Nell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del nuovo romanzo di Filippo Tuena intitolato “Memoriali sul caso Schumann” (Il Saggiatore, 2015).
Nei prossimi giorni, su LetteratitudineNews, pubblicheremo un estratto del libro…
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Recensione di Claudio Morandini
Tuena è oggi, per me, uno dei migliori costruttori di storie; è artefice – ambizioso, com’è giusto in letteratura – di romanzi che ora si stendono come partiture, ora come mappe, o diari di bordo, o alberi genealogici, a seconda del tema, dell’ambientazione, delle passioni che vi si agitano. La struttura, nel suo caso, è importante quanto il soggetto – anzi, “è” il soggetto, ne è l’estensione, la proiezione. Il suo ultimo romanzo, “Memoriali sul caso Schumann”, conferma questo assunto: attorno alla figura complessa dell’ultimo Robert Schumann, afflitto da deliri e demenza, Tuena raccoglie (cioè in parte trascrive, in parte immagina) con meticolosità le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto, che ne hanno condiviso sofferenza e passioni, e che ne sono stati toccati fino al logoramento. Sotterranea, intanto, scorre una sensibilità musicale, che compone le parti del romanzo come sezioni di una vasta opera – cameristica, più che sinfonica, direi, visto l’esiguo numero di personaggi in gioco – in cui a prevalere, ancora una volta, come nella saga familiare delle “Variazioni Reinach” (di recente riviste per la nuova edizione Beat), è la forma della variazione. Il romanzo diventa polifonia di voci attorno allo stesso tema (la follia di Schumann): che ognuno dei personaggi declina a suo modo, attraverso punti di vista differenti, differenti distanze e livelli di comprensione, girando attorno al tema secondo dinamiche e giochi timbrici propri. A tutto ciò si inframmezza – in un modo che mi ha ricordato le abissali “lamentazioni oltremondane” in “Rosso Floyd” di Michele Mari, dedicato non a caso anch’esso a un caso di alienazione musicale, quello di Syd Barrett – una voce estranea, sgrammaticata, petulante, angosciosa, demoniaca, che all’inizio sembra una delle voci “sentite” da Schumann, ma diventa ben presto, tragicamente, la sua voce.
La variazione non è solo il mezzo attraverso cui si sviluppa e si articola l’indagine di Tuena: è anche una declinazione, insinuante e pervasiva, una sorta di rielaborazione a specchio dello stesso tema, cioè la follia ossessiva: non a caso, risuona in tutto il romanzo l’opera misteriosa e postuma di Schumann, quelle Geistervariationen, o Variazioni del Fantasma il cui tema, di struggente semplicità, sarebbe stato suggerito in sogno dallo spettro di Schubert.
Ecco, gli spettri: come è già stato notato, questa è una ghost story alla vecchia maniera, cioè secondo ritmi e dinamiche ottocentesche, che puntano sull’attesa e sull’economia di effetti, e dilatano atmosfere. In questo gioco di ombre, lo stesso Schumann è rievocato – come un fantasma – da distanze irraggiungibili, sia per lo stato che lo aliena dalla realtà chiudendolo in un mondo di allucinazioni e ossessioni, sia per l’impossibilità oggettiva di raggiungerlo nella clinica in cui è subito ricoverato dopo un tentativo di suicidio.
I fantasmi agitano le visioni di Schumann: ma per Schumann sono presenze reali, vivide, con loro ha un dialogo anche fecondo. Per curioso ribaltamento, sono gli esseri reali, gli amici che si preoccupano per lui e lo seguono da lontano, che Robert prende – forse – per apparizioni. È la prassi, nella clinica in cui è ricoverato: solo nascondendosi, e spiando non visti, i visitatori possono intercettare in un paziente segni di uno sperato miglioramento o di un temuto declino. Il vedere da lontano non visti è per lo più insoddisfacente e ingannevole, ma talvolta l’incertezza coglie frammenti di verità. «Quel suo modo di essere frammentario, nella parola, nella musica, nel fumare. Chissà se anche i suoi pensieri si disperdono nel vuoto.» Così, parafrasando Brahms, scrive Elise Junge sul suo diario. Ma le apparizioni contagiano un po’ tutti, nel romanzo di Tuena, al punto che ogni personaggio che sia stato vicino a Schumann prima o poi scorge un’ombra, sente parlare un fanciullo con la voce di un vecchio, vede animarsi angoli bui di una stanza.
Anche i temi musicali appaiono come spettri, nelle testimonianze circa la fine delle Variazioni del Fantasma: riemergono dopo anni di oblio, se ne scovano le tracce là dove non ci si aspetterebbe, anche in composizioni altrui, tornano a scomparire…
È racconto che turba e commuove proprio perché raccontato da lontano, per dettagli colti da amici e conoscenti, quello del precipitare nella demenza di Schumann: il dolore sempre composto dei parenti e degli amici trova sfogo nella fitta corrispondenza, come si usava allora. E diventa straziante quando si intravede la consapevolezza dello stesso Schumann dinanzi all’avanzare della malattia (le voci, le accuse immaginarie di non essere l’autore delle proprie musiche, la perdita di controllo delle mani sulla tastiera, l’aprirsi di voragini sempre più profonde nella memoria, e a correzione di tutto questo lo sforzo di apparire «presente a se stesso», di ricordarsi di tutto ciò che ha di più caro).
E ancora più straziante si fa il racconto quando scopriamo “il caso Schumann” duplicato nel monologare fitto e incoerente del figlio Ludwig, di cui si trascrivono pignolescamente i monologhi nel corso delle visite al manicomio di Colditz: e nelle sue parole la quotidianità in una casa di musicisti (con annesse sedute di spiritismo e visite di spettri, primo fra tutti “don Franzetto Sciubba”, cioè Franz Schubert) è riletta attraverso la lente distorta di una mente alienata, ancora capace però di distillare i dettagli veri che una mente lucida non saprebbe scorgere.
Come in un racconto gotico che si rispetti, si insinua il tema del doppio: il più consapevole sembra esserne Brahms, che con i doppi (gli pseudonimi) ha giocato a lungo, negli anni giovanili, in una moltiplicazione di identità (ne sa qualcosa Hélène Grimaud, che oltre a essere fine interprete pianistica ama cimentarsi nella letteratura, e nel “Ritorno a Salem”, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2014, immagina una sorta di thriller musical-filologico attorno a un manoscritto perduto di Brahms). Il Johannes Brahms di Tuena entra nella vita degli Schumann travolgendoli, vampirizzando Robert, in un continuo cimento, in una perenne emulazione che non si esaurisce nell’ambito musicale ma tracima in quello letterario e nel campo degli affetti. È interessante scoprire come, infine, non sia stato Brahms a vampirizzare Schumann ma piuttosto Schumann a “possedere” Brahms (così, almeno, sembra di leggere tra le righe del memoriale del vecchio Johannes, che conclude il romanzo mettendo un po’di ordine tra tutte le testimonianze). I due compositori sembrano davvero l’uno complementare all’altro – e il vecchio Brahms, nel suo “Memoriale”, ripensando agli errori passati, traccia le linee di queste due vite intrecciate, fino a mostrare come l’uno, Schumann, abbia finito per scrivere musica «titubante», balbettante, fragile e imperfetta, ma proprio per questo espressione di una lingua nuova e aperta verso l’avvenire, che spaventerà Clara, la quale reagirà nascondendo o distruggendo quelle pagine estreme; e l’altro, Brahms, si sia avviato verso una sorta di afasia musicale che ormai consente solo più forme brevi, composizioni di scarso respiro.
È notevole il modo in cui la musica è raffigurata nel romanzo di Tuena. In certe testimonianze (la citata Elise Junge, ad esempio) i musicisti vengono presentati come dotati di un’inquietante capacità di estraniarsi dai dolori e dalle angosce della vita reale attraverso la musica: questa capacità di «allontanarsi dal contingente» e ritirarsi in un mondo olimpico, «lunare», che è creato dalla stessa musica e si nutre del «piacere profondo di essere in accordo», è un dato che sembra accomunare Clara Schumann e il giovane Brahms, mentre invece la musica di Schumann va in tutt’altra direzione, conduce verso abissi di sofferenze e inquietudini di cui è la trasfigurazione. «Dice altro, dice di onde e di tempeste», chiosa il giovane amico Christian Reimers.
In Schumann la musica – su questo le diverse testimonianze concordano – è un viaggio o il sogno di un viaggio verso territori sconosciuti, è forse – come i percorsi astrusi che traccerà ossessivamente sugli atlanti – percorso sciamanico verso altri tempi e altri luoghi, «sentiero di sogni», «strada dei canti»: «Il sistema è temperato e dunque asimmetrico e c’è uno scartamento nella direzione della bussola di cu occorre tener conto perché re diesis non corrisponde a mi bemolle e si diesis e do bemolle sono note addirittura inesistenti dunque questo è un sentiero inesplorabile ancorché è proprio su questa traccia che mi trovo quando mi rivolgo al nord» come si legge nel delirio sinestesico della seconda seduta sciamanica in Australia raccontata da un contagiato Reimers in uno dei suoi diari.
Ma c’è dell’altro. La perdita di contatto con la musica da parte di Schumann nel ricovero di Endenich sta non solo e non tanto nella perdita di agilità manuale o di capacità tecnica, e nemmeno nella confusione crescente in cui sprofonda l’atto del suonare e del comporre, sostituito da surrogati come giochi matematici, compulsazione di atlanti e soprattutto dal domino, che da gioco diventa codice cifrato; sta, probabilmente, nella perdita di ogni contatto con il “tempo”, nel rallentamento del tempo fino all’immobilità (lo nota, in una sua lettera, il solito Christian Reimers); un sintomo del degrado mentale di Schumann stava, già prima del ricovero, nel rallentamento dei tempi fino all’estenuazione; ora tutto, nella clinica, a confronto con lo scorrere naturale del tempo nelle vie attorno, «si arresta, in attesa della guarigione, della follia conclamata o della morte». La musica di Schumann muore così, nel dilatarsi insopportabile del tempo fino alla stasi definitiva.
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La scheda del libro
Il 27 febbraio 1854, in piena crisi artistica ed esistenziale, Robert Schumann esce dalla propria abitazione di Düsseldorf e si butta nelle fredde, nere acque del Reno. Salvo per miracolo, viene affidato alle cure del dottor Richarz e internato nel manicomio di Endenich, dove rimarrà fino alla morte, perseguitato da voci incorporee che lo accusano di non essere l’autore della sua musica e solo occasionalmente visitato da allievi e protetti, fra cui il prodigioso Johannes Brahms. Non rivedrà mai più l’amata moglie Clara e i figli.
Intorno a questa follia – e alle enigmatiche “Variazioni del fantasma”, che Schumann sosteneva gli fossero state dettate dallo spettro di Franz Schubert – Filippo Tuena costruisce un romanzo a incastro dalla presa magnetica, un congegno narrativo che dissimula la finzione come un raffinato trompe l’oeil ottocentesco e sfrutta sei punti di vista diversi – da un’anziana amica di Robert e Clara a Ludwig Schumann, affetto dallo stesso male del padre – per sondare il mistero che ancora circonda gli ultimi anni di Schumann e i suoi rapporti con la moglie e con Brahms, l’allievo dal volto angelico arrivato nella vita della coppia sei mesi prima del tentato suicidio e destinato a giocare un ruolo centrale non solo nella vita del Maestro, ma anche nella storia della musica.
Abilissimo come sempre nel mescolare verità storica e rielaborazione immaginifica, Filippo Tuena utilizza lettere, stralci di diari, partiture per raccontare una storia di arte e pazzia che ha i toni foschi di un romanzo gotico, e che attraverso la vicenda emblematica di Schumann esplora i rapporti della civiltà europea con la morte e l’aldilà, con la religione e la scienza, e da ultimo con la musica, «corpo spirituale del mondo», suo pensiero in scorrimento . Il risultato è un romanzo che si legge con la voracità di “Dracula” o “L’abbazia di Northanger”, una storia di fantasmi la cui scoperta più spaventosa è l’impossibilità di capire fino in fondo l’altro.
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