Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
L’incipit di questo post coincide con una domanda (ovviamente vi invito a rispondere). Lo spunto per la discussione ce lo offre la nuova opera narrativa di Elvira Seminara: “I racconti del parrucchiere” (Gaffi, 2009). [Peraltro siete tutti invitati alla libreria Giunti, di Piazza Duomo, a Catania (giorno 5, intorno alle h. 18,30) dove la stessa Elvira, insieme al sottoscritto e a Luigi La Rosa offrirà una sorta di workshop sul racconto presentando – contestualmente -“I racconti del parrucchiere”].
In questi racconti l’autrice dimostra di essere eclettica: la scrittura e lo stile si trasmutano da racconto in racconto – da voce in voce – mantenendo una qualità narrativa molto elevata e mettendo in scena un campionario umano completo, complesso e perfetto nella sua differenziazione.
C’è una sciampista dotata di poteri arcani di cui non era consapevole e che le consentono di carpire i pensieri delle clienti ogni volta che, per fare lo shampoo, tocca con le sue dita l’altrui cuoio capelluto. C’è un’extra comunitaria che decide di farsi bionda e che immola la lunga e nera treccia – curata per anni sotto il burqa – sull’altare dell’integrazione in un mondo che è diversissimo da quello d’origine (il taglio della treccia può essere visto come metafora della recisione delle proprie radici). C’è un poeta transessuale che decide di tagliarsi i capelli e di cambiarne la tinta: (E poi perché ci chiamano trans? Vuol dire attraverso, l’ho cercato sul dizionario. Attraverso cosa, la materia e lo spirito, gli ormoni e il silicone? E allora perché non chiamarci mutanti, sconfinanti, o che ne so. Vivere sul bordo, sulla linea, sul margine, vivere in punta di piedi facendo un fracasso del diavolo. In modo furtivo e smaccato). C’è il marito che si apposta poco fuori la bottega del parrucchiere per fare una sorpresa alla moglie. C’è la figlia di un detenuto che scrive la propria storia per inviarla a una rivista (qui lo stile e la scrittura della Seminara si trasfigurano per uniformarsi a quello del personaggio a cui si presta la voce… in questo caso la penna, caratterizzata dalla punteggiatura un po’ bizzarra). C’è una donna che una mattina si risveglia con gli occhi di colore viola e che vive, con leggerezza, una sorta di provvisorio risveglio kafkiano (la donna asseconderà il cambiamento tagliando i capelli cortissimi e tingendoli di rosso; ma la mattina dopo gli occhi torneranno a essere castani). C’è una giovane suora, dalla fervida immaginazione, che – prima di entrare in convento – decide di passare dal parrucchiere: (Ho capelli castani lunghi, né belli né brutti. Ma per ficcarli tutti sotto il velo, e tenere la testa pulita senza perdere tempo e fantasia, devo per forza tagliarli).
C’è il racconto struggente di un padre separato che, in compagnia del figlio (che non riesce più a vedere ogni giorno come vorrebbe), attende in macchina l’ex moglie che sta per uscire dalla bottega del parrucchiere.
E c’è altro. Molto altro. Perché i capelli hanno anche un forte valore simbolico e, in fondo, esprimono noi stessi. La nostra personalità, la nostra cultura, le nostre origini. E attorno ai capelli e al parrucchiere si accavallano e si alternano storie, caratteri, esistenze, destini. Voci che si mischiano e confluiscono fino a formare un unico particolarissimo coro.
Di seguito potrete leggere la recensione di Sabina Corsaro, direttore editoriale del magazine Lo Schiaffo (chiedo a Sabina collaborazione per animare e moderare il post relativamente ai racconti di Elvira).
Invito Luigi La Rosa ad aiutarmi per portare avanti la discussione sui racconti in generale.
Naturalmente interverrà anche l’autrice della raccolta.
In coda al post potrete leggere una storia tratta da “I racconti del parrucchiere”. L’ho scelta perché è una delle più dolenti… e anche perché proverò a “interpretarla” alla libreria Giunti (Piazza Duomo, Catania) giorno 5. Vi aspettiamo!
Dunque: discuteremo sia di questi racconti della Seminara che dell’arte del racconto in generale.
Vi ri-formulo la domanda: Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
E aggiungo questa (in tema): che rapporto avete con i vostri capelli?
A voi!
Massimo Maugeri
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I racconti del parrucchiere di Elvira Seminara (Gaffi)
recensione di Sabina Corsaro
Cosa mai avranno in comune un libro di racconti sui capelli e la pittura di Edward Hopper? Al primo impatto nulla. Eppure dei riferimenti esistono.
Elvira Seminara (che aveva già catturato lo scorso anno l’attenzione del lettore e della critica con L’indecenza, edito dalla Mondadori), ci propone una serie di racconti accomunati dall’unica tematica rappresentata dai capelli. I protagonisti di questi racconti sono legati da questo destino comune: il loro rapporto inevitabile con i loro capelli.
Ma perché Hopper?
Nei dipinti del pittore le figure umane sembrano più essere delle comparse, mentre i protagonisti reali sono gli spazi all’interno dei quali essi si muovono. Gli edifici lungo la strada, la ferrovia nelle zone di periferia, le stanze degli uffici in Hopper sono i soggetti concreti e voluti e le figure umane vi si trovano inserite quasi casualmente.
La prospettiva è il risultato di uno sguardo che si alterna tra spazi chiusi e aperti; tra interni ed esterni. Ma sono le finestre e le vetrate a rendere accessibile lo sguardo del pittore; uno sguardo estraneo, distaccato, da voyeur: spazi non resi nella loro interezza, ma mediante tagli, tesi a cogliere la gente comune nello svolgimento dei suoi atti quotidiani.
Allo stesso modo nei racconti di Elvira Seminara vengono descritti spazi chiusi (l’interno dell’auto, di una sala, di una stanza) e in modo ridondante tornano finestre, vetri, tende, come se i personaggi dei racconti vedessero sempre attraverso un filtro e come se questi personaggi venissero osservati dall’autrice negli interni dei loro appartamenti e colti, a loro insaputa, in quei loro atti meccanici.
Così vediamo muovere i personaggi in luoghi familiari, rappresentati ora dalla sala del parrucchiere, ora da una stanza d’appartamento, in ogni caso sempre alle prese con il loro rapporto conflittuale col tempo e la realtà. E’ proprio il tempo uno degli elementi più significativi: ne I racconti del parrucchiere esso si traduce in attesa, rimpianto, memoria, speranza, quasi mai in presente. Ed è questo a miscelarsi con uno spazio rappresentato anche dal paesaggio: l’incertezza dei personaggi si esplica attraverso l’incertezza meteorologica; in molti racconti c’è l’attesa della pioggia come liberazione da uno stato di ansia, di inquietudine ma anche come riflesso di una luce cupa ed evanescente che si cela nell’animo dei protagonisti.
Sono personaggi da cui trapela una dirompente solitudine: il trans, l’insegnante zitellona, il padre separato dal figlio e altri. I personaggi si sentono a disagio nei loro spazi abituali e cercano una via di fuga nel tempo: passato o futuro che sia.
Il rapporto del personaggio col tempo è spesso lacunoso, riflesso della frattura nei confronti della vita che sta fuori dallo spazio in cui è rinchiuso.
E’ presente per intero la concezione che Norbert Elias aveva del tempo: “Simbolo di una sintesi sociale appresa” e non quindi un dono della ragione innata. La protagonista di Diario, ad esempio, non è in grado di scandire in modo corretto il suo tempo perché non è più in grado di comunicare col mondo, avendo spezzato il filo di quell’apprendimento delle sintesi sociali. Ma ecco che viene in soccorso la scrittura, che diviene necessaria nel tentativo di una riconciliazione tra individuo e ritmo del mondo. La scrittura come terapia, cura: c’è per intero Zeno Cosini. Sia per lui che per la protagonista del racconto la scrittura-terapia è imposta dall’elemento dell’autorità (il medico), è una costrizione al pari di un medicinale somministrato.
Il personaggio quindi si riconosce nella figura di un paziente, di un malato.
Quello della malattia, si sa, è un tema ricorrente che abbraccia la letteratura di una buona parte del Novecento: da Saba (con la sua paura di essere uomo tra gli uomini) a Pirandello (con la sua consapevolezza della frammentarietà dell’identità); da Joyce (con i suoi flussi di coscienza come riflesso della psicanalisi che in quegli anni varcava nuovi confini dell’inconscio nell’uomo moderno) a Proust (con la sofferta accettazione della natura debole e peccatrice dell’animo umano). Fino a comprendere Svevo (con il suo pericolo di esser uomo) e il critico narratore Debenedetti (con l’aver compreso che l’identità non può essere definibile poiché nasce plastica).
La malattia quindi è un elemento che riveste la funzione di minimo comune denominatore tra i vari fattori tematici della letteratura e nell’autrice di questi racconti la descrizione della malattia resta fedele a quel contesto tradizionale da cui proviene.
La diversità è messa in primo piano, ma una diversità che tenta disperatamente di non tramutarsi in silenzio, in assenza di comunicazione e che invece pone la necessità del richiamo alla coppia di termini che ne deriva: scrittura-esistenza.
La protagonista di Diario per riappropriarsi del tempo del mondo annota le sue azioni, i suoi pensieri. C’è in lei il timore di perdere la cognizione di questo tempo e quindi di se stessa; c’è la paura più grande di non essere percepita.
La scrittura crea memoria e quindi colma un vuoto. L’assenza di memoria coincide con l’assenza di vita, di esistenza: IO SONO QUA. E’ racchiuso in questa frase della protagonista tutta l’essenza della scrittura, e quindi della Letteratura: letteratura come testimonianza dell’esistere; letteratura come conferma dell’esistere.:
“Ed ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi! L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata… Ognuno leggerà se stesso” (Svevo, Il vegliardo).
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Tergicristallo
da “I racconti del parrucchiere” di Elvira Seminara
Tic tac. Tic tac. Guarda come piove. Ascoltami, ti prego, conviene restare qui, non scendere dalla macchina.
Restiamo così, a guardare il mondo che s’inzuppa e sbriciola come un biscotto.
Vieni qui, vicino a me.
Attento al freno a mano, ti sei fatto male? Facciamo finta che è una magia: noi siamo nascosti, nel buio, e nessun pirata ci può trovare, perché ci sono le tende sui vetri, è la pioggia che le ricama.
Questa è una nave fantasma, e nessuno ci può vedere.
No, che non è notte, è pomeriggio. In autunno è così, fa buio talmente presto. Non te lo ricordi più?
Se vuoi ti racconto una storia. C’è tutto il tempo, davvero, credi a papà. Non lo sai che quando piove l’orologio s’incanta? E anche le stelle, guarda là. Non si muovono da lì, dietro quel campanile. Io ne ho contate sette, e tu?
Ho capito, a te i numeri non vanno giù.
Non piagnucolare, ti prego. Mezz’ora è tantissima per stare insieme quando piove. Tic tac, se lo guardi, il tergicristallo è un dito gigante che fa sì e no, è un piccolo corvo che impara a volare.
Senti, una volta è successo così. C’era un bambino come te che piangeva perché il suo palloncino era volato in cielo, e piangeva dal suo balcone, tutto solo, guardando il sole che se ne stava per i fatti suoi.
Nessuno lo consolava e le sue lacrime cadevano sotto, sulla biancheria stesa nei fili, e sulle macchine per strada.
Quante lacrime! Il bambino non riusciva a smettere, e in poco tempo la strada divenne un lago. Fu così che tutta la gente accese in macchina i tergicristalli, e tutti i finestrini all’improvviso si misero a fare tic tac sotto il sole, e il bimbo si divertì tanto a quello spettacolo che rimase imbambolato a guardare, senza pensare più al suo pallone. E non è finita. Il sole, guardando quella scena buffa, cominciò a ridere a crepapelle, e sbuffando sbuffando spinse giù il pallone, che volteggiando ritornò a casa dal bambino.
E adesso che fai, non parli più? Certo che te lo compro un palloncino, la prossima volta.
Tic e tac, splish e splash. Contiamo insieme i rintocchi, anzi giochiamo alla tabellina del tre. L’hai ripassata, questa settimana?
Ok, cambiamo gioco. Guarda l’acqua che si rotola laggiù sotto la grondaia, è la luna che fa le bolle di sapone.
Abbiamo ancora più di venti minuti, ma tu non chiedermelo più. Ti prego, non tirare fuori le lacrime, stavolta non si può fare quella magia del balcone, perché piove già.
E poi ci sono io con te. Guarda quel lampione, non sembra muoversi nel buio? Forse c’è una lucciola imprigionata nel raggio, che spinge su e giù per liberarsi. E il coperchio del cassonetto fa bum, perché la pioggia lo picchia e rimbalza, insomma. È una grande battaglia navale, e noi restiamo invisibili, al sicuro.
Tic e tac, tu apri gli occhi e li chiudi. Sei stanco, hai ragione, è una giornata che siamo in giro. Ma allo zoo è stato bello, ricordi l’elefante che faceva la pipì…
Anch’io sono stanco, anche la pioggia dev’essere stanca, scende furiosa da un’ora.
Ecco, adesso ti vedo meglio, avevo gli occhiali appannati, hai ragione, anche gli occhiali dovrebbero avere i tergicristalli, ma guarda che non sto mica piangendo, i papà non piangono mai.
Apri quel cassetto, ci sono delle caramelle alla menta.
Certo che puoi portarle a casa, sono per te.
Adesso sono nove, guarda. Come “che cosa?” Le stelle.
Tic e tac, splish e splash, ti metto una musica che ti piacerà. Lo senti, questo è il flauto… Sei andato martedì
scorso a lezione?
Tic e tac, un sabato sì e uno no. Non sono io che decido, lo sai, ma l’avvocato. Domenica sì o domenica no.
Tic tac, il cuore che batte o la pioggia sui vetri.
Tic tac. Apri gli occhi e li chiudi, ti sei addormentato.
Abbiamo ancora quindici minuti per farci cullare da questa pioggia, ora spengo il tergicristallo, così potremo
naufragare. Dormi qui, sulla mia spalla, così.
Dieci minuti.
Cinque.
Tre.
Devo farlo per forza. È così. Io ti devo svegliare.
Andiamo. Sei un poco sudato, dove è finita la sciarpa.
Forza, su, in piedi. La mamma avrà già finito col suo parrucchiere, è lì che ti aspetta, dietro quell’insegna azzurra, quella illuminata, non te la ricordi più?
Certo che ti accompagno io, adesso attraversiamo insieme, ma tu devi fare un salto se no ti bagni tutti i piedi.
Un balzo e abbandoni la nave, così.
Un attimo, vieni qui che ti abbottono. Le hai prese le caramelle? Guarda che domenica prossima ti verrò a prendere prima, devi svegliarti presto, andremo al lago.
E ci sarà il sole, te lo prometto. Ma non dimenticare il cannocchiale.
Hai visto, ha smesso di piovere. Attento a quella pozzanghera.
Bravo.
Ok, adesso guardami negli occhi.
Ciao capitano. Buona notte.
Questo post potremmo definirlo “a due corsie”.
Nella prima corsia avremo modo di dibattere sull’arte della narrazione breve, in generale.
Nella seconda corsia avremo modi di discutere su questi racconti di Elvira Seminara e… di capelli e parrucchieri.
Parto subito con la prima domanda, in riferimento alla “prima corsia” del post…
Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
Come ho già specificato sul post, giorno 5 (cioè, domani), intorno alle h. 18,30, sarò alla libreria Giunti, di Piazza Duomo, a Catania.
Con Elvira Seminara e Luigi La Rosa abbiamo organizzato una sorta di workshop sul racconto.
Siete tutti invitati a partecipare.
L’ingresso è libero.
Proprio a Luigi La Rosa chiedo di aiutarmi a portare avanti la discussione sui racconti in generale.
Ringrazio Sabina Corsaro per avermi inviato questa bella recensione.
Sabina, come anticipato, mi darà una mano ad animare e moderare il post in merito ai racconti di Elvira Seminara.
E ringrazio la stessa Elvira per avermi autorizzato a pubblicare il racconto “Tergicristallo”. Un racconto che ho scelto io e che mi ha molto colpito.
Proverò a “interpretarlo” domani alla Libreria Giunti di Catania.
@ Simona Lo Iacono
Cara Simo, qualche settimana fa presentammo questa raccolta a Siracusa. Il tuo bellissimointervento era incentrato sulla… storia dei capelli.
Potresti parlarcene un po’ anche qui?
Per il momento vi saluto.
Non credo che oggi avrò la possibilità di intervenire ancora.
In ogni caso questo post ci farà compagnia per un po’ di giorni (insieme a quello delle “strane coppie”: Ortese-Bachmann… che vi invito a non tralasciare).
Buona giornata!
Molto in breve. Penso che scrivere un buon racconto sia più difficile che scrivere un buon romanzo. Il romanzo è più impegnativo, per carità. Ci vuole più tempo a buttarlo giù. Ma c’è più spazio per costruire una storia. Nel racconto, no. Il racconto è un colpo di pennello. Ci vuole la mano da pittore.
Ho letto il bellissimo racconto TERGICRISTALLI. Tanti complimenti all’autrice.
Sono d’accordo con Paolo quando dice che il racconto è un colpo di pennello. Ma il romanzo secondo me è altra cosa. Non credo che scrivere un racconto sia più difficile di scrivere un romanzo. La Seminara cosa ne pensa? Lo chiedo visto che è autrice sia di romanzi sia di racconti.
Coi miei capelli ho un rapporto complesso e complessato. Sarà perché sono completamente calvo?
Non ho la competenza per discettare sull’arte del racconto e sulle sue caratteristiche. Però ho letto anch’io il bel racconto tergicristallo. Mi è parso molto bello.
Il racconto sopra è molto poetico, suscita grande tenerezza e mette in risalto il ruolo del papà, mentre la mamma è impegnata nelle sue, diciamo, frivolezze. Complimenti Elvira. Questi racconti mi fanno riflettere sul ruolo che ha il parrucchiere nella nostra vita. Si stabilisce un rapporto intimo con lui, gli permettiamo, o le permettiamo, (meglio le) di massaggiare la nostra testa, di toccarci le orecchie, di insaponarci la faccia. Fatalmente si instaura un rapporto di complicità con il nostro coiffeur (a meno che non sia completamente stronzo, come quello che avevo prima, tra l’altro era anche milanista. Alla fine del lavoro usava darmi un colpettino in fronte con l’indice ed esclamava: “Toh, risuona vuota!”. L’ho cambiato); il suo salone diventa un crocevia di storie, pettegolezzi, segreti carpiti. Ha il suo fascino, il parrucchiere, senza dubbio
Caro Massi, cara Elvira, cara Sabina, caro Luigino,
bellissimo ritrovarvi insieme come quel giorno a Siracusa, al Biblios caffè!
Lì io e Massi abbiamo sovrapposto le voci, abbiamo interpretato, abbiamo abbracciato e scoperto. Massimo si è occupato dello stile, della leggerezza del narrato di Elvira, paragonabile solo alla levità di Calvino. Io ho ripercorso la storia dei capelli, dei simboli che evocano e delle allusioni a cui rimandano.
Serata bellissima, che custodirò per sempre nel cuore.
Ecco uno stralcio di quell’intervento.
Un bacio a voi tutti
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I capelli creano rivoluzioni, esprimono tabù, balzano da noi, ci offrono agli sguardi. Si riflettono negli specchi, brillano se siamo felici, si appannano per raccontare la nostra stanchezza.
Dicono. Dicono della nostra fragilità e della nostra forza. Dei nostri sogni mancati o di quelli che inseguiamo. Di ciò a cui crediamo.
O di ciò a cui vorremmo credere.
In Cina tagliare i capelli era un disonore. Nell’antica Roma, invece, i soldati portavano barba e capelli corti per non offrire un punto di presa ai nemici. In Francia avere i capelli lunghi era un privilegio di re e di nobili.
L’invincibilità di Sansone era legata alle sue lunghe chiome.
Lo sciamano porta i capelli lunghi e sciolti per pregare e, danzando, entra in contatto con il soprannaturale. Gli eremiti li lasciano incolti per testimoniare il loro distacco dal mondo. Monaci orientali e frati cristiani si tosano il capo come atto di sottomissione a Dio. Le peot, i lunghi capelli ai lati del volto degli ebrei ortodossi, sono in ossequio ad una prescrizione biblica.
Nei paesi di mare, le mogli dei marinai non si tagliano i capelli finché il marito non è tornato sulla terraferma, pena disgrazia e sventura. Tra i contadini si pensa che porti male tagliare i capelli ai bambini prima che abbiano compiuto un anno di vita. Nell’antico Egitto, quando un ragazzo guariva da una malattia, la famiglia gli tagliava i capelli e li metteva su di una bilancia, quindi versava il corrispettivo in oro e argento ai custodi degli animali sacri.
Tagliarsi i capelli è anche un modo di esprimere il lutto. Iside compì il gesto dopo aver saputo della morte di Osiride.
La psicologia e le scienze della comunicazione hanno sempre intuito il valore simbolico dei capelli.
“La scimmia nuda” di Desmond Morris (tascabili Bompiani) è probabilmente il testo dal quale occorre ancora partire, per comprendere quanto il confine che separa l’uomo dall’animale passi innanzitutto dalla cura culturale dei capelli.
Uno studio approfondito, in lingua inglese, è quello del canadese Grant McCracken (Big Hair. A Journey into the Transformation of Self, The Overlook press, New York 1996), dove fra l’altro si propone una puntigliosa distinzione fra sette tipi di bionde (esplosiva, solare, sfacciata, pericolosa, mondana, fredda, alla moda), tutte fatali, ma con esiti molto diversi.
In Italia bisogna andare a spulciare nell’ormai ricca bibliografia sulla moda come fatto comunicativo e linguistico (è per esempio di Einaudi la raccolta di scritti – “Il senso della moda”- di Roland Barthes), per trovare studi su argomenti specifici come la moda di strada lanciata dai punk o i significati degli skinhead (si veda il volume collettivo curato da Giulia Ceriani e Roberto Grandi: “La moda: regole e rappresentazioni, Franco Angeli”).
Non fa eccezione un libro di Ugo Volli di alcuni anni fa (Block modes, Lupetti), che dedica al linguaggio dei capelli un lungo capitolo dove si ricostruiscono le ragioni culturali e le articolazioni semiotiche di questo universale mezzo di comunicazione.
Osservazioni interessanti sul senso sociale delle odierne capigliature postmoderne si trovano poi in diversi libri di Patrizia Calefato, come per esempio: “Moda, corpo, mito” (Calstelvecchi) e “Mass moda” (Costa & Nolan).
Anche l’arte lo ha sempre intuito. Per esempio nella mostra “Un diavolo per capello”- museo civico archeologico di Bologna- dalla sfinge a Warhol, in trecento opere (reperti archeologici, dipinti, sculture, fotografia di moda e quant’altro) rivive la storia dell’acconciatura dall’antico Egitto alla Pop art (a cura di Pietro Bellasi e Tulliola Sparagni, catalogo Mazzotta).
il mio rapporto con i parrucchieri non è molto economico. con quello che costano!
però è vero, là dentro passa umanità di qualunque tipo. ci si potrebbe girare anche un film ad episodi intorno ai parrucchieri!
il racconto ‘tergicristallo’ è toccante. io non sono una grande lettrice di racconti. preferisco le storie lunghe dei romanzi, ma stavolta farò un’eccezione 🙂
Carissimi, bel libro davvero quello di Elvira, su cui avrò l’onore di relazionare domani sera, alla libreria Giunti, con l’autrice e Massimo. Spero possiate essere numerosi. Come sottolinea la bellissima pagina di Sabina: un libro che racchiude storie di solitudine. Tra passato e sogni, tra speranze e fallimenti. Tra spazi interni ed esterni, con un’attenzione ai luoghi, che si fanno carichi di dettagli e simbolismi. Un libro toccante, pieno di nostalgia. Che circumnaviga l’umanità e i suoi misteri. Un vivo augurio all’autrice e un caro saluto a tutti…
Caro Massimo, cercherò di seguire con piacere gli interventi che arriveranno. Sono quelle occasioni in cui il blog diventa strumento di dialogo, di partecipazione, e di riflessione critica. Grazie a te, sempre, per rendere possibile tutto questo…
E’ molto interessante il paragone che Sabina Corsaro fa tra questi racconti e i quadri di Hopper. Edward Hopper è un pittore che non riesco ad amare profondamente, ma i suoi quadri comunque mi colpiscono sempre molto, e restano nella mia memoria anche più di altri che apparentemente riescono ad affascinarmi di più. E in questo c’è una forza indubbia, non comune.
Della Seminara ho letto solo il racconto qui pubblicato e non è facile confermare solo da questo la validità di quel paragone.
Però è certo che sia un racconto che si lascia ricordare per un’atmosfera ben definita, per un vago senso di vuoto, di alienazione e forse di solitudine che ben si sposa con i quadri di quel pittore, dove sono l’ambientazione, la luce, gli oggetti apparentemente solo di contorno, la scena in sè, quindi, a determinare il climax in cui si muovono i personaggi.
Una storia che rimane ad arrovellare la coscienza, e che non si fa dimenticare tanto facilmente, proprio come un dipinto di Hopper.
I miei complimenti alla Seminara, quindi; perchè se tutto il libro è di questa qualità potrebbe trattarsi di un vero gioiellino.
@ Luigi: credo che un maestro insuperato del racconto sia Michail Čechov. La sua tecnica “sospesa” ch non chiude mai veramente il finale, si avvicina per certi versi alle suggestioni di Elvira. Che ne dici, Luigino?
@Sabina: bellissimo paragone e bellissima recensione! Ti leggo sempre con gioia!
oops…scusate la fretta: Anton Čechov…
Sì, cara Simona, in molti dei finali di Elvira Seminara c’è questa sorta di poetica sospensione. Come se la chiusura non si consolidasse mai del tutto in una soluzione unica e inequivocabile, ma lasciasse aperte possibilità differenti, nuovi modi per tornare alle suggestioni della trama. Questo accade in questi splendidi racconti, come accade in molti grandi maestri del racconto: dalla Mansfield, che io sto trattando per adesso nei miei laboratori e che ritengo una conoscitrice sublime dell’animo umano, a Cechov, maestro di indiscussa genialità (colui che per primo riconosce il valore infinito dell’attimo narrativo, dell’istante eletto a momento di rappresentazione artistica), a Carver, poeta del canto minimale del nostro tempo e delle sue contraddizioni, ad Alice Munro, infine, che io credo rappresenti una delle eredi di Cechov che maggiormente nella modernità hanno saputo rielaborare il messaggio e la cifra intima del grande autore russo. E ne ho citati soltanto alcuni, alcuni di quelli che io amo particolarmente. Ma l’elenco potrebbe essere interminabile, e si potrebbero ancora aggiungere Murakami, Ishiguro, la Byatt, il nostro Calvino. Insomma, una serie di autori che hanno segnato la storia delle letteratura degli ultimi secoli. E che Elvira Seminara dimostra di aver letto, amato, e fatto propri. Grazie per lo spunto interessantissimo, un abbraccio…
Non credo che ci sia una regola precisa. Certo, l’importante è colpire in poche righe. In questo senso, gli epigrammi sono una scuola. Ma nel racconto breve credo si debba puntare su due-tre immagini efficaci al massimo e cucirci intorno la storia. La molteplicità di situazioni può essere dispersiva così come un numero eccessivo di personaggi.
Ho letto con piacere gli interventi sino ad ora pervenuti. Sono contenta di trovarmi insieme a Massimo e a Luigi nel commentare i racconti di Elvira Seminara e confrontare le nostre vedute con chi vorrà apportare le sue o conoscerne di nuove, curiosare…
Rispondo subito a Carlo S.
Intanto devo dire che ha carpito precisamente il filo rosso che unisce Hopper ai racconti del parrucchiere.
Devo confessare che quando ho letto per la prima voltai racconti di Elvira ho percepito una sorta di ‘sintomo’, qualcosa che mi richiamava delle immagini, poi mi è bastato collegare dettagli, luoghi chiusi, vetri e descrizioni ‘ per tagli’ ed ho subito realizzato: certo, qui mi sembra di vedere i dipinti di Hopper.
E’ proprio quel senso di solitudine, di vuoto interiore in mezzo alla folla, alla gente, ai rumori, tipicamente urbana e dei nostri giorni, che avvicina questi racconti ai quadri dell’artista americano. Non è un collegamento che viene fuori subito o leggendo un solo racconto ma lo percepisci quando hai letto più racconti e cominci a vedere muovere nella tua mente i personaggi di questo stessi racconti. Mi chiedo come mai Hopper non abbia mai raffigurato una sala di parrucchiere: riesco già ad immaginare il via via delle clienti, quelle che attendono sotto il casco leggendo gornali o riviste, quelle che sono sotto le mani del parrucchiere, qualcuna che paga alla cassa. Immagino una prospettiva vista da fuori, magari con una grande vetrata e quel via vai di azioni, atteggiamenti quotidiani immortalati in un tempo che sembra immobile, indefinibile. Chissà se Hopper non avesse pensato ad un dipinto su quel luogo, specie quando è sera e la sala si svuota…
Inoltre c’è da dire un’altra cosa:
Hopper eleva (ma già Vermeer lo aveva fatto e poi Degas) a materiale per arte gli scarti del quotidiano, gli uffici, il lavoro delle segretarie, dei baristi, allo stesso modo Elvira attribuisce ‘dignità letteraria’ a quei soggetti che nella contingenza sublunare a noi passano inosservati anche se quotidianamente indispensabili:
come potrei io fare a meno del parrucchiere (tanti, non uno in particolare, non sono ‘feldele’ in tal senso) per sentirmi ordinata e tenere a bada i miei capelli un po’ ribelli?
@ Simona: grazie carissima Simona, sono io ad essere felice o onorata di leggere te!
Quindi gli spazi, ripeto, sono personaggi accanto agli altri personaggi rappresentati dalle figure umane, ma questo è un ‘tratto’ (permettetemi di continuare con la metafora pittorica) della scrittura di Elvira Seminara:
nel libro precedente, L’indecenza, la casa e il giardino erano Personaggi non meri spazi funzionali.
A proposito de I racconti del parrucchiere riporto la recensione di Silvana Mazzocchi su Repubblica.it, ecco il link:
http://www.facebook.com/ext/share.php?sid=111463850990&h=BN0yM&u=LRFPe&ref=mf
Capacità di catturare l’attenzione immediatamente, di suscitare emozioni, suggestioni, di lasciar intravedere una storia con pochi tratti… Questo è il racconto. Per restare in tema pittorico, un piccolo acquerello nei confronti del quale il romanzo si pone come un grande affresco. Elvira Seminara mi pare ci riesca molto bene.
Se nel romanzo prevale l’analisi,nel racconto deve prevalere la sintesi,la direzione dei fatti,anzi del fatto è verticale,immediata ma si compone di una parte di non-detto di cui il lettore dovrebbe intravedere la punta.Una grande tensione deve attraversare tutta la storia e i personaggi,come diceva Cechov non devono mai perdere il fuoco,l’oggettività.Però fra i grandi citati,penso anche a Poe,Kafka e Flaubert e Maupassant.L’ottimo Calvino e Landolfi,e il più recente Cortazar che consiglio a tutti gli amanti del racconto.
Sono felice che qui si parli di un buon libro di racconti,perchè per troppo tempo si è pensato a questo genere di scrittura come ad un genere minore,ma di cui oggi si vede una rinascita proficua anche per mano di giovani scrittori e scrittrici,perciò W il racconto!
un grande in bocca al lupo all’autrice.
Cari amici vi ringrazio tutti per questi primi commenti.
Scusate se non mi dilungo (l’ora è un po’ tarda), ma avrò modo di replicare a qualcuno dei vostri commenti nei prossimi giorni.
(Off topic: sono rientrato da poco dalla doppia presentazione a Rosolini di “Letteratitudine, il libro” e “Tu non dici parole”. Ne afrò cenno nella “camera accanto”).
Un ringraziamento particolare a Sabina e a Luigi (da me espressamente chiamati in causa) per i loro interventi.
Nei prossimi giorni interverrà anche Elvira Seminara.
Rilancio le domande:
Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
E poi (questa è per divertirci un po’… rispondete, dài…):-))
che rapporto avete con i vostri capelli?
E mi è venuta in mente quest’altra domanda (prendetela come un invitoa una sorta di gioco).
Secondo voi chi è il più grande scrittore (o la più grande scrittrice) di racconti di tutti i tempi?
Auguro una serena notte a tutti.
la bottega del barbiere
.
Quando mio padre mi accompagnava e mi faceva sedere su quelle poltrone di pelle in attesa del mio turno mi sembrava di essere entrato nel mondo dei grandi, ma non una città caotica e ansimante, bensì un paese nel quale tutti si conoscono e di tutti si parla citando particolari. Nell’aria profumi di lozioni, una nota di borotalco per quelli che avevano finito e venivano spazzolati sul collo. Guardavo il cavallino di ghisa per i bambini più piccoli e mi sembrava fosse passata una eternità da quando mi tagliavano i capelli su quello strano e scomodo sedile. La bottega del barbiere la riconoscevi dall’insegna, dalla colonnina a strisce elicoidali di due colori. Era un posto inconfondibile. C’era il ragazzino, spesso un compagno di scuola che aveva lasciato, addetto alla spazzola ed alla scopa. C’era il ragazzo più grande che stava imparando il mestiere e che si esercitava sulle teste di noi piccoli, tanto i padri dicevano una sola parola “corti”. Non c’era bisogno, quindi, da andare troppo per il sottile. Il proprietario della bottega aveva viaggiato o almeno così diceva. Sapeva di ogni cosa, ma soprattutto di donne. In quel paese di soli adulti senza fretta, le donne erano l’argomento principale. Le trovavi celebrate sui muri, nelle foto attaccate al lato dello specchio, sul calendario che, immancabile, stava accanto all’attaccapanni dove i vecchi lasciavano il cappello. La vita rallentava in quella bottega. Era un punto di ritrovo e capelli o barba erano un pretesto. Una visita al bar o una cena tra amici. Una celebrazione lenta della vita minore, fatta di donnine e fatti di paese. Un momento nel quale ti sembrava di essere già adulto senza alcun desiderio di volerlo diventare.
Con i capelli il mio rapporto si è evoluto negli anni,da ragazza erano il punto più alto della mia inquietudine,perciò li torturavo,non vi è stata pettinatura o colore che non abbia portato,ricci,lisci,scalati,cortissimi,lunghissimi, a carrè,nerissimi,castani,rossi e con i riflessi dorati,insomma chissà che andavo cercando fuori che non trovavo dentro!Però mi divertivo anche e proiettavo sul mio parrucchiere ogni sorta di felicità e di infelicità.Da circa dieci anni posso dire di avere trovato una certa pace in testa,in tutti i sensi,anche se talvolta come il mostro di Lochness,l’ansia del capello risale a galla e se vedo in giro un gran paio di forbici mi do una sfilzatina alla frangia che non c’è più o mi trapela l’idea di farmi bionda,poi penso che è meglio un pò di meditazione sul divano.E anche che il mio vecchio parruchiere è andato in pensione.
buona giornata
Alla prima domanda credo di avere risposto ieri,alla seconda sopra, per la terza devo riflettere,dopo il secondo caffè,ma non dirò Cechov,perchè lo ritengo più un punto di partenza da cui si sono mossi altri interessanti scrittori di racconti.
Scrivere storie brevi è davvero difficile. Se dovessi pensare ad un maestro, il primo nome che mi viene è Carver.
Il racconto della Seminara è bello.
Sì, anche Cechov mi piace molto. Gli autori che hanno il privilegio di essere considerati punti di partenza non possono che essere i più grandi, anche perché nella scrittura ci sono punti di partenza ma non punti di arrivo.
Tengo in ballottaggio Carver e Cortazar,però mi permetto di inerire una definizione di quest’ultimo sul racconto che mi piace molto: ” In questo senso, il romanzo e il racconto si possono paragonare analogicamente al cinema e alla fotografia, nel senso che un film è innanzittutto un ‘ordine aperto’, romanzesco, mentre una fotografia riuscita presuppone una rigorosa limitazione previa, imposta in parte dal campo ridotto che l’obiettivo comprende e inoltre dal modo in cui il fotografo utilizza esteticamente tale limitazione. Fotografi del calibro di Cartier-Bresson o di un Brassai definiscono la loro arte come un apparente paradosso: quello di ritagliare un frammento della realtà, fissandogli determinati limiti, ma in modo tale che quel ritaglio agisca come un’esplosione che apra su una realtà molto più ampia (…) dunque il fotografo e lo scrittore di racconti si vedono obbligati a scegliere e a circoscrivere un’immagine o un avvenimento che siano significativi (..) che siano capaci di agire sullo spettatore o sul lettore come una specie di ‘apertura’, di fermento che proietti l’intelligenza e la sensibilità verso qualcosa che va molto oltre l’aneddoto visivo o letterario contenuti nella foto o nel racconto. Uno scrittore argentino che ama molto la boxe [Adolfo Bioy Casares, n.d.r.] mi diceva che, in quella lotta che si instaura sempre fra un testo e il suo lettore, il romanzo vince ai punti, mentre il racconto deve vincere per ‘knock out’. ”
Ecco direi che sposo la definizione e l’arte di Cortazar.Ma poi mi sento di fare un torto ai francesi,vabbè devo scegliere,oggi leggo con enorme piacere i racconti di Cortazar.
@Ilaria è proprio quello che hai detto che intendevo,perciò Cechov lo davo per scontato e volevo dire qulacuno di più vicino ,recente,in cui magari s’intravedeva un’evoluzione del racconto,li ho detti.
A me piace tanto Borges, come autore di racconti, ma anche Kafka, Buzzati, Cechov… Non credo che riuscirei a fare una classifica. Però amo molto i racconti, forse più dei romanzi. I racconti non si possono permettere smagliature, devono dire tutto subito, il tempo stringe. Sono l’emozione di un tuffo che finisce presto, nell’acqua. Il dificile sta proprio lì: riunire tante cose che bisogna dire nel più breve tempo possibile. Descrivere una sensazione, una situazione, un personaggio in poche pagine. Quindi l’autore deve essere come un buon fotografo: inquadratura ottima, fuoco perfetto, capacità di cogliere l’attimo in cui tutto viene espresso.
Rapporto con i capelli: sono orgogliosa dei miei capelli, a torto o a ragione. Nessuna umiltà: sono bellissimi. Parruchiere oriundo americano, giovane, bello, atletico, bravo e professionale. Parla con l’accento di Hartford. Una libidine.
Bello il racconto di Elvira, sembra di vedere il padre. Padre separato, figlio solo nei we. Ex moglie che domina il rapporto col bambino. Ecco quello che mi ha fatto “sentire”. Bastano poche righe per capire il rimpianto, il dolore, le cose non dette, non fatte. Questa è la magia del racconto breve. Un flash.
su repubblica c’è un’intervista ad elvira seminara realizzata da silvana mazzocchi
http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/spettacoli_e_cultura/passaparola-2009-4/racconti-parrucchiere/racconti-parrucchiere.html
perfettamente d’accordo con barbara becheroni 🙂
A proposito di racconti anch’io sono un amante di Carver. Carver impiegava tantissimo tempo a rivedere i suoi racconti. Era uno che lavorava molto di cesello.
Questa citazione spiega meglio cosa intendo: “È difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. Questa non è una contraddizione in termini. Arrivo a sottoporre un racconto persino a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c’è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un processo di rivelazione.”
(Carver)
Dimenticavo di complimentarmi per il post e di fare tanti auguri alla scrittrice Elvira Seminara.
Scusate, un’ultima considerazione su Carver sull’importanza della prosa. Utilizzo un’altra sua citazione: “La prosa deve reggersi in equilibrio, ben eretta da capo a pié, come un muro decorato fin giù alla base, la prosa è architettura” (Carver).
Mi piace questa idea della prosa come architettura. Non la trama, ma la prosa. Cosa ne pensate?
Alla domanda sul rapporto con i nostri capelli ho cercato di rispondere con il commento precedente sul luogo nel quale avviene la cura degli stessi. Quanto alla domada sull’autore, condivido la scelta di Carver. Personalmente aggiungerei anche Edgar Allan Poe.
Su Checov e Borges come punti di partenza mai raggiunti sono assolutamente daccordo.
Sui capelli…. io non li ho mai “tormentati”…. da piccola a caschetto, con forcelline annesse ai lati… Li ho sempre amati molto e anche perché li hanno sempre amati molto anche gli altri… morbidi, lisci, un bel colore castano chiaro….
Finché sono spuntati quelli bianchi ( a 40 anni) e ora li devo tingere un pò.. Son sempre abbastanza morbidi e chiedo alla parrucchiera di farli del mio colore naturale oppure un pò più chiari.. Ma non sono più come prima… perché i colori li rovinano sempre un tantino. Vabbé: la natura “punisce” sempre la “vanità”…e siccome ero molto vanitosa…..
Che simpatici i racconti di Fran e di Eventounico…
Avete visto quel film con Anna Galiena “Il marito della parrucchiera”? (= Le mari de la coiffeuse. Molto carino. Drammatico, però alla fine).
@rob sì me lo ricordo il marito della parrucchiera, c’era una scena in cui lui ballava con musica araba di sottofondo?
ma che carina ti vedo con le forcelline ai lati dei capelli 🙂
Sull’altra domanda: “Che caratteristiche deve avere un racconto breve per funzionare?” sono d’accordo con Enrico Gregori+ ci dev’essere, credo, una forte idea centrale attorno alla quale costruire una vicenda.
Anche il paragone Cinema=romanzo / fotografia= racconto è molto suggestivo e rende bene l’idea.
In genere credo sia più “difficile” scrivere romanzi che racconti ( alcuni inorridiranno…), ma solo perché il romanzo ha bisogno, come scriveva qualcuno qui più su, di un'”architettura”. Però è difficilissimo scrivere anche racconti perché bisogna inventare molte storie e tutte diverse.
@Fran
Sì, è quello. Il racconto di Evento me l’ha ricordato… Non è un film proprio bellissimo, ma molto poetico.
( forcelline:ero sempre molto “classica”, anche da piccola.. ce li avevo un pò come Alice.. Ora non posso più quel taglio.. Comunque: quando il tuo parrucchiere di fiducia non ti taglia o acconcia più i capelli è uno strazio.. quasi il “panico”, finché non ne trovi un altro).
Elvira Seminara indovini un pò oggi pomeriggio dove vado????Ho proprio bisogno di un pò di coccole e di vedermi più vaporosa…..
Mi procurerò il suo libro,assolutamente.
@rob io dal mio ci andavo anche al posto dell’analista qualche volta….che spasso,barzellette,aneddoti sulle signore,un pò di corteggiamento classico con complimenti,due carezze sulla testa per una modica cifra uscivi come nuova!!
baci
Ringrazio tutti per i nuovi commenti.
Sono venuti fuori i nomi di diversi autori di racconti… per tutti, Carver.
Sarebbe bello poter inserire il pensiero (nel senso di “stralci di testi”) di questi autori in merito all’arte del racconto breve.
Per me il parrucchiere (lo chiamo barbiere) ha un effetto rilassante. Il clang-clang delle forbici sulle mie ciocche ha un effetto più potente di una camomilla doppia. Un paio di volte credo di essermi addormentato… sotto i ferri:-)
Tra un paio d’ore (come anticipato sul post) sarò alla libreria Giunti di Piazza Duomo (Catania) a presentare “I racconti del parrucchiere” di Elvira Seminara insieme all’autrice e a Luigi La Rosa. So che convergeranno lì molti amici di Letteratitudine.
Con gli altri ci ritroveremo qui.
Per il momento auguro buon pomeriggio e buona serata a tutti.
Se può servire come contributo, io trovo la raccolta di racconti”Le rose di Atacama” di Sepulveda un’opera magistrale.
Molto bello il racconto di Elvira Seminara. Non ho ancora letto il resto. poi lo farò.
A me i racconti piacciono assai. Mi associo anch’io per Carver che mi piace tanto. E vorrei spezzare una lancia per lo zio Buck. Lo so che qualcuno storce il naso ma ha scritto dei racconti perfetti. Ho ancora il ricordo di un pomeriggio al fiume. Avevo con me ‘Musica per organi caldi’ e lessi ad alta voce un racconto di cui non scrivo il titolo perché contiene una parolaccia e il blog non è mio. La lettura ad alta voce regala emozioni insospettate e il mio pubblico apprezzò molto. Io stessa che avevo già letto tante volte il racconto ho trovato in quella lettura altri motivi di apprezzamento per la scrittura di Bukowski.
Edilizia
Il racconto è una casa presa in affitto, te ne allontani e in un giro di chiave potrebbe svanire…………il romanzo è la Casa, la tua Casa;ritorni dopo vent’anni e se ne hai la chiave(autentica) basterà un soffio un ricordo un soffio di ricordi e la porta si aprirà,la Casa ti accoglierà nuovamente e nuovamente potrai viverla…..leggerla……
Ai maestri del racconto già citati vorrei affiancare Gogol’,Salinger(I Nove racconti)e il DFWallace di Oblio………….fuggo devo incontrare il padrone di casa(quello vero, e insopportabile più di un racconto di tre paginette tre che avresti fatto meno fatica a leggere l’opera completa di p.roth in una nottata in compagnia di una tigre e di scimmie volantivotanti in una stanza in affitto o di quel romanzo che:>
di un romanzo che:>…….buona serata e w il trucco e il parrucco!
Un racconto breve per funzionare deve essere veloce. Quello lungo anche. Neanche durante la lettura dei romanzi ci si deve addormentare. Naturalmente parlo per me e per quello che scrivo.
I 60 racconti di Buzzati per me sono i più belli in assoluto.
Col parrucchiere (in verità uno scalcinato barbiere da 8 euro a taglio) non ho mai avuto un buon rapporto, detesto essere toccato da un uomo in testa (l’unica cosa che ancora funziona). Ho risolto il problema da quando hanno installato la macchinetta automatica nel Comune. Infilo la testa e… in 5 minuti, taglio perfetto, uguale per tutti.
I racconti brevi mi sono congeniali, quelli che conosco meglio sono di Guy
de Maupassant. Li ho letti nei mitici libri grigi della BUR.
Maupassant fu un bravo giornalista, collaborò con quotidiani importanti come “Le Figaro”.
Forse si deve a tale attività il suo stile conciso ,crudo e ricco di intrecci.
In due smilze pagine riesce a decorare un mondo!
Divenne famoso col suo primo racconto “Boule de Suif “(1880).
Oltre che da Flaubert, suo amico e guida,( nei 300 racconti che scrisse), fu influenzato da Zolà e dallo strisciante pessimismo del filosofo Schopenhauer.
Nel 1885, raccontò in un diario il suo ” Viaggio in Sicilia”, vorrei tanto leggere le sue impressioni su na terra così bella e colma di contradizioni.
@ Elvira Seminara, tutta la mia simpatia per i suoi intriganti racconti.
@ Morena, scusami amica mia, non trovo più l’indirizzo per contattarti
@ Simona, la tua bravura e professionalità non si smentiscono mai.
@ Massimo il grande, vorrei essere una mosca e volare da te per ascoltare la tua e le altre relazioni. Domani ci racconterai tutto?
Un salutissimo caro caro a tutti.
Tessy
Caro Massimo,più sopra ho messo il pensiero di Cortazar sul racconto,ora a seguito tua richiesta ti metto qualche altro pensiero di grandi,tra cui l’amato Carver.
” Adoro il guizzo rapido di un buon racconto, l’eccitazione che spesso scaturisce dalla frase d’apertura, il senso di bellezza e di mistero che i migliori sanno evocare (…) Ecco lo scopo che voglio raggiungere con i miei racconti: trovare le parole giuste, le immagini precise, usare la giusta e corretta punteggiatura in modo che il lettore sia catturato e coinvolto nella storia e distolga gli occhi dalla storia solo se la sua casa prende fuoco (…) Se siamo fortunati, autore e lettore insieme, finiremo l’ultima riga di un racconto e poi rimarremo seduti per un minuto, con calma…”..R.Carver
Ci consiglia Henry James, un racconto bisognerebbe “farlo tremendamente conciso, -con un piglio o un ritmo molto breve e la più stringata scelta di particolari- in altre parole riassumere intensamente e tenere a freno gli sviluppi laterali. Dovrebbe essere un piccolo goiello di splendente e vivida forma.”
@Salvo
Dovrò leggere questi racconti di Buzzati.
Però tu ti leggi i racconti di Guy de Maupassant+ i tre racconti di Flaubert? Mi sembra un giusto scambio:)
Per il parrucchiere…. io sono di più come Massimo…mi fa l’effetto della camomilla doppia… una sensazione meravigliosa… poi i miei( sono più di uno..) fanno i massaggi alla testa… eh.
Me ne vado alla camera accanto. Promesso…
@M.Teresa Santalucia Scibona
Tessy, vedo che siamo in perfetta sintonia::)) abbiamo scritto contemporaneamente di Maupassant e di Flaubert. E’ vero: Guy con due pagine riesce a “decorare” il mondo. L’unica cosa: che questo suo mondo è di una tristezza infinita, gli esseri umani cattivi, cattivissimi e egoisti. Infatti tu hai scritto ( io non lo sapevo) che la filosofia di Scopenhauer lo aveva condizionato. E’ morto suicida, infatti.
N.B. anche Henry James non scherza, quanto a bravura. Il suo “Giro di vite” dovrebbe essere un racconto. O forse è un romanzo breve, non saprei. A me piacciono molto anche quelli, già citati, di Edgar Poe e di Checov.
L’origine e la tecnica del racconto è ne “Le mille e una notte”.
Seduzione, incantamento, sopravvivenza.
Una voce che narra, un sogno che svia la morte. Storie e balsami contro l’infelicità.
Il racconto deve sedurre.
Ancor più del romanzo deve produrre una fascinazione immediata e quasi a pelle, una sete e una fame di finale, una sospensione di atmosfere e fantasie.
Sharazade sa che non incantare il suo interlocutore vuol dire morire, abbreviare le mille e una notte di attesa.
E’ la lezione più alta sulla narrazione, sulla sua totalizzante necessità di essere a dispetto di tutto. E sul potere ammaliatore della parola.
Ecco. Credo che il racconto sia uno spaccato in cui l’uomo deve guizzare in tempi brevissimi con tutta la sua intensità e complessità, col suo dolore, le sue contraddizioni, le sue mortali tristezze e le sue ebbrezze faunesche. Miserie e strepiti di scoppietari o pianto di neonati.
La vita.
Ma subito, subito…prima che il giorno sorga.
@ Tessy: mille e un bacio!
Penso che un racconto per quanto breve, non dovrebbe essere veloce. Qualità che invece prevale in questo. La densità di qualcosa di scritto, sia un romanzo o un testo poetico, si misura dalla potenza di ogni singola parola a resistere alla consunzione della comunicazione ordinaria dove ogni differenza si livella e viene destituita di senso. Il discorso comunicativo che è l antitesi del discoso artistico rende rassicurante e chiaro un mondo i cui rapporti per la maggior parte ci sfuggono. Per questo ritengo sia un mito quello della semplicità nell’ arte, come denunciato da Barthes. Ogni testo invece diventa un’ invenzione fuori dall’ordinario solo quando ristabilisce rapporti non convenzionali tra cose, parole, sintassi; altrimenti è semplice manierismo. Se trascina il lettore nella verticalità che rende unica e quindi significativa l’esperienza riportata dall’autore. La stessa verticalità intima di ogni vocabolario, dove la stessa parola può vivere di sfumature contrastanti tra loro. Anche il tema del racconto , riassumere i rapporti tra gli idividui nella sala di un parrucchiere quasi fosse un luogo talmente plurale da contenere la complessità delle relazioni, quando invece c’è tutta un’ umanità stereotipata, coatta da convenzioni e clichè ripetuti con l ordinarietà di un rituale da renderlo uno dei tanti non luoghi attraversati dalla postmodernità, lo rende semplice. Non che la letteratura rifugga questi luoghi, se penso a Kafka e ai luoghi dell’ inappartenenza, invivibili anche testualmente come il bureau del processo. Ma quello è un luogo angosciante, veramente doloroso e profondo che testimonia tutta l inappartenenza dell uomo al mondo. Anche il tema del corpo, forse toccato marginalmente dall’ autore, emblematizzato dai capelli rischia di ricondurre la figura della donna a certi stereotipi che la rendono facilmente identificabile, ingabbiata in dei ruoli, quasi non avesse niente da aggiugere alla sua straordinaria profondità.
Chiedo venia e per la nuova,ennesima incursione e per il finale confusionario,sconsclusionato del mio precedente (dimenticabile)commento:io (le mie dita) e la tastiera non godiamo di un buon rapporto di vicinato di una buona digitazione/coabitazione con le virgolette basse;rimedierò affidandomi ad un perito informatico ad una cartomante o chissà a ghedini oppure (e di questo sono certa sarà la sola scelta felice) alla lettura dei racconti di Elvira Seminara.
A propsito di bei racconti e di capelli,segnàlo alle letteratitudinarie (tutte:-) e alle donne-gabbia – la donna sa (a volte deve essere) la gabbia,di tanto in tanto può,deve essere la casa,la placenta,l’oblò della lavatrice,la caverna,la matrice……- il racconto La parrucca di Nathan Englander tratto dalla raccolta Per alleviare insopportabili impulsi.
In tema di segnalazioni prendo spunto da Elsa e segnalo per gli amanti del racconto e in particolare di quelli sul tema del doppio,che so essere molto caro anche al Maugeri di casa vi suggerisco:IO e l’altro.Racconti fantastici sul doppio di Einaudi.Ci sono interessanti e avvincenti racconti di Conrad. Maupassant, Kafka,Woolf, James e altri,con note del curatore molto accurate.Appassionanti per gli amanti del gotico e del fantastico.Alcuni sono dei veri piccoli capolavori, per chi dice che il racconto è un’arte minore leggesse questi.
buona serata a tutti a Massi bacio
l universo non sta dentro una coppia separata. Se poi deve essere universale quello che è il modo di vivere delle donne occidentali e di queste neppure della parte intera allora la letteratura starebbe bene tutta intera dentro gli scaffali della mia libreria.
Checov, Borges, Buzzati, Kafka, Maupassant, Poe, … e più recentemente il mio amato Bolano, e Alice Munro… Chi dice che racconti debbano essere considerati “letteratura minore” rispetto ai romanzi? Chi lo affermasse direbbe una sciocchezza. Alcuni autori hanno trovato nella forma breve la loro dimensione ideale, mai raggiunta cimentandosi nel romanzo. Penso a Maupassant soprattutto: Boule de suif, o La maison Tellier valgono molto di più del Bel-Ami, ma mi pare questo di averlo già detto qui in qualche post del passato, forse un anno fa o anche più…
Che Eventounico (proprio lui) parlasse di barbiere mi pare straordinario.
Solo conoscendolo si potrebbe cogliere tutta la nostalgia (e l’ironia) insite nel suo intervento-racconto. Comunque mirabile.
Pasquà, tevogliobbene assaie!
🙂
Carlo io la penso come te sull’importanza del racconto,ma spesso alle presentazioni di scrittrori emergenti ho sentito dire”poi vedremo alla prova del romanzo” come a dire sì però dopo i racconti vediamo che sai fare!!
Anch’io adoro leggere buoni racconti,naturalmente dimenticavo la Munro che è straordinaria,però mi intriga di più Cortazar.
buonanotte
Sì, sì, FG, come no, dimenticavo Cortazar! Ma proprio per questo ti consiglierei anche Bolano (tra i libri di racconti: Puttane assassine; Il Gaucho insostenibile; Chiamate telefoniche. E poi: La letteratura nazista in America, che molto deve a Borges e alle sue Finzioni, e forse anche allo stesso Cortazar.
@ Carlo S.
Stella distante:racconto lungo o romanzo breve?
Un buon racconto deve necessariamente essere veloce (qualità calviniana). La lentezza può compromettere l’efficacia di un romanzo, ma annulla del tutto quella di un racconto.
Complimenti alla Seminara anche da parte mia. Il racconto che ho letto qui misembra ben calibrato, intenso e tocca delle corde forti.
quella calviniana non è più ritenuta una qualità insindacabile dai tempi di: A. Berardinelli, Calvino moralista ( 1991 ); A.Moresco, Il paese della merda e del galateo. Note contro Calvino; C: Benedetti, Pasolini contro Calvino ( 1998 ). inoltre cito a caso ” Oltre che di una scarsa disponibilità a sperimentare e rischiare uno stile personale e non appiattito sulle attese di un pubblico medio e distratto, è di un’ idea rinunciataria e difensiva di letteratura e … di immoralità ” che è stato accusato Calvino. E ancora per i fans di Se una Notte…, J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, che sulla resa di questo facile esperimento mette il punto. Infine avrei preferito non fare il nome di Calvino, proprio per non mettere in imbarazzo l’ autore in un confronto che si potrebbe rivelare a due lame. E poi ditemi, a che velocità andate di solito quando leggete Poe o KafKa o Wallace ?
Flaner, la velocità la decide l’autore. Il lettore deve concedergli tutto lo spazio della sua anima. Il tempo è una grandezza derivata in questo caso.
Carlo non bisognerebbe mai dimenticare i bei tempi…andati
Cari amici,
ringrazio tutti per i numerosi commenti pervenuti.
Caro/a Flaner, su Calvino è stato detto di tutto e il contrario di tutto… come quasi di tutti gli autori.
Ognuno, del resto, ha i suoi gusti.
Per me rimane il punto di riferimento assoluto in termini letterari, almeno per quanto concerne la letteratura italiana.
Ma accetto di buon grado il tuo punto di vista, che è opposto al mio (e a quello di molti altri).
Grazie per il tuo commento.
@ Evento
I bei tempi andati…
Mi fai sorridere! 🙂
Per il momento devo chiudere qui.
Auguro a tutti un buon sabato.
Tornerò nel pomeriggio per raccontarvi l’esperienza della presentazione di ieri alla Giunti di Catania e mettere in evidenza alcuni ottimi spunti che ho riscontrato dalla lettura dei vostri commenti.
Visto l’ottimo riferimento di Simona a “Le mille e una notte” non posso fare a meno di citare anche il Decameron di Boccaccio. Appartiene alla nostra tradizione lettereraria e fissa il canone del racconto breve almeno fino al Rinascimento. E’ evidente che, seguendo il corso della storia, non si possono ignorare Chaucer e Cervantes. Fatti salvi i punti di riferimento già citati, perdonatemi se, sia pure scantonando in quelle che tecnicamente vengono definite novelle, mi permetto di indicare Hoffman (segnalo come introduca il narratore nel racconto per fargli condividere con il lettore la difficoltà di trovare una fine al racconto), Verga e Pirandello.
Ho tenuto per ultimi “I 49 racconti” di Hemingway.
Tra il romanzo e il racconto, vedo, che tutti ne constatiamo in modo netto ed invasivo la distanza: ma per il vantaggio di uno o dell’altro?
Simona ha usato una bellissima immagine:
“il racconto… uno spaccato in cui l’uomo deve guizzare in tempi brevissimi con tutta la sua intensità e complessità, col suo dolore, le sue contraddizioni, le sue mortali tristezze e le sue ebbrezze faunesche. Miserie e strepiti di scoppietari o pianto di neonati.
La vita.
Ma subito, subito…prima che il giorno sorga”.
In tal senso forse allora richiederebbe una rivalutazione anche in termini di impegno nella composizione. L’esperienza di italianistica e letteraria (e anche giornalistica) ci insegna che le difficoltà maggiori sono legate alla capacità di attuare sintesi di ciò che apprendiamo e di ciò che vediamo attorno o dentro noi.
Il racconto è il risultato di questa capacità e non dovrebbe, così come molti hanno sostenuto, essere considerato meno profondo o meno impegnato rispetto al romanzo.
Forse la predilezione del secondo al primo per la maggior parte dei fruitori è legata all’affinità tra tempo del romanzo e ritmo interiore del lettore: come in altra sede si è detto con Luigi, Massimo, Simona e la stessa Elvira: non avviene l’immedesimazione, l’identificazione tra lettore e protagonista (essendoci varie identità nei racconti e meno tempo per realizzarla). E’ un tratto essenziale senza dubbio, ma credo che nello steso tempo possa essere più impegnativo per il lettore entrare ed uscire da un mondo conciso, breve, anche se intenso.
Pensiamo ad esempio ai racconti di Gautier (quel modo letterario che potremmo definire fantastico strano): lì non avviene mai l’identificazione con nessuno dei personaggi, tu lettore resti lucido, distaccato emotivamente ma coinvolto intellettualmente).
Nei racconti di Elvira però, come in molti degli grandi autori del passato, c’è il filo ( o potremmo meglio dire capello) conduttore, questo elemento tematico che dà organicità.
Quindi nel racconto non manca l’unità, è un unità frammentata che deve trovare l’attenzione necessaria per essere ripristinata, a differenza del romanzo che te la offre da subito su un piatto d’argento. Non è che siamo anche un po’ pigri ed è per questo che preferiamo il romanzo, in tal senso meno impegnativo nella ricostruzione dell’unità complessiva? Ogni racconto non è vero che è a sé, sono le raccolte che sono convenzionali ma non un libro di racconti.
P.S. @ Francesca Giulia: mi piacciono sempre tanto i tuoi commenti.
@ Massimo, Luigi ed Elvira:
aspettiamo il rendiconto del pomeriggio di ieri!
Scusate, ma vado sempre di fretta e ho sempre la mia evolutissima tastiera… quindi perdonate gli errori di battitura… 😉
@elsa e.v.
Stella distante è l’estensione di uno dei racconti (capitoli?) di “Letteratura nazista in america”. Racconto lungo? Romanzo breve? E il “Romanzetto canaglia” (sempre Bolano) allora? Dove sta il confine? Nel numero di pagine? Ma poi ci interessa veramente “catalogare” la letteratura in questo modo? Oddìo, a volte sì, per intendersi , nel colloquiare, ma purchè non si creino paletti e steccati: “a me piacciono solo i romanzi da 500 pagine in su” mi sembra p.es. una asserzione piuttosto stupida (esattamente come l’opposta “un libro di più di 400 pagine non lo reggo”).
@Evento: d’accordissimo! D’altra parte il Decameron e le Mille e una notte hanno in comune la struttura di una grande cornice che ospita le storie. Il racconto dentro il racconto. Il piccolo nel grande. Quasi un romanzo che racchiude.
Il che dinostra la duttilità della fantasia, dei generi, della parola. L’importanza relativa di lunghezze e tempi.
Tutto sta nell’emozione. Nella commozione.
Ma soprattutto nella compassione.
@Sabina: baci e bacetti (ti aspetto a casa!)
@Massi: raccontaci!
IN BOCCA AL PHON…
Un bellissimo pomeriggio all’insegna delle trame di parole e capelli, degli intrecci alchemici di capigliature e frasi…
Elvira Seminara sciampista magica, che con il suo sguardo cattura le storie e ce le restituisce messe in piega perfetta… Massimo e Luigi, i coiffeur della parola, pronti a pettinare e a dare l’ultimo spruzzo di lacca a esperienze di scrittura e lettura…
Massimo è un ottimo performer, un attore che si cala nei racconti prestando loro voce e passione… bravo!
E che piacere stare assieme agli allievi catanesi di Luigi!
ELVIRA: IL PIACERE “PERMANENTE” DEL RACCONTO!
Naturalmente più tardi cercherò di intervenire in maniera più seria…
🙂
IN BOCCA AL PHON e a tutte le nostre storie di chiome e cuore…
@carlo sì grazie,leggerò anche Bolano,poi sono in sintonia con te sul discorso dei paletti da non mettere,io parto dal presupposto di non sapere nulla se non leggo prima,perciò diciamo che mi accosto quasi sempre con grande curiosità alle letture e in questa epoca di supponenza regale mi sembra una cosa rara e proficua.
@sabina grazie anche io mi trovo in sintonia con le tue parole e ho letto con piacere sia la tua recensione sia i tuoi commenti.
Avete letto i racconti di Malamud?Sono molto interessanti.
@flaner
sono d’accordo con te su molti punti. Penso, come te, che “un racconto per quanto breve non dovrebbe essere veloce”. Calvino non mi entusiasma ( forse perché alle scuole medie ci “costringevano” a leggere racconti – romanzi brevi- non so- che erano così inadatti agli studenti di dodici anni; le sperimentazioni calviniane del linguaggio sono incomprensibili per i piccoli- penso per esempio alle prime pagine de “Il visconte dimezzato”: cosa capisce un ragazzino di quelle immagini di morte? Secondo me, premesso che è indubbio sia un grande della letteratura italiana, la sua grandezza è legata anche a una certa ideologia).
@Fran
grazie per la segnalazione del volume dei racconti gotici e fantastici:)
Mi permetto anch’io di segnalare una grande scrittrice di racconti: Selma Lagerlof (1858-1940)- svedese- premio Nobel.
@Simona
sì, secondo me la chiave di lettura del racconto è proprio quella de “Le Mille e una notte”, cioè quella “incantatrice”. Ma hai detto meglio tu:)
Il nome corretto é: Selma Lagerlöf ( mancava la dieresi sulla o..)
Ieri ho avuto il piacere di partecipare all’incontro con Elvira Seminara. Era come stare a casa perchè ero circondata dagli amici di sempre, quelli con cui condivido il piacere del leggere e dello scrivere. Per brevità ne indico uno per tutti, Luigi Larosa, che ci rappresenta e che ci aggrega (e che insieme a Massimo Maugeri ha dato vita a un interessantissimo incontro).
In questa mia casa immaginaria Elvira era ospite graditissima.
Solo una donna avrebbe potuto scrivere “I racconti del parrucchiere” per quel particolare invisibile filo che ci lega ai nostri capelli – cartina al tornasole dei nostri variabili umori.
E dal parrucchiere, come è stato sottolineato durante l’incontro, dimentichiamo gioco forza il tempo che normalmente rotola fra mille impegni e ci fermiamo trovando lo spazio per raccontare e raccontarci allo specchio.
E ieri sembrava proprio che Elvira Seminara stesse raccontandosi allo specchio, parlandoci della sua scrittura in quella maniera semplice ma mai banale che avevo già avuto modo di apprezzare in altre occasioni.
Rimanevo incantata da voci e parole, racconti e commenti intanto che il mio sguardo non riusciva a staccarsi dalle dita di Elvira. Affusolate, abbellite da coloratissimi anelli che tormentavano, sollevandole, ciocchette luminose quasi che da quel contatto con i capelli traesse forza e tranquillità per quel suo colloquiare pacato.
@ Carlo S.
Non posso che essere d’accordo con te:non volevo mettere paletti nè contenere in convenzioni sterili un’opera come Stella distante che ritengo per l’abilissima sintesi di concisione,ferocia(o ferinità?) e intelligenza un esemplare unico (e sorgivo) del raccontare,oggi.
Secondo me un racconto breve può funzionare esclusivamente in relazione al suo contenuto. In questo, il qui già citato Borges, è un maestro. Ma tanti altri si sono cimentati in questo genere, e quelli che maggiormente ho apprezzato erano racconti che racchiudevano piccole perle sulle miserie della natura umana (mi viene in mente Pirandello). Un racconto breve per me deve avere qualcosa che faccia riflettere a fondo, qualcosa che colpisca.
Io adoro Borges, il Poe dei racconti come piante carnivore che ti catturano e non mollano la presa fino all’ultima riga… scoperte recenti la Mansfield e Cortazar, che in uno stesso racconto svolge storie parallele senza soluzione di continuità: come a dire un triplo salto carpiato in una bacinella in salotto. Eccezionale, perché in un romanzo ti puoi permettere di diluire, rallentare, costruire, demolire, ritoccare… lo vedo come un work in progress, storia che si forma come una catena montuosa che emerge dal fondo di un abisso.
Il racconto no, è un meccanismo ad orologeria. Precisione, rapidità, velocità… le lezioni americane di Calvino concentrate in poche cartelle.
se uno è calvino, perchè andrebbe dal parrucchiere?
Ad ogni modo, ho sempre ritenuto la lezione sulla brevitas, delle lezioni americane, molto precisa ed istruttiva. Però concordo nel dire che un racconto breve è preferibile che non sia veloce, che lasci il tempo di riflettere e casomai rileggere uno stesso periodo, per assaporarne tutti i reconditi significati. La velocità, in genere, è nemica della piena comprensione.
Ringrazio tutti per i nuovi commenti.
Emh, riappaio un po’ più tardi rispetto alle previsioni. O forse… un po’ più presto (dato che sono le 2.15 di domenica mattina).
Sulla presentazione. In breve.
Direi che è andata molto bene. La libreria Giunti è davvero bella e ben allestita (era la prima volta che vi accedevo) ed è situata proprio in Piazza Duomo.
Vi hanno raccontato un po’ sia Maria Lucia che Mavie (grazie a entrambe!). Tra il pubblico (numerosissimo… molta gente in piedi) c’erano diversi amici di questo blog, tra cui: le già citate Maria Lucia Riccioli e Mavie Parisi, Silvana Scrofani, Maria Rita Pennisi, Orazio Caruso, Gabriella Rossitto…
Ho introdotto Elvira, presentato in breve la raccolta e “interpretato” il racconto che avete letto sul post. La lezione di Luigi è stata interessantissima, così come il dibattito che è sorto. Elvira oltre che un’ottima scrittrice, ha dato conferma di essere una fantastica oratrice.
Bella esperienza!
Continuiamo a riportare frasi e pensieri di autori celebri sull’arte del racconto (ne approfitto per ringraziare Francesca Giulia). Che ne dite?
@ Simona
Sharazade rappresenta l’affabulatrice per eccellenza. In effetti, nel suo caso, davvero (e in senso letterale) i racconti salvano la vita.
@ Evento
Custodisco gelosamente una edizione fuori commercio dei quarantanove racconti di Hemingway della Einaudi:-)
@ Roberta
Aaaargh! Calvino non piace nemmeno a te?
Vuoi vedere che qui l’unico calviniano sono io?:-)
Scherzi a parte… se un autore non piace c’è poco da fare. E il gusto di ciascuno di noi (per fortuna), come dicevo anche a flaner, la fa da padrone.
Certo, se dovessi proporre Calvino a un gruppo di ragazzini consiglierei “Marcovaldo”, più che “Il Visconte dimezzato”…
Scusate se non vi cito tutti, ma sono proprio stanco. Avremo modo di continuare nei prossimi giorni.
Intanto vi auguro buona domenica.
Un racconto,forse il più breve (e uno dei migliori del mondo), Il dinosauro,del guatemalteco Augusto Monterroso,si compone di una sola frase:
“Quando si svegliò,il dinosauro era ancora lì”
@Roberta. Mi associo all’appello di Massimo pro-Calvino. Marcovaldo sarebbe da far studiare a scuola ai ragazzi, possiede l’incanto della poesia, lo stupore del protagonista nello scoprire i cartelloni luminosi e tutti gli altri ornamenti che deturpano le città. C’è l’innocenza, la goffagine, l’impaccio del sognatore a risolvere i problemi del quotidiano, in quanto immerso in un mondo tutto suo. E’ un testo dal forte valore educativo.
E’ singolare che si cerchino paragoni visivi (pittura, fotografia) per dire cos’è un racconto (rispetto a un romanzo). Se dovessi limitarmi a questi paragoni dovrei dire che il racconto è come quei quadri giapponesi fatti del minor numero di pennellate possibili, dove due baffi di colore diventano un uccello nel cielo.
Per chi scrive invece, un racconto è come l’attesa di un’ora (rispetto al romanzo che è l’attesa di un anno). Vi è un diverso modo di riempire quelle attese e per questo paragonare un racconto a un “piccolo romanzo” è fuorviante e inesatto.
Per Calvino il racconto è l’unica forma di conoscenza ancora possibile, anche di un mondo al tramonto. L’apice di questa concezione è ne “Le città invisibili”.
Il racconto è la salvezza, l’ultimo brandello di verità di un impero che sta crollando sotto il suo stesso peso. E’ leggerezza, negazione della fissità della regola, della norma ed è quindi, incompiutezza, pluralità, frammento. Il giovane Marco è un sognatore e per questo può raccontare le città e i racconti delle città: ”E’ delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città – i racconti – come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”.
Anch’io concordo nel dire che un racconto non è un piccolo romanzo, così come un acquerello non è un piccolo affresco e una polaroid non è un film.
Amo Calvino per la sua capacità combinatoria, per la felicità immaginativa. Marcovaldo è più alla portata dei ragazzi, più della trilogia degli antenati che io trovo fantastica…
Viva Borges, Pirandello, la Mansfield, Cortazar… Poe, Wilde – i racconti e le fiabe sono deliziosi! – …
Un racconto funziona come un corto: personaggi, ambientazione, tempi devono essere perfetti.
@Massimo
non ne nego l’importanza nella letteratura, me ne guardo bene. Però, come dici tu, è una questione di gusti.
Non ho più “avvicinato” neppure Brecht, perché alle scuole medie mi hanno fatto leggere “Madre coraggio” e ti voglio dire SOLO quello….giorno dopo giorno…lo ricordo bene..
Sono abbastanza grande, ora, per riprendere in mano sia Calvino che Brecht e apprezzarli ( eventualmente) adesso.
Vedi com’è pericoloso l’approccio ideologico? Sia da una parte che dall’altra? Ha il potere di allontanare le persone dall’arte… “allontanare”, si fa per dire…ché io non me ne sono allontanata, anzi.
Comunque, per farti contento ti scrivo che gli insegnanti di lettere hanno quasi tutti il culto di Calvino e lo fanno studiare sempre e molto, anche adesso. Fanno bene. Io non insegno lettere; ora neppure letteratura (ma numeri+coniugazioni, l’orario+ i mesi dell’anno.. ecc, cioè le strutture-base del linguaggio). Quando insegnavo letteratura, non tralasciavo mai gli scrittori importanti, anche quelli che non mi piacevano, perché non sono io a decidere e si seguono i programmi ministeriali che sono fatti ancora molto bene.
@Salvo
ho letto la trama di Marcovaldo ( non ricordavo nulla). Credo che lo rileggerò.
Sto seguendo la discussione con vivo interesse. Faccio i complimenti tutti. Bello, il racconto della Seminara qui pubblicato.
Comunque ai racconti preferisco i romanzi, perché preferisco le storie a largo respiro. I racconti danno la possibilità di scrivere e leggere schegge, frammenti di storia. Meglio le storie lunghe, secondo me.
@Roberta. So bene che preferisci i miei, ma rileggi Marcovaldo, anche calvino è un buon scrittore.
A me piace molto Calvino,fra i libri già citati da voi vorrei aggiungere “Amori difficili” venti racconti sull’amore, coppie che s’incontrano e coppie che non s’incontrano mai,mi sono divertita a leggerlo,incantata per l’arte pulita del modo di raccontare di Calvino. Lo consiglio a chi non lo avesse letto,amante dei racconti e della ottima scrittura di un maestro come Calvino.
saluti e baci
Salvo, sperando di non essere troppo O.T., ti dico che i tuoi racconti mi piacciono:)
Beh, Fran, Salvo, Massimo… non mi resta che riavvicinarmi a Calvino.
So già che non sarà tra i miei preferiti ( nel post sulla traduzione ho riportato un brano da un racconto di Hermann Melville – che è uno dei miei “adoratissimi”); in ogni caso potrò, leggendolo con attenzione, sicuramente apprezzarne lo stile impeccabile.
Baci a tutti:)
Ma sì Rob,è giusto avere dei preferiti ma alcuni autori riletti da “grande” oppure in altri momenti ci fanno un altro effetto alle volte.
Ci dici qualcosa di quella scrittrice di racconti che hai segnalato?Io non l’avevo mai sentita prima.
baci
Cari amici, buona domenica sera e grazie per i nuovi commenti.
Ringrazio Salvo, Simona, Maria Lucia e Francesca Giulia per non avermi fatto sentire l’unico estimatore di Calvino:-))
@ Roberta
Cara Robi,
magari la rilettura di Calvino potrà farti appassionare a questo autore… oppure ti potrà sembrare ancora meno sopportabile di prima (fammi sapere, nell’eventualità dovessi davvero rileggerlo… sono curioso).
Nel caso in cui dovessi decidere di rileggere “Il visconte dimezzato” potrebbe essere interessante leggere le “motivazioni” della scrittura di questo libro dichiarate dallo stesso autore:
Quando ho cominciato a scrivere “Il visconte dimezzato”, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso e possibilmente anche gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra.
(da un’intervista con gli studenti di Pesaro, 11 maggio 1983, in Il gusto dei contemporanei, Quaderno n.3, Italo Calvino, Pesaro 1987, p. 9)
Con Calvino non siamo fuori tema. In effetti questa raccolta di racconti di Elvira Seminara, a mio avviso, ha una forte ascendenza calviniana (come ho forse evidenziato la stessa Elvira Seminara è una grande estimatrice di Calvino).
Dear Massimo,
le prime pagine del “Visconte dimezzato” sono scritte così bene… Proprio per questo le descrizioni dei cadaveri e della guerra sono così efficaci…sebbene “surreali”..Confesso di non essere andata molto avanti, quindi non ho potuto cogliere il lato “divertente” della storia, l’umorismo, quindi. E’ uno scrittore che conosco poco e di questo mi dispiace. Rimedierò senz’altro:)
@Fran
c’era un volume della Selma Lagerlof a casa dai miei ( faceva parte dell’intera collana dei Nobel della letteratura) e una fredda sera d’inverno avevo letto qualche racconto: bellissimi, così “nordici”- così svedesi… un pò come quelli ( danesi) di Karen Blixen (= “Il pranzo di Babette”, in “Capricci del destino”). Ti dirò di più. Hai visto il film?
Sulla Selma ti dirò di più… devo documentarmi..
Baci
In questi giorni Elvira Seminara è stata itinerante per presentare il libro. Interverrà in questa discussione appena le sarà possibile.
Chiudo con alcune citazioni sul racconto breve [ciao Robi:-) ]…
Per Henry James, un racconto bisognerebbe “farlo tremendamente conciso, -con un piglio o un ritmo molto breve e la più stringata scelta di particolari – in altre parole riassumere intensamente e tenere a freno gli sviluppi laterali. Dovrebbe essere un piccolo goiello di splendente e vivida forma.”
Raymond Carver la pensava così: “Adoro il guizzo rapido di un buon racconto, l’eccitazione che spesso scaturisce dalla frase d’apertura, il senso di bellezza e di mistero che i migliori sanno evocare (…) Ecco lo scopo che voglio raggiungere con i miei racconti: trovare le parole giuste, le immagini precise, usare la giusta e corretta punteggiatura in modo che il lettore sia catturato e coinvolto nella storia e distolga gli occhi dalla storia solo se la sua casa prende fuoco (…) Se siamo fortunati, autore e lettore insieme, finiremo l’ultima riga di un racconto e poi rimarremo seduti per un minuto, con calma…”.
Infine… l’opinione di Julio Cortazar: “Il romanzo e il racconto si possono paragonare analogicamente al cinema e alla fotografia, nel senso che un film è innanzittutto un ‘ordine aperto’, romanzesco, mentre una fotografia riuscita presuppone una rigorosa limitazione previa, imposta in parte dal campo ridotto che l’obiettivo comprende e inoltre dal modo in cui il fotografo utilizza esteticamente tale limitazione. Fotografi del calibro di Cartier-Bresson o di un Brassai definiscono la loro arte come un apparente paradosso: quello di ritagliare un frammento della realtà, fissandogli determinati limiti, ma in modo tale che quel ritaglio agisca come un’esplosione che apra su una realtà molto più ampia (…) dunque il fotografo e lo scrittore di racconti si vedono obbligati a scegliere e a circoscrivere un’immagine o un avvenimento che siano significativi (..) che siano capaci di agire sullo spettatore o sul lettore come una specie di ‘apertura’, di fermento che proietti l’intelligenza e la sensibilità verso qualcosa che va molto oltre l’aneddoto visivo o letterario contenuti nella foto o nel racconto. Uno scrittore argentino che ama molto la boxe [Adolfo Bioy Casares, n.d.r.] mi diceva che, in quella lotta che si instaura sempre fra un testo e il suo lettore, il romanzo vince ai punti, mentre il racconto deve vincere per ‘knock out’. ”
Quale dei tre punti di vista che ho riportato qui sopra è più vicino al vostro pensiero?
Buonanotte e buon inizio settimana a tutti!
Caro Massimo
più che tre idee diverse mi sembrano i tre oculari di uno stesso microscopio, ammesso che esista un uomo con tre occhi.
Scherzi a parte
Non mi sembra che i tre punti di vista si escludano ma anzi si completano, si integrano, si interrompono l’un l’alltro come a togliersi la parola per donarci una precisa idea di racconto sulla quale mi trovano in perfetta sintonia
Come finisce un racconto.
Per me la domanda è questa. Come chiuderlo. Non come si fa ad aprirlo. Un racconto nasce perchè la vita nasce, e basta un niente a evocarlo, un guizzo, un’idea, un’intuizione. Una parola, anche.
“Che guardi e riguardi, sospesa tra le dita, finchè comincia a brillare”.
Come scriveva la Dickinson.
Ma i racconti devono finire, e presto.
E siamo abituati, per educazione o viltà, a pensare che tutto debba chiudersi, ambire a una conclusione. La fine ci rassicura. Anche quando inquieta, o la vorresti spostare indietro all’infinito. Perchè la fine è comunque un suggello, un approdo. Un punto non solo ortografico. Punto d’arrivo.
Il bello (sì, il bello) è che la vita non è così logica, sequenziale come i romanzi o i film. Spesso le cose cominciano a metà, nel senso che non ti eri accorto dell’inizio, e finiscono prima che tu sia pronto, o non finiscono affatto. Continuano il loro percorso in modo indefinito e vario, e ti chiedi quand’è che è cominciato.
Nella vita non ci sono titoli di testa e di coda . Ci sono vicende che nemmeno cominciano, o almeno non te ne eri accorto, e ne vedi solo lo svolgimento, un lungo confuso svolgimento.
Per me un racconto (quello scritto) funziona così. Raccoglie una scaglia di tempo e di spazio e lo amplifica a dismisura, a dispetto del senso della storia.
Questa scaglia è il pezzo di uno specchio rotto. Riflette il mondo su di sè – pezzi- secondo come la muovi. Riflessi, bagliori, ombre.
Sono magici . Anche gli stregoni lo sapevano. E ti puoi tagliare, coi cocci . Devi maneggiarli con cura.
Pezzi di cose rotte, frammenti, scaglie ?
Per me è questa , oggi, la materia di chi scrive. Scorie.
Il romanziere è un Cantascorie.
Avete letto bene, un cantascorie.
Avete detto bene. I racconti. Tracce, ricordi, lampi. La stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Grazie a voi tutti.
elvira seminara
A Elvira Seminara.
Che bel commento il suo! Sono perfettamente d’accordo con lei. Su tutto. Grazie.
Caro Massi, pensi sul serio di essere rimasto solo ad amare Calvino? A parte le tracce presenti nei racconti di Elvira (specie in alcuni incipit di alcuni di essi), io mi associo all’elogio fatto da Simona per quanto riguarda “Le città invisibili”:
sono innamorata della scrittura di Calvino e delle sue ingarbugliate trame, i suoi racconti sono come sentieri dei nidi di ragno. La città di Eudossia è tra i racconti da me preferiti:
“A Eudossia, che si estende in alto e in basso, con vicoli tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva un tappeto in cui puoi contemplare la vera forma della città. A prima vista nulla sembra assomigliare meno a Eudossia che il disegno del tappeto , ordinato in figure simmetriche che ripetono i loro motivi lungo linee rette e circolari, intessuto di gugliate dai colori splendenti, l’alternarsi delle cui trame puoi seguire lungo tutto l’ordito. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti persuadi che a ogni luogo del tappeto corrisponde un luogo della città e che tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno, disposte secondo i loro veri rapporti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall’andirivieni dal brulichio dal pigia-pigia. Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l’odore di pesce, è quanto appare nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c’è un punto dal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio”.
faccio mie le parole di carver, perché lo considero lo short-storista migliore
E poi l’indescrivibile combinazione tra il meccanismo intellettivo delle parole, della scrittura e quello della lettura: io credo che Calvino riesca perfettamente a rendere analitico e profondo il rapporto inscindibile tra lettore e autore, quel rapporto tanto osannato o, al contrario, misconosciuto da tanta critica novecentesca americana. Forse la scrittura di Calvino non può essere considerata aulica, ma non può comunque essere definita né tanto meno categorizzata. Ad esempio a me piace molto questo tratto di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”:
[…]superi la prima cinta dei baluardi e ti piomba addosso la fanteria dei Libri Che Se Tu Avessi Più Vite Da Vivere Certamente Anche Questi Li Leggeresti Volentieri Ma Purtroppo I Giorni Che Hai Da Vivere Sono Quelli Che Sono. Con rapida mossa li scavalchi e ti porti in mezzo alle falangi Dei Libri Che Hai Intenzione Di Leggere Ma Prima Ne Dovresti Leggere Degli Altri, dei Libri Troppo Cari Che Potresti Aspettare A Comprarli Quando Saranno Rivenduti A metà Prezzo, dei Libri Idem Come Sopra Quando Verranno Ristampati Nei Tascabili, dei Libri Che Potresti Domandare A Qualcuno Se Te Li Presta, dei Libri Che Tutti Hanno Letto Dunque E’ Quasi Come Se Li Avessi Letti Anche Tu. Sventando questi assalti, ti porti sotto le torri del fortilizio, dove fanno resistenza
i Libri Che Da Tanto Tempo Hai In Programma Di Leggere,
i Libri Che Da Anni Cercavi Senza Trovarli…
Anche la combinazione formale ed estetica delle parole rientrano nel suo disegno narrativo.
Infine, profonde e lucide le parole di Elvira, meravigliosa l’immagine del cantascorie, di chi raccoglie i cocci dell’esistenza e ne immortala quel tempo frantumato.
Come avevo già detto nel commento di venerdì,ma mi ripeto per rispondere alle domande di Massimo,faccio mia l’interpretazione di Cortazar,senza però escludere le altre,che come ha detto Mavie, si integrano perfettamente dandoci un’idea compiuta della immagine del racconto.Dico Cortazar perchè mi affascina molto il paragone del racconto con la fotografia,oltre che per ammirazione di Cartier-Bresson,non vedo la fotografia come un ritaglio finito di realtà,ma come indicato dalle parole di Cortazar uno spiraglio attraverso cui l’occhio della mente e del cuore si apre su una vastità di mondi interpretativi.Questa opportunità dovrebbe regalarci la lettura di un racconto in tempi brevi e con grande precisione proiettarci attraverso il buoco della serratura verso spazi ampiamente soggettivi dell’imaginazione.In tal senso,pur essendo il romanzo un tipo di impegno molto differente,mi pare che un racconto di ottima fattura debba aiutarci ad allargare gli orizzonti che ci lascia intravedere nella storia,mentre nel romanzo ci muoviamo dopo qualche pagina nell’ambiente conosciuto e creato per noi dallo scrittore, a cui dovremmo pur affezionarci e riconoscere qualcosa di noi.
Aggiungo un pensiero di Calvino che condivido molto,sperando di non andare fuori tema,ma vedo che anche Sabina si è felicemente soffermata sull’argomento.
Calvino afferma che “la nostra civilta’ si basa sulla molteplicita’ dei libri; la verita’ si trova solo inseguendola dalle pagine di un volume a quelle di un altro volume, come una farfalla dalle ali variegate che si nutre di linguaggi diversi, di confronti, di contraddizioni”.
E già negli anni ’80 in una conferenza tenuta a Buenos Aires si chiede se “il libro assoluto non sarebbe dunque altro che un modello di cervello elettronico”. Inoltre: “Forse in futuro ci saranno altri modi di leggere che noi non sospettiamo. Mi sembra sbagliato deprecare ogni novita’ tecnologica in nome dei valori umanistici in pericolo; una societa’ piu’ avanzata tecnologicamente potra’ essere piu’ ricca di stimoli, di scelte, di possibilita’, di strumenti diversi, e avra’ sempre piu’ bisogno di leggere, di cose da leggere e di persone che leggano”.
Mi suggerisce un senso di grande apertura che condivido in pieno.
Carissima Elvira,
bellissimo e verissimo quello che dici e a proposito di finali:
“Lei crede che ogni storia debba avere un principio e una fine? Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina si sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte.(intervista a Italo Calvino in : VERO COME LA FINZIONE)”
E’ vero, Francesca Giulia, si pensa frequentemente che gli scrittori e i letterati in genere siano dei luddisti, morbosamente e feticisticamente legati ai loro relitti mentali e ad un tempo immobile.
In realtà Calvino, come altri, ha sempre pensato che la letteratura potesse andare a braccetto con tutte le altre discipline, comprese la scienza, perché i livelli di comunicazione sono infiniti e tendono sempre verso punti che prima o poi si incontrano o anche se restassero paralleli seguirebbero sempre la stessa direzione.
I racconti sono altro ma non meno del romanzo, sono una visione impressionistica della realtà, poiché questa dev’essere colta nel suo insieme, attraverso tratti dettagliati (penso alla resa dell’acqua degli impressionisti ad esempio).
Ma la scrittura è un linguaggio a sé, che richiama immagini e non le mostra esplicitamente come nei dipinti.
Molti spunti interessanti circa l’arte e le caratteristiche del racconto. Bellissimo il paragone di Cortazar con la fotografia (lo ha sottolineato già anche Francesca Giulia, e sono d’accordo con lei al 100%), molto interessante ciò che dice Elvira Seminara riguardo ai problemi di “chiusura” più che all’apertura di un racconto.
Da un po’ si va però affermando la tendenza ai “finali aperti” senza una chiusura vera e propria, lasciata se vogliamo all’interpretazione (e alla fantasia) del lettore. Come a volere sottolineare che alla fine non è il senso compiuto di una storia l’importante (inizio-svolgimento-fine), ma (proprio come in una fotografia) il riuscire ad evocare altro, quello che non viene detto esplicitamente ma che può dare il senso compiuto che in sé la storia narrata forse (in diversi casi almeno) non ha, e che forse non può avere.
E questo non mi pare in contraddizione neanche con ciò che dice Sabrina Corsaro paragonando i racconti all’arte impressionistica, capace proprio di evocare più che descrivere minuziosamente.
E sottoscrivo pienamente che i racconti siano “altro ma non da meno” rispetto al romanzo.
Innanzitutto un breve saluto a tutti e, in primis, a “Letteratitudine” che ospita questa interessante discussione. Da buon navigatore della Rete, vi approdo seguendo una mappa virtuale tracciatami da Simona Lo Iacono che ringrazio.
Entro subito nel tema, quello, per intenderci, che corre lungo la “prima corsia” dal momento che mi sta molto a cuore. Credo che il racconto sia un genere talora sottovalutato e sovente considerato “minore”. Molte case editrici si rifiutano finanche di pubblicarne le raccolte, a mio giudizio sbagliando.
Il curatore di una nota libreria di Palermo sostiene che comporre racconti è decisamente più difficile che scrivere romanzi così come è più difficile, per il lettore, leggerli. Non so se questo sia vero. So che nel racconto non puoi “barare” in alcun modo: il lettore se ne accorgerebbe subito.
Per ciò che mi riguarda, considero il racconto, proprio per la sua naturale brevità, un piccolo capolavoro compositivo. Il racconto è immediato, è dinamico, è incalzante, non lascia alcuno spazio alle divagazioni o a quei piccoli trucchi che possono fare da contorno ad un romanzo e, proprio per questo, non ammette errori né contraddizioni.
I racconti poiché permettono allo scrittore di dare spazio e vita a quelle immagini, a quei sussurri, a quei fugaci momenti di ispirazione che nel romanzo non troverebbero gioco forza sfogo e che, senza il racconto, sarebbero destinati a non vedere mai la luce.
Nella terz’ultima riga mi è “scappato” un poiché in più…
Caro Fabio
sono felice che tu sia intervenuto. D’altra parte l’arte del racconto ti è abituale, dato che da anni ne scrivi offrendoli liberamente agli sguardi.
A beneficio degli altri frequentatori dico infatti che Fabio Lentini è un vero pioniere della libera letteratura in rete. Sin dal 2002, infatti, ha messo a disposizione gratuitamente la propria produzione letteraria all’interno del suo sito internet rendendola fruibile ai numerosi appassionati on line. L’iniziativa ha riscosso un notevole successo, spingendo l’autore a proporre una versione internazionale del sito, nella quale è possibile leggere alcune sue opere in lingua inglese, francese e spagnola. Di recente i suoi “racconti notturni” (che sto leggendo in questi giorni e che recensirò con piacere) hanno visto la luce anche in cartaceo pur senza rinunziare alla divulgazione gratuita in internet.
In bocca al lupo, Fabio!
Le parole di Henry James sono così significative per il racconto: due gli elementi fondamentali:
– “tenere a freno gli sviluppi laterali”
– “un piccolo goiello di splendente e vivida forma”.
Detto così sembra semplice, ma scrivere un bel racconto è difficilissimo.
Dalla “forma” non si può prescindere; certo bisognerebbe avere dei “canoni” di riferimento.
Gli “sviluppi laterali”= porterebbero alle “digressioni” romanzesche, infatti.
Ciao, Massimo:)
@Fabio Lentini
Non so perché ma non sono riuscita ad accedere ai racconti on line.
@simona
Grazie Simona, tra le tante cose che ignoravo c’era la presenza in rete dei racconti di Fabio Lentini. Li ho cercati, li ho trovati e adesso li sto leggendo con grande piacere, anche se devo dire che per me la carta tra le mani ha un significato tutto particolare e quindi farò in modo di possedere i “racconti notturni”
Ancora grazie a simo e complimenti a fabio lentini
Un racconto non è altro che una parte di un romanzo che non si ha intenzione di scrivere. Un romanzo è fatto di tanti racconti, messi insieme come ingredienti di una minestra che si ha voglia di cucinare. Un racconto, tanto per stare in tema, sono come due uova al tegamino. Cotte e mangiate all’istante.
Un ringraziamento a Simona per gli auguri e a Mavie Parisi per i complimenti per i miei “Notturni”.
Una comunicazione per Roberta. I racconti sono in formato PDF ergo, per leggerli, devi possedere il plugin di Adobe Reader. Diversamente non riesco a capire davvero il motivo per i quali tu non li riesci a leggere. Potrebbe trattarsi di una “inibizione” a livello di protezioni internet e, quindi, di settaggio del tuo pc.
Io il sito l’ho visitato e ho letto con piacere Khaled,mi ha riportato alla mente immagini molto suggestive di un viaggio nel Sahara fatto tanti fa,bello,uno stile molto equilibrato.
baci a Simona e complimenti all’autore.
@Fabio
Sì, non li leggo perché non ho il plugin di Adobe. Oppure sono semplicemente “imbranata”. Mi farò aiutare da qualche esperto in queste faccende.
@ Carlo S. :
esatto, Carlo, è proprio quell’evocare la realtà il tratto significativo evidenziato e ciò che forse fa la differenza rispetto al romanzo.
Inoltre il ‘finale aperto’ richiama invece tutto il discorso sul’ermeneutica: se l’autore decide di non chiudere un racconto, di lasciare, come per la fotografia, l’illimitatezza dei livelli interpretativi (così come Barthes definiva l’immagine l’essenza dell’immagine), allora l’assenza di una direzione ermeneutica sarà legittimata dall’autore stesso.
In tal senso, considerando ad esempio, la letteratura nella didattica, a quali risultati porterebbe la libertà di lasciar decidere al lettore il senso e la fine di un’opera (che sia una poesia, un dipinto o un romanzo)?
Qualcuno ci ha provato e sono venuti fuori esperimenti interessanti, ma sono del parere che per la comprensione di un’opera ci dev’essere un dialogo, un’affinità, un incontro tra lettore e autore: l’uno non può fare a meno dell’altro. E quando l’autore decide di non chiudere un racconto ha già detto qualcosa, ha già comunicato col suo lettore.
Vi ringrazio tutti per i nuovi commenti…
… e in particolare a Sabina.
Calviniani di tutto il mondo, unitevi!:-)
@ Fabio Lentini
Caro Fabio,
benvenuto a Letteratitudine. Simona mi aveva parlato di te.
Intanto grazie per il tuo commento e tanti in bocca al lupo per i tuoi racconti.
Spero che ritornerai anche nei prossimi post.
Sarai il benvenuto.
Sentiti a casa:-)
@ Felice
Interessante il riferimento mangereccio. Grazie.
Ora, però, mi hai fatto venire fame… anche se è quasi l’una di notte.
Mi vado a mangiare un racconto…
@ Roberta
Cara Robi, bello il riferimento a Henry James…
@ Elvira Seminara
Cara Elvira, grazie per essere intervenuta.
“Cantascorie” è un neologismo bellissimo e veritiero.
@ Francesca Giulia
Grazie per la citazione calviniana.
Calvino è stato un grande preconico. L’ho sempre pensato.
Un saluto con ringraziamenti anche a Giacomo, Carlo, Amelia e Mavie Parisi.
Abbiamo parlato parecchio di Calvino… ma siamo rimasti in tema. Soprattutto in riferimento ai racconti di Elvira.
Domani vi dirò perché.
–
Una serena notte a tutti.
Ringrazio Massimo per il caloroso benvenuto.
Serena notte anche a te.
Io sono sempre un po’ distratta…
benvenuto a Fabio Lentini, sei entrato a far parte di un bellissimo gruppo di letteratudiniani;)
Appena possibile leggerò i tuoi racconti.
@Felice: no, non credo che un romanzo sia una raccolta di racconti.
Per restare in metafora culinaria, non basta accozzare ingredienti per fare un piatto, ma occorre un’amalgama profonda tra i vari elementi.
Il racconto non è neanche un piccolo romanzo.
Sono due forme diverse, ecco tutto.
Il racconto è come una bella aria da camera, musicale e compiuta in se stessa.
Un romanzo è come una sinfonia, in cui le parti sono in sinergia con il tutto e in cui c’è un’idea di fondo che serpeggia tra i vari movimenti.
Le raccolte di racconti invece devono essere costruite intelligentemente: come quella di Elvira, in cui c’è più di un fil rouge, oltre a quello dei capelli, che le lega e fa sì che siano un insieme organico. Ma non un romanzo.
Ringrazio Sabrina per il benvenuto e ricambio i saluti.
Non sono d’accordo con quanto scritto da Felice quando afferma che il racconto è “una parte di un romanzo che non si ha intenzione di scrivere”. Questo, è vero può accadere, ma non è affatto detto che tale considerazione valga sempre “tout court”. Non credo poi che il romanzo sia “una raccolta di racconti” e cioè per il semplice fatto che il romanzo, a mio giudizio, non può e non deve essere tale.
Sono pienamente d’accordo con quanto affermato da Maria Lucia ma sono anche convinto che i due “generi” letterari, racconto e romanzo, abbiano piena e uguale “dignità”. Un bel racconto può avere un “valore” letterario anche superiore a quello di un romanzo questo è indubbio. Cito a tal proposito uno dei racconti a mio giudizio più belli mai scritti e cioè “Il vecchio e il mare” di Hemingway che, ricordo, fruttò il Nobel al grande scrittore americano.
Credo che dunque non sia un problema di “lunghezza”. “Mi illumino di immenso”, tanto per citare analogicamente un componimento poetico, è, a mio giudizio, una delle poesie più straordinarie mai scritte ed è costituita da solo quattro parole…
@Felice assolutamente non sono d’accordo,detto così sembra quasi che chi scriva racconti lo faccia perchè non è capace di arrivare al romanzo,e poi sono due generi completamente diversi.Nel romanzo prevale l’analisi,la direzione della storia è orizzontale,nel racconto dovrebbe prevalere la sintesi e la direzione della storia verticale.La tensione che deve essere mantenuta costante nello spazio breve del racconto, nel romanzo può prevedere pause,anzi spesso le richiede perchè tutto sia compiuto con armonia.Ma per carità il suo è un parere.
Sono molto d’accordo con Fabio,molte cose meravilgiose sono brevi,alcune incompiute;certo è che spesso restiamo affascinati da romanzi fiume come se quantità facesse necessariamente rima con qualità,ma non sempre è così.
Per tornare alle definizioni e il pensiero di grandi scrittori sul racconto,Cechov rimarcava l’importanza del focus oggettivo sulla storia .Affermava:
“Per descrivere un ladro di cavalli in 700 righe devo costantemente pensare al suo modo e con la sua sensibilità, altrimenti se introduco la soggettività, l’immagine diviene sfocata e il racconto non sarà compatto come tutti i racconti devono essere”. Questo aspetto della oggettività del raccontare pure mi pare molto importante nel racconto, che ne pensate?
@Massimo, sono lieta che le definizioni inserite ti siano piaciute.Comunque per Calvino,hai ragione,pare che Tom Cruise lo cercasse per fare da controfigura -in Minority Report -all’attrice nel ruolo di “Precog”. :-))). Il problema è che nessuno aveva detto a Cruise che Italo non c’era più.
Provocazione:
“Il racconto è il romanzo di un pigro”
(Antonio Tabucchi)
Contro-provocazione:
“Il romanzo è il racconto di un logorroico”
(Rino R.)
🙂
“Il racconto è il racconto. Quack!”
(Anonimo paperolese)
Il pigro è un logorroico che racconta un romanzo!
Cara Fran+ caro Massimo
La “scoperta” di James in questo post è tutta VOSTRA!
Io mi sono limitata ad “agganciarmi”… ( ma ho una venerazione per lui da molto tempo..)
E’ vero: il romanzo e il racconto sono due “generi” diversi e, se proprio si vuole “ingabbiare” l’arte in una definizione, ogni genere ha i suoi canoni. Alcuni grandi scrittori ( come James, appunto, ma anche Hemingway, Melville, Flaubert e molti altri) hanno “sperimentato” sia il romanzo che il racconto: i risultati sempre eccellenti.
Posso suggerire agli “appassionati” di racconti la lettura del brano di Henry James che Francesca Giulia ha così mirabilmente “scovato” e riportato sul post della traduzione? E’ tratto da “Il carteggio Aspern”.
Grazie, Fran::)))
Rob,ti ringrazio per l’affettuosa collaborazione,un grande bacio.
Cara Rob visto che lo hai citato,mi permetto di inserire il suo pensiero sul racconto,così facciamo bingo!Hemingway faceva notare (e in questo sta anche la verticalità e l’intensità del racconto breve) che “se lo scrittore sa abbastanza su ciò di cui sta scrivendo, può anche omettere cose di cui il lettore, se lo scrittore sta scrivendo veramente, percepirà comunque le sensazioni e i pensieri”. Si deduce la fondamentale importanza della capacità di “omettere”nella scrittura breve,affinchè sia il lettore a poter spaziare con l’immaginazione oltre l’ultima pagina dello scrittore.
Cari che mi avete citato, naturalmente parlo per me che ho pubblicato cinque romanzi. Come diceva Hemingway, scrivere è lavoro di artigianato. Lavorando da artigiano, Buonarroti ha tirato fuori dal suo genio la Cappella Sistina. Si tratta di tanti racconti messi insieme, un racconto lungo o un lungo romanzo?
A parte, mando a Massimo un racconto veloce che ho scritto in mattinata, nella speranza che lo pubblichi qui per dimostrare cos’è per me un racconto veloce e breve.
peccato non vivere almeno qualche mese a Catania…
Liz
@muolo
Per caso il racconto s’intitola Tondo Doni?
Fabio: sono d’accordissimo con te. Non è la lunghezza che fa la qualità…
Io adoro i racconti tanto quanto i romanzi: Borges, Poe, Calvino, James & tutta la compagnia della Bellezza – questo sono per me gli scrittori – qualsiasi cosa abbiano scritto e qualunque forma abbiano deciso di dare alle loro creazioni.
Ti dirò: la capacità di sintesi che richiede il racconto, la forza di concentrazione che esige non sono affatto da meno rispetto alle doti di un romanziere. Il primo è un velocista, l’altro un corridore di fondo. Scatto, precisione, velocità l’uno, fiato e dosare le proprie forze ed ecco l’altro. Chi direbbe che Mennea è da meno rispetto a un maratoneta?
Il Michelangelo della Sistina non è più grande di quello del Tondo Doni…
Per tornare alla cucina: se uno è bravo può preparare una deliziosa cenetta per due (racconto); la cena di gala per duecento persone richiede un’architettura diversa. Ma cuoco è l’uno e cuoco è l’altro…
Esempio di grande capacità di sintesi in una storia.
TITOLO: la grande fuga del cavallo bianco.
Trama: clopet clopet… FINE.
C’è tutto: ritmo, velocità, azione.
E’ un racconto che ho appena scritto.
Bravooooo,è bellissimo mi ricorda un pò quella bella poesia sulla fontana con tutti i suoni.
E quanti romanzi hai scritto ??
Ciccia, che fai mi prendi per i fondelli?
Ho scritto anche un grande romanzo di ampio respiro, si intitola:
La grande fuga del cavallo nero.
Ecco la trama: cloppet cloppet cloppet cloppet cloppet cloppet… come si può notare c’è un maggiore intreccio. Questo sì, è un romanzo.
Ma che scherzi?Tu sì che sei uno che può dire cosa è un racconto e cosa è un romanzo,ma ti intendi anche di lettere?Nessuno ne scrive più,che tristezza,magari se vuoi passiamo nella camera accanto, sennò Maxime ci sgrida e ci depenna.
Caspita, quanti nuovi commenti.
Grazie di cuore a tutti.
Fran, tranquilla. A te non potrei mai depennarti:-)
Piuttosto mi depenno io…
Ho constatato che in questa coda di dibattito ci si è interrogati sul rapporto racconto/romanzo.
Ci sono narrazioni brevi che hanno segnato la storia della letteratura mondiale. Molti testi li avete citati voi. Ce ne sarebbero tantissimi altri. La stessa “Metamorfosi” di Kafka, in fondo, non è altro che un racconto lungo.
Ma l’elenco sarebbe enorme…
Un saluto speciale a Elisabetta Bucciarelli (autrice del commento dell h. 6:29 pm). Prossimamente avremo modo di parlare del suo nuovo libro “Io ti perdono” (Kowalski, 2009), con protagonista il noto ispettore Maria Dolores Vergani.
Ciao a tutti!
E intanto in bocca al lupo a Elvira. Ho associato questo libro a un racconto di Nathan Englederer di “Per alleviare insopprimibili impulsi” che parlava di parrucche. Molto bello.
Per rispondere alle domande di Massimo:
– Con i miei capelli ho un rapporto di amore maximo. Non li taglio da otto anni, hanno dimenticato appunto la figura del parrucchiere, e sono riccioli e tantissimi. D’estate li lego di d’inverno ce poi mette le penne. Confesso in generale che ne vado fiera.
– LA questione dei racconti. Non posso leggere purtroppo i commenti precedenti e potrei scrivere qualcosa che ha scritto qualcun altro. Quando ne ho scritti io, ho sentito due bisogni, il primo era quello di tenere acceso quello che Hamingway chiamava “shit detector”, un dispositivo che suona ogni qualvolta si incontra nel proprio scritto una stronzata accessoria e non funzionante, una stonatura estetica, una parola fuori posto. E’ un dispositivo raffinato, e credo che si acquisisca con l’esperienza, immagino che gli scrittori seri e gli editor stagionati lo abbiano ben sviluppato. Il secondo è un senso della forma del racconto, che tendo a metaforizzare come corpo umano, che deve perciò avere un rispetto delle proporzioni. La testa il busto gli arti. L’inizio lo sviluppo le conclusioni e le divagazioni. Se si rispettano le proporzioni si può scrivere una buona cosa, se si decide di infrangerle, o si è davvero fichissimi, o se no si crolla nel mondo delle pippe senza speranza.
Avevamo parlato di Italo Calvino in merito ai racconti di Elvira Seminara (molto calviniani, si era detto).
Ecco, tornando a Calvino mi viene in mente quel grande capolavoro del Novecento (da qualcuno considerato un’opera minore… ma io non sono d’accordo) che è “Se una notte d’inverno un viaggiatore”: un testo che, da solo (per quanto mi riguarda), vale come un corso di scrittura e di lettura.
Così commentò Italo Calvino questo suo libro (pubblicato ne ’79): “È un romanzo sul piacere di leggere romanzi; protagonista è il Lettore, che per dieci volte comincia a leggere un libro che per vicissitudini estranee alla sua volontà non riesce a finire. Ho dovuto dunque scrivere l’inizio di dieci romanzi d’autori immaginari, tutti in qualche modo diversi da me e diversi tra loro”.
Allo stesso modo le voci narranti de “I racconti del parrucchiere” della Seminara – tutte espresse in prima persona – hanno una loro autonomia, una loro specificità. Sono voci diverse. Ma la diversità non interessa solo le voci. Sono differenti gli impatti narrativi, le tipologie di storie. La Seminara alterna toni umoristici e divertenti con storie struggenti e dure. E riesce a farlo mantenendo, a mio avviso, una qualità narrativa costante ed elevata. (E a proposito di connessioni e collegamenti, mi viene in mente che il personaggio femminile, la Lettrice, del “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino si chiamava Ludmilla, come una delle protagoniste del romanzo “L’indecenza” di Elvira Seminara).
Zaubereiiiiiiiiiii… non ci posso credere!!!
Bentornata!
–
Allora, vi comunico che Zauberei è mamma da pochissimi giorni.
Autorizzo tutti ad andare off topic (guai a chi non lo fa 🙂 ) per farle gli auguri!
Augurissimi, Zaub!
Altra riflessione calviniana…
I racconti di Elvira Seminara (sempre a mio modo di vedere) scivolano, fluiscono; passano rapidi dalla carta agli occhi e alla mente del lettore. Il riferimento immediato è alla prima delle note lezioni americane di Italo Calvino (opera postuma e incompleta ma che ha valore di vero e proprio testamento letterario). La prima di queste lezioni (già citata anche in questo post) è proprio dedicata alla Leggerezza, che deve essere – per lo scrittore – l’oggetto irraggiungibile di una ricerca continua. Quanto più il vivere è pesante, tanto più il racconto deve essere leggero. E quanto più è leggero, tanto più è efficace. Calvino, per farla breve, invita a ricercare la leggerezza come reazione al peso del vivere (anche se va specificato che questa leggerezza non deve essere fraintesa con l’assenza di profondità: tutt’altro). Leggendo “I racconti del parrucchiere” l’impressione è che Elvira Seminara abbia fatto sua questa lezione.
Grazie Massimo ma se ti depenni tu,chi la mette la camicia celeste??un bacione
A Zauberisssima mammissima superauguri e spero che trovi il tempo fra una poppata e l’altra di farci compagnia con la sua presenza più che scoppiettante!
p.s.peccato che non riesco a fare il neretto come Massimo.
baci a pioggia allo zaubercucciolo/a
buonanotte a tutti
Intanto un ringrazissimo a Massimo er il neretto che mi rende orgogliona e alla francesca giulia. Saròcci! Ma forse un tantino più sconclusionata. Lo zauberpargolo comuunque ricambia affettuosamente:)
Auguri Zaub!!!!
Bacio grandissimo a te e tuo marito e uno delicatissimo sulla testina del piccolo letteratitudiniano (con una mamma così!).
Gli auguro ogni felicità, tutte le stelle del cielo, amore – sempre.
@ Felice Muolo
L’esatta citazione di Hemingway è la seguente: il genio è al cinque per cento ispirazione e al novantacinque per cento traspirazione.
Per traspirazione bisogna intendere, appunto, sudore.
Ora… il problema è che di sudare, sudiamo tutti… mentre quel cinque per cento di ispirazione… be’, non lo vendono al supermercato 🙂
Felice, ho inserito il tuo raccontino qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2006/11/02/iperspazio-creativo/#comment-69814
Con questa scusa rilancio “Iperspazio creativo”, un luogo letteratitudiniano che spero si possa meglio sfruttare in futuro.
Zaubè!!! Wunderbar! Te possino….!
Felicitazioni e gaudio pirotecnico, a te e al zauber-infante
Massimo, avrei gradito un tuo commento al racconto, anche sincero….
Un grazissimo a Carlo S. e alla Simonerrima:) Lo zauberpargolo – che ho blogghisticamente ribattezzato (se fa per dì:) Moishe Pipìk vi bacia entrambi:)
Zauberei mamma di “Moishe Pipìk” un vero esempio di romanzo impegnato d’amore di ampio respiro;il numero del le pagine non si contano più!
Baci&Abbracci a tutta la tua famiglia cara Zaub, se me lo consenti!
Ciaooooooo,
Luca Gallina
Felice, il tuo microracconto mi pare interessante e ben scritto.
Grazie, Massimo, sei un amore. Mi pare a parte.
Certo che questo Muolo è un campione di simpatia. Mi pare.
Paolo, non si può manco scherzare? Che subito vieni ripreso? La considerazione mia verso Massimo è indiscussa. Persona estremamanete gentile e disponibile. Un amico con cui mi sento di scherzare. Si c’è la ripetizione. Punto.
Piuttosto, Paolo, dimmi se a te è piaciuto il racconto. Puoi essere sincero. Grazie. Scusami, voglio bene anche a te. Senza ironia.
Vedo che siamo d’accordo sull’importanza dei racconti, sulla difficoltà di scriverli e di condensare in poche pagine tutti gli ingredienti di un romanzo (ambientazione, personaggi, situazioni preesistenti, sviluppo e finale).
Eppure mi sono fatto l’idea che il vero problema è che il pubblico non è più abituato allo strumento. In un mondo in cui l’oggetto-libro è valutato tanto meglio quando più corposo è il suo volume (e non mi riferisco solo agli scrittori scandinavi o a quelli di fantasy) come volete che sia preso, un semplice racconto? Come un figlio minore, nella migliore delle ipotesi.
Di una cosa dobbiamo convincerci: non siamo più ai tempi dei racconti pubblicati nelle pagine conclusive dei quotidiani. Se chiedi a un lettore “non forte” cosa pensa di un libro di racconti, scritto magari da un autore famoso e commerciale, 9 volte su 10 storcerà il naso e risponderà “è SOLO un libro di racconti”.
Si vede che chi posta qui i commenti ha tutte altre idee.
L’importante è fregarsene e resistere.
Forse.
Lui si che ci sapeva fare, uomo elegante e di talento, al secolo noto come Lord Kames, scozzese di Edimburgo, esteta, giurista, critico d’arte, sul suo libro scrisse che esiste una “bellezza di relazione” ed una “bellezza Intrinseca” della quale si occupò con gli elmenti dell’ordine, armonia, proporzione “nella natura tutto è predisposto dal suo Autore per farci felici…”.
Fu uomo di gusto Lord Kames, vissuto nel settecento, il suo intelletto si espresse soprattutto riguardo la bellezza della logica e le Sue connessioni di senso. Il suo pensiero non fu certamente quello di un ometto raziocinante con parrucca d’epoca da grossi cannoli da gustare.
Quel che salva l’arte è il Genio. Ma anche la poesia.
Chi nega la genialità di uno scittore come Italo Calvino?
Porgo i miei saluti a tutti.
Ringrazio Simona Lo Iacono per la bella Storia sulle capigliature, davvero molto interessante l’iter con cui è stata condotta.
Saluto anche Elvira Seminara. Distintamente e col sorriso di chi ne stima il lato dandy alla boudelaire non alla wilde.
Rossella
Ciao, Rossella:-))
Pienamente d’accordo con Andrea che spiega, da un’altra angolazione, la “ritrosia” di molte case editrici a pubblicare raccolte di racconti.
Per fortuna molti lettori la pensano diversamente e le raccolte di racconti o i racconti “lunghi” continuano a essere pubblicati, il ché, in fondo, è ovvio: se un componimento è bello lo è a prescindere dalla sua lunghezza…
Carissimi Massimo, Sabina, Simona, Amelia, Zauberei, Maria Lucia, Rossella, e tutti gli altri , ho letto tutti i vostri commenti e non mi resta più nulla da dire. Avete detto tutto e con tutti i colori. Che bella comunità, Lettratitudine ! Quanta passione e lucidità insieme. E quanta condivisione, amicizia, vera solidarietà di operai del sogno. Perchè questa, per me, è letteratura. Senso di officina, artigianato. E io la penso come Levi Strauss, che a cent’anni conclude che il futuro del pianeta è nelle nostre mani. Non nelle macchine. Ma nell’opera , nella fatica e nella fantasia delle nostre mani.
Questo è dunque un abbraccio per voi tutti. Vero, con le mani.
elvira
Grazie mille, Elvira.
Sei molto cara:-))
Un abbraccio affettuoso a te.
Rita Caramma mi ha inviato una bella recensione di questo libro di Elvira Seminara. La inserisco nel commento che segue.
Chi di noi, almeno una volta nella vita non ha pronunciato davanti al proprio parrucchiere di fiducia (o a quello capitato per caso nel percorso nervoso di un pomeriggio che avremmo voluto come tanti e che, invece, porta in sé il fardello del desiderio di vivificante rinascita) la fatidica frase: “Dal momento che non posso cambiare testa, almeno cambio taglio e colore di capelli!!!”?
E, se siamo così fortunate da poterci annoverare tra le poche che non sono state sfiorate da quest’idea, perlomeno lo avremo sentito dire con tono sommesso o bellicoso alla vicina di poltrona (con tanto di massaggio incorporato) del prescelto centro di bellezza.
Tagliamo i capelli, tanto noi non siamo Sansone e mentre le ciocche cadono per terra rivediamo i mesi, gli anni trascorsi, l’irrimediabile scorrere del tempo.
Cambiamo colore, ieri castano mogano, oggi biondo miele e , magari, domani un bel rosso tiziano, chissà, tanto per non appiattirci, per non sentire la monotonia dei giorni, per mimetizzarci alle stagioni che si susseguono, quelle meteorologiche come quella della vita.
Così, l’approccio con “I racconti del parrucchiere” di Elvira Seminara (Gaffi, pp. 110, euro 7,50), in questo inizio di una prevedibile calda estate ci appare come una piccola-grande isola felice in cui ritrovarci. “Piccola” perché tale è il libro nelle sue dimensioni grafiche, “grande” in ciò che comunica in quanto testimonianza di esistenze sparse.
A dire il vero, conoscendo l’autenticità intellettuale della Seminara, non ci coglie di sorpresa il contenuto assolutamente realistico che ritroviamo in ogni racconto, tredici per la precisione, che si scardina come pagine di un solo diario, quello forse del parrucchiere che diventa l’altre ego di ciascun protagonista. Protagonista che, ora indossa i panni della suora, ora quelli del marito tradito, ora quelli della sciampista, ora del transessuale. C’è posto per tutto e per tutti, c’è un’umanità fatta di microcosmi, ci sono isole nell’isola (concetto caro all’autrice) che seguono con le loro vicende personali, un unico binario, lasciandosi alle spalle parallelismi formali per approdare a una loro solitudine che tutti li accomuna: solitudine a cui ribellarsi o arrendersi.
E, lì li ritroviamo ad asciugare al calore di un phon l’umido dei capelli e “l’umidità” che il vivere lascia dentro. Ma, a noi piace il tocco di magia che la Seminara con la sua felice e personalistica scrittura sa regalarci: forbici, tintura e bigodini e tutti diviene possibile con l’ironia che le appartiene e che troviamo ricca di genialità in un testo che, nella trasfigurazione di chi legge, trasforma il coiffeur in un giornalista – psicologo del calibro della scrittrice.
Rita Caramma