Nel nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” ci occupiamo di un volume che non è – in effetti – un saggio letterario (in senso stretto), ma che (attraverso storie di incontri con scrittori americani) aiuta a comprendere meglio la letteratura prodotta da autori del calibro di Philip Roth, Richard Ford, Paula Fox, Judith Thurman, David Foster Wallace, Joseph Mitchell, Mavis Gallant, James Purdy, Raymond Carver, Mordecai Richler e Karen Blixen.
Il libro si intitola “Non scrivere di me“, l’ha scritto Livia Manera Sambuy ed è pubblicato dalla Feltrinelli. Di seguito, un’intervista all’autrice.
Le prime pagine del libro sono disponibili qui.
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NON SCRIVERE DI ME, di Livia Manera Sambuy
Pochi conoscono Philip Roth come Livia Manera Sambuy. Dice di lei Dave Eggers: “Livia Manera Sambuy ci consegna un ritratto di Philip Roth tra i migliori che abbia mai letto – scritto splendidamente, personale, intimo eppure rispettoso. I suoi ritratti sono di una dignità e di un rigore straordinari, e la sua conoscenza della letteratura contemporanea resta senza pari.” Livia è una giornalista letteraria che scrive sul “Corriere della Sera” (ha vissuto tra Milano e New York; ora vive tra Parigi e la Toscana). Al suo attivo ha, tra le altre cose, la realizzazione di due film documentari su Philip Roth. E il titolo del suo libro, “Non scrivere di me” (Feltrinelli), ha a che fare – per l’appunto – con lo strettissimo rapporto intrattenuto con il celebre scrittore americano che, a un certo punto, le intimò di non scrivere più di lui. In alcuni casi, però, un divieto equivale a un invito. Di questa equivalenza si è servita Livia Manera che, all’interno di questo coinvolgente volume (consigliatissimo agli amanti della letteratura americana… ma non solo), ha aperto ampie e illuminanti finestre sulla produzione artistica e sulle esistenze di Roth e di altri autori e autrici (da Richard Ford a Paula Fox, da Judith Thurman a David Foster Wallace, da Joseph Mitchell a Mavis Gallant… e poi, ancora: Purdy, Carver, Richler, Blixen).
Ho avuto il piacere di discuterne con l’autrice…
– Cara Livia, nelle prime pagine del libro racconti come nasce “Non scrivere di me”. Perché hai deciso di scriverlo proprio adesso, in questa fase della tua vita?
La crisi del 2008 ha cambiato la vita di quasi tutti i giornalisti. Prima, fermarsi per scrivere un libro era una scelta interessante ma improduttiva dal punto di vista economico. Dopo, le cose sono cambiate. E’ il lavoro giornalistico ad essere diventato economicamente improduttivo. Ma come tutte le crisi, lo scossone del cambiamento ha aperto nuove possibilità. Io avevo l’impressione di avere raggiunto, nel mio lavoro di giornalista letteraria per il Corriere della Sera, più o meno il massimo di quello a cui potevo ambire. E da tempo avevo voglia di qualcosa di nuovo, e soprattutto di qualcosa da imparare. E così ho fatto due film documentari e ho scritto un libro. L’idea del libro era di dare un senso al lavoro che avevo svolto fino ad allora, un senso che toccasse corde più profonde e personali. Non, insomma, di pubblicare una raccolta dei miei articoli. Ed è così che ho incominciato a scrivere il libro che nella mia testa si è chiamato per due anni “Making sense” (titolo intraducibile) e che è poi uscito col titolo “Non scrivere di me”: per rileggere la mia esperienza di persona, lettrice e giornalista letteraria, alla luce di qualcosa che andasse al di fuori degli schemi della critica o del giornalismo. E ho scelto la formula americana della “narrative non fiction”, cioè dei racconti dal vero.
– In che cosa la letteratura nordamericana si differisce da quella prodotta in altri paesi e in altre zone del mondo, a tuo avviso? Qual è il suo elemento caratterizzante (ammesso che ne esista uno)?
Domanda difficilissima: dovrei essere più ferrata sulla letteratura contemporanea di altri paesi per rispondere seriamente. Posso dire però che nella narrativa americana c’è un certo pragmatismo che trovo meno altrove: un’altissima professionalità dello scrivere con cui gli autori sono obbligati a confrontare le proprie ambizioni artistiche. Questa a mio avviso è un’ottima cosa, perché áncora la scrittura alla realtà e aiuta i lettori a decifrarla. In Francia, invece, uno scrittore o un regista sono in primo luogo artisti e solo in secondo luogo dei professionisti. E questo espone facilmente a una certa auto indulgenza.
– New York e Parigi sono due mete ambitissime da parte di scrittori e intellettuali. Tu le conosci molto bene. In cosa si assomigliano e in cosa si differenziano le due città, in relazione al rapporto con le scrittrici e gli scrittori che vi abitano?
Non si somigliano in nulla. New York è aperta, competitiva, “workaholic” e giovane nello spirito, ahimè, fortemente capitalistico. Parigi è la tradizione, ha una società chiusa, guarda poco “altrove”, ma essere intellettuali e poveri a Parigi è una medaglia. Ambedue sono internazionali, ma Parigi non lo sa, sembra addirittura ignorare di avere l’opzione di trasformarsi nella capitale culturale d’Europa – se solo riconoscesse gli elementi stranieri che compongono la sua società artistica e letteraria. Faccio un esempio. Una scrittrice come Mavis Gallant, che era canadese, è rimasta quasi sconosciuta ai francesi, pur avendo vissuto a Parigi per sessantacinque anni. Un giorno Bernard Pivot l’ha invitata alla sua celebre trasmissione sui libri “Apostrophes”. E solo allora i vicini di Rue Ferrandoni hanno scoperto che la signora che da quarant’anni abitava al secondo piano era una delle più grandi scrittrici di racconti del mondo. Faccio fatica a immaginare che la stessa cosa possa succedere a Londra, o Roma, o Berlino.
– Domanda analoga con riferimento alle scrittrici e gli scrittori che racconti nel libro. C’è qualcosa che, in un modo o nell’altro, li accomuna tutti?
Sono diversissimi tra loro, come qualunque essere umano. Gallant intelligentissima, insofferente, spiritosa. Thurman molto intellettuale, sofisticata, piena di “Jewish wit”. Wallace disperato e introverso. Ford amabilissimo e sanguigno. Mitchell un ammutinato gentile. Purdy fiero della sua debolezza. Fox una sopravvissuta, piena di una saggezza al di fuori degli schemi. E Roth seducente, manipolatore, capriccioso, intenso e fedele. No: nulla li accomuna, a parte l’essere delle creature tormentate dalla malattia dello scrivere, con tutto ciò che comporta: ansie, frustrazioni, soddisfazioni occasionali, genio.
– Pensando a Philip Roth: cosa ti rimane, più di ogni altra cosa, del rapporto con il Roth scrittore? E con l’uomo?
Del Roth scrittore mi rimane la straordinaria esperienza di avere letto (e in alcuni casi riletto) tutta la sua opera in ordine cronologico, nell’edizione della Modern Library. Trentuno libri sono una maratona gigantesca, ma anche una chiave di accesso unica a ciò che rappresenta il mondo di un autore. L’ho fatto all’epoca in cui preparavo per ARTE il documentario “Philip Roth: una storia americana”, che poi è stato pubblicato da Feltrinelli Real Cinema. La gente pensa che Roth si sia aperto con me perché ci conoscevamo così bene da essere diventati complici. Ma non conoscono Roth. Si è aperto con me perché ero diventata la sua memoria: conoscevo la sua opera meglio di lui, si potrebbe dire con una battuta. Perché un segreto degli scrittori è che odiano rileggersi, e se possono evitano. Io in quei mesi gli ho fatto da sponda e da specchio. Ci siamo divertiti.
Del Roth uomo, invece, mi sono rimasti un affetto e una complicità molto profondi. E’ uno dei punti di riferimento della mia vita – e non parlo professionalmente.
– C’è qualcuno, tra gli autori presenti nel libro, con cui ti sei sentita più affine? E per quale motivo?
“Non scrivere di me” è un gioco di specchi. Ogni racconto contiene la scoperta di un’affinità con l’autore che ne è protagonista. Con Judith Thurman un certo rapportarsi al mondo attraverso la lente psicanalitica e quella femminile. Con Paula Fox il riconoscersi in certi valori non scontati. Con Mavis Gallant uno sguardo ironico verso una realtà piuttosto dura. Con Roth l’inseparabilità di mente ed eros. Solo con David Foster Wallace non ho trovato alcuna affinità. Non sarebbe stato possibile: era troppo chiuso nella sua ansia, la sua paranoia, l’infelicità che avrebbero finito per ucciderlo.
– Trovo che la copertina del libro sia particolarmente bella. Ti andrebbe di commentarla?
E’ una copertina molto efficace che devo all’Art Director della Feltrinelli Giordano Guerri. E’ lui che ha scelto Adrian Tomine nella scuderia dei disegnatori del New Yorker, e insieme abbiamo approvato questo particolare disegno. E’ un’arte, quella delle copertine, che io non conosco. Ma so che questa particolare copertina ha “parlato” all’immaginazione di molti lettori e anche a quella di alcuni critici che ne hanno scritto (non succede mai). C’è la notte, c’è New York, c’è l’intimità di una conversazione a due, c’è una rivisitazione di Edward Hopper. Solo dopo avere visto il libro pubblicato ho capito quanto fosse azzeccata. E’ questo il mistero dei libri. Tu, autore, hai bisogno della distanza dello sguardo degli altri, per capire cos’è l’oggetto che ti sta davanti e che porta il tuo nome.
– Lo abbiamo già accennato prima: tra le varie cose che hai fatto, hai realizzato due film documentari su Philip Roth. Hai in programma di realizzarne di ulteriori, magari su qualcun altro degli scrittori protagonisti di questo libro?
Vorrei farne uno su Mavis Gallant e ho cercato anche di farne uno su Richard Ford, ma è molto difficile, anche se le trattative sono ancora aperte. Persino in Francia, dove lo Stato finanzia generosamente il cinema. La verità è che gli scrittori sono poco seguiti in televisione. E forse è giusto così. Il loro mezzo espressivo è un altro. Non sono attori. A parte Roth, naturalmente, che è un vero istrione. Ma lui si diverte a essere un bastian contrario su tutto. E’ la sua forza. Non ti pare?
– Credo proprio di sì, cara Livia. Grazie di tutto!
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Livia Manera Sambuy è una giornalista letteraria che scrive sul “Corriere della Sera”. Ha realizzato due film documentari su Philip Roth. Ha vissuto tra Milano e New York, ora vive tra Parigi e la Toscana. Philip Roth. Una storia americana è stato pubblicato da Feltrinelli nella collana di dvd “Real Cinema” nel 2013.
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