Sono molto lieto di avviare questa discussione incentrata su Napoli e l’Irpinia, luoghi entrati nell’immaginario di molti di noi (ma anche luoghi dove sono nati e vivono parecchi amici di questo blog).
Nel farlo tenterò di coinvolgere alcuni scrittori che, attraverso i loro libri, hanno raccontato di queste terre e di tutto ciò che – nel bene e nel male – gravitano attorno a esse.
Credo sia superfluo premettere che la produzione di libri (di narrativa e non) dedicati, in un modo o nell’altro, a Napoli e all’Irpinia (a partire dall’ormai celeberrimo Gomorra di Saviano) è piuttosto cospicua. Per cui, i libri che segnalo in questo post sono solo una piccola rappresentanza della folta schiera disponibile.
Di seguito, come sempre, porrò qualche domanda al fine di agevolare la discussione. Ma prima ci tengo a presentare scrittori e libri coinvolti (li elenco per ordine alfabetico di cognome degli autori e curatori):
– “L’INFANZIA DELLE COSE” di Alessio Arena (Manni)
– “UNA TERRA SPACCATA” di Emilia Bersabea Cirillo (San Paolo)
– “L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO” di Francesco Costa (Salani)
– “SCUORNO (Vergogna)” di Francesco Durante (Mondadori)
– “NAPOLI PER LE STRADE“, racconti a cura di Massimiliano Palmese (Azimut)
– “LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia” racconti a cura di Generoso Picone (Mephite edizioni)
Mi permetto di ricordare, tra gli altri, “Napoli sul mare luccica” di Antonella Cilento (Laterza) di cui avevamo parlato qui. E, per quanto riguarda l’Irpinia, i libri di Franco Arminio.
Gli autori dei suddetti libri, i curatori delle raccolte e gli autori dei racconti, gli amici irpini e napoletani e voi tutti… siete invitati a partecipare al dibattito.
Francesca Giulia Marone e Emilia Cirillo mi daranno un mano a moderare e a coordinare la discussione.
E ora… le domande del post:
1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?
2. Quali sono i “tratti” in comune?
3. Come è cambiata (se è cambiata) la Napoli di oggi rispetto a quella di venti, trenta, quarant’anni fa?
E l’Irpinia?
4. Che rapporto c’è tra Napoli, l’Irpinia e il cinema? Come sono state rappresentate nel grande schermo? Tali rappresentazioni sono sempre state aderenti alla realtà?
5. Se doveste scegliere, con riferimento all’intera storia della letteratura, il libro che meglio rappresenta Napoli… quale scegliereste? E perché?
6. E quale libro scegliereste in rappresentanza dell’Irpinia?
Di seguito, un po’ di notizie sui libri sopraccitati (ne approfitto per ringraziare gli autori delle recensioni).
Massimo Maugeri
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L’INFANZIA DELLE COSE di Alessio Arena
Manni, 2009 – pagg. 280 – euro 17
di Francesca Mazzucato: da Books and other sorrows
L’infanzia delle cose di Alessio Arena ( Manni, 2009) è un romanzo di stupori. E’ una storia vagabonda, anarchica, smembrata, pornografica, impazzita, politica e favolistica, folle e slabbrata, adatta a chi sa mettersi a sentire il brusio delle cose, la loro voce, un’eco diseguale: chi lo sa fare arriva a captare la loro infanzia, la loro dimensione di innocenza. Che si perde presto. E poi si ritrova. In un visionario e immaginifico stratificarsi di luoghi fisici ed emotivi, Il quartiere di Madrid di Lavapiés, il Rione Sanità di Napoli, piccoli e grandi malavitosi, ristoratori collusi, figure di donne stupende, che ti rimangono anche se non le capisci del tutto perché sono fatte della materia del sogno, del prisma, del gioco di luci: Erika , Amparo, la madre del protagonista, la madre di Amparo che le cose le raccoglie.
“…Non vuole fare morire le cose
-Le cose? Quali cose?
-Tutte quelle che ci stanno, tutte quelle che trova, lei se le porta dove sta lei, perché non devono morire, non si devono buttare.
Mi è venuto da dire maronna mia però non ho detto niente. L’ho guardata soltanto e all’improvviso ho avuto come la sensazione che da quel momento potevo contare su Amparo per qualsiasi cosa..”
Cose che si ammucchiano, che cambiano perché cambiano i modi per definirle e così si trasformano, nomi che sono tronchi, inventati, irriverenti, impastati di napoletano che diventa spagnolo che diventa italiano bislacco, dove ci si fa gioco della sintassi perché il background è solidissimo e lo permette. Una partita a carte con tutte le convenzioni, i contesti facili della parola scritta. Non sarà tutto semplice in ogni pagina, a volte sarà un percorso tortuoso, vi avverto, ma ne vale la pena. Fare fatica per leggere è vitale. Non si può rinunciare prima, è la resa definitiva, e il nostro paese se si arrende sui libri, sulle letture, se sceglie definitivamente il lamento televsivo, gli aggiornamenti calcistici, le ” convention” plaudenti alle storie, se preferisce per sempre tutto il ciarpame del nulla alla carta, alla vita dei personaggi da far proseguire nella testa e nel cuore rischia il ripiegamento definiivo, la perdita della dignità. Difendersi è vitale.
Ecco, Arena ha scritto un romanzo popolato di personaggi folli, increduli e devastati, ma pieni di una loro magnificenza. Di dignità antica. Una storia così contemporanea e così densa.
“Ci ho pensato e mi è venuto da pensare che io mi metto paura di una cosa che sta in tutte le cose e che pure se non la vedi sai che ci potrebbe stare”
Non l’ho letto per forza, non è stato un colpo di fulmine, ma un lento avvicinamento circolare. Quando leggo “realismo magico” sulla quarta di copertina di un libro sono sempre sospettosa, penso che non mi riguardi, che il contenuto non possa che fare il verso al realismo poetico francese, quello dei film che amo tanto, o che sia una frase fatta per definire ”una cosa a metà strada fra la fantasia e l’improbabile, un pasticcio” : ero un po’ sospettosa quando ho iniziato quindi, procedevo adagio coi piedi di piombo, poi qualcosa mi ha tirato i capelli, infilato nelle pagine e non ne sono più uscita.
Non è tutto perfetto questo libro di Alessio Arena. Proprio per niente. A volte si arranca leggendo, a volte la storia si incaglia, si perde il filo. Accade. Ma si deve leggere sapendo che è uno di quei libri dei quali non si devono macinare righe e parole nell’attesa di arrivare alla fine. La fine c’è già, viene ribaltata, cambiata, rotolata, è all’inizio, poi ci sono intermezzi e divagazioni. Occorre soffermarsi sulle singole pagine, respirarne i colori, il vociare, gli odori e le evocazioni musicali della lingua che lo scrittore inventa. Perfettamente adatta a cogliere quel magico bisbiglio. Quello delle cose innocenti nonostante la camorra, la morte, l’esilio, la paura, gli incendi. Le persone muoiono- anche se non del tutto- le cose restano innocenti ed eloquenti, e Arena ce le fa sapere decodificandole e, facendolo, regala momenti di commozione, attimi luminosissimi quando la storia perfora il cuore e pensi”caspita”, e resti inebetito e vai avanti e poi ritorni qualche pagina indietro e intanto il napo-latino si è esibito in altre pirotecnie. Veri fuochi d’artificio. Li puoi vedere. Se il montaggio non è perfettamente calibrato si può perdonare e capire.
In questo suo primo romanzo Alessio Arena ricrea il mondo. Un mondo caleidoscopico, dove ci sono De Sica, Almodovar, Pasolini tutti insieme. Un mondo-mondo, mai asfittico ma che si apre come la corolla di un fiore di carnevale. Non addomestica la sua urgenza narrativa, l’autore. E la lettura è bella e strana, un’esperienza differente da tante letture anemiche, precise, puntuali, adatte ma banali. Alla fine de L’infanzia delle cose l’ imperfezione diventa parte dell’incanto.
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UNA TERRA SPACCATA di Emilia Bersabea Cirillo
San Paolo edizioni, 2010 – pagg. 240 – euro 14,50
Una Napoli soffocata dalla spazzatura ma che ancora riluce della sua antica bellezza – come quella delle architetture realizzate da Lamont Young – accoglie il corpo di Filippo Ghirelli, morto durante una manifestazione di protesta contro la costruzione di una discarica al Formicoso, in provincia di Avellino.
È questa la vicenda di apertura di Una terra spaccata, che vede protagonista la geologa Gregoriana De Felice, chiamata a riconoscere il cadavere dell’amico, proprietario di un elegante albergo napoletano.
Come in un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio della propria memoria la donna rivive le fasi dell’incontro con l’uomo che le ha cambiato la vita, dal riconoscimento di intime affinità (la scoperta della bellezza di un luogo interno del Sud, la musica del silenzio, la ricerca della verità) alla condivisione di un atteggiamento di netto rifiuto verso la costruzione della discarica.
Incaricata di effettuare i saggi del terreno a essa destinata, poi blandita e infine minacciata dall’ingegnere Misuraca, direttore dell’azienda per cui lavora, al fine di redigere una relazione che testimoni la “idoneità del terreno alla costruzione della discarica” Gregoriana impara la ribellione amando Filippo e la sua malinconica ricerca di un luogo in cui vivere, di una casa dell’anima.
Filippo camminava davanti a me. Visto di schiena sembrava più giovane, la testa eretta, le spalle dritte, il corpo piccolo e muscoloso.
– Ci sono luoghi che si infilano dentro di noi. E non se ne vanno più. Li accogliamo per come sono dimenticati, splendenti, sconosciuti. Riescono a entrare nelle crepe, nelle nostre ombre, inconsolabili come siamo. Trovano rifugio perché abbiamo bisogno di loro. Un mutuo compenso. Quanto più è intricata la nostra oscurità, tanto più permangono, mia cara. Fino a convertirci. Fino a modificarci. Penso che questo ti sia capitato con il luogo dello scavo. Per forza che devi difenderlo. Fa parte di te –
La donna infatti denuncerà l’operazione pubblicamente, durante un’apparizione televisiva, poi rassegnerà le dimissioni per “amore della verità”.
Due personaggi scheggiati: lei con un padre lontano, una madre assente e malata, un compagno già sposato che in quei giorni si trova a Gerusalemme, in missione diplomatica .
Lui senza più una madre, senza una patria, senza un vero affetto, così sospetta Gregoriana, che non sia quello pagato per una notte.
Dal confronto con la comunità del Formicoso, composta da emigranti di ritorno ma anche da giovani che sono decisi a restare e a impegnarsi per i loro paesi, Filippo e Gregoriana finiranno per condividerne, ciascuno per suo conto, memoria e destino, lottando per la difesa di un luogo lucente e ventoso, fatto di terra, acqua e silenzio.
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L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO di Francesco Costa
Salani, 2010 – pagg. 266 – euro 14,50
1905. Il cinematografo conquista Napoli Ma che cos’è questa invenzione che crea dal nulla movimenti e colori, e che fissa la stessa azione, la stessa immagine in eterno, uccidendo la morte e donando l’eterna giovinezza? Ai paesani del circondario pare una diavoleria che chiamano « o ’mbruoglie dint’o lenzuolo »: per loro è una nuova forma di magia, da guardare con sospetto e diffidenza. Così è per l’ingenua Marianna, erbivendola analfabeta, che scopre di essere attrice suo malgrado di La casta Susanna, una pellicola di sei minuti in cui incanta (o scandalizza) folle di spettatori bagnandosi nuda nel lago d’Averno. La bella bagnante che tanto le somiglia è veramente lei o una sosia che le vuol male? E perché ripete sempre gli stessi gesti, senza sgarrare di un secondo? La verità la sa Federico, realizzatore del film, ma intende ricostruirla anche colei alla quale era stato inizialmente offerto il ruolo, Beatrice, autrice torinese giunta in città per scrivere il romanzo a puntate Eunice, l’orfana tisica…
Generoso Picone parla di questo libro così: “Francesco Costa, adoperando una lingua a cui l’uso del dialetto o di brani della parlata popolare dà ritmo ed esplicitezza, risolve l’intreccio in una soluzione che diventa un’ode all’eterno valore del cinema: imbrigliare la bellezza da cui si è ossessionati, renderla eterna oltre i giorni che si possono vivere, donarle la seduzione che può trasmetterla ai giorni che verranno.”
Un brano del libro: “Ecco il lago d’Averno incorniciato di felci che si piegavano al vento, così lievi da parere finte, e dal fondo, ignara, magnifica, si faceva avanti la sua Susanna, i capelli neri e arruffati… Giunta a un accenno di spiaggia si toglieva i vestiti e guardava il sole che sorgeva dalla parte in cui, lontano, il mare univa quella terra a paesi di cui neanche sapeva i nomi.
Un attimo ancora, e si sarebbe gettata nel lago tutta nuda, ma prima, per chissà quale incontenibile impulso che lui mai avrebbe benedetto abbastanza, avrebbe fatto una piroetta, un passo di danza o qualcosa di simile…
Si sarebbe tolta i vestiti in eterno, e avrebbe ripetuto la sua piroetta per sempre, incarcerata nel suo raggio di luce, era sua, l’aveva catturata e anche tra un secolo, o perfino tra due, sarebbe stata costretta a ripetere i suoi gesti per un pubblico incuriosito o stralunato. Era la sua prigioniera…
La luce era al suo servizio, proprio così, e ai napoletani in vena di spassi rendeva visibile su quel grande lenzuolo bianco tutto ciò che aveva sognato, inseguito, desiderato.”
Francesco Costa è nato a Napoli. Già sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha esordito con il romanzo La volpe a tre zampe, cui si ispira l’omonimo film di Sandro Dionisio con Miranda Otto e Angela Luce. Sono seguiti Non vedrò mai Calcutta, Se piango picchiami, Il dovere dell’ospitalità e, per Salani, Presto ti sveglierai. I suoi libri sono tradotti in Germania, Giappone, Spagna e Grecia. Da L’imbroglio nel lenzuolo è stato tratto il film di Alfonso Arau, illuminato da Vittorio Storaro e interpretato da Maria Grazia Cucinotta, Anne Parillaud e Geraldine Chaplin.
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“L’imboglio del lenzuolo” di Francesco Costa
La recensione di Maria Lucia Riccioli
Napoli, 1905.
L’Unità d’Italia è una realtà da più di trent’anni, ma per Federico Bory, “cinematografaro” ante litteram, non è più che un cambio di nome per la Via Toledo. O forse è la possibilità d’incantare la gente come un apprendista stregone: «Non poteva comandare, va da sé, tutta la luce che inonda la terra, ne aveva asservito solo un fascio, però era già più di quanto capitasse di norma, e quel fascio di luce andava a buttarsi tutte le volte che lui voleva dentro un lenzuolo da cui tirava fuori cose mai viste, una magnifica femmina e paesaggi d’incanto voi vi chiederete che diavoleria è mai questa, e io che non voglio tirarla in lungo, vi rispondo che faccio il cinematografo, voi saprete di che sto parlando, sì, sono un direttore di scena, ho realizzato una film e ho venticinque anni appena finiti».
E cos’è per Beatrice Sismondi, torinese inquieta, l’Unità d’Italia? Il sentirsi attratta e respinta assieme da Napoli, il sogno realizzato di scrivere sul Mattino come l’ormai leggendaria Serao, di pubblicare a puntate Eunice, l’orfana tisica, improbabile feuilleton strappafazzoletti.
Marianna Mazzolati, bellissima e analfabeta, taglia corto. Chi è del Nord viene «dall’altra Italia», quella in cui si parla una lingua sconosciuta, quella che ti strappa il tuo uomo, Giocondo Gaudio o Gaudio Giocondo – valli a capire i misteri dell’anagrafe del Continente – per farlo soldato a forza.
E chi è la casta Susanna che s’immerge come una ninfa antica nelle acque del lago d’Averno e danza nuda, immortalata su una pellicola?
Cafè chantant, esilaranti produttori cinematografici, amori e passioni in una Napoli smagliante e chiassosa, incantata dal cinema, “l’imbroglio nel lenzuolo”, che fa spavento e attrae dando corpo ai sogni e scrivendoli con la luce.
E poi c’è il fascino della Napoli sotterranea, dell’Averno e del Lucrino, con la grotta della Sibilla e i suoi misteriosi sussurri, il paesaggio affatturato di ginestre e indorato di sole in cui si mescolano profumi e colori, le piante che Marianna raccoglie e impiastriccia per le sue incantagioni curative.
Francesco Costa è un giocoliere di parole e di luce, quella luce mediterranea e partenopea in particolare che fa pazziare i suoi personaggi e che forse li farà rinsavire.
“L’imbroglio nel lenzuolo” è una girandola di situazioni e di trovate, un flusso di narrazione in cui i personaggi principali si rimpallano la storia e se la rigirano a proprio modo. Al lettore il compito di sbrogliare il lenzuolo, di sorridere indulgente ai propri sogni e a quelli usciti dalla penna di Francesco Costa.
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SCUORNO (Vergogna) di Francesco Durante
Mondadori, 2008 – pagg, 208 – euro 17,50
di Francesca Giulia Marone
Giorni fa leggevo un articolo di Marco Belpoliti su Panorama che trattava del sentimento della vergogna, o meglio della mancanza di tale sentimento nella società attuale. Il senso del pudore pare essere scomparso – ed io concordo con quanto scritto nell’articolo – non solo a livello personale ma anche a livello sociale.
La comunità ha abbassato la soglia del pudore, sia che si parli di pudore come concetto legato al sesso, sia che riguardi i sentimenti e le emozioni più intime. Tutto è “spudoratamente” mostrato e nel suo mostrarsi perde di significato, rende tutti uguali, tratta le nostre emozioni come merci e nessuno più abbassa gli occhi di fronte ad uno sguardo di giudizio interiore o esteriore che sia. Nessuno prova più vergogna.
Per tale motivo il libro “Scuorno” di Francesco Durante si inserisce come una lettura oltre che piacevole, necessaria, magari come uno stimolo in più per ritrovare quel sentimento a livello personale e sociale nella città di Napoli. Ma attenzione, lo scuorno è molto più della vergogna, è la vergogna della vergogna. Da questo sentimento, di cruciale importanza per un vivere civile e consapevole, Napoli potrebbe ripartire riscattando un’immagine che negli ultimi tempi è stata sommersa dalla “munnezza”, la camorra, la miseria e un’attenzione mediatica concentrata sui mali endemici. Difficile compito – per lo scrittore nato ad Anacapri, allontanatosi da Napoli per diversi anni e poi tornato – “parlare” della città senza cadere nelle trappole degli stereotipi e del già detto (difficile inserirsi nel solco del dopo Gomorra di Saviano); ma Francesco Durante riesce in pieno nell’intento e ci consegna un libro stimolante, scritto con agilità e grazia, che sa cogliere la malìa seduttiva della città con ironia intelligente senza risparmiare peraltro le giuste critiche. “Scuorno” è un libro che brilla per l’originalità della visione, è colto senza annoiare, è a tratti intimo come le pagine di un diario personale, è interessante quando tratta il percorso storico del passato di Napoli capitale e del significato delle tante dominazioni straniere, è ironico quando dipinge quadretti di vita dei quartieri, puntuale e divertente quando dedica un intero capitolo ai santi patroni della città dispiegandone tutti i tratti caratteristici al lettore. Non mancano i riferimenti alla politica e una certa simpatia indulgente per personaggi della scena politica napoletana degli ultimi anni, affondanti le riflessioni sulla lingua e sui termini che tracciano una linea di contiguità fra le classi sociali, il libro si snoda apparentemente in maniera disordinata da un tema all’altro con abile maestria da narratore, affrontando diversi registri, disegnando un prodotto finale che risulta essere profondamente diverso dalla moltitudine dei testi fioriti nell’ultimo periodo sulla città di Napoli. Non c’è soltanto accusa, non esiste soltanto un dito che gira nelle piaghe dei mali endemici della città. Nelle pagine di “Scuorno” c’è amore, c’è nostalgia per un’atmosfera napoletana unica e irripetibile in altri contesti. Lo si legge chiaramente anche dalle parole che lo scrittore riporta di Valeria Parrella – altra scrittrice napoletana rimasta fisicamente e spiritualmente legata alla sua città – : “Napoli ha un microclima esistenziale che non trovi da altre parti”. Tutto questo, che probabilmente è parte dell’intimo pensiero dell’autore, viene consegnato al lettore con leggerezza, con sguardo ironico e sapiente che lascia intravedere un’altra prospettiva, un’altra strada per Napoli che attraverso lo scuorno possa riscoprire un orgoglio nuovo che superi l’avvilimento e dia slancio per recuperare l’immagine migliore di sé. In fondo potrebbe essere sufficiente, per riacquistare un peso di consapevolezza felice, un piccolo oggetto-simbolo come la statuina di pulcinella mandata nello spazio per vincere un lack of mass (come dicono gli esperti del Mars), un carico più leggero del previsto che crea problemi nel decollo spaziale – un’immagine simbolo beneaugurante affinché la città possa ritrovare la sua natura oggi svilita. Sono state diverse le letture di questo libro, al di là della indiscutibile bravura e preparazione dell’autore, alcune letture scure e pessimistiche lo interpretano come un quadro di una città senza speranza, che dietro le facce dello scuorno ha solo ignoranza e fallimento. Mi piacerebbe, oltre lo sguardo doloroso e acuto dell’autore, vedere segni di speranza e di ripresa, attraverso le sue parole talvolta delicate e ricche di sentimento per Napoli, ma senza cadere mai nel vittimismo, ed immaginare con lui e i lettori di “Scuorno” tanti pulcinella liberi nell’etere che raccontino ancora della bellezza antica della mia città come qualcosa di possibile.
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NAPOLI PER LE STRADE racconti a cura di Massimiliano Palmese
Azimut, 2009 – pagg. 200 – euro 12
da Napoli.com
Racconti di: Alessio Arena, Stella Cervasio, Luigi Romolo Carrino, Fabrizio Coscia, Carla D’Alessio, Maurizio de Giovanni, Luca De Pasquale, Peppe Fiore, Francesco Forlani, Antonio Iorio, Simone Laudiero, Marilena Lucente, Giusi Marchetta, Marco Marsullo, Paolo Mastroianni, Rossella Milone, Davide Morganti, Marco Palasciano, Massimiliano Palmese, Angelo Petrella, Massimiliano Virgilio.
Dopo Gomorra molti altri libri tra fiction e giornalismo hanno avuto Napoli come oggetto d’indagine. La vocazione di Napoli per le strade – parte di un progetto benefico più ampio, Città per le strade – è del tutto differente: più che un’inchiesta sulla città, è un’inchiesta sullo stato di salute della sua letteratura. Infatti, se il giornalismo dipinge il ritratto di una città malata e sofferente, le narrazioni degli scrittori fanno emergere con forza le istanze di una città reattiva e “resistente”.
Può sembrare ambiziosa la sfida di presentare in un’unica raccolta ventuno scrittori da Napoli e dintorni, eppure si deve pensare che il volume non raccoglie una sola generazione ma almeno tre, e provare a immaginare questi scrittori come le molte e differenti voci di una città che, tirata in ballo dalla cronaca (quella nera della camorra e quella grigia della politica), decida di voler intervenire personalmente nel dibattito, e raccontarsi.
E così, dalle antiche cime di Pizzofalcone alla borghese Chiaia, dalla collina “snob” del Vomero alle zone popolari di Vasto, Duchesca e Sanità, da “giù Napoli” alle alture dei Camaldoli e Capodimonte, dalle periferie di Chiaiano fin dentro al cuore pulsante del Centro Storico, ventuno luoghi di Napoli vanno a comporre la cartografia di una città troppo vasta e troppo ricca di energie contrastanti per essere definita con un unico nome, o soprannome.
”Napoli per le strade” ha un incipit colto, col racconto di un poeta e studioso (Palasciano), quindi salda subito il suo debito con la nostalgia di chi è partito, ma una nostalgia senza rimpianto (Forlani, Fiore); chi invece è rimasto in città, la vive in uno stato di attesa (Marchetta, D’Alessio) o di combattimento perenne, quasi di guerriglia psicologica (Palmese, Laudiero, Virgilio); una città dove alte sono le temperature dell’eros (Carrino, Petrella) e dalla passione al delitto il passo è breve (Arena, Marsullo, Iorio, Mastroianni, Morganti); dove il presente per la sua complessità è difficile da decifrare o addirittura enigmatico (Coscia, De Pasquale, Lucente), mentre il futuro per qualcuno potrebbe essere già scritto (Cervasio, de Giovanni, Milone).
Autori nuovi, che hanno esordito negli ultimi due o tre anni (Carrino, Coscia, De Pasquale, Fiore, Forlani, de Giovanni, Laudiero, Mastroianni, Morganti, Palmese, Petrella, Virgilio), diverse e interessanti voci di donne (Cervasio, D’Alessio, Lucente, Marchetta, Milone), i giovanissimi (Arena, Iorio, Marsullo), un poeta (Palasciano): ventuno scrittori per un progetto benefico, ventuno storie da una grande metropoli.
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LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia a cura di Generoso Picone
Mephite edizioni, 2010 – euro 12
di Antonella Cilento (da IL MATTINO del 19/01/2010)
È un fatto che le aree geografiche, le province, le pianure, i golfi o le montagne vadano raccontate: non c’è forse narrazione più vitale, in questo momento storico, di quella che parte dai luoghi e che si assume la responsabilità di rappresentarli in rivolta contro il silenzio assoluto imposto dal vocìo globale che racconta macro-aree, non-luoghi, metropoli tentacolari, poli magnetici e direzioni (storia del Nord, del Sud, dell’Est, dell’Ovest) piuttosto che terre e persone. E se in Italia gli scorsi decenni hanno identificato con chiarezza aree della provincia raccontate con vigore dagli scrittori locali, dall’Emilia al Nord-Est, è giunta senz’altro l’ora dell’Irpinia, riposto interno della Campania, oscurata dal sole (luminoso o buio) napoletano, regione nella regione, a scavalco dell’Appenino, rivolta verso l’Oriente ma con un piede nell’Occidente, luogo dell’osso, come tante volte si è detto. I narratori raccolti ne «Le frane ferme» (Mephite edizioni) da Generoso Picone sono in effetti scrittori, almeno in parte, imparentati con i narratori delle pianure di Gianni Celati, con l’Emilia padana che negli anni Settanta e Ottanta raccoglieva la tradizione di Antonio Delfini e di altri narratori extra-ordinari, malinconici, provinciali nel senso ideale della parola e non solo locale, che dei movimenti dell’animo del territorio, delle variazioni di luce, dei sentimenti minori, della quotidianità facevano racconto. Una tradizione che si sarebbe tradotta in Pier Vittorio Tondelli e che ancora s’intravede, ad esempio, nei bei racconti di Davide Bregola o in alcune storie di Guido Conti. Una continuità non solo ideale ma concreta c’è nelle storie letterarie di Franco Arminio e Emilia Bersabea Cirillo, legati in anni trascorsi alle riviste o agli ambiti di Gianni Celati, e nel racconto di Marco Ciriello con un protagonista e un tema ispirato al meraviglioso «Casa d’altri», massimo approdo narrativo di un altro eclettico emiliano, Silvio D’Arzo: ne «La piega» Ciriello infatti sceglie per protagonista un prete e come tema una difficile confessione, identica traccia di D’Arzo, e lo chiama Ezio, che era il vero nome di D’Arzo, all’anagrafe Ezio Comparoni. E se in Ciriello si declina quindi il tema darziano della solitudine montagnosa, del panorama che wertherianamente rispecchia il sentimento di solitudine e abbandono, l’Irpinia di Franco Arminio cerca una sua specifica autonomia, declinata non in forma prettamente narrativa ma sotto forma di reportage o di comizio narrativo. Sottile ma continua la presenza di certa passata politica: il nome di De Mita appare inevitabile in ogni racconto a punteggiare situazioni o discorsi di diversa natura. Così come appare limpida l’Irpinia delle case vecchie, del terremoto dell’Ottanta che fa da spartiacque fra scelte e destini, letterari e no, e l’Irpinia delle case nuove, degli Zio Paperone della Campania, della nuova borghesia che affluisce in palazzine e villette, di quest’immensa periferia dell’anima, ancora contadina eppure fin troppo urbanizzata, con troppi Suv e scarpe costose ma con ancor più grandi melanconie, infelicità e incapacità di trasformazione. Ad esempio, scrive Arminio nel suo «Il circo dell’indifferenza»: «Abbiamo belle case, abbiamo un’aria decente, abbiamo belle macchine, abbiamo ottimo cibo, abbiamo gli stessi telefonini, gli stessi computer che hanno a Tokyo e a Francoforte. Quello che ci manca è il coraggio di giocarci la partita, preferiamo dire che il campo è impraticabile o che l’arbitro è sempre contro di noi». Ma è nel racconto di Emilia Bersabea Cirillo, «Gli infiniti possibili», impietosa e commossa narrazione alla Joyce Carol Oates (la provincia americana o del Nord Europa qui aleggia, distante sorella), che si spiegano gli eventi recenti di un territorio, il fallimento di una generazione – o il sentimento di questo fallimento: sospesa nell’apprendimento di un tuffo nella piscina comunale di Avellino, la protagonista osserva la sua città immobile nelle abitudini e nel consolidamento di un quotidiano senza slanci, rievocando le lotte giovanili per far accadere eventi importanti e di spessore culturale. Compare così sullo sfondo un profetico Luigi Nono, la musica sperimentale del secondo Novecento, una stagione che, oltre la politica, ha cercato di modificare la formazione degli irpini. Come nel delicato racconto di Franco Festa, «La ragazza della sala 4», l’amore muore, assassinato, incompreso, silenzioso: e così si asciugano anche le narrazioni a volte grottesche ma più spesso cariche di fading degli scrittori irpini d’oggi. Quattro racconti per quattro stili, quattro generi letterari e quattro generazioni differenti, raccolte dalla lucidissima introduzione di Generoso Picone che fa il punto sul valore della parola, invalidata, abbandonata, amata in solitudine, ma, in fondo, pur sempre salvifica, per «ormesi» o omeopatia, o forse osmosi. Ed è con l’autoritratto geografico di Vinicio Capossela, irpino Dop, che si deve concludere questo ritratto dell’Irpinia: «Sono nato tra i Kuta Kuta appartengo al ramo dei Pacchi Pacchi, che sono i più lunatici e fissati.(…) Dagli altipiani di Lacedonia sono arrivati fino ai bassopiani del Chiavicone. Nelle nebbie dove osano soltanto le anatre mute e le donne in segno di ammiccamento si lisciano il mustacchio». Lunatici, autoironici, ipocondriaci, solitari, attaccati al territorio, legati ma distanti, in fuga ma stanziali, questi narratori irpini bisognerà, prima o poi, ricollegarli in una futura geografia post-dionisottiana, ai loro parenti dell’Appennino del Nord, senza dimenticare i narratori dell’interno di altri Sud, dalla Calabria alla Sicilia degli altopiani.
Cari amici, sono davvero molto lieto di avviare questa discussione incentrata su Napoli e l’Irpinia, luoghi entrati nell’immaginario di molti di noi (ma anche luoghi dove sono nati e vivono parecchi amici di questo blog).
È da tempo che ci pensavo…
L’idea è quella, appunto, di coinvolgere alcuni scrittori che, attraverso i loro libri, hanno raccontato di queste terre e di tutto ciò che – nel bene e nel male – gravitano attorno a esse.
I libri che sto proponendo in questo post sono solo una piccola rappresentanza della folta schiera disponibile.
Si tratta di libri che ho avuto modo di leggere e sfogliare di recente… ma ce ne sarebbero tantissimi altri da citare (non c’è dubbio).
Come ho già precisato sul post i libri “coinvolti” sono (li elenco per ordine alfabetico di cognome degli autori e curatori):
– “L’INFANZIA DELLE COSE” di Alessio Arena (Manni)
– “UNA TERRA SPACCATA” di Emilia Bersabea Cirillo (San Paolo)
– “L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO” di Francesco Costa (Salani)
– “SCUORNO (Vergogna)” di Francesco Durante (Mondadori)
– “NAPOLI PER LE STRADE“, racconti a cura di Massimiliano Palmese (Azimut)
– “LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia” racconti a cura di Generoso Picone (Mephite edizioni)
Gli autori dei suddetti libri, i curatori delle raccolte e gli autori dei racconti, gli amici irpini e napoletani e voi tutti… siete invitati a partecipare al dibattito.
Francesca Giulia Marone e Emilia Cirillo mi daranno un mano a moderare e a coordinare la discussione.
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Emilia non potrà intervenire prima di domani sera a causa di un problema al pc.
E ora… le domande del post (che sono provvisorie… nel senso che potrebbero essere integrate)…
1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?
2. Quali sono i “tratti” in comune?
3. Come è cambiata (se è cambiata) la Napoli di oggi rispetto a quella di venti, trenta, quarant’anni fa?
E l’Irpinia?
4. Che rapporto c’è tra Napoli, l’Irpinia e il cinema? Come sono state rappresentate nel grande schermo? Tali rappresentazioni sono sempre state aderenti alla realtà?
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(Questa domanda è stata ispirata dal romanzo di Francesco Costa)
5. Se doveste scegliere, con riferimento all’intera storia della letteratura, il libro che meglio rappresenta Napoli… quale scegliereste? E perché?
6. E quale libro scegliereste in rappresentanza dell’Irpinia?
Sul post trovate un po’ di notizie sui libri “coinvolti”.
Anzi, ne approfitto per ringraziare gli autori delle recensioni.
In particolare:
– Francesca Mazzucato, per la recensione del libro di Alessio Arena
– Francesca Giulia Marone, per la recensione al libro di Francesco Durante
– Antonella Cilento, per la recensione alla raccolta curata da Generoso Picone (“Le frane ferme”).
De “LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia” manca l’immagine di copertina (lo so). Provvederò a inserirla domani sera…
Spero che molti degli autori citati possano partecipare alla discussione, ma confido nella partecipazione di tutti.
La cosa importante, per me (come al solito), è che la discussione si sviluppi in maniera sana e costruttiva.
Come recitala ormai conosciuta “Avvertenza” (colonna sinistra del blog): La libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui. Commenti fuori argomento, o considerati offensivi o irrispettosi nei confronti di persone e opinioni potrebbero essere tagliati, modificati o rimossi. Nell’eventualità siete pregati di non prendervela.
Per il momento chiudo qui.
Questa discussione ci terrà compagnia per qualche giorno.
Una serena notte…
Non sono campana e non ho vissuto a lungo né a Napoli né in Irpinia. Ma conosco quei luoghi. Sono molto curiosa di seguire gli sviluppi del dibattito.
Posso provare a rispondere alle domande, ma non è affatto facile.
1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?
Credo che a questa domanda possano rispondere solo napoletani e irpini, per cui la salto. Ma sono curiosa di leggere le risposte degli interessati.
Anche alle altre domande è difficilissimo rispondere se non vivi in quei luoghi. Credo che rimarrò alla finestra a guardare e a leggere, da curiosa osservatrice.
1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?
2. Quali sono i “tratti” in comune?
Butto qualche riflessione…
Caro Massimo,innanzitutto sono lusingata che tu mi abbia invitata a partecipare a questo dibattito interessantissimo con autori significativi della nostra cultura da cui tornerò con un bagaglio di cose nuove e di tante domande. Non è facile,come dice Amelia,rispondere,- grazie Amelia per aver avviato questo post!-bisognerebbe conoscere bene entrambe le realtà,ma da un punto di domanda che le lega mi piacerebbe partire per stimolare una certa discussione.Città del Sud,cosa può significare appartenere ad un sud del mondo e pensando alle parole di Pasolini,quando rifletteva sul sud come concetto più ampio,quanti sud esistono?Esiste un sud dei luoghi e dell’anima,dove una tradizione sembra opporsi ad un concetto di modernizzazione e dove i luoghi geografici che fanno da cornice alla vita di tutti i giorni impongono una direzione e un’influenza alla vita stessa.Forse,questa geografia fisica che s’impone sull’anima del sud è il tratto comune fra le due realtà,ma in ognuna di esse ha preso pieghe differenti, anche rispetto ad una diversa densità abitativa e forse ad una maggiore permeabilità di Napoli rispetto ad Avellino.Credo anche ad una maggior legame con le tradizioni in quest’ultima rispetto alla prima.Penso inoltre che i disastri naturali,in particolare il terremoto dell’80, abbiano segnato la storia di queste realtà,creando uno spartiacque nella vita politica,sociale e culturale in particolare dell’Irpinia.
Mi piacerebbe sentire gli altri cosa ne pensano,suggerendo una ulteriore domanda per il nostro dibattito.
Quanto la geografia dei luoghi fisici è capace di influenzare l’andamento sociale e culturale di una città e quanto abbia di fatto generato conseguenze ad esempio in città come Napoli e Avellino?
Lascio solo una citazione.
« Fortunata e invidiabile Napoli, augusta reggia della cultura. »
(Francesco Petrarca, Familiares, I, 2, 7-9 )
Le domande provocatorie che potrebbero seguire, e che propongo a Massimo Maugeri di proporre, è: oggi, Petrarca, confermerebbe quelle parole? Napoli è ancora “fortunata e invidiabile”? E in quali ambiti? Può ancora essere considerata “augusta reggia della cultura”?
Non resisto alla tentazione di lasciare altre citazioni.
” A mio parere, Napoli è l’unica città d’Italia che rappresenta veramente la sua capitale”.
(Charles de Brosses)
” Colpito dalla prima apparizione di Napoli. Grandi folle, strade belle, edifici alti “.
(Herman Melville)
” Napoli è cambiata moltissimo dopo la speculazione edilizia: è stato allora che sono arrivate le periferie inabitabili, è stato allora che è nata la «corona di spine», così viene chiamata a Napoli la periferia, «corona di spine». Ed è allora che, come scrivevo in “L’occhio di Napoli”, se ti capita di sbagliare strada, vai a finire in periferia e puoi arrivare all’inferno “.
(Raffaele La Capria)
” Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, […] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, […] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva […] una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si espremisero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione…”
(Anna Maria Ortese)
” Il napoletano è convinto di vivere in un mondo ostile, sul quale non è in grado di esercitare alcun controllo… I rapporti tra gli uomini sono regolati da una concezione fatalistica, nella quale l’Autorità svolge lo stesso ruolo che ha il «destino» nel mondo naturale”.
(Percy Allum)
eccomi qui che mi butto a capofitto nella discussione e fornisco qualche delucidazione sul mio “L’imbroglio nel lenzuolo”. proseguendo il mio discorso sull’inganno e sulle illusioni come quintessenza della vita, iniziato con “la volpe a tre zampe”, parlo di questa prodigiosa invenzione (il cinema, che a Napoli era appunto chiamato “l’imbroglio nel lenzuolo”) che crea fantasmi, sosia, talvolta anche mostri, e che addirittura riporta in vita i morti. intendo questo romanzo come una dichiarazione d’amore alla mia terra, Napoli e i limitrofi Campi Flegrei, zona di vulcani e di passioni, di sogni e di ingiustizie. vi racconto, attraverso l’alternarsi di tre io narranti (un uomo e due donne, che sono un regista cinematografico, un’erbivendola analfabeta e una scrittrice torinese) l’intrico di destini e di metamorfosi che si connettono alla realizzazione di un brevissimo film muto (circa sei minuti), girato nel 1905 sulle rive del lago d’Averno, e che muta (anche in senso negativo) la vita dei tre personaggi principali che narrano ciascuno la propria verità e il proprio bisogno di amore. vi ritorna il tema del “doppio” a me familiare (l’erbivendola deve confrontarsi e distinguersi dal suo doppio, e cioè dall’immagine di sè che il giovane regista ha catturato e fissato sulla pellicola). uscito alla fine del 1997, il libro viene riproposto dalla Salani in occasione della prossima uscita di un film omonimo, che sarà nelle sale fra aprile e maggio, e vanta un buon cast: nei panni dei tre protagonisti recitano Primo Reggiani, Maria Grazia Cucinotta e Anne Parillaud, attorniati da uno stuolo di ottimi caratteristi fra cui spiccano Geraldine Chaplin, Ernesto Mahieux e Giselda Volodi. la regia è affidata al messicano Alfonso Arau (quello di “Come l’acqua per il cioccolato”) e la fotografia è curata da Vittorio Storaro, tre volte premiato con il premio Oscar. rispetto ai miei altri romanzi, “l’imbroglio nel lenzuolo” ha un’esattezza matematica e un’attenzione ai numeri che non è abituale nella mia produzione: tre sono gli io narranti, ognuno dei quali ha lo stesso numero di capitoli degli altri per raccontare la sua versione della storia, e quasi lo stesso numero di parole, mentre ogni capitolo si chiude con la stessa parola che apre il capitolo seguente. ognuno dei tre io narranti inizia a descrivere il proprio presente per poi affondare nella memoria del passato e riapprodare quindi al presente nello scioglimento conclusdivo del racconto. la struttura è insomma di ferro. inattaccabile, se mi è consentito dirlo. mi è stata inoltre riconosciuta una lingua particolarmente sensuale, e non tanto per l’amore con cui ho tratteggiato la figura di un bel figliolo e di due donne affascinanti ciascuna a suo modo, ma per l’inno che sciolgo a una natura lussureggiante e a me cara, impreziosita dalle memorie degli antichi miti (in quelle zone che vanno dalla Solfatara a Baia, si sa, gli imperatori romani trascorrevano la villeggiatura). e si tratta della stessa natura (che si estende da Napoli a Capo Miseno) e che ossessivamente torna in ogni mio romanzo. spero che le traversie di Federico, Marianna e Beatrice risultino seducenti al maggior numero di lettori, perchè sono figli miei e li ho creati con estrema attenzione. francesco costa
A proposito di Napoli e cinema.
Napoli è una delle città con la testimonianza cinematografica più antica. I Fratelli Lumière effettuarono infatti, sulla Riviera di Chiaia, a via Toledo e in altre zone della città alcune delle loro prime riprese nel 1898.
L’elenco di film ambientati a Napoli è molto esteso.
Un ringraziamento a Matteo per il suo intervento e le citazioni.
Visto che è stata citata la Ortese,prendo al volo e dico che al di fuori della grande fioritura degli ultimi anni di nuove voci su Napoli,io sceglierei come libro che la rappresenti “Il Mare non bagna Napoli” di Annamaria Ortese.Anche se quando uscì, fu interpretato da alcuni come un libro contro la città ,ha il merito indiscusso di aver svelato aspetti veri e crudi senza inganno di Napoli con grande lucidità e indubbia poesia nella scrittura altamente letteraria,come sempre dovrebbe essere la scrittura anche quando è denuncia.
L’Irpinia è una terra meravigliosa. Una terra di cui andare fieri.
La ricchezza della narrativa è sempre venuta dalla “provincia”, con i suoi difetti, le limitazioni, anche le brutture ma in una competizione sana che faceva crescere chi se ne nutriva, portandolo a spingersi oltre i confini della cittadella o del paesino in cui si era nati. A volte è comodo trincerarsi dietro un finto e patetico dolersi della “ristrettezza mentale” del luogo (per esempio, Avellino) ma continuare a viverci, godere dei privilegi dell’orticello zappettato. Sicuramente più comodo che mettersi in pista e valicare i confini…quei confini che sanno bene essere protettivi e ammortizzanti. I più temerari si sono spinti fino a Napoli, per poi, in odore di fallimento, battere in ritirata.
Come mai Avellino è l’unica città in Campania dove è impossibile impiantare una continuità “seria” e di spessore come un Festival o una rassegna… certo, ce ne sono ma dietro troverete sempre i “soliti noti”.
L’Irpinia deve e può vivere di luce propria. Napoli è Napoli. E’ unica al mondo ma non per questo Avellino e la sua regione non possano emergere come è giusto che sia. Vivere di luce riflessa non giova, non crea, non porta a nulla se non a “cantarsela e a suonarsela” e a crogiolarsi nelle beghe inutili su chi deve accaparrarsi lo spazio per una presentazione o su chi deve e “può” organizzare un triste festivalino di Cinema.
Un ringraziamento speciale a Francesco Costa con la certezza che il suo “Imbroglio” saprà sedurre ogni lettore e il film tratto ogni spettatore napoletano e non.
Quanto è importante Francesco per te il legame con la lingua?In questo caso con il dialetto napoletano?Secondo te utlizzarlo come riferimento nella scrittura è una risorsa o può raprresentare un limite?
un caro saluto
@Federica P. Nel suo sfogo probabilmente c’è forte attaccamento alla sua terra e io lo rispetto molto,ma non comprendo perchè questa rabbia verso una “classe di intelletuali” che poi è pur sempre fatta da singoli e persone che fanno il proprio lavoro sia così violenta.L’auspicato cambiamento non è compito soltanto di chi si prende su di sè la responsabilità delle proprie parole scritte o dette ma è o almeno dovrebbe condiviso da tutta la società civile che insieme formerebbe una rete di convivenza che dia sostegno e impulso a quel cambiamento che lei desidera.Nella mia semplicità, credo che il peggior danno che si possa arrecare ad una realtà non è quello che indica lei ma il silenzio,l’indifferenza e la mancata attenzione ai problemi che ci circondano, l’assenza di progetto comune e di speranza.Non credo che la parola scritta se accompagnata con responsabilità sia un danno,credo sia sempre una risorsa per tutti. La ringrazio di essere intervenuta.
Vorrei aprire un dibattito. La mia non vuole essere una polemica sterile, anzi, vuole attirare l’attenzione su una città e su una regione che non deve vivere più di luce riflessa. Ripeto, paragonare Avellino a Napoli non porta a nulla, concentriamoci sull’essenza della città, sulle bellezze e sulle risorse dell’Irpinia. Sono pronta a rispondere fornendo informazioni su luoghi che è una vergogna che siano stati abbandonati e totalmente ignorati; su personaggi storici da rivalutare; sul cinema.
Bisogna confrontarsi sul concreto e non solo a botta di libri. Va bene anche questo ma non solo questo per valorizzare una Terra che deve essere riscoperta, anzi scoperta.
@Valentina grazie per il riferimento al cinema,tu personalmente che film ricorderesti come immagine di Napoli più sentita?Pensavo anche alle bellissime fotografie degli Alinari e alle immagini che hanno custodito per anni scatti di angoli della città prima di cambiamenti urbanistici che non sempre sono frutto di modernizzazione in senso positivo ma talvolta tolgono qualcosa alla natura intrinseca dei luoghi e alla loro bellezza atavica.
Secondo me il terribile terremoto dell’80 è una grande ferita ancora aperta che accomuna Napoli e l’Irpinia.
Alberto Moravia scrisse in “Ho visto morire il Sud”: «Ad un tratto la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano.»
Una tragedia che ha colpito tutti
non c’è dubbio che Napoli è, insieme a Roma e Venezia, una delle città italiane più rappresentate nella cinematografia nazionale e internazionale. pensiamo ai grandi registi che si sono succeduti attraverso gli anni sessanta e settanta con i film di Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini, Lina Wertmuller, Vittorio de Sica, Ettore Scola, Dino Risi, Mario Mattoli, Melville Shavelson fino ad arrivare ai giorni nostri con Massimo Troisi, Mario Martone, Vincenzo Salemme, Carlo Buccirosso, Maurizio Casagrande, Nando Paone, Paul Greengrass, Giuseppe Tornatore, Nanni Loy, Wes Anderson, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone.
Ambientati e girati a Napoli sono alcuni dei film storici del cinema italiano, tra i quali “L’oro di Napoli”, “Matrimonio all’italiana” e “Ieri, Oggi, Domani” di Vittorio De Sica e con protagonisti come Totò, Eduardo De Filippo, Sophia Loren e Marcello Mastroianni.
@Maurizio sono perfettamente d’accordo con te,la drammatica vicenda del terremoto secondo me ha inciso non poco sulle vita individuali di chi ha subito la disgrazia ma anche su tutta la collettività e gli sviluppi successivi.
@Valentina metterei nel tuo esauriente elenco anche “Le mani sulla città” di F.Rosi del ’63.Mi pare che l’argomento corruzione e speculazione edilizia nonchè conflitto di interessi non sia da quegli anni ad oggi molto cambiato.Forse le dinamiche sono differenti ma dopo quasi cinquant’anni, ahimè,il tema è lo stesso con attori diversi.
Data la già esauriente quantità di informazioni rispetto alle differenze tra Napoli e Avellino, due luoghi, a mio avviso, davvero poco comparabili (stiamo sempre parlando di una affollata metropoli e di una ridente cittadina di provincia) driblerò i primi due punti.
Sui cambiamenti subiti da Napoli negli ultimi decenni direi che si è assistito a una vera e propria “tropicalizzazione” della città.
Napoli come Caracas, come Rio de Janeiro, come Bogotà, va asfissiandosi a ridosso di una ingombrante periferia in continua crescita: ciò comporta una separazione ancora più decisa tra “città alta”, i quartieri dei ricchi, che si dibattono in insospettabili questioni di salvaguardia del territorio( vedi le polemiche per la linea metropolitana che unisce Piscinola a Piazza Vanvitelli), e “città bassa”, per molti anni il solito labirinto di rifiuti e tesori semi-abbandonati.
@Alessio Arena grazie per il tuo intervento e un grande in bocca al lupo al tuo libro.
Il discorso che fai è strettamente legato alla geografia delle città,allo spazio fisico prima che sociale e politico e culturale,basti ricordare ai luoghi della città dove non batte la luce del sole.la luce lo ricordava anche la Ortese se non erro, è fondamentale nello sviluppo di una popolazione.La pressione esterna dalle zone limitrofe sul cuore della città è enorme,sono d’accordo con te,eppure sarebbe bastato fare una politica corretta di decentralizzazione di molti servizi per favorire uno sviluppo corretto delle periferie ed allentare la tensione costante su Napoli,ma sappiamo bene quanto ciò sia difficile perchè va a cozzare con interessi particolari.C’è anche un’altra pressione che è quella di una comunità multietnica e multiculturale che preme negli ultimi anni sulla città e che se non viene integrata civilmente non è bene sopportata da alcune frange della popolazione,se fosse altrimenti non sarebbe un peso ma giustamente come dovrebbe essere nei paesi civili e democratici una vera ricchezza.Parlando di letteratura quale per te il libro che rappresenta più di ogni altro Napoli?
Chiamatela piccola, modesta, chiamatela come vi pare. Ma ridente no, proprio no. Capisco lo sguardo di chi arriva ogni tanto ad Avellino, riassumo mentalmente la summa dei luoghi comuni sull’aria pulita, il sole, la tranquillità, ecc., su Napoli caotica e l’Irpinia oasi perfetta. Capisco i viaggiatori della domenica, chi passa e fugge. Ma siate clementi, risparmiateci la banalità. Al di là delle facili apparenze, ognuno avverte sulla propria pelle che le divisioni sono artificiali, la desolazione del vivere, l’assenza di prospettive, il feroce consumismo ha reso l’Irpinia e tutta la Campania terra unita, terra modernamente straziata, immersa nella crisi dell’Occidente, in cui nessuna fuga nel passato è possibile. E il paesaggio è, sempre più spesso, solo il testimone muto di abbandoni, di guasti, di lacerazioni, sfondo inutile e meraviglioso alla vita di generazioni senza futuro, che ancora sono costrette ad andare via. Quadro amaro e disperato? Non so. So che forse, anche in Irpinia, la cultura può essere una via di uscita, se racconta senza infingimenti la verità, se non ha paura di affrontare il dolore del mondo, il nostro dolore, se guarda alla propria terra con sguardo crudo, attento e vigile, non deviato da lamentazioni o da vecchi schemi. La raccolta di racconti “Le frane ferme”, cui anch’ io ho collaborato, vuole essere un tassello in questa direzione.
@ francesca giulia
l’elenco di film di film ambientati a Napoli è davvero vasto. basta farsi un giro in rete per rendersene conto. li metto nei post per ordine alfabetico.
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera A
……..
Accadde in settembre (William Dieterle – 1950)
Amore a prima vista (Vincenzo Salemme – 1999)
Amore e libertà – Masaniello Angelo Antonucci 2006
L’amore molesto (Mario Martone – 1995)
Annarè (Ninì Grassia – 1998)
Appassionate (Tonino De Bernardi – 1999)
Appuntamento a Ischia (Mario Mattoli – 1960)
Assunta Spina (Gustavo Serena – 1915)
Assunta Spina (Roberto Roberti – 1930)
Assunta Spina (Mario Mattoli – 1948)
Assunta Spina (Sandro Bolchi – 1992) (mini-serie televisiva)
Assunta Spina (Riccardo Milani – 2006) (fiction televisiva)
Autunno (Nina di Majo – 1999)
Avventura a Capri (Giuseppe Lipartiti – 1958)
Le avventure acquatiche di Steve Zissou (Wes Anderson – 2005)
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera B
……..
Blues metropolitano (Salvatore Piscicelli – 1985)
The Bourne Supremacy (Paul Greengrass – 2004)
I buchi neri (Pappi Corsicato, con Iaia Forte – 1995)
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera C
……….
Caccia alla volpe (Vittorio de Sica – 1966)
Il camorrista (Giuseppe Tornatore – 1986)
Le calde notti di Lady Hamilton (Christian-Jaque – 1967)
Campane a martello (Luigi Zampa – 1949)
Canzone di Lucio Dalla (videoclip, 1996)
Capri (Enrico Oldoini, fiction in onda nel 2006)
Capriccio all’italiana (Pierpaolo Pasolini – 1968)
Carosello napoletano (Ettore Giannini – 1953)
Celebrità (Nini Grassia – 1980)
Certi bambini (Andrea Frazzi e Antonio Frazzi – 2003)
Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? (Billy Wilder – 1972)
Cient’anne (Nini Grassia – 1999)
Cleopatra (Joseph L. Mankiewicz – 1963)
Comizi d’amore (Pierpaolo Pasolini – 1965)
Il commissario Raimondi (Paolo Costella, fiction in onda nel 1998)
Un complicato intrigo di donne vicoli e delitti (Lina Wertmuller – 1985)
I contrabbandieri di Santa Lucia (Alfonso Brescia 1979)
Il coraggio di Angela (Luciano Manuzzi – 2008) (miniserie televisiva)
Così parlò Bellavista (Luciano De Crescenzo – 1984)
Così per caso – Dogma 95 (Cristiano Ceriello – 2003)
Café Express Nanni Loy
Capo Nord (Carlo Luglio – 2003)
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera D
……….
Danza dei Narcolexia (videoclip, 1997)
Il Decameron (Pier Paolo Pasolini – 1971)
Delitto a Posillipo Renato Parravicini 1967
Delitto in pieno sole (Renè Clement – 1959)
Diciottenni al sole (Camillo Mastrocinque – 1962)
Una donna ha ucciso – Vittorio Cottafavi
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera E e F
………….
E Napoli canta Armando Grottini 1953
“FF.SS.” – Cioè: “…che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?” (Renzo Arbore – 1983)
Ferdinando I, re di Napoli (Gianni Franciolini – 1959)
Ferdinando e Carolina (Lina Wertmuller – 1999)
Finché c’è la salute (Brando Improta – 2009)
Fortapàsc (Marco Risi, con Libero De Rienzo, Ernesto Mahieux, Gianfranco Gallo – 2009)
Francesca e Nunziata (Lina Wertmuller – 2001)
Fuoco su di me (Lamberto Lambertini – 2005)
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera E e F
………….
Giallo napoletano (Sergio Corbucci – 1979)
Il giudizio universale (Vittorio De Sica – 1962)
Giuseppe Moscati (Giacomo Campiotti – 2007)
Gomorra (Matteo Garrone – 2008)
Graziella (Giorgio Bianchi – 1954)
Il grande ammiraglio (Alexander Korda – 1941)
Grido (Pippo Delbono – 2006)
I guappi (Pasquale Squitieri – 1974)
La guerra di Mario (Antonio Capuano – 2005)
Gunslinger Girl (serie animata giapponese – 2002)
@Franco Festa quando parli di desolazione del vivere e assenza di prospettive,parli anche di una mancata progettualità che accomuna le due realtà in oggetto?Io credo che anche una ostinata rassegnazione abbia contribuito negli anni a far sedimentare nelle coscienze un’assenza di voglia di progetto futuro, in tal senso la cultura dovrebbe aiutare a costruire una coscienza del fare e non solo del ruminare.La raccolta di racconti “Le frane ferme” che guarda alle cose della vita “senza infingimenti”,ad esempio,ma anche gli altri libri,oltre allo sguardo lucido ha in sè un seme di speranza concreta?Puoi dirci qualcosa sui racconti?
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera I e L
………….
Ieri, oggi e domani (Vittorio De Sica – 1963)
L’imperatore di Capri (Luigi Comencini – 1949)
Io t’ho incontrata a Napoli (Pietro Francisci – 1946)
Ischia operazione amore (Vittorio Sala – 1966)
Isotta (Dario Formisano – 1996)
“Il vento” videoclip dei Subsonica – 2008
–
Lazzarella (Carlo Ludovico Bragaglia – 1957
Il leone di Amalfi (1950)
Leoni al sole (Vittorio Caprioli – 1961)
Letto a tre piazze (Steno – 1960)
Libera (Pappi Corsicato – 1993)
Luca il contrabbandiere (Lucio Fulci – 1980)
Lucky Luciano (Francesco Rosi – 1973)
Luisa Sanfelice (Leo Menardi – 1942)
Luisa Sanfelice (Fratelli Taviani – 2002)
Luna Rossa (Antonio Capuano – 2001)
M [modifica]
Maccheroni (Ettore Scola – 1987)
Made in Italy (Nanni Loy – 1965)
La mazzetta (Sergio Corbucci – 1978)
Le mani sulla città (Francesco Rosi – 1963)
Mare nero (Roberta Torre – 2006)
Maruzzella (Luigi Capuano – 1956)
Mater Natura (Massimo Andrei – 2005)
Matrimonio all’italiana (Vittorio De Sica – 1965)
Il medico dei pazzi (Mario Mattoli – 1954)
Milanesi a Napoli Enzo Di Gianni 1954
Mi manda Picone (Nanni Loy – 1983)
Miseria e nobiltà (Mario Mattoli – 1954)
Monastero di Santa Chiara
Morte di un matematico napoletano (Mario Martone – 1992)
Il mulatto – Francesco De Robertis
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera N, O e P
………….
Napoli 1860: La fine dei Borboni (Alessandro Blasetti – 1970)
Napoli, Napoli, Napoli (Abel Ferrara, 2008)
Napoli ’43 (Vari registi tra cui Roberto Rossellini – 1954)
Napoli che canta (Roberto Leone – 1926)
Napoli che non muore (Amleto Palermi – 1939)
Napoli d’altri tempi (Amleto Palermi – 1938)
Napoli: i 5 della squadra speciale Mario Bianchi – 1978
Napoli piange e ride Flavio Calzavara (1954)
Napoli milionaria! (Eduardo de Filippo – 1950)
Napoli, Palermo, New York – Il triangolo della camorra (Alfonso Brescia – 1981)
Napoli serenata calibro 9 (Alfonso Brescia – 1978)
Napoli storia d’amore e di vendetta (Mario Bianchi – 1979)
Napoli… la camorra sfida e la città risponde (Alfonso Brescia – 1979)
Napoli si ribella (Michele Massimo Tarantini – 1977)
Napoli spara! Mario Caiano (1977)
Napoli violenta (Umberto Lenzi), (1976)
Neapolitan Mouse (Hanna & Barbera, 1953) cartoon della serie Tom & Jerry
“Nevrotype” dei Napoli Anthem (videoclip, 2001)
No grazie, il caffè mi rende nervoso (Lodovico Gasparini – 1982)
Non è giusto (Antonietta De Lillo – 2002)
Una notte (Tony D’Angelo – 2007)
Nel regno di Napoli (Werner Schroeter 1979)
La nuova squadra (2008-)
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‘O re (Luigi Magni – 1989)
‘O sole mio (Giacomo Gentilomo – 1945)
Le occasioni di Rosa (Salvatore Piscicelli – 1981)
L’ombra nera del Vesuvio Steno 1987
Operazione San Gennaro (Dino Risi – 1967)
Opopomoz (Enzo D’Alò – 2003)
L’oro di Napoli (Vittorio De Sica – 1954)
Ossidiana (Silvana Maja – 2006)
Oriente (videoclip Nomadi – 2004)
O’Professore
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Pacco, doppio pacco e contropaccotto (Nanni Loy – 1993)
Pater familias (Francesco Patierno – 2002)
La pelle (Liliana Cavani – 1981)
Pensavo fosse amore invece era un calesse (Massimo Troisi – 1991)
Il piacere di piacere (Luca Verdone – 2002)
Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (Antonio Capuano – 1996)
Piedone a Hong Kong (Steno – 1975)
Piedone d’Egitto (Steno – 1980)
Piedone l’africano (Steno – 1978)
Piedone lo sbirro (Steno – 1973)
Polvere di Napoli (Antonio Capuano – 1998)
Un posto al sole (fiction attualmente in onda dal 1996)
Profumo di donna (Dino Risi – 1974)
elenco di film di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera N, O e P
………….
Le quattro giornate di Napoli (Nanni Loy, con Regina Bianchi, Luigi De Filippo, Aldo Giuffré, Pupella Maggio – 1962)
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Il resto di niente (Antonietta De Lillo – 2004)
Ricomincio da tre (Massimo Troisi – 1981)
Rose e pistole (Carla Apuzzo – 1998)
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Sabato, domenica e lunedì (Lina Wertmüller – 1990)
Scugnizzi (Nanni Loy – 1989)
Scusate il ritardo (Massimo Troisi – 1983)
La seconda volta non si scorda mai (Francesco Ranieri Martinotti) – 2008)
Il seme della discordia (Pappi Corsicato, con Alessandro Gassman, Caterina Murino, Michele Venitucci – 2008)
Se lo scopre Gargiulo (Elvio Porta – 1988)
Se telefonando di Mina (videoclip, 1956)
La sfida (Francesco Rosi – 1958)
Sissi a Ischia (Alfred Weidenmann – 1958)
La squadra (fiction)
Sulla mia pelle (Valerio Jalongo – 2003)
–
Il talento di Mr. Ripley (Anthony Minghella – 2000)
Teatro di guerra (Mario Martone – 1998)
La terra vista dalla luna (episodio di Le Streghe) (Pierpaolo Pasolini – 1966)
Ti lascio perché ti amo troppo (Francesco Martinotti – 2006)
Tom & Jerry a Napoli (Neapolitan mouse) (William Hanna e Joseph Barbera – 1954)
Totò, Peppino e la… malafemmina (Camillo Mastrocinque – 1956)
Totò Sapore e la magica storia della pizza (Maurizio Forestieri – 2003)
Un turco napoletano (Mario Mattoli – 1953)
“Turn (Napoli)” dei New Order (videoclip, 2005)
–
Un posto al sole
L’uomo in più (Paolo Sorrentino – 2001)
–
Vedi Napoli e poi muori (Eugenio Perego – 1924)
Vedi Napoli e poi muori (Enrico Caria – 2007)
Vento di terra (Vincenzo Marra – 2004)
I vesuviani
Viaggio in Italia (Roberto Rossellini – 1954)
La vita degli altri (Nicola de Rinaldo – 2002)
Vito e gli altri (Antonio Capuano – 1991)
scusate i refusi.il precedente post si riferisce all’elenco di film ambientati a Napoli e dintorni: lettera da Q a Z
passo e chiudo
La speranza è possibile se c’è uno sguardo di verità. Sono d’accordo con francesca sulla coscienza del fare e non del ruminare. Ma uno racconta ciò che vede. E la rassegnazione può anche nascere dal fare che non si è realizzato, dalll’impegno costante che non ha trovato ascolto. Non vorrei che la colpa di tutto fosse di chi scrive. E’ chiaro che non bisogna arrendersi, mai. E i racconti delle ” frane ferme” tutto sono, fuorchè una lamentazione. Se però tre storie narrano di un suicidio – e gli autori non sapevano nulla di ciò che gli altri scrivevano – qualcosa pur significa. E parlare di queste cose, come abbiamo scoperto nelle varie presentazioni, aiuta, fa bene, ricostruisce percorsi unitari, consente confronti, ritesse legami. Anche a questo servono le parole.
@Franco sicuramente la parola è sempre un baluardo contro l’indifferenza e il silenzio,e se esiste uno sguardo condiviso è un motore contro la rassegnazione,perciò grazie davvero e auguro lungo cammino ai vostri racconti.Guardando al passato quale libro vedresti tu come incarnazione dell’immagine della tua terra?(E di Napoli se vuoi).
“Diario di un giudice”, di Dante Troisi, è quello che meglio descrive la mia città negli anni 50. “Un delitto d’onore”, di Giovanni Arpino, quella degli anni 20. Naturalmente il “viaggio elettorale ” di De Sanctis è una fonte inesauribile di verità.” Tre operai ” di Carlo Bernari, ” Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese e tanto di Viviani, per la Napoli di ieri. Ma si potrebbero elencare tanti altri titoli.
“Il mare non bagna Napoli” della Ortese è un capolavoro
http://www.italialibri.net/opere/marenonbagnanapoli.html
“La pelle” di Curzio Malaparte.
Concordo con voi sulla Ortese,l’avevo anche detto stamattina più su, esiste qualcosa di fortemente profetico e paurosamente attuale nelle sue parole peraltro destinate ad una Napoli del dopoguerra:
“Di solito, giunti a Napoli, la terra perde per voi buona parte della sua forza di gravità, non avete più peso né direzione. Si cammina senza scopo, si parla senza ragione, si tace senza motivo. Si viene e si va. Si è qui o lì, non importa dove. E’ come se tutti avessero perduto la possibilità di una logica, e navigassero nell’astratto, profondo, completo, della pura immaginazione.”
@Gaetano grazie,anche “La pelle” è un bellissimo importante libro.
un saluto affettuoso
Un saluto affettuoso anche a te Francesca Giulia, e grazie.
Tornando ai libri qui proposti,vorrei soffermarmi su un aspetto di “Scuorno” di F.Durante che ho letto con grande piacere.Come già detto nella recensione sopra,il libro tratta diversi argomenti della napoletaneità,ma ha anche un excursus storico molto approfondito,un capitolo che mi ha particolarmnete incuriosita è quello dedicato ai Santi patroni della città e alla forte influenza che il rapporto con la religiosità e i suoi rappresentanti ha avuto sul popolo.Quanto ciò ha potuto influenzare negativamente lo sviluppo di un processo culturale di una certa parte della popolazione?Cosa ne pensate?E se Francesco Durante avrà occasione di collegarsi mi piacerebbe girare la domanda a lui stesso.
Sono napoletana doc e pertanto l’amore che ho per Napoli, città di luci ed ombre nascoste nelle pieghe della sua storia millenaria, città di contraddizioni (come lo sono le grandi metropoli) è totale, senza riserve. A Napoli devo le radici, devo tante ispirazioni e anche molte arrabbiature, ma…in fondo non è colpa di Napoli. L’Irpinia non la conosco nel profondo ma quando ci vado mi fa bene al cuore il suo avvolgente e spigoloso territorio immerso nel verde. Mi rimanda a storie legate all’amore per la terra, forse a battaglie sommerse. Sull’ Irpinia ho letto il bello e profondo “Il pane e l’argilla” di Emilia Bersabea Cirillo e “Vento forte tra Lacedonia e Candela” di Franco Arminio che mi ha affascinata. Non ho ancora letto l’ultimo romanzo di Emilia Cirillo citato in questo post ma lo leggerò al più presto. La scrittura di Emilia, a mio avviso, é forte, contemporanea ma nello tesso tempo rimanda a riti antichi, a sentimenti arcani, a suggestioni… Nel post si citano, tra gli altri Francesco Durante che stimo e apprezzo da sempre per la sua cultura e la raffinatezza dello stile, le profonde riflessioni di critico e scrittore. Infine Francesco Costa che mi piace tanto per la levità di una scrittura che é nel contempo densa di contenuti, affabultrice, visionaria. Non ho letto “Napoli per le strade” e nemmeno “Le frane ferme” , spero di farlo. Mi accorgo che non ho risposto alla succesione delle domande (come spesso mi accade) seguendo un sentiero personale: credo che Napoli e l’Irpinia in fondo non si possano disgiungere, anche se nel loro diverso fascino o nelle diverse ferite inferte dalla Storia. Delia
Grazie Delia,Emilia si collegherà fra poco e potrà parlarci del suo romanzo,Francesco Costa è intervenuto più su e Francesco Durante spero potrà farlo presto.Sarei curiosa di sapere che libro sceglieresti tu per meglio rappresentare Napoli.
Si dice che Napoli sia una delle città con maggiori luoghi di culto religioso al mondo,vanta una quantità enorme di santi patroni,perciò mi chiedevo quanto questo rapporto con l’esternazione del sentimento religioso abbia influenzato lo stato di mancata evoluzione culturale del popolo,accentuando quel senso di fatalismo che è da ostacolo ad ogni crescita sociale e culturale.F.Durante ad un certo punto elencando lo sconfinato organico di santi afferma nel suo libro” E insomma,macchè francesi,macchè spagnoli,macchè Angioini o Borboni, il carattere dei napoletani l’hanno fatto i preti.”
Bellissimo post, ricco di sguardi. E bellissime, sempre, le parole di Francesca Giulia.
Credo, caro Massi, che Napoli sia arrivata a noi proprio attraverso il cinema. Totò, Peppino, Eduardo…gli adattamenti alla precarietà, la fantasia feroce e disperata. L’arte di cavarsi dai guai o di ribaltarli in proprio favore.
Ecco. Penso che il rapporto tra Napoli e il cinema sia questo. Una reciproca capacità creativa.
Un doppio.
Il cinema è quell’illusione di cui parla magificamente Francesco Costa nel suo libro. Ma illusione è anche Napoli, coi suoi mascheramenti, i suoi attori , le sue scenate e i suoi paradossi. Un immenso set cinematografico che semplicemente si rispechia nel lenzuolo, ma che faticheremmo a imbrigliare in un solo tempo. Perchè è di tutti i tempi. O in un solo gesto. Perchè è tutti i gesti. O in un solo colore. Perchè è tutti i colori.
Ma che, soprattutto, sbaglieremmo a limitare a un solo luogo, perchè Napoli è tutti i luoghi quando spanna sullo schermo, assurge a metafora di un vivere che nel suo arrangiarsi è soprattutto dell’uomo, della sua fragilità, della sua intima e ferita instabilità.
E allora, il cinema è forse l’appendice di Napoli come Napoli lo è del cinema. Ma in un nodo che è soprattutto dell’anima, più che dell’immagine. E del linguaggio, ancor prima che dell’apparenza.
D’altra parte, come diceva Eduardo, l’uomo senza cuore fa fortuna con le parole.
Ma l’uomo che ha cuore parla davvero.
***
Una bellissima notte a tutti e un bacio speciale alla bravissima Francesca Giulia!
Cara Francesca Giulia,
ti ringrazio della domanda anche se, confesso, è difficile rispondere: la letteratura legata a Napoli è vasta e a volte penso sia anche complicato scrivere di Napoli o raccontare storie legate alla città. Io forse sceglierei due testi teatrali: “Persone naturali e strafottenti” di Giuseppe Patroni Griffi, “La musica dei ciechi” di Raffaele Viviani e due grandi pilastri della letteratura: “Il mare non bagna Napoli”, di Annamaria Ortese, “Ferito a morte” di Raffaele La Capria. Come vedi ho pensato a più titoli e tutti legati a vicende di emarginazione e/o sofferenza. Non mi viene in mente altro. Grazie anche a Massimo, il dibattito è avvincente. Delia
Carissima Simona grazie del tuo intervento e un grande bacio a te.Parlando di santi ti racconterò di una santa che mi piace particolarmente “santa Maria Francesca delle cinque piaghe”.La parrocchia per lei edificata si trova nel cuore dei Quartieri spagnoli in vico Tre Re a Toledo,la santa vissuta fra il 1715 e il 1791,definita “suora di casa” è molto amata dal popolo,in particolare dalle donne che si recano nel luogo di culto per pregare sulla sua sedia e richiedere la grazia di restare incinta.
Eccomi qui. Un rapido passaggio per salutare e ringraziare tutti gli intervenuti.
Delia cara,sì è difficile parlare e scrivere di Napoli,tutto è stato detto,se non parli di certi argomenti sembra che non sai guardarti intorno se lo fai ti muovi fra stereotipi e clichè,poi hai già nominato due pilastri come la Ortese e La Capria,però c’è fermento,tante voci nuove originali che tentano sguardi da differenti punti di vista.Nella scrittura, nel cinema, nel teatro e nella musica,perchè accanto ai neomelodici strillati dalle auto in corsa ci sono persone che anche attraverso la musica ci raccontano la città.Pensando alla domanda di Massimo,sì credo che sia molto cambiata la città,mi chiedo quanto la letteratura riesca a stare dietro a questo cambiamento e quanto lo rispecchi.Oltre la desolazione di un senso di sconfitta esiste un progetto?Spero tanto di sì.E che sia fatto da più voci e parole nuove.
grazie Delia per il tuo intervento.
Ovviamente un saluto e un ringraziamento speciale a Francesca Giulia che sta animando molto bene la discussione.
Grazie, Fran. Attendiamo anche gli interventi di Emilia sperando che sia riuscita a risolvere i problemi al pc.
E ci tengo anche a salutare e a ringraziare, in ordine di apparizione: Amelia Corsi, Matteo, Francesco Costa, Valentina Marigata, Federica P., Maurizio Manuele, Alessio Arena…
Ciao Massi,grazie a te,aspettiamo Emilia così ci parlerà anche del romanzo,e poi spero voglia intervenire qualche altro autore.
saluti cari
E ancora… grazie a: Franco Festa, Andreé, Gaetano, Delia, Simona.
Ma certo, Francesca. Conto sugli interventi di qualcuno degli altri autori citati (sono già intervenuti Francesco Costa, Alessio Arena, Franco Festa). Ma questo post ci farà compagnia per un po’ di giorni. Abbiamo tutto il tempo.
Intanto, Francesca, metto in evidenza la domanda che avevi posto stamattina:
Quanto la geografia dei luoghi fisici è capace di influenzare l’andamento sociale e culturale di una città e quanto ha di fatto generato conseguenze ad esempio in città come Napoli e Avellino?
E quella di Matteo, che cita Petrarca…
« Fortunata e invidiabile Napoli, augusta reggia della cultura. »
(Francesco Petrarca, Familiares, I, 2, 7-9 )…
ponendo, poi, questa domanda:
oggi, Petrarca, confermerebbe quelle parole? Napoli è ancora “fortunata e invidiabile”? E in quali ambiti? Può ancora essere considerata “augusta reggia della cultura”?
Magari qualcuno avrà voglia di provare a rispondere anche alle suddette domande.
Per il momento chiudo qui. Domani “riprenderò” qualcuno dei vostri commenti, e chiederò agli autori coinvolti di dirci qualcosa in più sui libri segnalati.
Una serena notte a tutti.
…mi ritiro anch’io … buona notte a tutti!
🙂
Dimenticavo…
è ancora “aperto” il giochino volto a eleggere il più grande personaggio letterario di tutti i tempi:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/17/il-personaggio-letterario-piu-grande-di-tutti-i-tempi/
Vi invito a partecipare se non lo avete ancora fatto.
–
Una serena notte.
Rispondo a Francesca Giulia:
Fondamentale per me è l’intera opera di Raffaele Viviani, contrappunto popolare all’universo borghese dipinto da De Filippo.
Come giovane scrittore napoletano mi è inoltre doveroso citare uno come Lanzetta, vero iniziatore di una lingua attuale che possa dire il disordine sociale e dialettico di una città così lontana da Dio e così vicina alla capitale. (lo disse Octavio Paz, ma era un’altra cosa, pero mi piaceva, ecco.)
Libri fondamentali sono: “Mistero Napoletano” di Ermanno Rea, e “Nel corpo di Napoli”, di Giuseppe Montesano.
Cito anche un luminoso episodio dell’opera di Erri De Luca com’è “Montedidio”.
Rispondo a Franco Festa: scusadomi, più che altro, per aver usato, parlando di Avellino, l’aggettivo “ridente”.
Ammetto di conoscere molto poco il capoluogo iripino, come poco conosco i dintorni di Napoli data la mia biografia imbarcata prematuramente verso lidi catalano-aragonesi, se non proprio galaico-portoghesi.
Se Napoli è Barcellona, Avellino è Avila, o Segovia: cittadina molto più ordinata e vivibile, con clima freddo, fino alla neve invernale.
Poi, schematizzando al massimo, se Avellino è un tutt’uno, di Napoli ce ne sono almeno quattro, a seconda delle zone della città e delle fasce sociali. Quella che in genere appare in tv, giornali e cinema, è spesso quella più vistosa ed eccessiva (pizza, sangennaro, panni stesi, bancolotto e superstizione), anche se minoritaria. Ci sarebbe anche qualche residuo mandolino, ma, per quanto si impegnino, gli operatori rai-mediaset non riescono proprio più a scovarli.
un post molto ben congegnato e discussione interessante. vi lego con piacere. complimenti a tutti.
anche per me il libro di napoli è quello più famoso della ortese.
@Alessio grazie di aver risposto.Una curiosità – un gioco più che altro-che è scaturita dalla lettura delle recensione del tuo libro.Le cose che hanno qualcosa dentro che non muore e che non vorremmo mai buttare via.Nel tuo vivere distante da Napoli- mi pare di capire che vivi altrove- quali cose fisicamente legate alla storia e alla memoria della città avresti portato con te, per supplire alla mancanza?
@Maurizio De Angelis grazie anche a te,sì siamo pieni di stupidi stereotipi di immagine sulla nostra città,tanto pieni che ci potresti scrivere un libro ironico. Tu che sei un mago delle storie che con leggerezza ironica sanno toccare anche argomenti profondi che tipo di rapporto hai con la lingua napoletana?Credi che sia un elemento distintivo di forza nella scrittura o può essere un limite per una diffusione che superi l’ambito locale?
@Loretta grazie del tuo interesse,grazie davvero della tua partecipazione!
Mi hanno restituito solo ora il mio computer e posso finalmente collegarmi. Chiedo scusa del contrattempo. Grazie Massimo della possibilità che mi dai, di parlare dell’Irpinia letteraria, e non solo.
E grazie a Francesca Giulia Marone che ha finora coordinato egregiamente. Scusami anche tu, mia cara!
Leggo tutto e mi riservo di intervenire. Per il momento dico, e spero non a sproposito, che la scrittura nasce dai luoghi che si abitano, nasce dalle percezione degli spazi che si attraversano, che si conoscono e che si strutturano dentro di noi.
Quando ho iniziato a scrivere non riuscivo mai a nominare un paese, una città, tanto meno poi Avellino e i paesi dell’Irpinia.
Non mi sembravano degni di attenzione, e la mia scrittura era un poi’ appesa, indefinita, priva di corpo. Nominare i luoghi della scrittura, strutturarli, significa farli diventare Personaggi della nostra storia.
Conosco l’Irpinia, bene, e Avellino e Napoli. E’ naturale che nei miei libri scriva di storie ambientate in questi posti.
Questo vuole essere solo un saluto, devo ancora leggere tutto e rispondere alle domande di Massimo. datemi per piacere un po’ di tempo.
A dopo e scusatemi ancora. emilia cirillo
cara francesca giulia, eccomi in volo per dare risposta alle tue domande. grazie, intanto, per le tue belle parole. e grazie anche a delia morea (non è un nome fantastico? sembra appartenere al personaggio di un bel romanzo più che a una donna in carne e ossa) della quale non mi sono affatto dimenticato perchè sto leggendo il suo romanzo e gliene scriverò a breve. in quanto al film c’è finalmente una data di uscita nelle sale cinematografiche: venerdì 18 giugno 2010! allora, cara francesca giulia, mi chiedi del mio rapporto con la lingua e con l’uso del dialetto. La lingua dev’essere liquida, scintillante, sensuale, aperta alla cattura di dettagli apparentemente marginali che però si rivelano determinanti nello schizzare psicologie, scorci paesaggistici, e riflessioni dei personaggi. l’effetto si ottiene con l’uso intenso della virgola (ultimamente però sto riscoprendo l’importanza del punto, e tendo a stendere periodi meno torrenziali, per non ammorbare il lettore) e con l’adozione del punto di vista di un particolare personaggio che considera l’azione narrativa. lo scrittore deve a mio avviso scomparire dal libro, e mimetizzarsi nei personaggi. in “l’imbroglio nel lenzuolo” io sono di volta in volta federico, marianna e beatrice, e chi mi conosce indovina anche quali tratti del mio carattere ho prestato a ciascuno dei tre. in quanto all’uso del dialetto, sto tentando di contenerlo in limiti sempre più angusti: viaggiando nelle città del settentrione, scopro che nessuno capisce più eduardo de filippo o totò (e forse al sud si fatica a capire carlo goldoni) e così sto adottando con sempre maggior consapevolezza un italiano classico, nitido, affabulatorio e con una punta di visionarietà, perchè io allo slang non mi arrendo, odio i minimalisti italiani che narrano senza spessore di alcun tipo una quotidianità sciatta e triviale. avete contato quante male parole ha scritto il regista paolo sorrentino nel suo romanzo d’esordio? e quanto disprezzo per l’umanità, e per le donne in particolare, vi è contenuto? ecco il tipo di narrativa che va forte e che a me non piace. io trovo che si può essere arditi, ambigui e anche torbidi (nei miei romanzi ci sono molte figure di accesa e talvolta contorta sensualità), ma sempre con eleganza. quando mi dicono che sono uno dei più eleganti scrittori napoletani, ne sono fiero. trovo che l’eleganza sia un valore da coltivare, anche perchè non ho paura (essendo auore di storie forti e di personaggi che si muovono su scala eroica) che la mia eleganza risulti dolciastra o stucchevole o melensa. nel fondo di una narrazione elegante (guardate gli anglosassoni) lievitano indicibili crudeltà, nel fondo di una narrazione in cui il turpiloquio la fa da padrone (parolacce quasi in ogni riga) si cela spesso semplicemente il nulla. baci, francesco
Cara Francesca,
Io sin da bambino ho imparato a vivere lontano da Napoli, e sono stato obbligato per così dire al confronto con un altrove sempre più vivibile, facile, ordinato.
Della mia città, il luogo sudicio (e per questo meraviglioso) della mia infanzia, mi porto senza alcun dubbio la lingua.
La mia lingua bistrattata misconosciuta e parodiata, quella che, del resto, Antonio Bacioterracino, usa per dire “l’infanzia delle cose” nel mio primo libro.
@Emilia cara,benvenuta!Prendi tutto il tempo necessario per leggere e rispondere,sono contenta di sentirti.E’ vero ciò che dici ed è intenso,raccontiamo ciò che vediamo,ciò che tocchiamo e sentiamo.perciò,in un certo senso hai anche risposto alla domanda sull’importanza dei luoghi geografici,fisici che ci circondano e di quanto questi influenzino la letteratura.
un grande bacio a te.
@Francesco che meraviglia leggere le tue parole…eleganti!Ti conosco come scrittore e di persona e l’eleganza che traspare dalla leggerezza dei modi che non è mai supercifialità ma capacità di di giocare con i mille aspetti della vita,non può essere stucchevole nè melensa perchè autentica.In questa epoca di sovrastrutture mentali e fisiche dove l’estetica è un modello di plastica l’eleganza è talmente rara e preziosa che andrebbe trattata come animale in via di estinzione.Preservala per te come scrittore e uomo e per noi tutti.E che ci frega se la folla vuol fare un colpaccio o strillare una volgarità?A noi piacerà sempre una contorta torbida sensualità….sussurata. Grazie delle informazioni che ci hai donato sulla tua scrittura- ne farò tesoro…-e aspetterò con ansia l’uscita del film- è del segno dei gemelli,fantastico,abbiamo una cosa in comune!-.
un abbraccio
@Alessio grazie, è bellissimo il cognome”Bacioterracino”…La lingua è un legame fortissimo,viscerale.
un abbraccio
Cominciamo a rispondere alle domande di Massimo.
Che differnza c’è tra Napoli ed Avellino, quali sono i trattai comuni.
Sono due luoghi diversi, ovviamente, e non paragonalbili se non per appartenere al Sud, Campania, Regno di Napoli.
Napoli è stata sempre una meta per i signori che vivevano in Irpinia. Un nobile, un proprietario terriero non era tale se non aveva anche un palazzo a Napoli, così da vivere in Irpinia nelle estati e tutto il resto del tempo nella città A tal proposito voglio ricordare un libro, emblematico e molto appassionate, che si intitola “dove è Beethoveen ? ” di Carlo Montella, Edito da Tullio Pironti qualche anno fa. E’ la rievocazione dell’infanzia dell’autore, nato a Napoli nel 1922, trasfertitosi poi a Pisa, trascorsa ad Avellino, appunto, per seguire il padre ispettore erariale. Avellino, negli anni del fascismo, è raccontata come una cittò rurale, un po’ arretrata, priva di ogni civile comodità, innevata e preda dei lupi. Ma anche piena di una umanitò semplice e al tempo stessa sospettosa, di vita di vicinato, di campagna. Le verie ferie erano per la famiglia la casa della madre a Napoli, in un magnifico palazzo , in un appartamento piendo di stanze e nascondigli, da cui si usciva per andare al San carlo, per prendere il gelato alla riviera, insomma per conoscere il mondo.
In qualche modo, anche se sono passati quasi ottanta anni dalla storia narrata, e di lupi non se ne vede la traccia, ancor meno della neve, grosso modo le differenze restano.
Avellino è diventata città dormitorio per molti napoletani, continua a non avere un ruolo all’interno della Regione Campania, ( è priva di Università, di ferrovia, di scuole specialistiche) e ha sacrificato molto del suo territorio alla costruzione residenziale.Nell’immaginario collettivo del popolo napoletano, però, Avellino resta la Montagna di Montevergine e il Santuasrio di Mamma Schiavona, il luogo del cibo saporito, del vino eccellente(! giusto !)e dell’aria buona.
In questo ambito, per nostra fortuna, sono nati in Irpinia scrittori che, a scapito di questa anaeddottica rappresentazione del buon tempo andato, raccontano l’oggi, l’occidente, quello che è sotto il nostro quotidiano. raccontano il male di vivere, la malinconia, il desiderio di un altrove, la voglia di cambiare, raccontano dei luoghi che hanno sotto gli occhi, della loro bellezza, ma anche della loro lontananza, della loro solitudine.E’ questo io caso delle Frane Ferme, antologia che vede me, Franco Arminio, Marco Cieriello e Franco Festa, presenti a raccontare cosa è oggi Avellino e l’Irpinia.
Mi fermo, per il momento, magari aspetto qualche contributo.
Mi scuso per la lunghezza.
Seguo questa discussione sin dall’inizio senza intervenire. Lo faccio ora dopo aver letto il post di Emilia Cirillo in risposta alla prima domanda di Maugeri.
Ringrazio per la risposta. Aspettavo che qualcuno rispondesse. Vedete, io abito da tutt’altra parte del Paese. Forse per voi che abitate da quelle parti le differenze tra Napoli e Irpinia è lampante. Per me no. E forse altrettanto per altri che leggono da altri posti. Grazie. Continuerò a seguire gli sviluppi della discussione.
cara francesca giulia, grazie per le belle parole. sono lieto che il film sia del segno dei gemelli come te (a proposito, io sono della bilancia). e tengo a dire a piero che ho trovato a mia volta illuminante l’intervento di emilia cirillo (ciao, emilia, sei sempre nel mio cuore) perchè sono nato a napoli da padre partenopeo e madre tedesca, e sulle differenze fra napoli e l’irpinia ne sapevo quanto lui (quanto piero, intendo dire). quando sei nato nel centro di un’area geografica, sai pochissimo della periferia. adesso, grazie a emilia, ne so un po’ di più. ignoravo, per esempio, che in irpinia non eri un vero signore se non tenevi casa pure a napoli: che grandioso spunto narrativo per un romanzo! adoro i libri che si svolgono in luoghi diversi e che ti consentono di seguire l’evoluzione psicologica dei personaggi nel corso dei loro spostamenti fisici. grazie ancora a tutti, francesco costa
Eh s’ grazie Emilia davvero,anche io non sapevo questa cosa del “signore con la casa a Napoli”,però credo che questo miraggio della città grande rispetto alla provincia valga anche per altri centri.Poi chi vive a Napoli magari sogna davvero una provincia tranquilla e come dici tu con l’aria buona,come se vivere lì fosse stare in perenne vacanza.Naturalmente non è così,e siamo ben felici che ci siano menti come quelle degli scrittori sopra detti e di tanti altri.E’ il compito alto della letteratura raccontare qualcosa che ti appartiene per darla anche a chi ti legge,anche se per farlo devi passare attraverso il sentire doloroso di un male di vivere e la malinconia.
A proposito del tuo romanzo,il titolo, ci dici a quale “spaccatura” della terra si riferisce? (mi improvviso tua intervistatrice…)
@Francesco,anche tu sei sempre nel mio cuore, come narratore e come amico.
Ringrazio Piero per aver apprezzato il mio intervento. Ma se volete continuo, circa le differenze e le affinità su Avellino e Napoli.
L’Irpinia è una terra interna, appenninica, affascinante. Custodisce bellezze naturali uniche, per esempio le sorgenti del Sele, le grotte carsiche del Dragone, le pendici del Laceno, ma anche monumenti storici pregevoli come il Goleto, insediamento dell’anno 1000 nella piana vicino Sant’Angelo dei Lombardi, governata fino al 1300 dalle monache benedettine. E’ ormai però anche insieme di paesi i cui abitanti , per lo più laureati , continuano ad emigrare. Si registrano negli ultimi anni circa, non vorrei sbagliare, novemila emigrati.
Insomma in questi paesi,belli, isolati, abitano massimo tremila, quattromila persone. E allora che si fa? Anzicgè puntare aduno sviluppo che tenti di risollevare le sorti e bloccare la emigrazione, dopo che si sono spesi miliardi per infrastrutture e industrie, si pensa che in Irpinia si possa risolvere il problemma della munnezza. Quello che si produce in spazzatura a Napoli, lo si smaltisce in Irpinia, creando discarische nelle valli, a ridosso dei bacini idrici, insomma con la scusa che il territorio è poco densamente abitato ci dobbiamo tenere quello che non produciamo.
E’ questo la base di partenza del mio romanzo, Una terra spaccata, che vede Gregoriana De Felice, geologa, affianco agli abitanti del Formicoso, territorio naturale tra Bisaccia, Andretta, un tempo riserva di caccia, per evitarela costruzione della più grande discarica di rifiuti tossici della Campania. Ma , e qui veniamo al tema del blog, accanto alla bellezza dei luoghi dell’Irpinia, Gregoriana conosce anche una bellezza segreta di Napoli, le architetture di Laymont Yang, il silenzio deii giardini . E’ la bellezza che va difesa, protetta amata, in definitiva il tema del mio romanzo.Alla prossima, e grazie dell’attenzione
@francesca.La spaccatura è fisica, la frana silente che sta sul Formicoso, ma anche interiore, della protagonista, che deve lottare per la verità e così si mette contro all’Impresa che le ha ordinato di fare i carotaggi nel terreno.
Ringrazio tutti per i nuovi interventi.
@ Emilia Cirillo
Eccoti, cara Emilia. Sono lieto che tu sia riuscita a risolvere i problemi al pc.
Grazie per i tuoi interventi e per la risposta alla mia prima domanda.
Voglio ancora ricordare che in Irpinia, negli anni ’60 fu girato un film, La donnaccia , su sceneggiatura di Pasquale Stisoe e Camillo Marino. Protagonista fu un’attrice francese, J:Boschero. Il film, di stampo neorealista ,ebbe come luogo un paese oggi simbolo dell’irpinia, Cairano , dove l’anno scorso si è svolta la manifestazione culturale Cairano sette x, curata da Franco Arminio e voluta da Franco Dragone, quello del Cirque du Soleil, nato a Cairano.
Da qualche tempo la pellicola, creduta dispersa, è stata recuperata e proiettata nei paesi, d’estate.
Con questo, basta parlare d’irpinia. Almeno per il momento.
Ringrazio in particolare Francesca Giulia, per gli ottimi interventi volti ad animare la discussione.
E comunque, grazie a Massimo che permette di raccontare cose che sappiamo in pochi…a proposito, Marco Cieriello, altro scrittore irpino, che è nella raccolta Le Frane Ferme, è al momento imbracato su una nave rompighiaccio in Svezia, per un viaggio il cui reportage sarà presto pubblicato su un settimanale nazionale. Quando si dice la provincia!
Cara Emilia, è molto bello il riferimento ai luoghi che ci entrano dentro al punto di diventare parte di noi stessi,se questo spirito di condivisione di intenti fra esterno e interno abitasse di più gli animi di tante persone che fanno le cose,ci sarebbe maggiore rispetto per ciò che ci circonda,di amore per l’ambiente e la natura stessa dell’uomo non sarebbe svilita e offesa con così tanta facilità.Diciamo che augurando lunga vita al tuo romanzo auguriamo anche a noi che ci siano più Gregoriane nella vita di tutti i giorni.
un abbraccio
Grazie mille, Emilia…
Parliamo del tuo romanzo “Una terra spaccata”: come è nato? Da quale idea, da quale esigenza?
–
Ti chiedo, se possibile, di inserire un brano a tua scelta tratto dal libro…
Massimo sono io che ringrazio sempre te per mettermi in condizione di aprirmi alla conoscenza attraverso tutti gli stimoli che nascono in questo luogo virtuale.
@Emilia…quello di quel Cirque du soleil??….meraviglia delle meraviglie,spettacoli da sogno e chissà quanto abbiamo bisogno di sognare.
@ Francesco Costa
Grazie per i tuoi interventi, caro Francesco.
Lo chiedo anche a te: come è nata l’idea di questo libro (L’imbroglio del lenzuolo)? Cosa, o chi, ti ha ispirato?
Chiedo anche a te, se possibile, di inserire un brano a tua scelta tratto dal libro…
@ Alessio Arena
Stessa domanda: come è nata l’idea di questo libro (L’infanzia delle cose)? Cosa, o chi, ti ha ispirato?
Molto particolare il titolo: a cosa si riferisce? Le cose… hanno un’infanzia?
(Dicci qualcosa dipiù a riguardo)
–
Chiedo anche a te, se possibile, di inserire un brano a tua scelta tratto dal libro…
Segnalo l’intervista di Alessio Arena rilasciata a Fahrenheit (Radio 3):
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=300866#
–
Qui, invece, Il book trailer:
http://www.youtube.com/watch?v=0t5R7Xt5_Zk
Chi volesse ascoltare la voce di Francesco Durante in merito al suo “Scuorno”, segnalo questo link:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=271495#
Sempre dalla trasmissione Fahrenheit.
Vi mando i saluti di Marco Ciriello (al momento si trova all’estero ed è impossibilitato a intervenire).
Invece Generoso Picone dovrebbe inviarmi la sua prefazione a “Le frane ferme”. Spero di inserirla qui nei prossimi giorni.
“…Le sonde svettavano. Eravamo dalla parte opposta del terreno, quello in territorio di Andretta. Una leggera salita ci divideva da Pero Spaccone.
Costeggiammo una costruzione in pietra. Aveva un tetto sfondato di cui si intravedevano travi di legno e finestre alte e sottili, come quelle delle cattedrali gotiche.
– Questa è la stalla sociale. Non si usa più dal terremoto. Costava più recuperarla che rifarla nuova. La cooperativa ne ha costruita una a valle, modernissima, al bivio di Conza…Dottoressa, e il suo amico?
Filippo non era più con noi. Lo chiamai. Non rispose nessuno. Mi accostai alla stalla. Vidi i vetri rotti e fuligginosi. Dentro erano vecchie vasche di cemento, di fronte una finestra come quella da cui guardavo, con i vetri rotti e fuligginosi. Filippo gironzolava nella stalla, lungo le vasche di cemento. Si fermò accanto ad una finestra. Toccò la maniglia. Poi toccò le pareti di pietra. Ritornò alla finestra. Tentò di aprirla. Toccò le vasche di cemento. Si accoccolò davanti. Posò la fronte alla base. Poi si alzò e prima una gamba, poi un’altra si sdraiò dentro, come in una tomba.
Era ancora un altro Filippo, il ragazzo che cercava nascondigli che mi inteneriva e spaventava. Lo chiamai. Nessuna risposta. Non riuscivo a vederlo. Feci il giro della stalla. Entrai. Le vasche erano lunghe e strette e nere, come un laccio di liquerizia gigante. Nel camminare alzavo terra, polvere, foglie d’albero.
Sembrava che Filippo si fosse addormentato in quella mangiatoia industriale. Sentendo i miei passi si alzò. Aveva i capelli sporchi di terra e i vestiti bianchi di polvere.
Gli pulii i capelli, passando alla radice più volte le mani aperte a pettine. Filippo chiuse gli occhi. Mi carezzò le guance. Desiderai aprirmi sotto di lui, come una terra spaccata.”
Questo è un piccolo pezzo dal mio romanzo. Alle domande, magari rispondo dopo.
Spero anche che Massimiliano Palmese (con cui ho avuto modo di sentirmi più volte) riesca – nonostante il periodo particolarmente zeppo di impegni – a fare un salto da queste parti.
Stessa cosa dicasi per gli autori coinvolti in “Napoli per le strade”.
Grazie per il brano, Emilia.
Bello il riferimento alla “terra spaccata” nei pensieri di Gregoriana (la protagonista del libro).
Mi verrebbe da chiederti: una “terra spaccata” è più una terra che inghiotte, o una terra che accoglie?
Molto interessante questa discussione. Per ora vi seguo con piacere in silenzio, ripensando alle storie della mia famiglia d’origine dal lato materno ambientate in un comune dell’Irpinia che è un pezzo importante della mia vita, pure se sono nata ed abito da sempre a Napoli.
Grazie mille, Chiara. Continua a seguirci, allora. E intervieni pure quando vuoi. :-))
Per stasera chiudo qui.
Una serena notte a tutti.
da dove nasce l’idea di “L’imbroglio nel lenzuolo”? volevo innanzitutto raccontare la mia terra e i diseredati che l’abitavano nel primo Novecento. al riguardo ho fatto ricerche durate molti mesi. volevo raccontare la natura indescrivibilmente bella dei Campi Flegrei, e volevo raccontare l’aspetto demoniaco della creatività artistica, quello che ti fa vedere negli altri non degli esseri senzienti, ma semplicemente degli stimoli che alimentano la tua ispirazione. federico riprende di nascosto con la sua cinepresa l’analfabeta marianna che si bagna nelle acque del lago d’averno. la gente del circondario confonde però sogno e realtà (fuggiva terrorizzata dalle proiezioni in cui appariva un treno perchè temeva di veder uscire la locomotiva dallo schermo, dal famoso lenzuolo, e di esserne travolta), e così mette al bando marianna che, considerata alla stregua di una donna di malaffare (nel filmato appare nuda) si ritrova senza onore, senza lavoro, senza il suo fedele compagno e senza la sorellina ritardata che le viene sottratta. volevo raccontare la forza micidiale che hanno i sogni, la loro capacità di interagire con la vita reale (e non sempre in senso rassicurante) e di determinare le scelte degli uomini. anche l’ascesa di dittatori come hitler o mussolini è stata determinata dal sogno di benessere di milioni di individui che non immaginavano di aver imboccato senza pensarci la via per un’inimmaginabile ecatombe. facendo parlare tre diversi io narranti, volevo inoltre raccontare la relatività di ogni presa di posizione. la vita, non dimentichiamolo, è una percezione soggettiva che, in quanto tale, è inevitabilmente destinata a scontrarsi con il contesto in cui si forma. volevo dar voce ai derelitti, a quelli senza fortuna, a chi si è stentato la vita con i denti, e ai sognatori che finiscono col fare i conti con i loro sogni. ecco, è questo che volevo raccontare. grazie, francesco costa
…bellissimo Francesco il racconto della storia che hai sviluppato nel romanzo…”la vita è una percezione soggettiva…..i sognatori che finiscono col fare i conti con i propri sogni….”.E poi questa confusione fra realtà e sogno che è anche il trucco magico di una bella storia scritta o vista,in fondo letteratura e cinema facendoci perdere un pò la bussola quando son buoni sanno aprirci nuove strade nella mente e nel cuore.Auguri.
@Chiara un saluto,un bacio e grazie di seguire questa discussione.
Vi auguro una serena notte anch’io.
Condivido il pensiero di Francesco Costa, il modo d’intendere la scrittura, ne percepisco la profonda sensibilità e l’onestà, e mi coinvolge. Grazie Francesco per il “nome fantastico” e, sapevo che non ti saresti dimenticato!
Cara Francesca Giulia sono anche io del segno dei gemelli. Certo a Napoli, oggi, c’è tanto di nuovo in letteratura, anzi multiformi progettualità ed autori di grande spessore. Io ho citato Patroni Griffi, Viviani, Ortese, La Capria, perchè sono radicati nel mio cuore e nella mia mente come le mie radici.
Cara Emilia è un brano straordinario e denso di emozioni come è sempre per me la tua scrittura. Un romanzo di valore che leggerò subito. Ti abbraccio. Delia
@Francesco è molto interessante quello che racconti della ua scrittura. L’aspetto demoniaco della cretività artistica a volte è celato perfino in chi ce l’ha. Una bella sfida, dunque, raccontarlo.Legerò il tuo libro, anzi so di una prossima presentazione a Napoli e verrò a sentirti.
@Delia, grazie delle tue belle parole. So che sono sincere.
Come è nata una Terra Spaccata? Da un’inizio, na frase che mi è venuta in mente e non mi ha lasciato per molti giorni.
“La sola volta che ho visto Filippo nudo è statao da morto.” Intornoa questa frase si è sviluppata la storia, che nel tempo si è arricchita, aperta, complicata e infine, sciolta.
In Irpinia erano i giorni della lotta per la difesa del Formicoso dalla costruzione della discarica. Ho partecipato a qualche dibattito, ho seguito la cronaca sui giornali e youtube. E intanto la frase non mi lasciava, anzi mi tormentava.
Perchè moriva Filippo? E chi era Filippo? Perchè c’era un io che doveva vederlo morto?
I personaggi mi sono venuti incontro. Filippo è molto particolare, un dandy, un esteta, un vero signore napoletano, che amerà il Formicoso per la sua scabrezza, per la sua essenza.
L’altra protagonista è Gregoriana, la geologa, che cerca di mettere ordine nella sua vita, che amerà Filippo, con il quale condividerà la battaglia per il Formicoso.
La terra spaccata è una terra che accoglie, assolutamente. Accoglie la gente, le speranze, le lotte, ma soprattutto la bellezza, l’armonia dei luoghi, il loro silenzio.
cari amici, vi comunico che stasera (sabato 27 marzo 2010) alle ore 19 presento “L’imbroglio nel lenzuolo” all’interno della sezione Garage del festival “Libri come”. chiunque di voi abiti a roma e fosse interessato a conoscermi, può venire a cercarmi all’auditorium di Roma. mi affianca nella presentazione del romanzo l’amica e collega lia levi e leggerà tre brani del libro la bravissima attrice roberta paladini (che tra l’altro doppia una delle “casalinghe disperate” della celeberrima serie televisiva d’oltreoceano), e accorrerà a sostenermi psicologicamente anche il collega roberto tiraboschi, scrittore e sceneggiatore. di amici però non se ne contano mai abbastanza, e chi volesse presenziare, sarà il benvenuto, e potrà contare su una dedica chilometrica apposta di mio pugno (e vorrei pure vedere, dirà qualcuno) sulla sua copia. a stasera, quindi. un abbraccio, francesco costa
non bisognerebbe dimenticare in quest’importante discussione un libro che dice molto su Napoli, soprattutto su quella degli ultimi anni, di Massimiliano Virgilio. il libro si chiama “porno ogni giorno” ed è un contromano uscito qualche mese fa per laterza.
Francesco, in bocca al lupo! e un saluto a Lia Levi, grande scrittrice.Vi consiglio il suo ultimo libro,La sposa gentile edito da e/o. Veramente bello.
Caro Mario, non ho letto il libro di Massimiliano Virgilio, grazie per il consiglio. Se vuoi ce ne puoi parlare. Sarà un piacere.
Per me, scusate la nostalgia, il libro che dice e continua a dire di più su Napoli è Ferito a Morte di La Capria. Subito dopo Un giorno e mezzo di Fabrizia Ramondino. Infine Napoli sul mare Luccica di Antonella Cilento.
A presto.
Volevo fare un piccolo intervento sul cinema. Da cinefilo accanito, penso che “Morte di un matematico napoletano” e “L’amore molesto” di Mario Martone siano i due film che riescono a restituirci con più forza il senso di smarrimento e di perdita che ha coinvolto Napoli negli anni scorsi. C’è un soffio di verità che circola in ogni scena, ed è ciò di cui abbiamo sempre bisogno. E penso a tutto lo splendido lavoro che va facendo Sorrentino, per tenerci legati alla realtà. Ad Avellino, con fatica, cerchiamo di tenere viva l’eredità di Camillo Marino, sul terreno del neo realismo e delle forme che ha assunto oggi. Ecco un altro tratto che unisce, al di là delle apparenze, le due città
secondo me tra questi libri ne manca uno basilare, anzi due: quelli di franco arminio. Che rappresenta l’Irpinia d’Oriente, che si è inventato una cultura attorno con il modello della paesologia… credo che ogni discorso che non lo contempli in discussioni come queste siano vani…: entrambi di laterza, contromano: Vento forte tra lacedonia e candela” e “Nevica e ho le prove” per chi non ne conoscesse i titoli.
penso che nell’immaginario collettivo la figura di Napoli rispetto al resto della Campania tutta sia un po’ ingombrante. ben vengano forum come questi che contribuiscono a far emergere le differenze tra luoghi che pur essendo contigui non sono uguali.
Serena, hai ragione, Franco Arminio è fondamentale nella geografia letteraria dei narratori di Irpinia e non solo. E’ stato invitato a partecipare alla nostra discussione, perchè come sai è anche coautore delle Frane Ferme, libro che si presenta in questo blog. Il suo impegno, che ho ricordato come animatre di Cairano sette x è prezioso per un dibattito sulla presenza di narratori di Appennino. Attendiamo il suo contributo.
Grazie Valerio per il tuo apprezzamento al nostro forum.L’Irpinia e Napoli sono diverse, come la punta e la coda della matita.
Anche il dialetto, che sembra essere solo campano, ha sfumature diverse, sottili, la parlata irpina è più stretta, scivolosa, a volte priva anche di vocali, come nel dialetto Calitrano.
Certo Napoli resta una grande struggente difficile città. E’ la sua luce che la rende diversa, la luce del mare che si congiunge col cielo. Forse è per questa sua luce che tanti sono disposti a non lasciarla.
Carissimo Francesco,
Bravissimo.
Dare voce agli ultimi è la vera vocazione della letteratura.”CHI SCRIVE E’ PORTAVOCE DI COLORO CHE NON SANNO O NON POSSONO PARLARE.” (Camus, Discorsi di Svezia).
Lo scrittore è un percettore di lamenti, un intermediario. Deve prestarsi a offrire il proprio cuore, il proprio sguardo, la propria voce. Deve raccogliere il dolore, la gioia, la vita a beneficio di tutti.
Stasera mi piacerebbe esere con voi.
Un bacio grandissimo a te, a Lia e alla sua “sposa gentile”.
Simo
Sulla paesologia, sul suo valore, sui suoi limiti, è in corso un interessante dibattito sul Mattino di Avellino, a cura di Generoso Picone, con molti interventi. Franco è una figura importante- anche come poeta – e anche io penso che almeno uno dei suoi libri doveva essere tra quelli coinvolti. Per ciò che riguarda la discussione, attendo contributi ancora più vivaci e coraggiosi specie dai napoletani.
Cari amici, grazie a tutti per i vostri nuovi commenti. E in particolare a Francesca Giulia e a Emilia Cirillo per la costante presenza.
Scorrendo i commenti ne approfitto per salutare (ieri ho dimenticato di farlo) Maurizio De Angelis, Loretta Mastronardo, Piero.
Un saluto e un ringraziamento anche a Delia Morea, Mario, Serena Gaudino, Simona Lo Iacono… oltre che (ovviamente) a Francesco Costa e a Franco Festa.
Riprendendo il commento di Serena Gaudino, vi porto i saluti di Franco Arminio (che purtroppo è impossibilitato a intervenire).
Siccome però la “voce” di Franco è particolarmente importante, come ha sottolineato la stessa Serena (e come hanno confermato Emilia e Franco Festa) mi permetto di farvela sentire (letteralmente) linkandovi due interviste radiofoniche che Franco Arminio ha rilasciato a Fahenheit negli anni scorsi…
(segue)
La prima, un po’ più antica, è datata 2006.
Si riferisce al libro di Franco Arminio, “Circo dell’ipocondria”
Le Lettere – Pp.115 – Euro19,50
Potete ascoltarla qui:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=196269#
—
La prosa di Arminio è perfetta. Non, o non solo, in senso letterario: immagini e idee sono il suo respiro. Arminio è uno scrittore talmente originale che di questa originalità ha finito per fare una malattia. Quella malattia che pensa se stessa: perché consiste proprio nel terrore di ammalarsi. Il miracolo del libro, allora, consiste nella sua salute: una splendida salute precaria. Tra il corpo di Arminio e la sua terra, l’Irpinia terremotata e malricostruita, sussiste una profonda relazione. L’uno è il sintomo dei mali dell’altra. Così, alla prosa ruminante e insieme limpida degli aforismi e dei brevi saggi di Circo dell’ipocondria, si associano con naturalezza le immagini di Terra dei paesi, uno dei singolarissimi documentari che Arminio da qualche tempo ha preso a realizzare. (Andrea Cortellessa)
http://www.ibs.it/code/9788860870070/arminio-franco/circo-dell-ipocondria.html
La seconda intervista è del 2008 e si riferisce al libro di Franco Arminio “Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di Paesologia” (Laterza, Contromano – p. 186, euro 10))
Potete ascoltarla qui:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=260082#
—
“Almeno un quarto dei paesi italiani è gravemente malato. È una malattia nuovissima. Di cosa si tratta? Di desolazione. Per secoli o forse millenni i paesi sono stati poveri ma, anche se modesta, la vita che si svolgeva un tempo era piena. Ogni persona stava nel suo paese come un pesce dentro al lago. Adesso pare che tutti stiano in un secchio rotto. Si vive con poca acqua e con la sensazione che nessuno sappia come conservare la poca che rimane. Chi visita i paesi d’estate o la domenica ne cattura un’impressione del tutto illusoria: il piacere del silenzio, del buon cibo, aria buona. Tutto questo è solo una facciata, una realtà apparente che nasconde un’inerzia acida, un tempo vissuto senza letizia. D’altra parte, “uno arriva e ferma la macchina in piazza. Guarda qualcuno vicino al bar o sulle panchine. Guarda una vecchia che va a fare la spesa, un cane disteso al sole, guarda porte chiuse, guarda la propria macchina e capisce che lo strumento per la fuga è a portata di mano. Basta una mezz’oretta di curve e si torna al mondo gremito, il mondo che si muove.” Se i sani scappano lontano, nel paese restano i malati. Può essere depressione, può essere disagio, può essere la smania velleitaria fai nulla e di non poter arrivare da nessuna parte.
http://www.ibs.it/code/9788842087113/arminio-franco/vento-forte-tra.html
E ricordiamo anche quest’altro libro di Franco Arminio, publicato nel 2009 sempre per i tipi di Laterza (collana Contromano): “Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta” (pag. 117, euro 9,50):
http://www.ibs.it/code/9788842090502/arminio-franco/nevica-prove-cronache.html
Eccomi di nuovo!
Vorrei soltanto dire che certamente il libro di Massimiliano Virgilio è importante perchè senza fronzoli e con grande lucidità sa analizzare il male della volgarità e dell’ignoranza nei corpi esposti dei giovani che vestono come i tronisti e del deterioramento di ogni valore,del vuoto generato da una sottocultura televisiva e di tanto altro malessere che incancrenisce sotto gli occhi di tutti nella città.Ma come dice lui stesso è una condizione non appannaggio unico della città di Napoli,come non solo delle periferie romane,purtroppo di tanta parte del nostro paese.Non consola mi direte,certo,ma la responsabilità di riempire certi vuoti che poi vanno a riempirsi di “munnezza” culturale è di tutti.Parlare di napoli per questi giovani ,e bravi, scrittori non è facile per niente,mica devono tutti parlare della città sottolineando vicoli,camorra,droga e cafonaggine diffusa.Penso anche ai bei racconti di Rossella Milone,dove la città esiste ma è meno evidente,meno spudoratamente esposta,eppure le atmosfere sono le sue,inconfondibili.Raccontare la verità è giusto,parlare di ciò che ci circonda è parte della letteratura ma credo che bisogna sempre considerare i tanti modi e le diverse sfaccettature di espressione di ogni autore senza escludere nulla..Dunque certe volte la mia paura è che dopo un certo solco tracciato di narrativa “realistica” si pensi che il modo migliore per raccontare e il più efficace sia solo unicamente quello.
Spesso si possono evidenziare aspetti della vita anche non sottolinenando,ma per sottrazione.Cosa ne pensate?
un caro saluto di buonanotte
E segnaliamo anche il libro di Massimiliano Virgilio a cui faceva riferimento Mario nel commento sopra: “Porno ogni giorno. Viaggio nei corpi di Napoli” (Latera, Contromano, 2009).
http://www.ibs.it/code/9788842088851/virgilio-massimiliano/porno-ogni-giorno.html
Bentornata, Francesca Giulia!
A proposito di Napoli, segnalo questa tua recensione a “Quelle stanze piene di vento” di Francesca Di Martino (Einaudi, 2009) che ho pubblicato su “La poesia e lo spirito”
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/03/27/quelle-stanze-piene-di-vento-di-francesca-di-martino/
Buonanotte a tutti anche da parte mia.
@Francesca Giulia. Sono del Vomero, quindi non figlio della Napoli nobilissima, antica e verace. Per me il dialetto è un po’ come l’inglese: lo capisco, ma non lo parlo correntemente. Usarlo nella scrittura? Moderatamente ed al momento giusto. Non c’è nulla, per esempio, di più napoletano delle commedie di Eduardo: ma lì il dialetto compare solo per rafforzare le chiuse delle battute, o nei motti, o nelle frasi più significative come “Te piace ‘o presepe?” o “Adda passa’ ‘a nuttata”. (Dove peraltro credo si intenda che sia la bambina che debba passare la nottata, non la nottata che debba trascorrere). Scendendo di un miliardo di scalini nella scala dei valori, cioè parlando dei miei due libri comici, ne “Il Padrino” la protagonista è una italo-napoletana che difende la sua città contro gli stereotipi, ma risponde alla napoletana al suo super-eroe U.S.A. (“Nemico a ore dodici!” “”Ah, allora ce vo’ tiempo!”). In “Achei, il prezzo è giusto!”, è l’atmosfera dell’Olimpo ad essere partenopea: agli Dèi si dà del voi, Mercurio vuole un posto quieto nell’ufficio, Ganimede, il guaglione del bar, è “il coppiere degli Dèi” perché fa le cose ‘a coppa ‘a coppa (superficialmente).
Sul terremoto, pochi sanno che a Napoli (1 palazzo crollato, 1 vittima), furono spesi 25.000.000.000.000 di lire. Venticinquemila miliardi. La stessa cifra che fu spesa in Irpinia, dove invece la devastazione fu enorme e si ebbero 3.000 vittime.
Sul cinema, credo che i film di De Crescenzo, i vari “Bellavista” descrivano abbastanza fedelmente l’ambiente di Napoli. Così come credo che il film “Il camorrista”, di Tornatore, descriva fedelmente molte vicende degli anni ottanta.
In tv, credo che servizi come quello delle Jene su Quagliarella (dalla Madonna di Pompei per chiedere la grazia del goal, in dialetto, coi sottotitoli) siano semplicemente vergognosi per chi li realizza, oltre che offensivi per noi che dobbiamo subirli.
@FrancescaGiulia: e naturalmente (una facia, una racia) nel mio libretto si sottolineano le origini greche della città, a cominciare dallo stesso nome, Neapolis. In cui “nea” vuol dire “nuova” e “polis” vuol dire “polizia”: c’è bisogno sempre di nuova polizia, perché quella che c’è non basta mai.
caro Maurizio gli irpini sanno bene che Napoli ha avuto gli stessi soldi dell’Irpinia, dopo il terremoto.
Almeno fossero stati ben spesi, in ambedue i casi.
@Maurizio certo hai ragione riguardo ai soldi stanziati per il dopo-terremoto è una vera vergogna,ma come dice Emilia almeno fossero state fatte bene le cose con un briciolo di onestà e di consapevolezza nel rispetto del territorio.
Per quanto riguarda la letteratura sappiamo bene che dietro una ironia intelligente deve essereci anche una vera preparazione altrimenti altrimenti ne viene fuori soltanto volgarità vuota.Complimenti per le deliziose battute!
La cattiva diffusione attraverso la TV di stereotipi stupidi che danneggiano l’immagine sana di tanta parte della città purtroppo esiste,da sempre e continuerà ad esserci,ma è importante che l’altra parte,quella positiva e fattiva,non stia in silenzio,perchè si senta e si veda che Napoli non è solo lo schifo che vuol passare facile agli occhi di tutti ma ben altro e che resistere con propri valori in questa melma subculturale proponendo alternative è veramente una fatica strenue per molti ma necessaria.
un caro saluto!
io non credo che i luoghi siano espressioni geografiche, quanto siti dell’anima. Quindi il Formicoso, teatro dell’avvincente romanzo di Emilia Cirillo “Una terra spaccata”, come Tara di “Via col vento”, come l’Itaca di Kavafis: punti cardinali di percorsi di vita, scenari reali che nella fabula, come il lago d’Averno del bel romanzo di Francesco Costa “L’imbroglio nel lenzuolo”, trasfigurano, non solo sfondo della narrazione, ma movente, ragione dell’azione delle storie stesse.
Io l’Irpinia l’ho conosciuta attraverso un libro di Emilia Cirillo; quando ancora non conoscevo di persona la persona ho amato la scrittrice. Il libro è “IL PANE E l’ARGILLA”, un libro importante la cui sapienza si conferma in questo ultimo lavoro, dove c’è il coraggio, direi quasi la sfrontatezza, tutta femminile, lasciatemelo dire, di ambientare una struggente storia di passione dentro una attualissima vicenda di lotta ecologica, di amore per il territorio e per la bellezza. E’ un romanzo innovativo,quello di Emilia, e al tempo stesso, appassionante. Spero che in molti se ne rendano conto.
@ Maurizio De Angelis
Grazie per essere intervenuto di nuovo, Maurizio (con i riferimenti al post-terremoto). E grazie per il tuo sano umorismo, che riesce sempre a strapparmi sorrisi (poi me li riappiccico col nastro adesivo) 😉
@ Antonella Del Giudice
Cara Antonella, sono felice di ritrovarti anche in questa discussione. Grazie per essere intervenuta.
@ Antonella Del Giudice
Cara Antonella, (se ti va, e se hai tempo) perché non provi a rispondere alle domande del post?
Mi piacerebbe conoscere il tuo punto di vista sui temi trattati.
Spero che qualche altro amico irpino-partenopeo riesca a intervenire in questa discussione…
Io, intanto, ne approfitto per salutarvi, per ringraziare Emilia e Francesca Giulia (e tutti gli altri intervenuti) e… per augurarvi buona domenica notte e buon inizio settimana.
Ho appena sistemato l’orario del blog (con l’ora legale).
Una serena notte a tutti.
Grazie Antonella delletueparolesulmio libro. Ma anche io vorrei che tu intervenissi sulle domande di Maurizio. Sul senso di scrivere oggi a Napoli e su Napoli. Tu hai partecipato a varie Antologie, i Superdotati della casa editrice All’Est dell’Equatore, e nche a quella ultimissima con i racconti per Nisida. Dicci qualcosa su questa esperienza. A tutti buongiorno.
Volevo chiedere a Francesco Costa, come è andata la presentazione romana di sabato.
Inoltre mi farebbe piacere sapere qualcosa su questo festival “Libri come”. Qualcuno di voi ci è andato?
Ciao.
Anche se dispongo di poco tempo, come resistere a queste domande, visto che sono nata a Palma Campania, provincia di Napoli ma ai confini con quella di Salerno e vicinissima a quella di Avellino, con particolare riferimento al paese di Lauro, dove vivono uno zio e una cugina e dov’è nata la mia nonna eponima?
1) Napoli è una capitale europea, a differenza di Avellino che è un capoluogo di provincia.Napoli e il suo entroterra: mare e campagna. Irpinia: monti.
2) Il dialetto,o la lingua, per meglio dire, che se pur con differenze di accento e parlata è lo stesso.
3) Napoli è purtroppo cambiata in peggio dopo il terremoto dell’80. I problemi legati a malavita e cattiva amministrazione hanno avuto ripercussioni nel tessuto sociale e si vive peggio, anzi so di molti che hanno preso casa a Avellino, pur lavorando a Napoli, ritenendo quest’ultima città invivibile.
4)Premesso che in questo momento non ricordo neppure un film ambientato in Irpinia, è palese che Napoli e dintorni ha cinematograficamente molte più chance per film ambientati nel presente e nel passato.Ovviamente ci sono film in cui la città viene ripresentata nella sua realtà e altri meno. Per esempio, mi ricordo del film “Immacolata e Cencetta” di Piscicelli come una rappresentazione molto realistica dell’hinterland partenopeo;
5) “Il cardillo innamorato” di Anna Maria Ortese, perchè è un libro che racchiude tutto, il rapporto degli stranieri con Napoli, la realtà e la fantasia,
6) Ahimè, forse non ne ho letto nessuno!
@ Amelia Corsi
Credo che su “Libri come” potrà dirci qualcosa anche Francesca Giulia (che ha avuto modo di farci un salto).
@ Ersilia Ferrante
Grazie per il tuo intervento e per le tue risposte.
E benvenuta a Letteratitudine!
Generoso Picone mi ha inviato la sua prefazione a «Le frane ferme» (Mephite edizioni).
La inserisco di seguito, suddivisa in tre parti per facilitarne la lettura e la visualizzazione.
LA MEMORIA E I LUOGHI di Generoso Picone (parte I)
–
A voler cercare l’affermazione identitaria più intensa che le scritture sull’Irpinia abbiano prodotto negli ultimi anni non si può non incrociare la pirotecnica autocertificazione di Vinicio Capossela: «Sono nato tra i Kuta Kuta appartengo al ramo dei Pacchi Pacchi, che sono i più lunatici e fissati. Una etnia d’origine migrante, che migra a quadriglie verso l’Incontrè. (…)
Sono magnifici camminatori e seguono le migrazioni dei gallinacci. La cui centra è sacra. Costruiscono le case coi blocchi, fanno matrimoni di 16 portate, appendono code di volpe al retrovisore e barattoli alla marmitta. Dagli altipiani di Lacedonia sono arrivati fino ai bassopiani del Chiavicone. Nelle nebbie dove osano soltanto le anatre mute e le donne in segno di ammiccamento si lisciano il mustacchio».
La contrada Chiavicone di Capossela ha un vago riscontro topografico tra i calanchi dell’Ofanto, il verde ventoso del Formicoso, i cieli di Calitri e Andretta, i paesi dei genitori nella mappa dell’Irpinia d’Oriente che lui, nato ad Hannover, riconosce come la sua terra. Quasi a celebrare la verità di Rainer Maria Rilke: “Si nasce casualmente da qualche parte. Ma poi, a poco a poco, si sceglie il luogo della propria origine”.
L’Irpinia di Capossela è una terra sospesa tra luce e ombra, religiosità e bestemmia, un sogno di Bunker Hill narrato da John Fante e rivissuto nell’allucinazione di Fortunato Santospirito tornato a casa dopo il viaggio nel Fiat-Nam con Ettore Scola. Lui deve considerarla una sorta di serbatoio di miti a cui poter attingere per alimentare la fantasia di cantastorie, un paesaggio della memoria inventata che sarebbe piaciuto al massimo interprete del genere, Raffaele La Capria, una specie di Macondo ma irsuto di roccia e argilla, popolato da animali strambi e personaggi misteriosi che il destino pare aver dimenticato lì dai remotissimi tempi del Ver Sacrum.
Più o meno l’epoca a cui potrebbero risalire i «Silontes» di Luigi Mainolfi, gli agàlmata, i doni degli dei che con il muso piatto si nutrono di energia sismica direttamente dalla terra ballerina. Uno nero e l’altro dorato, hanno antenne simili a bacchette sul capo, fili tesi collegati direttamente al cielo. Mainolfi, irpino di Rotondi, il maggiore scultore italiano, si dichiara figlio delle Forche Caudine per accertare una discendenza epica che ha voluto trasmettere nelle sue forme, plasmate in terracotta, ceramica, tufo, bronzo e ferro, fino a trovare nella definizione di ctonio la cifra distintiva, visceralmente saldato alla forza del sottosuolo precario.
I Silontes, figure pittoriche trasformate in sculture, creature del bestiario di un Borges dell’Appenino meridionale, testimoniano un’appartenenza come i Kuta Kuta di Capossela. Sono simboli di una cartografia emozionale a cui oggi è affidata la rappresentazione dell’Irpinia su una platea nazionale e probabilmente mondiale. Il fascino e la suggestione sono certi, comunque non tanto da evitare la domanda perplessa: è plausibile che l’immagine di un territorio debba definirsi attraverso un impianto metaforico fin troppo rarefatto e straniante, facendo ricorso a una sorta di antropologia onirica per marcare un segno distintivo ed elaborare lo schema interpretativo di una realtà invece di dura e cruda prosaicità?
LA MEMORIA E I LUOGHI di Generoso Picone (parte II)
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Mentre l’interrogativo decanta, occorre riconoscere che l’Irpinia trasfigurata di Capossela e Mainolfi – a ogni modo, non i soli nell’impresa – ha la forza di imporsi come un’efficace unità poetica. «La cui diversità reale e immaginata viene percepita come una valvola di sfogo al disagio della modernità (…) mentre negli stessi luoghi la modernità avanza sotto forma di centrali, rifiuti, distruzione del territorio», sottolinea Alessandro Portelli ragionando sul Salento che ritorna alla taranta. Situazione non così diversa dall’Irpinia incontrata da Laurent Gaudé nel romanzo «La porta degli inferi»: «Qui tutto è stato ricostruito senza sfumature né carattere, obbedendo all’unica necessità di essere funzionale e rapido; non v’è più bellezza, né antichità, la storia è scomparsa tra le macerie. E alla fine questa modernità senza fascino è la traccia più orrenda della devastazione». Qualcosa che ricorda la condizione dei migranti che espropriati della loro identità devono riappropriarsi dei miti delle origini.
Proprio per questi motivi, per gli elementi concreti su cui la sua costruzione si fonda, l’unità poetica trova riscontro in un desiderio e in un bisogno ben presente nella mente di irpini oltre l’Irpinia – Capossela, Mainolfi – forse in maniera più intensa di chi quotidianamente la abita.
La sensazione è che in un mondo povero di luoghi, semmai presenti al negativo nella indicazione di Marc Augé, la ricerca di relazioni personali e di storie sedimentate, cioè di comunità, debba andare nella direzione di una geografia magari surreale, altamente evocativa, per riconfigurare un accettabile spirito identitario, ormai logorato nella pratica ordinaria. In Irpinia ciò sembra compiersi con un forte investimento emotivo, per nulla di circostanza – il topos della contrada Chiavicone è frequentatissimo e con successo da Vinicio Capossela musicista e scrittore, il percorso artistico di Luigi Mainolfi è lungo e ricco – tanto da provocare una sorta di paradossale condizione che per esempio ha condotto Capossela a di fendere il Formicoso dal pericolo di vedervi insediata una maxidiscarica di rifiuti regionale, con una convinzione partigiana e rabbiosa a volte addirittura su periore a quella dei contadini della zona. Vale a dire: la patria dell’immaginario diventa la terra delle radici riconosciute.
L’Heimat riconquistata per cui battersi strenuamente, insomma: la giusta causa che manca. Ma se è vero che un luogo è il suo racconto, perché la letteratura è lo spazio in cui l’individuo e la comunità manifestano la coscienza di sé, la narrazione dell’Irpinia di oggi può essere soltanto questa? Quando è stato chiesto a Franco Arminio, Marco Ciriello, Emilia Bersabea Cirillo e Franco Festa di comporre insieme un quadro della provincia di oggi scandito in quattro testi in grado di far respirare l’aria che tira, l’intento era di smontare il quesito o almeno di verificarne la consistenza. Troppo evidente il prefigurarsi di un nuovo, ennesimo sterotipo dopo il terrorismo o la mediterraneità, l’arcaismo tardodemartiniano o il depressismo costitutivo del Sud per non provare a cambiare giro.
Troppo urgente, soprattutto, la necessità di capire attraverso gli strumenti della narrazione quale sentimento si respiri in una provincia che nel Mezzogiorno probabilmente costituisce un paradigma emblematico, il posto delle emigrazioni e dei terremoti, delle trasformazioni strutturali e degli spaesamenti individuali, dove nell’ultimo trentennio il paesaggio naturale e umano è stato profondamente modificato, tra emergenze che si inseguivano e modernizzazioni mai davvero compiute; un’area marginale rispetto a quelle metropolitane che dominano la società meridionale di oggi, tra gomorre e bronx minori, ma di sicuro significativa per comprendere di quale materia sia composto il Sud degli anni Duemila.
LA MEMORIA E I LUOGHI di Generoso Picone (parte III)
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Il compito è stato consegnato a quattro narratori irpini che attraverso vari e diversi percorsi hanno conquistato una cifra letteraria rilevante. Si sono, cioè, affrancati da soli dal provincialismo deteriore, da quella marca che si affibbia a chi autoreferenzalmente continua a operare nella terra in cui è nato, e ne hanno invece fatto un tratto distintivo e di valore della propria scrittura. Dare loro appuntamento in un libro, farli accompagnare dalle fotografie di Ugo Santinelli, dal suo racconto per immagini tra fantasmi e detriti del tempo, realizza uno scopo che va quindi oltre l’occasione editoriale, pur importante: è l’esempio di una collaborazione utile che potrà produrre anche altri effetti. Ha scritto Aldo Bonomi: «Più un luogo è in grado di sviluppare, oltre alla coscienza di classe per tutelare i soggetti, anche la coscienza di luogo, più esso è in grado di rapportarsi ai flussi e negoziare il proprio cambiamento».
Franco Arminio consegna alla sua pagina – compilata in una febbrile impresa di cesellatore per arrivare alla miniatura più inquieta – il referto della malattia che incombe sui paesi perduti, dell’ipocondria che pare essersi trasmessa al suo corpo vagante tra vicoli e contrade abbandonate: allo sguardo si offrono come comunità dismesse, arrese e svuotate su cui è issata la bandiera bianca. L’Irpinia diventa il laboratorio di questa condizione generale, la postazione d’avanguardia che indica al mondo quel che presto sarà o inconsapevolemente già è. «Nei paesi da bandiera bianca non è che si trova il pane più buono che altrove o l’artigiano che ti fa le scarpre. Si trova il mondo com’è adesso, sfinito e senza senso, con l’unica differenza che adesso questa condizione si mostra senza essere mascherata da altro». La paesologia di cui si è fatto interprete ed esegeta declina l’accertamento dolente di una patologia, la scienza che dà il nome alla malattia di cui l’umanità soffre, un’involuzione cui si può porre rimedio soltanto invocando un nuovo umanesimo tutto da costruire.
Emilia Bersabea Cirillo un giorno ha confessato che il terremoto del 23 novembre del 1980 per lei – e per molti altri – ha costituito una frattura decisiva tra un prima e un dopo: soltanto allora ha imparato a guardare l’Irpinia con altri occhi, come a un luogo abitato da un destino, da un colore, da un clima, percorso da una storia nella storia. Da quel momento ha curvato la sua scrittura nell’intento di decifrare l’impercettibile in una sorta di andirivieni nella memoria, muovendosi alla ricerca di un qualcosa avvenuto nel passato o semplicemente nel sogno: nella realtà più vera. Può essere una musica, un cibo, una parola, un incontro che racchiude il sapore di un ambiente, il dolore di una ferita, la gioia di una passione. Da lì può nascere la cerimonia dei ricordi che diventa letteratura, dove il profilo di una persona si delinea dalle nebbie del tempo perduto con l’esattezza di un’immagine ritrovata, di un nome che finalmente si può dare alle cose.
Marco Ciriello della letteratura, invece, ha fatto la categoria per osservare e interpretare il mondo. È nell’house of fiction dei suoi numi tutelari che l’aridità e lo squallore del paese trova occasione di riscatto e guadagna una dignità forse mai avuta: soltanto così acquista significato. «Puzza il mio paese, sa di marcio, rancido e nauseante», si legge in un racconto della raccolta «Qualcosa è venuto a turbare il nostro cuore», prova di una biografia involontaria di un paese di cui il brano «La piega» è un ulteriore capitolo. Il paese è Pietrastornina, ma per Ciriello sarà Giano, che anche nella toponomastica ostenta la doppiezza ipocrita verso chi lo abita. Questa diventa la scena di una storia il cui calco è il racconto di Silvio D’Arzo «Casa d’altri», il prete protagonista si chiama Ezio Comparoni come all’anagrafe era il narratore di Reggio Emilia: il rimando allo splendido testo conferisce ulteriore drammaticità alla vicenda raccontata e individua un nodo tragico che va oltre l’ambito irpino per diventare universalmente umano.
L’Avellino resa da Franco Festa è una città dove è stato commesso un crimine. Nei moduli del giallo lui trova la possibilità di offrire il quadro di una comunità che come in una canzone di Fabrizio De André, di Francesco Guccini o di Claudio Lolli nasconde il tarlo di un cancro che ha corroso lo spirito antico.
Scoprire l’assassino equivale, quindi, a togliere il velo ai misfatti di una borghesia parassitaria, egoista e ingorda, cieca e colpevole di aver venduto l’anima.
Ciò vale se c’è un omicidio e ancor di più se la fine avviene levando le mani su di sé.
Si vede come il filo che tiene i racconti di Arminio, Ciriello, Cirillo e Festa stia nella densa atmosfera di sofferenza in cui l’Irpinia si presenta. La si avverte non tanto perché i quattro loro brani sono attraversati dal fantasma della morte, nelle forme del suicidio, della scomparsa, dell’assenza, ma soprattutto per la constatazione che – scrive Marco Ciriello – «questa provincia è uccisa dall’incuria. Tutto si sgretola stando qui, le nozioni acquisite si disfano, sfaciano, la monotonia dei giorni arruginisce vocazioni e curiosità, si finisce a negare l’esistente, a sperare nella rivoluzione del male come notizia. La vita è un solitario sentiero di ghiaccio».
L’impressione è che l’unità poetica – «Sotto di noi Avellino luccicava, come una ragazza di campagna che asciuga i capelli all’aria» nelle parole di Emilia Bersabea Cirillo – si sia irrimediabilmente sfarinata in un paesaggio di sconforto e disperazione, di degrado e di solitudine. In un corpo – umano, sociale, naturale, simbolico – ulcerato dalla malattia, avvelenato nel profondo, affetto dall’autismo corale – nota Franco Arminio – dove le parole sono state perdute, «le parole che nascevano in quel luogo e lo coloravano fino. Adesso è come se fosse scesa una mano di calce sulle parole dei paesi». Sono ridotti a deserti dove non c’è amore per le vite, luoghi – ricorda Ciriello interpellando Albert Camus – «dove lo spirito muore»: «Qui è come se la terra traspirasse morte, ma non è questione di rifiuti o di cemento, ma di assenza, e l’uomo non ha alcuna possibilità di vincere il vuoto, inutile la sua azione di edificarci paesi: pietra su pietra, perché puoi trascurare la storia, non le sue conseguenze».
«Sopra le frane ferma», era l’Irpinia descritta da Giuseppe Urgaretti, osservandola da Calitri. Da quel tempo c’è stata una mutazione che ha smosso ogni riferimento di fissità, si è verificato uno sconvolgimento di senso che ha a che vedere con la frantumazione dei significati, prim’ancora che delle colline e delle case. «La parola ha perso potere. – ammette il parroco di Giano nelle pagine di Ciriello – non accresce ma infastidisce, soprattutto quella fuori dai canoni, e il linguaggio di Cristo, oggi è fuori dal tempo presente». Sembra di vedere il prete de «La messa è finita» di Nanni Moretti, il sacerdote che si sbatte nella sua ansia di porre rimedio agli errori dell’umanità, in cui Claudio Piersanti aveva trovato una eloquentissima citazione proprio da «Casa d’altri» di D’Arzo.
«Bisognerebbe voler bene alle parole e state in silenzio », si augura Arminio. Muti a farsi rapire dall’azzurro
e dal verde, dalla neve e dalla nebbia, dal tufo e dalle nuvole. dall’argilla e dall’acqua. «In questi giorni i paesi dell’Irpinia sono bellissimi. Il verde li cinge da ogni lato, un verde rigoglioso e lucente occulta molto del cemento vomitato dalle betoniere negli ultimi decenni. Dobbiamo partire da qui, dal nostro paesaggio, se vogliamo trovare una qualche ragione di restare in questi posti», è l’invito che rivolge. Chissà, potrebbe essere una forma di ormesi, la nuova medicina che sfrutta gli effetti benefici delle basse dosi di un elemento nocivo.
Vi auguro una buona lettura e una serena notte.
@Amelia per quello che mi è stato possibile ascoltare in una giornata a Roma-la festa del libro e della lettura durava da giovedì a domenica e valeva la pena seguire tutto- ti racconterò qualcosa di interessante della mia giornata di sabato.Partirò dall’ultimo incontro,per me molto significativo, quello con Abraham Yehousha.
Un grande scrittore,una persona magnifica ricca di humor e sensibilità,ha parlato ad una platea gremita ed emozionata con traduzione simultanea in cuffia.Mi ha colpito questo pensiero:”Perchè bisogna preoccuparsi dello scrittore?Conoscere le informazioni su di lui?E’ necessario avere il rapporto con il libro stesso e dimenticarsi dello scrittore.”
Riportando alla discussione attuale,quante volte vi è capitato di leggere di Napoli dimenticandovi che lo scrittore era napoletano e dimenticandovi della sua stessa identità?Per Yehousha è l’opera sola che conta e che ha la responsabilità di parlarci,raccontarci e farci emozionare.Lui stesso ha asserito che non gli importa tanto che un suo lettore lo trovi “interessante”ma che abbia riso o pianto,che qualcosa di profondo lo abbia raggiunto mentre leggeva.Ha detto “Mi interessa indurre il pianto dalla fantasia e non dal reale”.
Certo sentire queste parole da uno scrittore che come sapete viene da terra martoriata e ci parla di cose vere è toccante.Mi piacerebbe sapere cosa pensate di questa riflessione.Anche riportandola al dibattito in corso e alle nostre realtà.
In seguito vi dirò cosa invece è scaturito dal dibattito degli autori del forum”Come si scrive un giallo” di tutt’altro parere.
Un altro pensiero di Yehousha vorrei condividere con voi perchè in qualche modo mi ha fatto pensare alla nostra terra che è martoriata da un’altra guerra,che pure miete vittime e fa schiavi,e di cui si è parlato e si tenta di parlare in letteratura.L’autore ha detto:” la responsabilità comporta grandi problemi nella scrittura stessa. Guerra,tensione,problemi di minoranze confluiscono nella scrittura ma è necessario usare anche un linguaggio moderno della letteratura.Il nostro eroe muore in guerra.Questo ci ha dato situazioni molto drammatiche da raccontare.Un ricco materiale arricchisce la nostra letteratura. Però è anche molto pericoloso ciò,si corre il rischio di rivolgersi solo all’aspetto esterno delle situazioni drammatiche senza rivolgersi alle sottigliezze che fanno parte degli individui”.
E il nostro eroe come muore?Soprattutto chi è?E quanto si riesce nella nostra letteratura ad addentrarsi nelle intime sottigliezze dell’individuo,e oltre al fattaccio esterno farci piangere e farci ridere,insomma toccare certe corde come solo la letteratura alta sa fare.
Vi lascio con queste riflessioni sperando di aver soddisfatto un pò la curiosità di Amelia,pregandovi di esprimere il vostro pensiero su quanto riportato.
Domani se Massimo permetterà e vorrete vi racconterò altro.
buonanotte!
@ Francesca Giulia
Carissima Fran, questa coda di dibattito dedicata alla festa del libro romana mi pare molto interessante. Continua pure, se puoi.
Buona giornata a te e a tutti gli amici di Letteratitudine!
Grazie a Francesca Giulia.
Arrivo solo adesso in coda a un tema stimolante( già comprato il libro di Durante, non ancora iniziato), dopo aver amato così tanto, ma proprio tanto quello di Arena. Il thread di commenti e opinioni è stimolantissimo.
Ogni tuo topic è sempre un’occasione.
Un saluto a te e ai tuoi commentatori Massimo e grazie per tutti questi preziosissimi spunti
forum eccezionale, interessante, stimolante e di altissimo livello. è stato un piacere leggerlo. grazie mille.
A chi interessa “Libri come” può ascoltarsi le puntate di fahrenheit.
Libri Come (I giornata, I parte)
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=312980
Libri Come (I giornata, II parte)
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=313011
Libri Come (II giornata, I parte)
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=313018
Libri Come (II giornata, II parte)
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=313057
e complimenti anche da me per il thread
@Francesca Mazzucato grazie davvero di essere intervenuta,stimando molto il tuo spessore di autrice mi piacerebbe tanto sapere cosa hanno suscitato in te le parole che ho riportato di Yehousha sulla pericolosità del trattare certi argomenti forti soffermandosi solo sull’esterno senza riuscire a toccare corde che riguardino l’intimo dell’individuo.
Una curiosità:Yehousha ha dichiarato di cominciare ad amare la lettura attraverso l’incntro con il libro “Cuore”di De Amiciis,libro che suo padre gli leggeva la sera fino a spingerlo alle lacrime.
Poi ha ribadito la fondamentale importanza del concetto di “identità”,del bisogno da parte sua di creare un’identità di scrittore,ma soprattutto di difendere la sua identità di persona e di gruppo.E’ comprensibile se riportato alla situazione di Israele dopo il ’67,quando il confine del paese non era più disegnabile.Mi piacerebbe parlare con voi dell’identità e del senso di appartenenza al territorio,sia in senso fisico ma anche e soprattutto in senso di comunità,dello stesso gruppo.Esiste ancora per noi napoletani questo senso di appartenenza,come è mutato negli ultimi anni secondo voi?E come si riflette nella letteratura attuale?Penso a molti autori che raccontano della città stando fuori fisicamente da essa e a molti che lo fanno restando ancora calati fino al collo nella realtà napoletana.Che ti tipo di sguardo ritenete sia più efficace?
Grazie ad Antonio Filippese e grazie a Vale per il suo contributo,perchè non provate a rispondere a qualche domanda di Massimo?Anche se non siete della zona è importante capire come sia lo sgurado esterno su una certa realtà fortemente discussa e non sempre correttamente a livello mediatico.
Da scrittore esule, appartenente alla seconda generazione, cioè figlio di immigrati ho provato a raccontare l’Irpina attaverso le mie pagine, per questo motivo apprezzo il fatto che finalmente un po’ di spazio venga riservato all’Irpinia letteraria
Beh, come dico in “Balla Juary” per arrivare ad Avellino devi per forza passare da Napoli…e non solo per l’assoluta mancanza di collegamenti ferroviari tra Avellino e l’Italia (salvo due regionali per Roma)
Sicuramente le due città hanno in comune la cultura che porta all’amore per la propria terra e le radici…
Venti anni fa Napoli, era la città delle occasioni, i pulman partivano da Piazza macello, piazzale Kennedy e se ti serviva qualcosa, andavi a Napoli a procurartela…
poi sappiamo tutti cosa è successo fino al neo rinascimento di Bassolino e alla Spazzatura…Napoli come diceva Eduardo è un non lugo, qualcosa che resta lì ma che vola via…che col tempo è diventato sempre più simbolo e sempre meno reale…
Anche l’Irpinia col tempo è diventata un simbolo…i miei primi ricordi sono ovviamente legati al Terremoto. Alle estati passate nei pre fabbricati e tutto il resto…mah l’Irpinia da allora ha forse subito una battuta d’arresto, diventanto anch’essa un simbolo ma non in positivo.
Citando Chiambretti l’Irpinia potrebbe essere la Svizzera dell’Italia (e non mi riferisco alla banche) ma purtroppo non è’ così
Culturalmente, non me ne voglia nessuno, il peso di Napoli nel mondo è insostenibile per molte altre città, nella musica, nella letteratura, nel cinema…
Napoli è forte di una sua scuola cinematografica che ha avuto il suo recente apice con Troisi…e che vivacchia con Salemme e Biagio Izzo (senza essere troppo cattivi)
Lo stesso patron del Napoli Aurelio De Laureuntiis ha origini “irpinesi” (storpiatura sua che fece saltare la mosca al naso a mezza Iprinia)
ma di strorie avellinesi, a memoria mia ne trovo molto poche…
il libro che meglio rappresenta Napoli… quale scegliereste? E perché?
è una domanda che tempo addietro feci io stesso al mio gruppo su anobii(se mi permettete la pubblicità il gruppo è “Napoli e i suoi libri”) e le risposte degli utenti mi spiazzarono sul serio, quasi nessuno a citare lo stesso libro, da Matilde Serao a Saviano penso che fortunatamente il libro che rappresenta meglio Napoli deve essere ancora scritto, cioè, molti altri libri su Napoli saranno scritti…
un’ultima forzatura, se mi permettete, io l’Irpinia, la mia Irpinai l’ho descritta nelle mie pagine, come meglio ho potuto e secondo me è quello che, purtroppo o per fortuna, rispecchia meglio l’anima di quella terra da Castelfranci verso Avellino
scusate gli errori, scrivendo in presa diretta non ho controllato molto…:(
e se la mia risposta risulta disomogenea e perchè in origine volevo rispondere sinteticamente alle domande del post ma poi mi sono lasciato prendere la mano…la mancanza di tempo ha fatto il resto:(
Mica facile rispondere alle domande di Massimo. Soprattutto per chi non è di quelle parti.
Sulla differenza tra Napoli e Irpinia non sapevo granché. Anzi, grazie a voi ora ne so sicuramente di più.
La Napoli del cinema per me è quella di Totò e Peppino, a cui si aggiunge quella più moderna di Troisi.
La Napoli tra i libri è quella della Ortese e di Curzio Malaparte.
La Napoli della musica ( anche se non rientra tra le domande) è quella di Pino Daniele.
Sull’Irpinia mi sa che leggerò qualcuno dei libri consigliati qua.
@Fabio non ti preoccupare non è un male che tu ti abbia fatto prendere la mano,è stato un piacere leggerti,e poi le domande sono una sorta di indicazione per un discorso più ampio mica una strada obbligata.Questa cosa che dici di Napoli come un luogo qualcosa che è sempre meno reale,forse è vera,ma non la ritengo una cosa positiva, credo che negli ultimi anni sia proprio il contatto fisico con il territorio che si stia perdendo qui,come se fosse più semplice restare attaccati ad un’idea, un simbolo che curarci della realtà che ci circonda.Napoli siamo noi tutti,cittadini di ogni sorta e magari riprendendoci il rapporto carnale con la città e il rispetto dei luoghi che hanno fatto la nostra storia forse potremmo riprenderci anche il rispetto di noi stessi come comunità,come popolo.
@Vale sono felice che tu abbia acquisito qualche informazione in più su luoghi che non conoscevi bene. Comunque hai risposto,bè su Totò io non posso che essere in totale accordo con te,unico indiscutibile maestro da cui tutti hanno preso o tentato di prendere un pò di eredità culturale.hai fatto bene a ricordare anche la Napoli nella musica,perchè vedi anche qui ci sono stati molti cambiamenti,in primis l’avanzata dei neomelodici con D’Alessio in prima fila,ma tanti altri esponenti di bassissimo livello che cantano banalità e luoghi comuni, anche facilmente strumentalizzabili. Ma c’è ancora tanta gente che fa musica in modo sensibile per fortuna- senza nulla togliere ai gusti differenti…-.
Piccolo off topic…Ad esempio,per chi non lo conoscesse,una vera chicca:avete ascoltato Joe Barbieri?E’ napoletano,fa una musica raffinata e suggestiva,testi poetici e delicati,una voce per pochi,nel senso non per la massa che riempie gli stadi,ma se io dopo aver sentito un suo cd,mi sono rincuorata ho pensato che ancora qualcosa di bello si muove nelle viscere artistiche della città.
vi metto il link,un piccolo omaggio per gli amici di letteratitudine,non sono una parente nè un’amica,ma l’ho scovato,comprato e apprezzato molto.Questa è una sola ma tutto il cd è fantastico,bravo davvero.
http://www.youtube.com/watch?v=NF-GseWF8ic&feature=related
Emilia Cirillo e Francesco Costa saranno ospiti di Massimo Maugeri nella puntata radio di “Letteratitudine in Fm” di stasera: ore 21,30 circa.
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“Letteratitudine in Fm” va in onda su Radio Hinterland (Fm 94.600 MHz – nel territorio della provincia di Milano e oltre), all’interno del programma “Nu poets” condotto da Luca Corte, ed è ascoltabile in streaming via Internet da qui: http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx
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Per maggiori informazioni: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine-radio-hinterland/
grazie massimo. per chi decide di collegarsi a Radio Hinterland, sarà piacevole dopo commentare la nostra intervista.
Bravissima e appassionata Emilia Cirillo. La sto ascoltando con immenso piacere. E bellissimo il riferimento alla poesia di Ungaretti, “Calitri”, e a “Una terra spaccata” che tanto ricorda quei versi…
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Deposto dal torrente c’è un macigno
Ancora morso dalla furia
Della sua nascita di fuoco.
Non pecca in bilico sul baratro
Se non con l’emigrare della luce
Muovendo ombre alle case
Sopra la frana ferme.
Attinto il vivere segreto
Col sonno della valle non si sperde;
Da cicatrici ottenebrate
Isola lo spavento, ingigantisce.
Francesco, un grande abbraccio!
E’ da poeta quell’imprigionare immagini nel lenzuolo! Marianna che cerca il suo doppio nelle visioni del cinema. Il mondo che cambia. La finzione che riflette la realtà. La pellicola che svela desideri nascosti.
Bravissimo!
Un bacio da Simo
Bravissimi, Massimo ,Emilia e Francesco, e soprattutto oltre ad essere stati piacevoli,siete stati estremamente utili nel parlare di due realtà come l’Irpinia e Napoli in maniera tale che anche chi non conosce queste zone, credo, abbia potuto farsi un’idea più chiara.
Grazie e grandi in bocca al lupo ai vostri romanzi!
Vi ho ascoltato anch’io. Bravi. Belle interviste, avete detto cose interessanti.
Ho appena ascoltato Emilia Cirillo. Per chi ha letto “Una Terra Spaccata” riascoltare la storia raccontata dalla scrittrice ricostruisce le sensazioni e le atmosfere nelle quali ci fa immergere con una forza espressiva ed un coinvolgimento emotivo dal quale è difficile allontanarsi.
Poche volte è capitato di non riuscire a staccarmi dalla lettura di un libro e proseguire fino alla fine. Ogni volta quel libro ha cambiato qualcosa dentro di me. Questo, in particolare, mi ha lasciato la convinzione che è necessario ritornare a riconsiderare una serie di valori che la società oggi considera superflui e marginali.
Il valore della memoria e della terra, spesso termini abusati, sono i concetti che emergono da quella spaccatura che Emilia riesce ad aprire nel nostro animo, dalla prima all’ultima pagina del suo romanzo.
Auguri per il romanzo e per l’interessante Blog al quale dedicherò, da questa sera, maggiore attenzione.
mario perrotta
Carissimo Signor Maugeri,
mi complimento vivamente con lei per l’esperienza della radio.
Mi permetta di dirle che la sua capacità di spaziare con garbo e intelligenza dalla parola alla voce andrebbe premiata. Così come andrebbe premiato lo sforzo gratuito e appassionato, il grande omaggio alla letteratura italiana,la crescita culturale che lei, invisibilmente e con fermo amore, sta assicurando a tanti. Lei lo sa. La seguo dalle fila della pensione e sono solo un vecchio con un po’ di tempo in tasca e molte manciate di nostalgia. Ma osservarla (anche se spesso lo faccio in silenzio) mi riempie il cuore di speranza. Soprattutto in questi tempi che sembrano tanto bui e così poveri di bellezza.
Mi complimento vivamente anche con la signora Emilia Cirillo e con Francesco Costa che ho trovato gradevolissimi e con la signora Francesca Giulia che trovo davvero deliziosa.
Un grande abbraccio e un futuro che le auguro ricchissimo di soddisfazioni,
il suo
Professor Emilio
Lungi da me l’intenzione di sostituirmi a Massimo nel risponderle, gentilissimo professore Emilio,ma poichè lei si è ricordato di me nei suoi complimenti sento di dirle che ritengo che parole come le sue siano già di per sè un vero premio,in primis per Massimo che con serietà,ma mai pedanteria e supponenza, crea occasioni per discutere e far riflettere,lasciandoci possibilità di imparare e aprirci alla vita con grande generosità d’animo da parte sua. Si può far cultura in tanti modi,ma qui senza cattedre e senza gradi si generano movimenti di mente e di pensiero e che, ognuno a modo suo genera nuovo moto,come tante voci basse che insieme son capaci di fare un coro fortissimo.
Ecco spero che senza schiamazzi Letteratitudine possa essere con le sue voci,compresa la sua gentilissima,un coro educato e concreto di cultura in Italia.
cari saluti
Ecco di nuovo qui (lievemente imbarazzato – ma grato – per i vostri complimenti).
Grazie di cuore a tutti voi che avete continuato ad alimentare questa discussione e a coloro che hanno avuto la bontà di ascoltare la trasmissione radio (Letteratitudine in Fm) di stasera.
Intanto un ringraziamento all’amica scrittrice Francesca Mazzucato per essere passata da qui e per aver messo a mia disposizione la sua bella recensione del romanzo di Alessio Arena.
Grazie mille, cara Francesca
Saluto e ringrazio la cara Francesca Giulia (grazie di tutto, Fran) e Vale.
@ Fabio Izzo
Grazie per essere intervenuto, Fabio.
La testimonianza ha conferito valore aggiunto alla discussione.
Ne approfitto per segnalare il libro di Fabio Izzo:
“Balla Juary. Sferragliando verso sud” (Il Foglio, 2009)
http://www.ibs.it/code/9788876062278/izzo-fabio/balla-juary-sferragliando.html
Dalla prefazione di Gianluca Morozzi: “Facciamo così: una doppia prefazione, per chi ama il calcio e per chi non ama affatto il calcio. Per chi ama il calcio: Juary era famoso per la sua danza intorno alla bandierina del calcio d’angolo, una delle prime esultanze veramente pittoresche della storia del pallone, prima delle mitragliatrici e delle maglie sulla testa e dei trenini e tutto il resto. Ora: da maniacale tifoso del Bologna quale sono, per me i giocatori si dividono nelle due categorie Ci hanno fatto del male-Non ci hanno fatto del male. Juary non ci ha mai fatto del male (leggi: non ci ha mai fatto gol), forse perché quando ballava intorno alle bandierine del calcio d’angolo in serie A il Bologna languiva in immonde categorie inferiori. Se ha fatto gol al Bologna in un sessantaquattresimo di finale di coppa Italia che ho dimenticato, ebbene, lo perdono. Balla in pace, fratello”.
Caro Fabio, inserisci un brano tratto dal tuo libro (se possibile). Così ce lo fai assaggiare…
Ringrazio ancora Emilia Cirillo e Francesco Costa, miei ospiti nella puntata radio di stasera.
@ Simona
Simo carissima, ti ringrazio di cuore per la tua presenza e per la tua disponibilità nonostante i numerosi impegni.
E grazie per avermi ascoltato in radio.
@ Mario Perrotta
Grazie anche a te… e benvenuto a Letteratitudine!
E ogni volta che vorrai tornare a commentare, sarà sempre un piacere leggerti.
@ professor Emilio
Carissimo, la ringrazio per il suo affetto e per i complimenti (con i quali mi ha messo un po’ in imbarazzo). Come ha sottolineato Francesca Giulia, il suo commento è già un premio (e di grande valore).
Tuttavia ci tengo a precisare che senza tutti coloro che intervengono qui, per confrontarsi e mettere in comune il proprio pensiero, questo blog non avrebbe ragion d’essere.
Grazie a tutti, dunque.
Maria Lucia Riccioli mi ha inviato una recensione del romanzo “L’imbroglio del lenzuolo” di Francesco Costa e un’intervista all’autore.
La recensione potete leggerla sul post (che ho aggiornato), l’intervista la inserisco qui di seguito.
Grazie, Maria Lucia.
INTERVISTA A FRANCESCO COSTA
di Maria Lucia Riccioli
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Questo libro gioca intanto sull’equivoco del titolo, “L’imbroglio nel lenzuolo”. Puoi spiegarcelo?
L’imbroglio nel lenzuolo… Non è un’espressione inventata da me. Quando è nato il cinema, dallo schermo (che era spesso un lenzuolo appeso al muro di una casa di paese) scaturivano diavolerie come treni in corsa e navi in mezzo al mare, oltre a gente morta che pareva viva, e per questo l’invenzione dei fratelli Lumière fu denominata dai napoletani (e con una sorta di reverenziale terrore) “l’imbroglio nel lenzuolo”…
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Mi è piaciuto molto il gioco di alternanza tra le voci di Federico, Marianna e Beatrice. Come è nata l’idea di questa struttura tripartita?
L’alternanza di tre voci che ricostruiscono ciascuna a modo suo la vicenda riguardante la realizzazione di un breve film muto intitolato “La casta Susanna” mi è nata dalla voglia di calarmi in tre diverse psicologie e di sperimentare tre diversi tipi di linguaggio: Marianna è l’erbivendola analfabeta che ha un linguaggio primitivo, fitto di espressioni dialettali, mentre Federico proviene dalla piccola borghesia napoletana e parla già in modo più pulito. A loro ho voluto contrapporre Beatrice, ricca signora torinese, che usa espressioni più fiorite, visto che siamo nell’epoca del liberty, e adotta pose dannunziane. Una forestiera mi serviva oltretutto perché sul Meridione si posasse uno sguardo “alieno”, affascinato e insieme allarmato dalle contraddizioni e dalle attrattive del nostro Sud.
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Sei uno sceneggiatore cinematografico e televisivo oltre che uno scrittore, il tuo romanzo d’esordio, “La volpe a tre zampe”, è diventato un film di Sandro Dionisio con Miranda Otto e Angela Luce; il film di Alfonso Arau “L’imbroglio nel lenzuolo” con Maria Grazia Cucinotta, Geraldine Chaplin e Anne Parillaud uscirà tra breve… inoltre leggendo il libro si nota la tua familiarità con l’ambiente del cinema. Puoi parlarci del tuo legame con il mondo della luce, con “l’imbroglio nel lenzuolo”?
Il mio legame con la luce è nato praticamente insieme a me. Ho amato il cinema fin da quando ero piccolo e anche la lettura (e di conseguenza la scrittura) l’ho sempre intesa come un “dare la vista a chi non ce l’ha”. Mi si dice da più parti che la mia scrittura ti permette di “vedere le cose” e senza per questo rinunciare a essere una scrittura inequivocabilmente letteraria. Non amo quei romanzi che sembrano sceneggiature cinematografiche: i miei romanzi sono romanzi, e questo non può negarlo nessuno.
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Sei soddisfatto della resa filmica del romanzo?
Uno scrittore non dovrebbe mai esprimersi sulla qualità dei film tratti dai suoi romanzi, almeno per una questione di eleganza, ma posso azzardarmi a dire che gli interpreti di “L’imbroglio nel lenzuolo” ingaggiano una vera e propria gara di bravura, e sono tutti encomiabili: la Cucinotta, la Chaplin, il divertente Ernesto Mahieux che impersona il produttore Gennarino Pecoraro, il giovane Primo Reggiani e la francese Anne Parillaud (interprete del mitico “Nikita”) che mi sembra esattamente la Beatrice descritta nel mio libro. Anche la regia ha vigore, ha ritmo… Insomma, staremo a vedere come sarà accolto dagli spettatori.
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Mi è molto piaciuto l’impasto linguistico che hai utilizzato, un dialetto napoletano che si fonde con l’italiano, come a significare l’incontro fra il mondo quasi primitivo di Marianna e quello più intellettuale e sofisticato di Beatrice. Come hai trovato la lingua di questo romanzo?
La lingua di questo romanzo è stata generata da una sorta di “full immersion” nelle psicologie dei tre protagonisti. Ho scritto il libro nell’ordine in cui lo si legge, saldando l’uno all’altro (la parola che chiude ogni capitolo è la stessa che apre quello successivo) gli sfoghi accorati dei tre personaggi. Di volta in volta diventavo semplicemente ora l’uno e ora l’altro, e li facevo parlare come immaginavo che potessero parlare. In più dovevo badare al tempo della narrazione che inizia al presente per tutti tre i personaggi, poi affonda nel passato per ricostruire l’origine dei loro drammi e poi torna al presente. È il più elaborato dei miei sei romanzi, e anche il più documentato: per descrivere gli effetti delle erbe raccolte da Marianna ho consultato un antico erbario e per il contesto sociale ho studiato per mesi periodici d’epoca alla biblioteca nazionale. La scrittura del romanzo ha richiesto esattamente dodici mesi. Contrapporre il linguaggio primitivo di Marianna a quello sofisticato di Beatrice significava nelle mie intenzioni sottolineare non tanto le differenze fra le due donne quanto la loro affinità: in fondo combattono entrambe per difendere il loro diritto all’amore. Volevo anche affrontare il tema della creatività artistica (Federico e Beatrice sono artisti: scrivono lui per il cinema e lei per i giornali) e dei suoi aspetti più pericolosi (le ambizioni di Federico costano quasi la vita a Marianna). Si tratta inoltre di una doppia storia d’amore (quella dei poverissimi Marianna e Giocondo contrapposta a quella dei tormentati Beatrice e Federico) che, dopo alterne vicende, approda a una conclusione felice, perché io amo la vita e mi piace quindi guidare i miei personaggi in un processo di maturazione che annovera tappe dolorose, ma li porta verso un futuro migliore.
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Domanda un po’ scontata, ma sono curiosa… quali sono i tuoi progetti futuri? Cosa stai scrivendo?
Ho terminato un mystery ambientato nel 1924, nei giorni roventi del delitto Matteotti, e ne sto scrivendo il seguito che si svolge nell’estate del 1926, più o meno nel periodo in cui morì prematuramente l’attore Rodolfo Valentino. Il tragico evento ha una connessione con l’intreccio del romanzo. Delitti, misteri, scambi di persona, sullo sfondo di un paese sui cui si allunga l’ombra di una dittatura che durerà oltre vent’anni.
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Maria Lucia Riccioli
Ho pubblicato un nuovo post. Ma qui, se volete (io lo spero e lo auspico), la discussione continua.
caro professore Emilio, grazie dei complimenti.
Spero che la sua partecipazione a Letteratitudine possa continuare sempre così entusiasta.
Grazie a Simona lo Iacono e Mario Perrotta per le loro parole di incoraggiamento.
Grazie Maurizio, ti posto l’inizio del viaggio a Sud:
Da Balla Juary-Sferragliando verso Sud
Sferragliando verso sud suona proprio bene e rende al meglio
l’idea di questi viaggi programmati dalla solita improvvisazione
e compiuti su treni a dire poco in disarmo su lunghi
ferrosi e arrugginiti binari, verosimilmente lunghi come tutta
questa inverosimile nazione e attraversati da infinite genti che
vorrebbero solamente e semplicemente essere altrove.
Il loro semplice, umile e unico desiderio è quello di essere
già a destinazione.
L’unica cosa che sembra aiutarli, in questa situazione avversa,
è la gravità.
La forza di gravità. Andare verso sud sembra più facile perché
è come cadere, andare giù; infatti per le famiglie immigrate
al nord, l’espressione regina di tutta una vita segnata dal destino
dell’emigrazione è andare giù: andare abbascio.
– Quando vai giù? Passano il tempo a chiederselo continuamente
l’uno con l’altro. Andare giù in questi casi non equivale
ad una caduta ma ad una vera e propria rinascita.
La mia situazione personale appare ancora più strana.
Io sono nato, nacqui, al nord.
Ma al nord non è che mi abbiano voluto poi più di tanto.
La stessa cosa in realtà è accaduta pure al sud.
Lì e là non mi hanno mai considerato come uno di loro.
Ecco, mi sono sempre sentito un non allineato; neutrale,
come la Svizzera ma senza la sua ricchezza a mia protezione.
Già, la Svizzera, il paese dove i figli di questa terra hanno
cominciato a mangiare, armati in questa guerra di conquiste
solo della loro fame ereditaria, fame su fame, come se ognuno
di loro portasse sulle loro spalle e dentro ai loro stomaci la
fame dei padri, dei nonni e dei loro antenati tutti; emigranti che avevano solo il cibo dalla loro, falene attirate dalla luce del lavoro
in un mondo di oscurità disoccupazionale.
Partivano per mangiare e portavano con loro, dentro quelle
valigie di cartone legate con lo spago, i prodotti tipici delle loro
terre assorti al rango di feticci: salumi, formaggi, oli, vini.
Tutto questo accadeva prima ancora che l’enogastronomia
diventasse roba snob, da elite di nascita. Quegli emigranti, tra
cui i miei stessi genitori, apprezzavano e amavano semplicemente
i colori, gli odori, i sapori dei loro cibi.
Buffa la rotazione a cui sono soggetti gli uomini su questo
mondo rotante.
Nel frattempo entra, nella storia e nello scompartimento, il
controllore, che è tipo abile e allenato dal tempo e dai chilometri
sparsi sulla sua divisa a destreggiarsi tra panini, bottiglioni e
soppressate nella sua annoiata e celebrante litania:
“Biglietti!Biglietti prego”.
Che poi nient’altro è, a mia opinione, che una delle ultime
forme teatrali sopravvissute al mondo della televisione; prima
l’esclamativo a richiamare l’attenzione e tanto peggio per voi
se dormite, tanto con l’educazione successiva del prego, sempre
per gli stessi codici educativi, non si può proprio dire nulla.
Tiro fuori il portafoglio e così facendo senza accorgermene
estrapolo ricordi e profumi lontani ma a questo mondo racchiuso
in questo momento nello scompartimento conviviale mostro
solamente un tagliando unico per due persone, indicando al
controllore mia madre e accompagnando il tutto con una frase
maldestra quanto sonora del tipo “la signora è con me” con
voce stridula.
Il controllore, ligio sul lavoro quanto annoiato dal lavoro, si
rivela incurante verso altre realtà e sembra voler badare esclusivamente
nell’ accudire la sua opulenta esistenza da treno nazionale
e, senza lasciare presagire priorità alcuna, guarda fugacemente
il biglietto, sollevando lo sguardo mentre inclina a sorpresa
un poco la testa.
Sorpresa giustificata da quel che è venuto poi.
“Sono sua madre”…Eccola lì, più potente dell’impero, mia
madre colpisce ancora!
Tutti mi guardano, messo come sono al centro di un impietoso
coro greco che mi giudica e mi sovrasta.
In questa società, troppo avvezza alla tragedia, dove i figli
restano, per scelta o meno, a vivere nella casa dei genitori fino
a 40 anni, viene considerato gravissimo reato sociale il fatto di
andare in giro con i propri genitori. Se hai compiuto trenta
anni, ma forse ne bastano anche venti, non puoi andare in giro
con tua madre e tuo padre, i tuoi genitori che ti pagano le bollette,
senza essere immediatamente ed automaticamente incluso
nella categoria dei rimbambiti senza possibilità alcuna. Al cospetto
di questa disonorata società sono loro che ti portano in
giro: tu sei un rimbambito. Punto e basta. Salvo complicazioni
di salute che non si augurano mai a nessuno. Ora queste complicazioni
sussistono anche qui, ma sono di natura tali che non
sto certo a sbandierarle in piazza o nella piazza che è diventato
questo scompartimento mentre tutto il convivio da purgatorio
dantesco è celere a spostare l’attenzione su di me senza farsi
troppo pregare.
Il viaggio è il purgatorio della destinazione ma non sempre
è paradiso dove si arriva.
A rendere più belle le cose ci frega sempre la memoria, ricordiamo
bene solo quello che è rimasto positivamente impresso
nella nostra corteccia neutrale come d’altronde tendiamo a
dimenticare tutto quello che di negativo appare nella nostre
vite. Seppelliamo quegli eventi sotto parole pesanti e greche
come trauma, per far ricchi analisti, psicanalisti e altre persone
convinte di giocare con la mente umana come bambini che
costruiscono castelli con il lego. Lo dice anche Michel Houellebecq
anche se lui lo dice in francese.
Dalla mia io ho solo un italiano sporco senza esercito a difesa
di questa mia parlata ricca di impurità. Come d’altronde i
personaggi di Houllebecq sono tutti impiegati, gente del terziario
depressa e inaffidabile. Qualifiche adatte per la Francia, di
certo non giustificate per il mio profilo di attoreechelavorofai
per mangiare?
Io come personaggio vado bene per il depresso e l’inaffidabile,
sempre alla ricerca del lavoro della vita… e invece gettato
lì a collaborazioni occasionali; partner lavorativo, altro
che sessuale.
Grazie a te, Massi… qui mi sento “a casa” e credo che anche i nostri autori si sentano a proprio agio.
Ho letto il romanzo di Francesco con piacere vivo e sono curiosa di vedere il film, che uscirà il 18 giugno prossimo.
Vi invito a vederlo e magari riapriremo la discussione…
@ Fabio Izzo
Grazie per aver inserito il brano, caro Fabio.
E grazie anche a Maria Lucia.
Aspettiamo l’uscita del film tratto dal romanzo di Francesco. Sarà un piacere riassaporarne la storia sul grande schermo.
Grazie a te per lo spazio dedicatomi e più in generale per lo spazio dedicato alla letteratura campana, che come vedi è un tema che mi sta a cuore:)
Arrivo tardi, vedo, ma cerco di recuperare comunque.
@Massimo: L’idea del titolo, come avrai ascoltato, la spiego ( o almeno cerco di spiegarla) nell’intervista su Radio 3.
L’infanzia delle cose è il loro senso di ingenuità, la poetica della loro persistenza.
Qui copia/incollo la prima paginetta del romanzo.
Questa è la mano di mia madre.
Le dita secche secche puzzano ancora di detersivo, tiene lo smalto viola sulle unghie, e l’unica bruciatura rimasta è quella sul polso, quella che si è fatta per prendere il capretto di ieri sera dal forno.
È fredda questa mano, la pelle sulle vene del dorso pare che sta azzeccata con lo scotch, tanto che se non tremasse ogni tanto sembrerebbe la mano di un morto qualunque.
Invece è la mano di mia madre che dorme: si è messa dentro al letto mio perché si è litigata con Erika.
Prima le ho sentite gridare come due pazze scatenate: si è rotta la lavatrice, e dal balcone della cucina è sprofondato quel fiume di detersivo fino a sopra al marciapiede di fronte, sulle scale della chiesa.
La gitana di sotto stava seduta fuori con la radio e armeggiava con l’antenna per prendere una stazione decente, la teneva sulle ginocchia, e non ha fatto in tempo a scansarsi.
«No hay derecho, no hay derecho!»
Ha detto così una decina di volte, piangendo, e allora mia madre che come al solito non capisce le ha chiesto a Erika che cosa significava.
Erika ha detto che significa siete la sfaccimma della gente, e allora lei si è tolta l’anello e le ha dato uno schiaffo con la mano smerza. L’ho sentito pure io, che stavo nel bagno chiuso dentro.
Quando mia madre si litiga con Erika significa che sta triste, che sta depressa, che si è bevuta tutta la bottiglia del limoncello con la scusa di metterlo un poco nel capretto per dare il sapore, significa che non vuole stare più qui perché qui non capisce niente.
Erika l’ha presa per i capelli e se l’è trascinata fuori al balcone, ha detto vedi che hai combinato, guarda qua. Poi stava buttando a terra la porta del bagno.
Prenditi a tua madre ha detto.
Io sono uscito con l’accappatoio sopra ai vestiti, per far vedere che mi stavo facendo la doccia: fuori al balcone stava mia madre piangendo come una bambina con le mani sopra alla faccia, e poi con le mani faceva così e così per scacciare le bolle di sapone che salivano su dalla strada, dal fiume di detersivo appantanato sotto alle scale della chiesa.
Quando sono usciti i bambini del catechismo le bolle sono diventate mille, salivano verso di noi più grosse e più belle, venivano a schiattarsi contro alla parete del palazzo con un rumore secco, assordante, le voci dei bambini che hanno appena detto un Padre Nostro e quattro Ave Marie.
A mia madre quando dorme si addormentano le mani, io che non lo sapevo da bambino mi pigliavo sempre uno spavento a vederla dormire.
All’improvviso stende le braccia nel sonno, e gira le mani, le fa muovere, le fa ballare come se avesse le cuffie dentro alle orecchie, le cassette con le canzoni cantate da mio padre.
Adesso per evitarle la coreografia le prendo la mano prima che si addormenti, me la tengo sopra al petto, e ogni tanto le do un pizzico, però piano, poi prendo l’altra mano, che puzza ancora di detersivo, e me la bacio, le dico piano piano nell’orecchio che è tutt’apposto, che Birra Peroni ha chiamato ieri sera da Napoli e, io non gliel’ho ancora detto solo per non farla preoccupare, ma hanno quasi deciso di far salire pure a Zia Consiglia perché lei non vuole restare da sola e ha messo il Si loca fuori al vico della casa di San Rocco, quel cartone viola che teneva preparato dentro al mobile del soggiorno, ogni volta che succedeva qualche guaio, ogni volta che papà si presentava a casa sua e diceva che teneva i problemi.
È tutto apposto mamma, non devi stare così, a poco a poco vedi che le cose si aggiustano come volevi tu e poi io non te lo posso dire per non farti preoccupare, non te lo dico perché lo sai già, lo sai che l’ho visto.
La mano di mia madre a volte risponde.
Mi fa una carezza solo lei che a me però non mi dice niente, mi fa quasi paura perché quella carezza mi fa tremare pure a me, mi fa addormentare e poi non posso dire più niente.
Caro Alessio, non è mai troppo tardi per intervenire su Letteratitudine.
Grazie per il brano che ci hai offerto.