Nell’ambito della rubrica “Le città del mondo e la cultura italiana” abbiamo chiesto al direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, Angelo Gioè, di parlarci – per l’appunto – del rapporto tra Melbourne e la nostra cultura (nonché del ruolo svolto dall’IIC che dirige).
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La città di Melbourne e la cultura italiana. Intervista a Angelo Gioè, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne
– Dr. Gioè, che tipo di città è Melbourne?
La seconda città australiana per estensione, Melbourne conserva le tracce di un passato florido, legato all’epopea della corsa all’oro di metà Ottocento, un’epoca ancora oggi al centro di miti e leggende metropolitane. Gli enormi proventi delle esplorazioni alla ricerca di metalli e pietre preziose dell’entroterra hanno lasciato la loro impronta soprattutto nel centro finanziario, il cosiddetto CBD. Fulcro urbano da cui si diramano le principali arterie della città, con il suo reticolato di vie squadrate e gli edifici di granito e arenaria, il centro restituisce l’impressione di un’austera città nord-europea. Se però un visitatore alza gli occhi al cielo, non può non restare ammaliato dai contorni dei nuovi highrisers che si stagliano contro un cielo mutevole, che in poche ore passa dai toni di un azzurro intenso ad un grigio cinereo, opaco, quasi londinese. Ad altezza d’uomo, invece, il panorama cambia radicalmente: gli edifici art-déco dalle facciate austere ospitano adesso curiosi negozi di street food coreani, ramen giapponesi, ristoranti indiani e thai, noodle bar cinesi, per non parlare di locali dalla chiara impronta italiana, greca, francese. Un viavai di persone delle etnie più disparate, che convergono verso la città negli orari d’ufficio o nei fine settimana, contribuisce a creare un collage variopinto, solcato da tram dal classico color verde, autobus stipati e stazioni della metro dalle insegne azzurre nascoste tra gli edifici. Dentro le casse di risonanza delle strade, dei locali, dei parchi, si rincorre una polifonia di lingue e accenti diversi. L’italiano, con le sue bizzarre influenze inglesi, è qui di casa, con circa 270.000 parlanti madrelingua nel paese, un gruppo linguistico secondo per numero soltanto a quello della comunità cinese, con una popolazione di origine italiana che ha superato il milione di abitanti.
Chiaramente, ora che la pandemia ha imposto regole ferree sugli spostamenti, riducendo il raggio di spostamento a pochi chilometri, la città appare più lontana, inaccessibile, sull’orizzonte dei bassi quartieri che la cingono da ogni direzione. Eppure, scorgendola da dietro una palma, o fra i rami di un’araucaria secolare in uno dei tanti splendidi giardini botanici che la attorniano, la città fa ancora sentire la sua pulsante presenza. Sembra attendere, paziente, il ritorno ad una ‘nuova normalità’.
– Quali attività svolge l’IIC che dirige?
Il mio arrivo a Melbourne ha coinciso con un inasprimento delle regole anti-pandemia, costringendo la città ad un lockdown che si sta protraendo da cento giorni. Le attività in programma all’IIC di Melbourne per il periodo tardo invernale e primaverile hanno pertanto risentito delle circostanze avverse. Tuttavia, alcune iniziative sono state messe in cantiere, e le illustrerò a breve.
Innanzi tutto, però, ci terrei a ripercorrere le tappe principali del percorso culturale intrapreso nella mia precedente sede direttiva dell’IIC a Barcellona, allo scopo di mettere in evidenza come alcune di queste iniziative possano trovare anche qui a Melbourne un terreno fertile.
In primis, vorrei ricordare uno dei progetti più coraggiosi intrapresi a Barcellona, vale a dire la promozione di residenze d’artista della durata, alquanto straordinaria, di 30-45 giorni, dedicata ad artisti italiani di spicco, quali Francesco Arena, Paola Gaggiotti, Raffaella Mariniello, Valerio Rocco Orlando, Adrian Paci, Ciro Frank Schiappa. Si è inteso accostarsi all’opera d’arte come l’espressione più genuina del ‘contemporaneo’ in senso agambeniano, vale a dire un riflesso di quell’ “oscurità dalla quale scaturisce una luminosità diretta verso di noi che però da noi si allontana infinitamente”. L’opera d’arte condensa nel contempo una promessa di futuro e un riverbero del passato nel presente, un presente atemporale, sciolto dai vincoli della contemporaneità. Attraverso questa iniziativa di residenze si è inteso far interagire gli artisti portatori di un proprio ‘presente’ con il tessuto socio-culturale della città di Barcellona.
Un secondo progetto di notevole spessore culturale con cui avvicinare le istituzioni al tessuto sociale locale è stato il “Festival Unlearning”. Il processo di ‘unlearning’, nell’accezione di Gayatri Spivak, consiste nel rapportarsi al sapere e ai suoi presupposti egemonici da un punto di vista nuovo, quello delle culture marginalizzate. In altri termini, si tratta di un processo attraverso il quale i fruitori dell’arte ‘disimparano’ le regole del mondo globalizzato e si rapportano alle diverse culture senza limitazioni o prevenzioni egemoniche. Grazie al contributo essenziale di Maria Rosa Sossai, l’iniziativa ha coinvolto numerosi artisti italiani che hanno agito ed interagito con l’ambiente cittadino di Barcellona.
Sempre in tema di inclusione di culture altrimenti relegate ai margini, si è dato l’avvio ad un progetto di eccezionale rilevanza che ha coinvolto la città di Valencia, il “VLC Urban Art Festival – Barris en moviment”, nel settembre 2019. L’evento ha radunato espressioni dell’arte underground bolognese e valenciana – dalla writing e street art, all’hip-hop e al rap, dalle pubblicazioni indipendenti della FRUIT alla poster art, dalla danza urbana alle competizioni di break dance e bike trial. Sotto la direzione artistica di Eleonora Battiston, si sono succedute kermesse e manifestazioni all’aperto in due storici quartieri marittimi di Valencia, il Grau e il Cabanyal/Canyamelar, due località che hanno saputo reinventarsi e trasformare una realtà di emarginazione in luogo di incontro fra molteplici percorsi intellettuali. All’interno del festival è stato proiettato il documentario “I’m not alone anyway” di Veronica Santi, che ripercorre la vicenda di Francesca Alinovi, la prima critica d’arte e curatrice italiana che negli anni ’70 e ’80 portò l’arte americana in Italia e fece conoscere l’arte italiana negli Stati Uniti. Ulteriore durevole testimonianza dell’evento, infine, la serie di murales sorti su tre grandi pareti di edifici del quartiere Cabanyal, realizzati dagli artisti italiani Dado, Ericailcane e Cuoghi Corsello.
Valencia ha inoltre offerto momenti di riflessione sul ruolo dell’intellettuale e dell’editoria nel fare interagire fra loro culture diverse. Nell’ambito dello stesso Festival, infatti, si è tenuta una tavola rotonda sull’importanza e la diffusione degli eventi artistici e culturali a livello di integrazione sociale. Al centro del dibattito il ruolo svuolto da MAKMA, una piattaforma di divulgazione culturale, nel facilitare l’accesso alle diverse manifestazioni artistiche contemporanee da parte del grande pubblico, e la mission della rivista El Hype, che affronta la cultura come fenomeno dinamico e interdisciplinare.
Altra occasione di dialogo è stata la tavola rotonda dal titolo Unlock Book Fair e studi urbani: esperienze sulla divulgazione d’impresa e il dibattito digitale. Si è discusso il ruolo dell’editoria cartacea a digitale nella divulgazione culturale ponendo a confronto una fiera editoriale e una piattaforma web.
È stato inoltre proiettato “Numero zero. Alle origini del rap italiano” di Enrico Bisi, un documentario che ripercorre l’inizio della cultura hip hop in Italia nel 1990, fino al declino dei primi anni del 2000. Sempre all’interno della stessa manifestazione, si è svolta la “Nit de músic urbana”, un concerto che ha visto gruppi italiani e valenzani rap e hip hop alternarsi sul palco, fondendo sonorità e testi dalla profonda vena polemica contro le ingiustizie sociali e l’emarginazione. I gruppi Pupilles e Jazzwoman, di Valencia, hanno incontrato gli italiani Ensi, Kaos One & Dj Craim, e Colle Der Fomento.
Poi, per promuovere i territori e la realtà creativa dell’artigianato locale, vera e propria forma d’arte che unisce manualità e tradizioni regionali, diedi vita a un progetto di collaborazione con Pugliapromozione, dal titolo “Mutazioni. Nuove forme dell’artigianato e del design in Puglia”, con la presentazione di un’installazione artistica del giovane ceramista Giorgio di Palma. Scopo della manifestazione fu dimostrare la carica innovativa dell’artigianato pugliese, la sua capacità di riutilizzare materiali industriali e oggetti di per sé ‘superflui’ e reinserirli come beni di consumo, testimoni duraturi di una tradizione secolare. Sempre attorno alla regione Puglia e alle sue innovative proposte artistiche, si è mosso l’evento dal titolo “Erosioni. Puglia: leggende, utopie, visioni”, a cura di Ilaria Speri e Massimo Torrigiani/Boiler. Attraverso fotografie, video e sculture, progetti individuali e ricerche collettive di artisti e intellettuali pugliesi o residenti in Puglia, si è sviluppato il raffronto fra arte visiva fotografica o cinematografica ed erosione naturale, visti entrambi come ricerche di un equilibrio attraverso la trasformazione di elementi della realtà. Non poteva inoltre mancare una retrospettiva sul cinema dedicato alla Puglia. Con “Deviazioni: Puglia fuori traccia”, è stata presentata una selezione di sette film, curati da Anna Mastrolitto e Luciano Toriello. Si è trattato di una raffigurazione a tutto tondo degli ambienti fisici e umani che caratterizzano una regione in continuo cambiamento.
– Grazie mille per la finestra aperta su Barcellona. Ma torniamo a Melbourne. In che modo, in generale, e per quel che le è dato di sapere, la cultura italiana si relaziona con la città?
Gli italiani di Melbourne, e non solo, hanno saputo ritagliarsi uno spazio in una società quasi esclusivamente anglosassone che costituiva il fulcro della prima emigrazione in Australia. Mentre i primi italiani ad approdare in Oceania sono stati intellettuali ed avventurieri sfuggiti per lo più a condanne da parte delle autorità austriache per sedizione ed anarchia durante il periodo pre-unitario, l’ondata più significativa degli arrivi sul nuovissimo continente si è avuta fra il primo e il secondo dopoguerra, con l’approdo in Australia di manodopera italiana, soprattutto agricola, nel numero di circa 120.000 migranti nel 1954. Numerose testimonianze, spesso drammatiche, raccontano di privazioni e sacrifici, resi ancora più gravosi da continui episodi di intolleranza ai danni dei sud-europei, categoria che contraddistingueva soprattutto italiani, greci e jugoslavi. Il secondo conflitto mondiale ha poi acuito i contrasti, relegando gli italiani al ruolo di ‘nemici di guerra’ dell’Australia, con il conseguente confino e isolamento di intere famiglie in campi di prigionia. Con esemplare perseveranza gli italiani sono riusciti a rivendicare il loro stile di vita, i loro prodotti agricoli, le loro tecniche artigianali – testimoniate in numerosi edifici, pavimentazioni, manufatti che abbelliscono la città di Melbourne. Ad esempio, davanti ad uno degli edifici principali della La Trobe University, a Melbourne, si innalza un’esile piramide di bronzo a tre facciate, su ciascuna delle quali emergono, a bassorilievo, personaggi ed episodi della Divina Commedia, un’opera donata alla città dallo scultore Bart Sanciolo, a testimonianza di una presenza italiana non solo segnata dal lavoro, ma anche da un apporto culturale ed iconografico onnipresente. Oppure, nella chiesa di St Peter on the Hill, East Melbourne, è custodito un altro esempio di artigianato artistico italiano: una splendida vetrata a mosaico, importata dall’Italia per servire da campione per l’esposizione internazionale di Melbourne del 1881.
– Torniamo all’IIC da lei diretto in precedenza. Tra gli eventi organizzati dall’IIC di Barcellona, qual è quello che ricorda con particolare emozione e di cui è particolarmente orgoglioso? E perché?
Nel corso della direzione a me affidata dell’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona, ho cercato di stabilire nuove sinergie fra le diverse forme di arte italiane e il territorio cittadino, captando, quanto possibile, le correnti creative che potessero trovare l’interesse e l’attiva partecipazione di fruitori sempre più consapevoli del substrato culturale italiano. In questo ambito, l’evento che ha lasciato in me e, presumo, anche nel pubblico, una traccia indelebile è stata l’esposizione, in anteprima mondiale, di un trittico di arazzi dell’artista Stefano Arienti, con la curatela di Simone Ciglia e la collaborazione della Fondazione Malvina Menegaz, nel giugno 2019. Durante l’allestimento della mostra, ho avuto l’onore di fare la conoscenza e di apprezzare l’indubbio rigore intellettuale e la lungimiranza creativa di Arienti, una delle personalità più autorevoli dell’arte italiana degli ultimi decenni. Un cammino artistico, quello dell’artista mantovano, iniziato negli anni ’80 nel panorama culturale milanese di Corrado Levi e della Brown Boverì, una fabbrica abbandonata alla periferia di Milano, divenuta oggi suo studio e residenza. Arienti fonda la sua poetica sull’arte povera e sul recupero di materiali e oggetti di largo consumo capaci di rievocare nuove sensazioni e di sorprendere lo spettatore: cartoline, stoffe, enciclopedie, tele antipolvere si caricano così di nuovi significati simbolici ed esistenziali. In questa direzione si è mossa anche l’esposizione di Barcellona, incentrata su tre arazzi commissionati dall’artista ad una manifattura abruzzese, l’Arazzeria Pennese di Penne (PE). Un progetto dall’alto valore simbolico, che tende a rilanciare l’arte dell’arazzo che, come numerose altre attività artigianali, ha subito un forte declino e che, anche grazie al sostegno della Fondazione Malvina Menegaz di Roma, è riuscito a trovare in Arienti uno straordinario promotore.
L’iniziativa faceva capo capo a un progetto del Ministero della Cultura per la produzione di nuove opere di arte contemporanea . I progetti richiedevano l’appoggio di un Istituto Italiano di Cultura per la promozione all’estero dell’opera. Appoggiai tre progetti e due vinsero il premio (Arienti e i fratelli Mattes). L’anno dopo appoggiai Francesco arena, anch’egli risultato vincitore.
– Ci sono “progetti in cantiere” per Melbourne di cui vorrebbe parlarci?
Nonostante le circostanze avverse, l’entusiasmo di ripartire si fa sempre più impellente. Al momento sono in programma alcuni progetti di vasto respiro, che vogliono riprendere il dialogo dell’Istituto di Cultura con i suoi fruitori, cercando di ampliare l’offerta culturale in varie direzioni.
Prima di tutto, l’iniziativa dal titolo “Visioni: Ways of Italian Ecolyfe” (acronimo: VIE), dove lyfe si riferisce al termine in uso fra gli scienziati ad indicare un nuovo concetto di vita. Si tratta di una serie di interviste con personalità italiane della scienza, delle arti e delle pratiche, secondo un formato flessibile a ‘rubriche’ tipo magazine e incentrate sui temi dell’ecologia e della sostenibilità. L’obiettivo è di creare nuove interazioni fra talenti italiani e tessuto sociale e culturale australiano, declinando l’Italian lyfestyle in maniera innovativa e accattivante. Il magazine si sviluppa lungo dieci appuntamenti che spaziano dalla smart city, all’antropocene, all’ecologia dell’anima.
Un secondo progetto in cantiere si intitola Nuove sfide dell’architettura resiliente, e prende in considerazione le innovazioni introdotte da architetti e urbanisti italiani sulla scorta delle nuove problematiche ambientali e di sostenibilità. La pandemia ha posto ancor più l’accento sull’uso accorto degli spazi e sulla loro ottimizzazione. Attraverso una serie di incontri con architetti ed accademici del calibro di Massimiliano e Doriana Fuksas, Stefano Paiocchi, Carla Langella, Stefano Boeri Architetti, Alessandro Melis, Consuelo Nava, Martino Milardi si intende mettere in evidenza l’apporto italiano all’architettura resiliente e a nuovi modi di configurare gli spazi, oltre che consentire una collaborazione fruttuosa con progettisti e architetti australiani.
Infine, con Incroci: Dieci video-concerti di cross-art, multimedialità, giovane creazione, si intende esplorare una varietà di repertori musicali, del presente e del passato, attraverso esempi stimolanti di cross-art, dove si vengono a fondere musica, teatro, danza, elettronica. I concerti prendono la forma di video che consentono di fruire dell’evento da più angolature e attraverso differenti canali espressivi e sensoriali.
Tra gli interpreti cito il pianista Maurizio Zaccaria, che ripercorre con maestria tre secoli di musica italiana. Ljuba Bergamelli si esibisce in un concerto per voce sola, accompagnata da sonorità elettroniche, che fanno da contraltare alle movenze del danzatore Simone Magnani. Il Duo Dubois presenta invece un concerto incentrato sulle molteplici possibilità espressive del sassofono delle percussioni. L’ensemble di nuova formazione composto da Francesca Carola, Silvia Giliberto, Matteo Savio e Filippo Capretti offre una rivisitazione in chiave moderna di brani del repertorio classico.
È particolarmente significativo come il filo conduttore di questi tre macro-eventi sia la rappresentazione audiovisiva. Tali manifestazioni offrono l’opportunità a giovani artisti, danzatori, registi, professionisti audio e video di portare le loro opere alla ribalta internazionale e a me di presentarle in occasione di concorsi cinematografici o documentaristici.
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[Angelo Gioè, a destra, con il compositore Salvatore Sciarrino]
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