successo incredibile in America e in Francia, fu apprezzato meno in Italia, dove l’horror stentava ad affrancarsi dall’etichetta di cinema di serie B. In Inghilterra passò dei guai con la censura per alcune scene di violenza ed erotismo. Bava rende esplicita sin dalla prima opera la scelta di seguire i canoni del fantastico letterario e anche nei lavori successivi cercherà l’aiuto di sceneggiatori del calibro di Alberto Bevilacqua per trasporre capolavori di Gogol, Maupassant e Merimée. Bava ambienta quasi tutti i suoi primi film in periodi storici che vanno dal 1500 al 1800, rispettando una moda lanciata dalla casa inglese Hammer e dalle case produttrici d’oltre oceano. L’horror anni sessanta seguiva criteri particolari di ambientazione e dovremo attendere Dario Argento per vedere sullo schermo orrori contemporanei. La maschera del demonio fa venire a mente soprattutto la strega che non muore tra le fiamme ma torna in vita e seduce dalla sua tomba nascosta nella foresta. E’ un film impregnato di sadismo e necrofilia, erotismo e sensualità. Per dirla con Teo Mora è il trionfo del fantastico dell’erotismo. In ogni caso la pellicola saluta la nascita di un maestro del genere. Bava sperimenterà anche altri settori come il western, il mitologico-fiabesco, il fantascientifico e persino il sexy prima maniera, però dimostrerà di trovarsi a suo agio soprattutto con le creazioni fantastiche. Inutile dire che i critici italiani stroncarono il film e che hanno riscoperto l’intera produzione di Bava (come è stato per Totò) soltanto dopo morto.
La ragazza che sapeva troppo è del 1962 ed è un thriller alla Hitchcock, non solo perché nel titolo ricorda L’uomo che sapeva troppo del maestro inglese, ma soprattutto per la tensione e le divagazioni umoristiche inserite ad arte per stemperare i momenti topici della narrazione. Dario Argento lo prenderà a modello per L’uccello dalle piume di cristallo.
La frusta e il corpo (1963) viene ricordato per la irruzione di un malsano erotismo e di un rapporto sadico appena accennato, però quel tanto che bastava per sconvolgere i censori del tempo. È un film notevole, in ogni caso, anche per il finale aperto che lascia lo spettatore esterrefatto.
Un capolavoro di Bava che ha lasciato il segno è I tre volti della paura (1963), un film a episodi che porta sullo schermo tre diversi modi di affrontare la paura. Bava avverte che i racconti sono di Cechov, Aleksej Tolstoj e Maupassant ma non tutti concordano sulla veridicità delle fonti. Per Renato Venturelli, ad esempio, si tratterebbe soltanto di un’esibizione letteraria, in realtà il film sarebbe costruito su una storia di Snyder e una di Maupassant molto adattate. In ogni caso ai nostri fini poco interessa.
Boris Karloff introduce la pellicola e ci accompagna sino alla fine con la sua presenza da voce e immagine fuori campo. Il telefono è il primo episodio e Fabio Giovannini lo definisce un piccolo capolavoro del brivido a base di coltellate e strangolamenti in una stanza da letto claustrofobica. Noi non ne siamo così entusiasti e lo riteniamo il più debole dell’intera opera, però la tensione è ben espressa e si affrontano temi nuovi per il cinema italiano (per esempio l’amore lesbico tra le protagoniste). I wurdalak vede Boris Karloff nelle vesti del vampiro-zombie della tradizione slava e la sua interpretazione fa dimenticare alcuni dialoghi che risentono tutto il peso degli anni (le scene d’amore tra Sdenka e Wladimir su tutte). L’atmosfera di terrore è però notevole e i colori cupi della fotografia contribuiscono a rendere realistica una storia fantastica. Infine La goccia d’acqua è davvero un piccolo capolavoro. Il padre di Bava, Eugenio, scolpì la maschera della morta, la vera protagonista dell’episodio che tormenta sino alla fine l’autrice di un furto sacrilego. Il terrore quotidiano è reso molto bene e l’intervento del soprannaturale si innesta soltanto alla fine in una storia ben congegnata per tensione e ritmo. I protagonisti dei tre episodi si trovano in un luogo chiuso alle prese con le loro paure. Sorprendente il finale con Boris Karloff a cavallo di un manichino che svela agli spettatori i trucchi di scena, quasi per voler tranquillizzare. I tre volti della paura ebbe un grande successo negli Stati Uniti, dove uscì come Black Sabbath, ed è sempre stato considerato un cult movie.
Per fortuna adesso è così anche da noi.
Sei donne per l’assassino (1964) è di pochi mesi dopo e segna il ritorno al giallo anticipando alcune tematiche tipiche di Dario Argento. La fotografia dai colori brillanti e violenti è il dato caratteristico della pellicola ed è un vero e proprio thriller orrorifico. Per uccidere si cominciano a usare normali oggetti del quotidiano come coltelli e rasoi, il killer si aggira con un impermeabile nero e viene rappresentato come un signore del male con cui è impossibile lottare. Dario Argento per girare Profondo Rosso si ispirerà molto a questa pellicola.
Terrore nello spazio (1966) rappresenta un’incursione nel fantascientifico che si avvale della sceneggiatura di Alberto Bevilacqua, Callisto Cosulich e Antonio Romano. Gli effetti speciali però sono tipici del cinema fanta-horror e il notevole colpo di scena finale vale da solo l’intero film. La pellicola fu girata davvero in economia, utilizzando rocce di plastica, zampironi fumogeni e scenografie di fortuna. Il risultato raggiunto sa di miracolo e il film in alcune sequenze ricorda Alien, una volta tanto anticipando un prodotto americano ancora di là da venire.
Operazione paura (1966) segna il ritorno di Bava all’horror puro. La storia è una raffinata vicenda gotica calata in un’atmosfera fantastica e resa in un’ambientazione settecentesca assai credibile. Il regista lo giudicava il suo film migliore e quando ne parlò con Luigi Cozzi, nel corso della citata intervista, si rammaricava per il plagio perpetrato da Federico Fellini. Il regista romano infatti riprese per il suo Toby Dammitt la scena della bambina fantasma che gioca a palla. Operazione paura è il classico horror anni sessanta a base di cripte, notti ventose, castelli maledetti e donne vampiro. Anche Operazione paura è girato in economia e soltanto la maestria di Bava è riuscita a rendere realistici scenari realizzati in studio.
Stessa cosa per Diabolik (1968) dove la produzione De Laurentiis obbligò il regista a realizzare il film con duecento milioni di spesa. E pensare che era il periodo del boom dei fumetti neri e che l’operazione doveva essere soprattutto commerciale… Bava ricordava l’esperienza di Diabolik come uno degli episodi più allucinanti della sua carriera. Dovette girare un film a base di modellini e fotografie ritagliate al momento e utilizzate per ovviare allo squallore della scenografia. Tant’è vero che rifiutò con decisione di lavorare alla seconda parte del film, quel Diabolik alla riscossa che la produzione gli aveva subito proposto. Perché Diabolik nonostante tutto ebbe un notevole successo di cassetta. È sempre stata una caratteristica di Mario Bava quella di far rendere al massimo il poco che i produttori gli mettevano a disposizione. Era un grande artigiano del cinema e una volta guadagnata questa fama tutti pretendevano che se la mantenesse.
In tema di cinema fantastico non dobbiamo dimenticare che, tra il 1968 e il 1969, Bava curò lo stupendo episodio di Polifemo per la riduzione televisiva dell’Odissea. Lo sceneggiato fece furore e contribuì a divulgare la conoscenza del poema epico nelle case di milioni di italiani. Polifemo è un eroe tragico e muove a sentimenti di compassione e pena, ma il regista lo realizzò con una maschera davvero terrificante. E per quel che riguarda il trucco sappiamo che Bava era davvero un maestro.
Il rosso segno della follia (1969), che Bava con modestia definiva la storia del solito pazzo, è in realtà uno dei suoi film più studiati e forse meglio riusciti. Anticipa i futuri thriller di Dario Argento e approfondisce molto la psicologia contorta dell’omicida. Il protagonista è un assassino dalla sessualità repressa e deviata. Cinque bambole per la luna d’agosto (1969) invece è la rilettura di Dieci piccoli indiani di Agata Christie ed è un film da dimenticare, girato in fretta e poco ispirato. Lo stesso Bava lo definiva il peggiore da lui diretto. Diceva che lo aveva fatto soltanto per soldi.
Reazione a catena (1971), conosciuto anche come Ecologia del delitto e Antefatto, è di grande importanza perché rappresenta un’incursione nello splatter iperviolento e un’anticipazione di quello che sarà Venerdì 13 di Sean Cunningham. Non sempre il cinema italiano si è ispirato a quello americano, in rari casi è accaduto il contrario. In questo film i delitti sono centrali alla storia e quasi la sostituiscono, quel che conta è soprattutto come morirà la prossima vittima. Siamo in pieno cinema macelleria e le vittime vengono fatte fuori a colpi di coltelli, asce e lame d’acciaio affilato.
Gli orrori del castello di Norimberga (1972) è ancora un film gotico vecchio stile, una favola paurosa. Una sorta di omaggio al cinema fantastico degli anni cinquanta e sessanta, girato con cura e attenzione ai particolari.
La casa dell’esorcista (1975) arriva in pieno boom da Esorcista, quando i peggiori mestieranti si cimentavano in squallide copie del film di William Friedkin. La pellicola di Bava doveva intitolarsi Lisa e il diavolo e la sua struttura originale era colta e raffinata, tant’è vero che venne presentato al Festival di Cannes nel 1973. Nessuno volle produrla perché ritenuta inadatta al pubblico italiano. Per metterla sul mercato si procedette al suo massacro sistematico: il titolo venne cambiato, molte scene modificate e altre inserite ex novo. Bava si rifiutò di stare al gioco e ripudiò il film che uscì nelle sale del tutto diverso dall’idea originale. Quello che poteva essere uno dei migliori lavori di Bava divenne una delle cose da dimenticare.
Cani arrabbiati (1976) è tratto da un romanzo di Ellery Queen ed è un buon film, purtroppo ancora inedito in Italia. Si tratta della storia di quattro banditi mascherati che rapinano un portavalori, ammazzano due guardie e nella fuga uno di loro rimane ucciso. I tre rimasti prendono due donne in ostaggio in un garage, una finisce sgozzata, l’altra continua a servire per proteggere la fuga. Durante la fuga prendono un uomo come ostaggio e accadono diversi colpi di scena che rendono il film interessante fino alla parola fine. Un thriller sui sequestri di persona duro e inquietante, molto esplicito e diretto come contenuti e scene di sangue. Il film non ha mai trovato un distributore durante la vita di Bava ed è stato messo in circolazione in Italia soltanto nel 1995 come Semaforo rosso.
Shock è del 1977 ed è l’ultimo film di Bava. Un vero e proprio omaggio all’allievo più geniale, quel Dario Argento che aveva riempito le sale con Profondo Rosso. Shock segna il simbolico passaggio di consegne e la fine di un modo di fare horror tipico del decennio precedente. Protagonista è Daria Nicolodi, regina dell’horror italiano anni settanta, attrice prediletta di Dario Argento e anche sceneggiatrice di molti film. Shock è un capolavoro di tensione, un racconto angoscioso girato quasi tutto in interni, una raffinata storia di fantasmi che ricorda molto il vecchio La frusta e il corpo. Ebbe un gran successo in Giappone, mentre in Italia è passato inosservato.
La carriera di Mario Bava si conclude nel 1978 con il telefilm del mistero La Venere d’Ille, girato in collaborazione con il figlio Lamberto. Protagonista è ancora Daria Nicolodi, però il risultato finale non è dei migliori. Come eredità fantastica di Bava preferiamo ricordare Shock, un film che ha influenzato tutta l’opera successiva di Dario Argento e degli altri autori horror italiani.
Maro Bava è l’unico regista italiano ad aver lavorato con le principali star del cinema horror inglese e americano, attori del calibro di: Christopher Lee, Boris Karloff, Vincent Price, Barbara Steele (lanciata da Bava come dama nera del gotico anni sessanta) e Joseph Cotten. Non solo, ci sono attori scoperti da Bava e consacrati a futuri ruoli nel cinema horror italiano. Basti per tutti l’esempio di Nicoletta Elmi ne Gli orrori del castello di Norimberga che ritroveremo in Profondo Rosso di Dario Argento e in Dèmoni di Lamberto Bava nel ruolo di demoniaca bigliettaia.
Alcuni giornalisti dell’epoca affibbiarono a Mario Bava l’epiteto di Hitchcock di Cinecittà, anche prendendo spunto da titoli di film come La ragazza che sapeva troppo. In realtà Bava ha un suo stile e con il grande maestro del giallo ha soltanto debiti di ispirazione. Bava ereditò dal padre scultore la passione per i colori e per le immagini, voleva fare il pittore ma approdò al cinema, un mezzo artistico che ha utilizzato in modo originale. E’ vero che le sue scelte di regia sono state sempre subordinate al successo di cassetta dei film americani, ma era il mercato dell’epoca a imporlo. Non si poteva contraddire la casa inglese Hammer o ciò che riscuoteva consenso oltre oceano. Si pensi alla abominevole saga delle indemoniate e delle ossesse che funestò gli italici schermi dopo l’uscita de L’Esorcista. Come abbiamo visto lo stesso Bava ne fece le spese con uno dei suoi ultimi film.
Concluderei riportando una valutazione di Pascal Martinet.
Bava crea un’estetica della morte e del crimine. Al diavolo la logica. Importa solo la descrizione grafica della violenza. Carni torturate, graffiate, bruciate, catturate dalla crudeltà della macchina da presa che si diverte a precedere l’attimo in cui l’assassino colpisce. Assassino senza volto, primo di una lunga tradizione e la cui assenza di fisionomia rimanda ai nobili incubi archetipici. Aggiungiamo noi (con Fabio Giovannini) che Bava riesce a rendere il paesaggio mediterraneo credibile per ambientarvi storie orrorifiche. Ed è uno dei primi a farlo, insieme al Pupi Avati di capolavori come La casa delle finestre che ridono. Il gusto per il terrore puro è un’altra sua caratteristica ed è ben rappresentato dall’utilizzo frequente di coltelli e pugnali per gli omicidi, particolare che Dario Argento spingerà all’eccesso. La lama è cinematografica, dirà lo stesso Bava.
Come abbiamo detto Bava si cimentò in quasi tutti i generi cinematografici in voga a Cinecittà negli anni sessanta – settanta, sempre seguendo i grandi successi che venivano dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti. Nella presente trattazione non abbiamo citato i film di argomento mitologico, fantascientifico, favolistico, western e sexy. Per completezza ci limitiamo a elencarli. L’appassionato di Mario Bava troverà così un’esauriente catalogo dell’opera del regista. Le fatiche di Ercole (1957), Ercole e la regina di Lidia (1958), La battaglia di Maratona (1959), Ercole al centro della terra (1961), Gli invasori (1961), Le meraviglie di Aladino (1961), La strada di Fort Alamo(1965), I coltelli del vendicatore (1966), Le spie vengono dal semifreddo (1966), Raycolt e Winchester Jack (1969) e il censuratissimo Quante volte… quella notte (1969 – 73).
Riferimenti bibliografici:
Fabio Giovannini “Serial Killer-i grandi assassini del cinema”, Macabro Show e-book 2002
Antonio Tentori “Lo schermo insanguinato” – Solfanelli, 1990
Renato Venturelli “Horror in cento film” – Le Mani, 1997
Intervista a Mario Bava, a cura di Luigi Cozzi, in Horror 13 – Sansoni 1971
Pascal Martinet “Mario Bava” Film n.6 – Ediling Paris, 1984
Luigi Cozzi – Mario Bava, i mille volti della paura – Profondo Rosso, 2001
Achille Bonito Oliva, lo definirebbe un vero autentico artiere: un’artista contemporaneo. Io non ho mai visto un suo film, oppure, se anche mi fosse capitato, ho sicuramente rimosso.Mi spavento con poco e l’horror mi terrorizza a morte. Dopo aver visto, La casa delle finestre che ridono, per anni e anni non ho più messo il rimmel. Se dovevo uscire e farmi bella, alla sera, mi bastava l’ombretto; si toglie con poco e anche tenendo gli occhi aperti. Però, tornando seria ( da noi Carnevale non è ancora iniziato), questo articolo di Giordano Lupi affronta un tema grande: arte e mestiere. Definendo Mario Bava un economizzatore,è come se aprisse le porte di uno studio e ci ofrisse la possibilità di girare per tavoli e scrivanie.Osservare mucchi di materiale, usato/recuperato/scartato, che solo per lui avrebbero avuto un senso. Ma non solo, la ricostruzione minuziosa di quella intensa attività lavorativa, fa un po’ sognare, immaginare quel clima pionieristico, che nel bene e nel male ha caratterizzato il dopoguerra. I tempi dei nostri padri, quando anche l’arte non era un sistema.
Un saluto a tutti e una nota, perché solo oggi mi sono accorta che mi era stata rivolta una domanda a proposito di ironia.
Ecco: certo che si dovrebbe insegnare anche autoironia, infatti in ogni progetto di educazione all’immagine, propongo sempre ( e in ogni classe) un autoritratto “illustrativo”.
Molto interessante il pezzo su Mario Bava. Devo confessare che non lo conoscevo, neanche di nome, e devo ancora confessare che mi piacciono molto i film di Hitckoc (non credo di averlo scritto bene ), meno quelli di Dario Argento. Lui, invece mi piace. L’ ho visto in varie apparizioni televisive e devo dire che ha un’ aria rassicurante e
simpatica, lontana dagli orrori, stilisticamente apprezzabili, dei suoi film. Ma avevo premesso che certi Horror mi spaventano. Se li vedo, la notte ho gli incubi. Dunque è meglio che mi astenga. Ciao a tutti. Franca.
Devo ammettere di essere tra quelli che non conoscono Mario Bava. Dunque ringrazio Gordiano Lupi e Massimo Maugeri per avermi dato un input in tal senso. Cercherò qualcuno dei film citati
Da vecchio cultore del cinema di Bava, ho letto con grande interesse il pezzo di Lupi. Ottimo, davero ottimo. E concordo anche sulle valutazioni critiche dei singoli film (ad esempio la debolezza del primo episodio dei TRE VOLTI DELLA PAURA, paragonata all’eccellente terzo)
Tre sole osservazioni.
In REAZIONE A CATENA non ricordo la Fenech, ma riguarderò la mia copia in dvd.
Sempre di questo film, vorrei sottolineare il finale, uno dei più beffardi e liberatori che siano mai visti nel cinema italiano.
Purtroppo non sono mai riuscito a trovare (nemmeno in una scalcinata copia in vhs) CANI ARRABBIATI.
Così come mai ho potuto vedere Caltiki, che però dovrebbe uscire a giorni in dvd.
Cos’amavo più di tutto di Bava? L’orgogliosa umiltà di un bravissimo artigiano a cui piaceva raccontare storie avvincenti senza mai spacciarsi per pseudo-artista.
Che dire? Grande Bava!!!
Vi garantisco che i suoi film fanno venire la bava alla bocca.
Luciano Comida ha ragione.
In REAZIONE A CATENA la Fenech non c’è. Si tratta di una piccola svista da parte mia. Ho già provveduto a far correggere l’articolo.
Ringrazio Luciano per la segnlazione.
Bravo io a ricordarmi che Edvige non c’era. E bravo Gordiano ad ammettere onestamente e intelligentemente la venialissima svista. Altri solincini del cinema avrebbero tirato fuori mille scuse: che nella prima copia del film la Fenech c’era, che compare in una scena travestita da albero e cento altre frottole.
Uno dei più grandi registi di sempre, ha fatto la storia dell’horror italiano e ha tra l’altro ispirato molti importanti registi stranieri (Tim Burton, Quentin Tarantino e molti altri…). Trovo giusta la definizione di “artigiano”, riusciva a creare degli effetti visivi sbalorditivi con trucchi semplici e geniali, in un periodo in cui ancora non c’erano gli effetti digitali.
Grazie per aver riportato in vita questo vecchio post, Paky.