Pietro Treccagnoli vive a Napoli e lavora a «Il Mattino». Ha scritto “Non lo chiamano veleno” (Avagliano, 2006). “Non sono mai partito” è il suo secondo romanzo (Cento Autori, pagg. 112, euro 10).
In questo nuovo libro Treccagnoli tratteggia un viaggio a cavallo tra i favolosi anni Sessanta e un ’77 troppo presto dimenticato, tra terroristi e figli dei fiori, tra un passato di rivoluzioni vere o sognate e un presente da reality show.
Su l’Indice dei libri del mese Vincenzo Aiello ne parla così:
«Dopo l’esordio narrativo del 2006 con Non lo chiamano veleno (Avagliano), dove la mafia dei Casalesi veniva vista – ante Gomorra – sotto la lente narrativa di un noir livido e ironico, con Non sono mai partito, Pietro Treccagnoli torna a parlarci, con la sua lingua saporitamente narrativa, di questo oggi fatto di reality finti e di finte realtà. L’autore fa questo ricorrendo a due registri narrativi. Il primo vede protagonista il commissario Ascione in pensione che cerca, su invito di un padre, il di lui figlio Serafino, un fricchettone del 1977, che al momento del rapimento Moro era sparito da Giugliano per andare a liberare lo statista democristiano. Nell’altro controcanto metaletterario si trova un cinquantenne che, dopo trent’anni da quegli avvenimenti, spinto da una figlia quindicenne, si spinge a ricordare i suoi sogni che diventarono presto bisogni”. (…) Il pastiche dialettale si sposa con un buon italiano, in un esperimento narrativo, che al di là dei fatti narrati, è la vera cifra di questo alfabeto giuglianese che sa di mele annurche e di scampie».
Ne parliamo in maniera approfondita con lo stesso autore e con Simonetta Santamaria e Francesco Di Domenico, che hanno recensito il libro e mi aiuteranno ad animare e moderare la discussione.
Vi propongo un paio di domande per avviare un dibattito collaterale sui temi affrontati dal libro:
Fino a che punto è possibile liberarsi dei fantasmi del proprio passato?
Ma poi è giusto tentare di liberarsene?
Non è meglio conviverci, correndo il rischio di dover ammettere a se stessi: non sono mai partito?
Di seguito, le recensioni della Santamaria e di Di Domenico.
Massimo Maugeri
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NON SONO MAI PARTITO
recensione di Francesco Di Domenico
Un pesante scarpone, che calpesta un pesante passato, fa’ da prima di copertina a questo viaggio in una valigia mai disfatta, di Pietro Treccagnoli.
Un libro a due voci narranti, che viaggiano parallelamente nel tempo di ieri, quello dei 50enni di oggi, a cui sembra mancare, paradossalmente, proprio il passato, quello prossimo.
Sono i 20enni del ’77, l’ultima generazione politica, una generazione fluida, di cerniera con quella sessantottina, e l’altra, dell’edonismo e del riflusso, quella della Milano da bere e della vita, “da bere”.
Le voci che si rincorrono e si accavallano sono, una: quella del Commissario Ascione, personaggio già usato nell’opera d’esordio del giornalista Treccagnoli (“Non lo chiamano veleno – Avagliano Editore”).
Un poliziotto in pensione, arido e cattivo, che per scacciare la noia del riposo forzato s’incammina svogliatamente in un’indagine non autorizzata, un’inchiesta che serve solo a se stesso per sentirsi vivo. Attraverso la ricerca di un uomo, scomparso 30 anni prima, “Ascione” scopre di essere sopravvissuto solo alla sua blanda vita.
L’altra voce narrante, che si va ad incastrare nell’inchiesta su di una scomparsa di un ragazzo, figura retorica di “quel tempo”, possiamo ben credere che sia quella dell’autore che entra nel passato per trovare risposte a domande mai poste su quella che è anche la sua generazione, scoprendo che, quelli dell’77, differentemente dai fratelli maggiori, nelle loro battaglie, tra goliardia e falso rivoluzionarismo, non rinnegavano il padre biologico, ma quello politico: il mastodonte Pci.
P.T. Cerca di penetrare nei meccanismi culturali che fecero di quella fascia giovanile, la prima delle “generazioni perdenti”. La ricerca della libertà culturale, senza la sofferenza della lotta, che era stata bandiera del ’68 (ce n’est q’un debut, continuon le combat…) fu uno dei pilastri della “generazione degli sballati”. Da Bologna a Roma, i ragazzi del ’77, inventarono forme di proteste a due dimensioni, o estremamente goliardiche, o fortemente violente, con la tragica deriva terroristica. Quello fu anche il confine tra la cosiddetta “violenza proletaria” e la neo “violenza tecnologica”, quando Toni Negri affermava: “…la geometrica bellezza del Sequestro Moro…”
“Non sono mai partito” è due cose, un amarcord personale e politico allo stesso tempo, con nessuna verosimiglianza con un concomitante libro uscito su Bologna di Brizzi.
Treccagnoli penetra in quel periodo con la cognizione di chi “c’era”, usando con orgoglio il linguaggio delle radici e il napoletano dell’interland, intercettando quello che si parla oggi nei suburbi partenopei, dove il rifiuto della lingua nazionale è anche sinonimo di rivolta, non politica, ma di contiguità con lo “stato che funziona”, quello del malaffare.
E’ un libro coraggioso dal punto di vista linguistico, vi si legge il frutto di una ricerca, ricca anche di memoria, sarà sicuramente comprensibile, come lo è stato il milanese di Dario Fò per noi del Sud e il linguaggio di Troisi per il Nord.
Francesco Di Domenico
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NON SONO MAI PARTITO
recensione di Simonetta Santamaria
Leggendo questo libro, per prima cosa mi sono detta: ma il passato non passa mai? Perché è così, gente: il passato è continuamente tra noi, rievocato, celebrato, spesso rimpianto. Eternato, si dovrebbe chiamare, in realtà.
Ed è proprio quella sensazione di un’immersione nel passato, anzi di una serie di immersioni, che ha regnato per tutta la durata di Non sono mai partito, il secondo romanzo del giornalista napoletano Pietro Treccagnoli. Un passato neppure troppo lontano, quello che appartiene agli anni ’70, almeno per noi che li abbiamo vissuti e che a dirlo, questo numero, ci pare ancora ieri. Tutti incentrati sull’omicidio di Aldo Moro, le Brigate Rosse, Autonomia Operaia, la Democrazia Cristiana, le radio libere, le canzoni alternative, gli spinelli. Gli Anni di Piombo. I giovani che non hanno vissuto il ’68 ci si sono potuti rifare; anche loro volevano cambiare il mondo, imporre i loro ideali, darsi alla politica sovversiva. In città come in provincia, alla periferia della Rivoluzione.
E tra questi c’era Serafino, il co-protagonista del romanzo che invece, in quel fatidico 1978, si mette in testa di sfidare le BR e liberare Aldo Moro. E sparisce. Considerato da tutti uno “fuori”, Serafino incarna il vero anticonformista di quell’epoca, il libero pensatore, quello che remava da solo col suo canottino nell’enorme mare delle convenzioni. E, a distanza di trent’anni, un padre che non si dà pace coinvolge in una sorta di ricerca postuma il sonnolento commissario Ascione che il suo mestiere l’ha fatto e ora vorrebbe godersi la pensione “senza fa’ ‘nu cazzo”. In realtà Ascione è un rozzo individuo asociale e omofobo che resta pur sempre un poliziotto, anche se in disarmo, e che attraverso Serafino rivive i suoi stessi ricordi di quel ’78 in cui sentiva anche lui di essere senza fili, avere il mondo in mano e l’eternità in tasca. Una gimcana tra l’America on the road e l’Italia dei rioni, Eric Clapton e Claudio Lolli, Oggi le Comiche e un reality dall’impronta politico-sociologica che vuole ispirarsi al rapimento di Moro per dare ai cinquantenni di oggi – quelli stravaccati sul divano in pantofole e telecomando – un po’ di come eravamo, una presa di amarcord che scuota i neuroni e riattivi le sinapsi e che serva a far a dire ai loro figli, non senza una punta di vanto: io c’ero.
Senza per questo volergli affibbiare delle etichette, definirei Non sono mai partito un noir partenopeo, con le sue incursioni marcate in un dialetto che sfocia spesso nello slang di periferia e che, se da un lato rischia di togliergli leggibilità se a leggerlo non è un napoletano, dall’altro lo inquadra con precisione fotografica. Un tocco molto apprezzato dalla sottoscritta, devo ammettere. Ho trovato nella genuinità di questo romanzo il suo punto di forza: quella dei suoi personaggi, del loro linguaggio, la scelta di ricorrere nelle giusti dosi anche al lessico grezzo che i ragazzi di ieri definivano semplicemente anticonformista. Niente è cambiato, se non dei numeri su una data.
E altrettanto apprezzata è stata la sorpresa della splendida playlist che compare a pagina 105: già pillole delle canzoni di quegli anni si spandono in tutto il testo miscelandosi ai dialoghi e alle descrizioni, a volte creando gustosi calembour del tipo “Santa voglia di vivere e dolce venere di rimmel. E rimmélle, rimmélle” (E dimmelo, dimmelo). Ma vederle tutte lì, in fila, ti fa davvero venire una attacco di senile tenerezza a ripensare a quel cantautore o a quel testo mai dimenticato ma magari solo riposto nello scantinato della memoria.
Perché il passato non passa mai davvero.
Simonetta Santamaria
Intanto ringrazio Simonetta Santamaria e Francesco Di Domenico per le recensioni inviatemi.
Dò il benvenuto a PietroTreccagnoli, con l’augurio che possa svilupparsi un dibattito interessante e stimolante partendo proprio dal suo nuovo libro.
Parleremo, dunque, del nuovo romanzo di Treccagnoli (“Non sono mai partito”, Cento Autori), approfittando della presenza dell’autore.
Contestualmente proverei a indirizzare la discussione generale ponendo le seguenti domande (per certi versi correlate alle tematiche trattate dal libro)…
Fino a che punto è possibile liberarsi dei fantasmi del proprio passato?
Ma poi è giusto tentare di liberarsene?
Non è meglio conviverci, correndo il rischio di dover ammettere a se stessi: non sono mai partito?
@ Pietro Treccagnoli
Caro Pietro, una prima domanda per te:
Non sono mai partito è un titolo “evocativo”… che si fa ricordare…
Perché l’hai scelto?
Qual è il suo significato profondo?
@ Pietro Treccagnoli
Seconda domanda per te.
Una delle caratteristiche importantidi questo tuo nuovo libro è “l’impianto linguistico”: il dialetto, frammisto alla lingua italiana.
Ti chiedo: secondo te in un romanzo, oggi, che peso bisogna dare al “plot”? E che peso al linguaggio?
Ne approfitto per invitarvi a dire la vostra sul 25 aprile. Ne parliamo qui: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/24/25-aprile/
Per il momento chiudo qui. Auguro buon pomeriggio a tutti.
Pronti, partenza… VIA!! 😉
La recensione di Simonetta è stre-pi-to-sa. Quella di Didò lascia molto a desiderare…
…a desiderare di torcergli il collo. Ma questo quando mai ha lavorato? Se ha trascorso tutto questo tempo a studiare critica letteraria…
Caspita che recensioni!
La tentazione di stare zitto è troppo forte, ma devo resistere, anche perché Massimo mi chiama direttamente in causa. E mi corre l’obbligo di ringraziare sia lui che fa da padrone di casa, che Simonetta e Francesco.
Allora, il titolo.
“Non sono mai partito” è tratto da un verso di “Grapefruit moon”, una canzone di Tom Waits. “Non ho mai avuto una meta, non sono neanche mai partito”. Gioca anche sul doppio senso di “partito”, inteso come partito politico, quindi vuole puntare sul “movimneto” che allora, negli anni Settanta, era un totem e un sogno.
Quasi tutti i miei persongaggi non partono. Lo fa solo Serafino, il più folle con il suo progetto folle. Serafino parte. Gli altri restano nel loro piccolo mondo.
Il dialetto.
E’ vero, uso un pastiche strano. La forma grammaticale è la più corretta possibile per una lingua, come il napoletano, che manca di standardizzazione, e per questo è e resta un dialetto, nonostante la sua ricchezza letteraria e musicale, la sua ampia diffusione territoriale e l’uso mai interrotto nei secoli.
A livello lessicale il mio napoletano è un miscuglio strano tra gerghi giovanili, arcaismi giuglianesi e invenzioni secretate. Mi era impossibile far parlare i personaggi con una lingua diversa, avendo scelto una narrazione in prima persona.
Il plot.
Non sono un fanatico del plot. Il romanzo, come ci ha insegnato Kundera, deve essere intraducibile in qualsiasi altra forma narrativa, come il cinema o altro. Ma il plot c’è sempre, seppure esile. Per me, citando Kubrick, grande trasformatore di romanzi in cinema, non è importante quello che si racconta, ma come lo si racconta.
Tanti auguri all’autore. Non ho letto il libro, ma sembra molto interessante e credo che lo acquisterò. Le recensioni invogliano.
Le domande di Massimo…..
Fino a che punto è possibile liberarsi dei fantasmi del proprio passato?
“Dai fantasmi non ci si libera mai, è impossibile farli fuori”
Ma poi è giusto tentare di liberarsene?
Non è meglio conviverci, correndo il rischio di dover ammettere a se stessi: non sono mai partito?
“Bisogna tentare di liberarsene, ma come dicevo l’impresa è ardua. Si può tentare di conviverci provando a dimenticarli. Anche se non è facile”
I fantasmi?
E’ vero il passato tende a prendere la forma di un fantasma, quando non è risolto, in qualche modo. Ma io quegli anni non li ricordo come un tormento, neanche come la giovinezza spensierata. Erano anni complessi. Quando ci ritorno con il pensiero, rivedo tanti colori. E invece li ripropongono sempre in bianco e nero (sarà colpa della tv di allora, ancora senza reality e paillettes), anzi grigi, come il piombo.
Per Pietro Treccagnoli.
Secondo lei quali sono gli aspetti positivi e negativi degli anni che racconta nel suo romanzo?
Meglio quel periodo o quello dei nostri giorni?
Grazie in anticipo per le risposte.
Non si può leggere tutto, vero? Soprattutto quando, per la salvaguardia della propria Memoria e dei suoi tempi di decantazione, ci si è proposti di stare alla larga dagli amici scrittori.
Qui però la faccenda è serissima e le recensioni raccolgono a giro ampio il senso di quegli anni, che ancora oggi determinano e condizionano i nostri.
“ma il passato non passa mai ?” chiede Simonoir “perché è così, gente: il passato è continuamente tra noi, rievocato, celebrato, spesso rimpianto. ETERNATO, si dovrebbe chiamare in realtà”
In realtà è così perché noi, la nostra generazione era e continua ad essere una generazione di violenti. Non sono parole mie, ma di mia nipote. Quando la incalzavo perché si guardasse attorno e partecipasse un po’ attivamente ad altro, oltre la sola scuola…lei mi rispose proprio così: voi continuate ad essere una generazione di violenti che s’impone in ogni contesto, anche quello privato. E così ho pensato alla mia generazione al di là dell’ideologico; ho ripercorso il privato fino ad oggi: ha ragione lei. Siamo assoluti anche nella “leggerezza” delle nostre acrobatiche riconversioni a U.
a dopo
Mammamà, Angela, che domanda.
Sarò breve. Gli anni settanta sono stati anni di grande creatività (musicale e artistica in genere), ma anche di grandi battaglie (vinte) per i diritti civili. Questo è l’aspetto positivo principale. Ma sono stati anche anni molto ideologizzati: o con me o contro di me. Poche sfumature e troppe chiacchiere. E poca voglia di fare gruppo. Sono stati anni di individualismo. La scoperta del “soggetto”, del “personale è politico” diventò, nonostante la grande forza teorica, una trappola. Ognuno per sé. Ci fu una frammentazione suicida del movimento. Se ci si ritrovava in quattro si era capaci di fondare otto gruppi politici diversi.
Ma per fortuna non c’era solo la politica. Anzi.
Meglio ieri o meglio oggi?
Oggi, oggi, oggi. Nonostante che il reality si sia sostituito alla realtà. Meglio oggi perché la giovinezza è un’età lirica della quale bisogna liberarsi. Io ho provato a farlo anche con questo libro.
@ Pietro Treccagnoli
Quali sono secondo lei i principali stereotipi che condizionano una equilibrata visione degli anni Settanta? E con quali di questi stereotipi ha dovuto maggiormente lottare per non appesantire il suo romanzo? La lingua da lei usata nel libro è un impasto che fa i conti anche con il linguaggio giovanile di quegli anni? Grazie.
Auguro tanta buona fortuna al suo romanzo “Non sono mai partito”.
@ Miriam: è vero, pare anche a me che la generazione di oggi tenda a evitare di affrontare le cose “a muso duro”; non so se è per sfiducia o caratterialmente per indolenza… Loro hanno sì dei loro ideali ma non credo agirebbero come hanno fatto i ragazzi del ’68 o degli anni ’70. Anche loro non tollerano le imposizioni e tendono a non imporsi. Che siano più coerenti di noi?
Forse però sì, forse si tratta anche di sfiducia.
@Gaetano Failla
Lo stereotipo più forte che pesa su quegli anni è quello che li vuole solo anni di terrorismo e di violenza. C’era molta fantasia, che non è mai andata al potere.
Il mio è un romanzo, non un saggio. Non ho analizzato quegli anni. Ho provato a risognarli, giocando con il confronto con questi anni di plastica.
La lingua.
C’è una parte del gergo di quegli anni. Ma ho preferito lavorare su una lingua immaginaria, ambiziosamente letteraria, che mescolasse alto e basso. Ho pensato a Stefano D’Arrigo e, scusate la presunzione, a Rabelais.
@ Pietro: è perché ti vuoi liberare della tua giovinezza? Io la ritengo il mio prezioso passaporto verso i momenti di follia che mi pigliano… 😉
Siamo così assoluti che per noi non esiste futuro. Questa mattina, per esempio, sul blog dello “stregone” ho letto due paroline di commento ad un brano postato: Se padri e madri ascoltano questa musica, ai figli non resterà che Mozart!
Come a dire che per la naturale legge di contrapposizione fra padri e figli, a tanto deciso rock si può solo rispondere… Con Mozart? Con un musicista del passato? L’esempio è una cretinata, proprio una piccolissima cosa, però è significativo di un pensiero: nessuno sarà mai giovane come lo siamo stati noi.
“Il futuro c’è! E’ tipico dei vecchi precluderlo” è stato il mio commento.
E noi, in ogni ambito “tiriamo sempre diritto”, ci piacciono i giovani che ci scimmiottano: che bello se i giovani leggessero Pavese , Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, caro.
🙂
Ciao Didò! e un caro saluto a tutti
@ Marco: “Fino a che punto è possibile liberarsi dei fantasmi del proprio passato? “Dai fantasmi non ci si libera mai, è impossibile farli fuori”” E hai proprio ragione. E io sono una che di fantasmi se ne intende… 😉
Simonetta: io sono felicissima che non siano come noi! Hanno bisogno di spazio, però!
Noi abbiamo combinato un sacco di c… e continuiamo imperterriti.
Ho appena letto Scurati e il suo pregante e straordinario libro “Il bambino che sognava la fine del mondo”; lui affronta con decisione proprio questo mondo da Colonne infami e il suo ricercare va diritto nei disastri prodotti dalla nostra generazione. L’accusa più forte è verso chi insegna nelle università, nei prof. (miei coetanei) che assecondano, mistificano, pretendono e impongono la propria figura in tutti i modi che conosciamo (proprio tutti!)
Sono informata, che fra i numerosi autori più o meno emergenti e più o meno della mia età, ci si sostiene criticando ogni autore un pochino più affermato, ho letto le cretinate scritte contro Scurati; ma io il suo libro lo consiglio ai giovani, altro che Il mal di vivere. Il bambino, appena sveglio, cercava il fuoco.
@Simonetta
Non ho mai creduto al fanciullino pascoliano. Il discorso sarebbe lunghissimo. Anche un po’ scontato.
La giovinezza è talvolta eroica (e povero quel popolo che ha bisogno di eroi, diceva più o meno Brecht), ma spesso lirica. E’ fatta per i poeti. Poi si cresce, i vent’anni non li trovi più. Trovi la maturità che è un grande bene. Preferisco le pesche ai fiori di pesco, l’estate alla primavera, il sesso alla seduzione. La giovinezza ha troppe cose davanti. E’ faticosa. Ripensarla è più divertente. Ma per ripensarla devi esserne fuori.
Io credo che nei giovani di oggi prevalga un clima di sfiducia. Non ci sono più grandi ideali da perseguire, né muri da abbattere, ancor meno grandi utopie da rincorrere. Mi pare si sia venuto a creare un appiattimento dei valori, una certa rassegnazione determinata dal livello politico verso il basso. Allora c’era una sinistra degli onesti, un partito diverso in cui riporre la fiducia per una società migliore. Oggi si scopre che in fondo i partiti sono fatti di uomini, e gli uomini sono tutti tendenzialmente corruttibili. Prima si identificava in Andreotti il diavolo da ricacciare all’inferno, ora lo spauracchio è Berlusconi. Dall’altra parte c’è il marasma totale. Andreotti vota per la sinistra, e spesso diventa determinante per la sinistra. Che tristezza. E’ chiaro che il mio è un discorso di carattere generale, ci sono ancora giovani che hanno voglia di rendersi protagonisti, di dire la loro anche in maniera forte ma la sensazione è brutta, molto brutta, le leggi sul precariato debilitano la voglia di combattere; le misure restrittive sulle intercettazioni telefoniche cominciano a sfibrare anche i magistrati più tosti. Che c’azzecca tutto questo con il romanzo di Treccagnoli? Boh, non lo so. Spero di sì. Ma non avendolo letto non saprei cosa dire. Però, se lo consiglia Francesco lo leggo sicuramente. Lo compro al Salone di Torino. L’altra volta mi è venuto dietro (Francesco), peggio di un’ombra malefica, fino a quando non sono passato allo stand della Cento Autori per comprare il suo libro.
“Lo hai comprato il mio libro?”.
“Sì”.
“Uno solo?”
“Non basta?”
“E per tua sorella?”.
“Ma quale min… di sorella, se sono figlio unico”.
@ Pietro: per carità, il prototipo di fanciullo pascoliano è ben lontano dalla mia concezione di giovinezza. E concordo con te sul fatto che sia faticosa (io lo vedo con i miei figli) e che la maturità ha i suoi vantaggi. Però quelle incursioni nel passato mi piacciono; mi aiutano a combattere quelli che dicono “ma che devi fare, sei vecchia per…” (alla faccia loro!) Mi aiutano a sentirmi me stessa, con un piede qui e uno lì, e mi aiutano a capire i miei ragazzi, con i quali condivido diverse passioni (e anche qui mi sento dire “tu vuoi fare la moderna…). Ma che significa? Io voglio fare… me stessa, quella che ancora a scolta l’hard rock, che porta le bandane con i teschi quando va in moto. Certo, ormai ne siamo fuori ma un affondo ogni tanto in quegli anni mi piace concedermelo. Regressione senile? Forse…
@Miriam
Beh, se le orecchie e il cervello si abituano alla musiaca di Mozart non va mica male, neanche per i giovani, anzi. Ai giovani piace ascoltare tutto e anche Mozart, se li si appassiona.
@Pietro Treccagnoli
mi è molto piaciuto il riferimento al plot, a Kubrik e al “come si racconta” rispetto a ciò che si racconta. Non avendo letto il libro, non posso capire appieno in che modo il plot è “meno importante” del “linguaggio”= “il come” ( dico bene?).
Mi ha colpito anche il riferimento a Rabelais. In che modo nel suo romanzo si mescolano “l’alto” e “il basso”? C’è il napoletano+ un ottimo italiano, dicono le recensioni. Nel senso che i personaggi “parlano” come nella vita? E il “narratore” no?
@Miriam
Ps: anche leggere Pavese mica farebbe male, anzi.
@ Roberta:
ma certo! e poi suonano anche di più, rispetto ai nostri primi strimpellamenti. I cori, le corali e le bande registrano una grande presenza di giovani. Ma il punto non è questo. Bensì : solo dei prepotenti non riescono ad immaginare una musica eccellente o superiore per qualità ed innovazione a quella prodotta da loro.
Meditiamo…
Prepotentissimi e cattivi, ecco quello che siamo
🙂
@ Pietro Treccagnoli,
anche perché il Pascoli non era proprio un cresciuto fanciullino buono e gentile; ho letto la sua corrispondenza sul Sole 24 di domenica, uomo piuttosto meschinetto.
@ Salvo:
c’azzecca, c’azzecca il libro di Treccagnoli ! Se penso alle letture che gli ex-giovani, in qualità di prof. propongono ai loro allievi…c’azzecca proprio.
Ora che sono a casa ho più tempo per pensare e rispondere.
Mi aspetta un piatto di alici fritte. E l’Ascione che è in me già s’ascevulésce. Bando alle ciance, però.
@Simonetta
Ho tirato fuori il fanciullino un po’ provocatoriamente, l’ammetto. Io sono stato giovane, ma sono guarito. Riesco a mantenere un bel rapporto con i miei figli adolescenti perché l’età lirica è alle mie spalle. Non rinnego niente. Anzi, quegli anni sono dentro di me, sono me. Ma io non devo dimostrare niente a nessuno, tantomeno a me stesso. Ho venticinque anni da ventiquattro anni.
p.s. Non ho mai amato molto l’hard rock. Credo che si capisca dalla playlist di “Non sono mai partito”.
@Roberta
Ho lavorato molto sulla lingua nei miei due romanzi. Soprattutto nel primo libro (“Non lo chiamano veleno”) dove il basso, il corpo, le scorie della vita e del mondo, sono il tema centrale. Nel secondo libro è stato tutto più facile, anche perché il livello di consapevolezza dei personaggi e il tema permettevano di “salire” verso una leggerezza e una purezza mai raggiunta e mai raggiungibile, sporcata solo dal peso che ognuno di noi ha sempre con sé. Ascione mi ha sempre tirato giù, insomma, nella materia sporca e sublime di cui siamo fatti.
I miei romanzi hanno sempre più voci narranti. Non c’è un narratore esterno (se non talvolta per sbaglio o necessità). In “Non sono mai partito” ci sono due narratori: Ascione, il volgare commissario oversize, e un’indefinita voce, che poi si confonde con tante altre voci, anonima e più acculturata.
Il narratore sono io. E sono tutte le voci.
@Miriam
I poeti (e gli scrittori) sono sempre peggiori delle loro opere, anche delle loro peggiori opere. Deludono sempre. Io leggo i miei libri come se li avessero scritti altri. E le hanno scritte altri. Ché non sono più io.
@ Roberta:
Pavese, per un giovane grande ( grande) sì, ma Pavese è un decadente e in questo nostro momento di caduta, il suo spirito è addirittura grottesco.
Un po’ come dire: giovani questo nostro mondo va a p…, non sappiamo nemmeno se avremo un futuro, tutto sta scivolando, Lavorare Stanca ed è tutto un Mal di vivere, leggete Pavese e poi cercate di cavarvela.
Ai giovani consiglio: Houellebecq!
🙂 Ho scherzato un po’, ma il senso c’è.
Ora vi lascio
Caro Pietro, grazie per essere intervenuto.
Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che hanno partecipato alla discussione fino a questo momento: Simonetta, Salvo, Marco, Angela, Miriam, Gaetano, Roberta.
Didò è ammunito, visto che non si è ancora presentato:-))
Pietro, tu hai citato Stefano D’Arrigo…
Amo molto D’Arrigo. Lo considero uno dei più grandi autori del Novecento.
La sua opera principale è frutto di un lavoro di decenni attraverso il quale ha inventato un linguaggio tutto nuovo.
Certo, questa invenzione linguistica l’ha un po’ penalizzato per le traduzioni all’estero.
Pietro, pensi che la scelta di inventarti un tuo “pastiche” linguistico potrebbe creare qualche difficoltà per eventuali traduzioni in altri paesi?
A proposito di linguaggio e del tuo romanzo, caro Pietro…
Sarebbe possibile inserire – qui tra i commenti – qualche brano estrapolato dal libro?
Giusto per farlo assaggiare ai lettori di Letteratitudine (ma solo se è possibile e compatibilmente con le esigenze dell’editore)…
È una cosa che chiedo spesso ai miei ospiti.
Bene. Per il momento sono costretto a chiudere qui.
Voi continuate pure. Io tornerò domani.
Auguro a tutti una serena notte.
@Massimo
Ho letto “Horcynus Orca” a 16 anni, nel 1975, quando fu pubblicato. Mi ha segnato per tutta la vita.
Ogni lingua va inventata. Tradurre in un’altra lingua i miei romanzi? Sarà dura, ma sarebbe divertente vedere cosa ne uscirebbe. La torre di Babele.
Un brano? Ora cerco nella mia versione. Una pagina basta.
Be’, metto un passo del libro. Ma non facciamolo sapere a Cento Autori…
Scusate per qualche trattino di troppo, ma l’ho cavato da un vecchio file word.
La stagione di Zi’ Maméca durò solo i primi mesi del ’78. Freddo, strade nebbiose del Basso Aversano, auto con i vetri appannati e vino da quattro soldi, salami e capicolli ruspanti, melanzane sott’olio, sottaceti, minestre di scarole. Cene che ora chiamerebbero alternative, slow food. Non ricordo come si scate-nò la moda di andarci a sperdere tra quelle case di campagna e di paese, tra San Marcellino, Parete o Trentola Ducenta e chi sa quale altro buco del culo del mondo. Fu un passaparola. Cominciarono certi compagni di Napoli, neanche ragazzi, ma avvocati, giudici, architetti e perditempo, con le loro barbe, le pipe e le mogli con le gonne larghe a fiori, un po’ fricchettone che oggi si atteggerebbero a etniche. La voce che da Zi’ Maméca si mangiava a poco e bene ci arrivò una sera qualunque, mentre si fumava seduti sulla spalliera di una panchina, stretti nei nostri montgomery, nei loden e negli eskimo per trovare un po’ di calore, prima che il fumo facesse effetto.
“Sarà uno di quei posti di merda per campagnuoli, cosa volete che sia ‘sta Zi’ Maméca?”. C’era sempre il disfattista. Fatto è che nelle cantine tra Licante e Camposcino non ci facevano più entrare, ci avevano sgamato che ci sparavamo joint e cannoni come se fossimo a Kingston. E per quei quattro vecchi, tra erba, eroina e tubercolosi la differenza manco c’era. Eravamo degli appestati. Via, via, qua si beve solo vino e si gioca a tressette.
“Andiamoci da questa Zi’ Maméca, proviamola”, prima un mormorio, poi un coro.
Serafino in quei mesi stava tutto il giorno ad applicarsi con chiavette e altre fissazioni sue attorno alla Vespa scassata. Per lo più la teneva fermata sul marciapiede e si accaniva con cacciaviti, pinze e girabacchini a smontare pezzi, pulirli con un panno spor-co di grasso e rimontarli. Sentiva e non sentiva le nostre chiac-chiere, perché canticchiava, stonando, canzoncelle sue, mischiando Peppino Gagliardi con Fabrizio De André. La sera che dec-demmo per Zi’ Maméca lui non c’era e così la prima volta non venne.
Ci imbarcammo in cinque in una Renault 4 e andammo sempre dritto. Dopo il cimitero, dopo Sant’Antuono, cominciammo a sperderci tra le case, i campi scuri di mele, le scarse luci dei lampioni che allungavano come braccia mostruose le ombre delle viti a spalliera dell’uva asprina. In quelle strade di merda non c’era nessuno per chiedere. Ma gira di qua e gira di là finimmo tra le prime masserie di un paese qualunque. Capimmo che l’avevamo ingarrata solo perché c’erano delle finestre a pianterreno con i neon accesi e alcune auto ferme fuori, con le ruote tra i bàsoli della strada e i cazzimbocchi del marciapiede.
“Siamo arrivati”. Perché si andava e si arrivava così, senza conoscere le mete e senza fare troppe domande. Chiamare anche taverna lo stanzone con quattro tavoli di fòrmica coperti da incerate luride era un esercizio di precoce ammirazione per il paupe-rismo, filosofia della miseria. Il vino era pessimo, ma per sballare, passandoci tre o quattro canne, andava di lusso. L’obiettivo era farsi, ché l’etilometro non stava nemmeno nei sogni della Stradale e anche trent’anni dopo non s’è mai visto una vera divisa in quei lìmmeti asfaltati che chiamavano strade. A dirci cosa c’era da mangiare arrivava un contadino, il figlio di zi’ Maméca, forse. Di solito ci proponeva salsicce, capicolli e sopressate, pe-corino secco, pasta con il ragù e roba che facevano loro. Quando, sparsa la voce della cantina popolare, quei pochi tavoli si riemp-rono di facce che ambivano allo snobbismo, cominciammo a ri-fugiarci nella cucina. Lei, sempre se era lei zi’ Maméca, quella chiattona con un mantesino a fiori infarinato e schizzato di ragù, i capelli bianchi accrocchiati dietro la nuca e tenuti fermi con una pettenessa di metallo, lei ci accoglieva in silenzio. La cucina era anche più grande della sala. Una camerata militare, con al centro un tavolo di legno attorno al quale ci si sedeva a come capitava. E i piatti passavano dai fornelli al tavolo, consegnati con un gesto rapido e svogliato. I salami restavano davanti a noi e potevamo tagliarcene quanto ne volevamo. L’unica rottura di cazzo era che non si poteva fumare, neanche sigarette o pipe, figuriamoci le canne. Allora si stava a chiacchiare aspettando che il vinaccio, che ci versavamo dalla brocca di vetro dove galleggiavano mu-schilli e altri insetti schiattati dal tannino, ci guastasse lo stomaco, l’alito e il cervello.
In piazza si cominciò a diffondere la fama di Zi’ Maméca. E arrivò anche all’orecchio di Serafino che cominciò a mettere da parte i suoi attrezzi per montare e smontare la Vespa e ci ascolta-va in silenzio. Fino a quando, una sera, vedendoci salire sulla so-lita auto rimediata da qualche fratello, fatta la colletta per la benzina, Serafino ci chiese di venire pure lui.
“E perché no, Serafì? Ma non c’è posto”.
Salimmo, ci tirammo la portiera, lo salutammo e partimmo. Se-rafino si pulì le mani sul jeans, si strinse la sciapetta al collo, aguzzò la vista come uno sparviero, montò sulla Vespa e via a inseguirci, come in un film americano. Che ci veniva dietro non ce n’accorgemmo subito. Eravamo già oltre Parete. C’era una nebbiolina che in quelle strade scure faceva compagnia e ci costringeva a nun ‘ncasà ‘o père ‘ncopp’all’accelleratore. Piano, piano, che sto rollando.
Fui io a voltarmi e a vedere dal lunotto posteriore la luce traballante di un fanale. Non stetti a pensarci più di tanto. Ogni tanto guardavo. Fino a che si avvicinò a noi e la luce cominciò a riflettersi fastidiosamente sullo specchietto retrovisore.
“Guarda a stu scemo”, sbottò Gennaro che stava guidando la 127 verde di suo fratello. “È cazzo ca me fa sbandà e fernimme dint’a nu contrafuosso”.
Rallentò per farlo passare. E la Vespa ci sfilò accanto. Vedemmo Serafino in sella che guardava avanti. La sciarpa a proteggersi mezza faccia. E correva. Senza girarsi, senza fare un cenno, come un fantasma.
“Ma è isso?” chiese incredulo Gennaro.
“Sì, è Serafino ca porta ‘a Vespa” risposi.
“E addò va?”, incalzò Gennaro. Gli altri erano già persi nel loro trip. Meglio arrivarci già fatti da Zi’ Maméca, che se si finiva in cucina, avevamo finito di pazziare.
Serafino non andava mai da nessuna parte. Quella notte si dimenticò di tutto, di noi, della cantina, del fumo. C’erano solo lui, la strada, la nebbia e la Vespa.
Poi non vedemmo più neanche la luce rossa del fanalino poste-riore. Solo nebbiolina di marzo. Acquazza che cadeva e sarebbe caduta per anni.
Bella pagina, davvero bella. Complimenti. Mi viene voglia di leggere il libro.
(E che apprendistato! “Horcynus Orca” a 16 anni!)
Grazie per la risposta. Bellissima pagina. Complimenti.
Grazie Gaetano, grazie Angela.
@Maugeri, e a tutti: ero di corvée, ma per come è andato il dibattito e, con nessuno o quasi che è riuscito a leggere ancora il libro penso stia andando benissimo.
Io potrei essere ininfluente al fine anche perchè Pietro, nonostante gli impegni al giornale, è stato molto presente e lo ringraziamo.
Non furono formidabili quegli anni, forse Pietro ha ragione.
La generazione nata intorno al ’60 visse una delle più grosse frustrazioni culturali della storia del secolo breve.
Quei giovani vissero in un’epoca dove i loro fratelli maggiori avevano già strutturato una forma di rivoluzione culturale, a loro toccava solo eseguirla; qualcuno, prima di loro, aveva cominciato già a mettere in discussione non più i padri biologici, ma quelli politici (“Enrico Berlinguer, ci dicono dal Cile, che il Compromesso Storico, lo fanno col fucile!”);
il rock era gia stato raffinato, come la grappa, non era più duro e greve ma aveva melodie più sinfoniche e ricercate (Genesis; Soft Machine; Van Deer Graaf Generator; Who; Jethro Tull;Traffic…);
le ragazze erano già state vaccinate dalle loro sorelle più grandi, le groupies, e si davano (la davano) più facilmente.
Questa melassa insorgente, provocò uno smarrimento generalizzato, una crepa nel pensiero (che restava di sinistra, diciamo sinistrorso) e fu li che s’insinuò la goliardica deriva delle droghe, dapprima leggere e antistato, poi pesanti e antiuomo, come le mine.
@Francesco
E’ intressante la prospettiva con la quali provi a leggere il movimento e la generazione degli ultimi anni settanta. Ma fu davvero un senso di appagamento a far naufragare tutto nella droga e nel terrorismo? Può essere.
Ma c’è molto altro. Di tutto questo altro voglio solo ricordare il peso che l’ideologia aveva sulla visione della realtà. Quando il “soggetto” cominciò a rivendicare i suoi “sogni e bisogni” dall’altra parte, dalla parte della vita sociale, irreggimentata in blocchi, non trovò risposte appaganti. Il personale tentava di diventare politico, ma si trasformò in privato.
Questo è uno dei tanti spunti. Ma quegli furono complessi e non sono stati mai analizzati a fondo, perché su di essi è calata una cappa di piombo.
Però, io, ripeto, ho provato a scrivere un romanzo e non un saggio politico.
@Pietro T.,
sicuramente è un romanzo epperò, come tutte le narrazioni, porta nel suo corpo vivo sangue e viscere dell’autore; incubi latenti; molari dondolanti è mai estirpati (sono in tema, ieri ne ho estratto uno).
E, buon’ultimo, il rapporto con la lingua madre.
Io non sono d’accordo sul fatto che il napoletano non sia una lingua. E’ vero che sono passati 400 anni da quando il nostro illustre concittadino Giambattista Basile, codificò che essa è lingua è ha dignità letteraria a tutti gli effetti (per concittadino intendo Giugliano in Campania) e che ha subito modifiche e contaminazioni strutturali o ibridazioni, ma quello è successo anche per l’ex toscano, ora italiano.
Sicuramente oggi un racconto scritto in napoletano porterebbe strascichi di meticciato linguistico forti, ma resta una lingua di enorme dignità.
…
D’accordo sulla mancata analisi di quegli anni, ma perchè il corpo intero della “sinistra” ha lasciato che l’analisi fosse fatta solo dalla destra neocon, scontrandosi a muso duro ogni qualvolta si aprissero spiragli di dibattito e per la, purtroppo, deriva delinquenziale che subì il socialismo italiano, troppo legato alle vicende giudiziarie.
Se ci fosse stato un post-craxismo culturale oggi non saremmo qui a discutere e ad ammettere colpe a cambiali.
…
Scappo ancora, per lo splendido Castel Sant’Elmo sulla collina del Vomero, dove tra poco si presenta, all’interno della rassegna “Comicon 2009″, un’altra affascinante avventura, la presentazione dell'”Enciclopedia degli Scrittori Inesistenti” – Boopen Editore, un’altra follia satirico umoristica a cui ho indegnamente partecipato.
A più tardi.
Benarrivato, Didò. Grazie per i tuoi spunti.
@ Pietro
Hai letto l’ “Horcynus Orca” a 16 anni?
Caspita! Tanto di cappello. Io, lo confesso, un po’ più tardi…
Grazie per il bel brano che hai inserito, caro Pietro.
Oggi è il 25 aprile.
Vi invito a dire qualcosa qui: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/24/25-aprile/
Se ne avete voglia, s’intende…
In una piazza con giardini vicino a casa mia, a Milano, durante la guerra, fu ucciso un partigiano, credo. Nell’immediato dopoguerra, nei giardini di quella piazza fu piantata una bellissima rosa che diventò un cespuglio. Era la “memoria perenne” di una violenza terrificante. Era un omaggio a chi aveva amato più di ogni altra cosa la libertà dal nazifascismo ed era un modo silenzioso e gentile di ricordare e di far ricordare. Quella pianta, col ricordo di quel partigiano, ha accompagnato tutta la mia giovinezza e oltre. Bene, oggi non esiste più. Esiste un palo di legno, con una scritta cattiva e volgare. Non più la rosa.
Scusate l’assenza, sono fuori e senza connessione, reinterverrò in serata! Grazie e buon sabato a tutti!!
@Francesco
Rispondo solo sulla lingua. Per il resto potremmo andare avanti per giorni, tirando fuori sempre cose interessanti. E’ che mi sento poco capace di pensare in termini analitici quel periodo.
Il napoletano, quindi. Non esistono norme condivise universalmente sulla definizione di lingua e dialetto. Prevalgono spesso valutazioni orgogliose e un po’ campanilistiche. Per distinguere una lingua da un dialetto (e tra le due non c’è una gerarchia di dignità letteraria) i sociolinguisti si affidano a quattro criteri: la vetustà della lingua, l’esistenza di una letteratura scritta, la diffusione e la standardizzazione. Il napoletano risponde ai primi tre criteri. E’ una lingua antichissima (perlomeno quanto l’italiano), ha una straordinaria letteratura (fatta anche di testi per canzoni) ed è parlato attivamente ancora oggi da almeno 5 milioni di persone (quanto il finlandese, il danese e l’irlandese; pensa che l’islandese considerato a tutti i livelli una lingua è parlato da meno di 300mila persone, Giugliano e dintroni, in pratica). Il napoletano non risponde al quarto criterio: la standardizzazione. Basta sfogliare le opere dei maggiori autori napoletani tra Ottocento e Novecento per rendersene subito conto. O peggio ancora oggi: ognuno lo scrive come vuole, soprattutto sul web, ma anche in libri a stampa. Non esiste una grammatica che detti le regole. Non esistono canoni letterari condivisi. Universalmente si fa riferimento a De Filippo che pure, confrontando le varie edizioni dei suoi testi, cambia alcune forme grammaticali e lessicali di volta in volta. Esiste poi una divaricazione forte (anche a livello fonetico) tra lingua borghese e colta (la cosiddetta “lengua molle”) e quella popolare (e ancor di più con quella contadina e provinciale, detta comunemnete “lengua tosta”). E’ un casino. Come si fa a chiamare una lingua una parlata su cui nessuno è d’accordo su come si scrive?
@Massimo
Di “Horcynus Orca” ho ancora conservata, come reliquia, l’edizione del 1975 che lessi in una lunga estate, sprofondato tra i sudori di un divano in similpelle rossa.
@Massimo
Ho un forte legame con “Horcynus Orca”. Qualche anno fa (diciamo cinque), stuzzicato dai frequentatori di un mio blog che affido a un alter-ego metà Jean-Paul Sartre e metà Orson Welles, scrissi qualcosa su questo magico libro.
Te lo ripropongo qui, così com’è, con tutta l’ingenuità della scrittura da blog.
——–
Non l’ho più riletto, “Horcynus Orca”. Ma nella mente ho chiare le imprese di ‘Ndrja Cambria, l’astuzia delle fere, il potere malefico dell’orca, il dolidoli finale degli sbarbatelli che si perde nel buio, quando i remi affondano là dove il mare è mare.
Avevo letto per la prima volta di “Horcynus Orca” in un letto d’ospedale. Avevo quattordici-quindici anni. Era stato operato di appendicectomia. Sfogliando una rivista, credo “Epoca”, lessi un servizio di Domenico Porzio che raccontava la grande fatica di Stefano D’Arrigo che, dopo vent’anni di scrittura, stava completando il suo romanzo. Mi colpì l’immagine di quell’uomo con le occhiaie scavate. Ce l’ho ancora vive nella memoria quelle pagine, che poi ho conservato per anni e ho perso in qualche trasloco. Quando il libro uscì, dopo pochi mesi, lo comprai subito. Allora, conoscevo poca letteratura, quello che può saperne un quindicenne. Avevo letto e amato Pirandello, forse avevo già letto Sartre e Camus. Di sicuro m’ero perso negli arcipelaghi di Solzenicyn. E quel poco di Omero l’avevo appreso dalle antologie scolastiche. Ero già, comunque un lettore forte. Borges era ancora di là a venire, come Céline, Garcia Marquez, Vargas Llosa e forse pure Svevo. Comunque sia, ero un adolescente con pochi strumenti interpretativi.
La prima edizione, che custodisco come una reliquia, era della Mondadori: sovracopertina grigio-verdina con un margine blu. Pagine leggerissime come la seta. Nessuna parola di presentazione, né introduzione, né testi sulle alette. Solo il nome dell’autore, il titolo e l’editore. Dentro c’era un foglietto di carta rigida, ripiegato in tre (è ancora lì, sicuro) che dava qualche scarna indicazione del libro. Poi la dedica: “A Jutta che meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano”.
Per leggerlo tutto impiegai l’intero mese di agosto. Un mese straordinario. Non feci nessuna vacanza quell’anno. Ho avuto un’infanzia un po’ alla David Copperfield e di ferie non se ne parlava in casa mia. Steso sul divano di similpelle che il sudore mi attaccava alla t-shirt, ho fatto uno dei viaggi più straordinari della mia vita.
Non voglio fare ora un’esegesi del romanzo. Voglio dire che dopo averlo letto ho smesso di sognare di fare lo scrittore. E’ la stessa sensazione che ho avuto anni dopo leggendo Roland Barthes e Jorge Luis Borges. Se non si è capaci di scrivere meglio di così è inutile tentare, mi dissi con la mia precoce sagacia.
Un linguaggio potente che ho ritrovato solo poche altre volte, quello di “Horcynus Orca”. Qualche mese fa ho comprato la riedizione della Rizzoli, con la lunga introduzione di Walter Pedullà. E’ sempre qui, accanto a me, la sfoglio, leggo qualche pagina e m’immergo in un mare di beatuitudine letteraria. Sì, trent’anni dopo, mi emoziona ancora. Ma avrò la forza di rileggerlo un’altra volta almeno?
Caro Pietro, ho sempre considerato “Horcynus Orca” come uno dei capolavori massimi della letteratura mondiale. Bellissimo il tuo pezzo. Grazie per averlo condiviso.
Fai bene a custodire come una reliquia la prima edizione Mondadori.
Prima o poi dedicherò un post a Stefano D’arrigo.
Vorrei soffermarmi sulla copertina di “Non sono mai partito”.
Sfondo rosso. Falce e martello in giallo. Sopra, un rosso più intenso (sangue?). E poi l’impornta nera della suola di una scarpa.
Cosa vi evoca questa copertina?
E a te, Pietro?
Per il momento devo chiudere qui.
Auguro buon pomeriggio e buon fine settimana a tutti.
La copertina.
Non è un modo per calpestare un simbolo sicuramente glorioso e, in gran parte, vilipeso dei suoi stessi seguaci.
L’impronta vuole evocare una partenza.
Il sangue c’è, perché c’era.
Io sono di ritorno da un bagno di folla, non per la simpatica novità letteraria, ma per l’incredibile afflusso di ragazzi al “Comicon”, è dovuta intervenire la protezione civile per bloccare gli ingressi!
…
@pietro,
questo volevo sulla lingua nostra: grazie!
(tra l’altro io sono uno che non si rifà per niente alle radici partenopee, ma ‘o sangue è sangue)
…
La copertina è un buon 5% del libro, è molto bella ed evocativa e racconta buona parte della narrazione, condivido.
Complimenti per il brano che ho letto sul post di sopra.
Gentile Pietro Treccagnoli, ci sono connessioni tra questo romanzo e quello precedente?
Possono leggersi in maniera slegata l’uno dall’altro?
@Filippo
I due romanzi possono essere tranquillamnete letti separatamente. Hanno un personaggio in comune, il commissarrio Ascione, che nel primo ha ruolo secondario e che invece qui è il co-protagonista. Lo scenario (il Giuglianese) è lo stesso, ma gli anni sono diversi. La lingua si somiglia. L’argomento è diversissimo, L’autore è lo stesso…
caro Massimo, il libro non l’ho letto ma il titolo, hai ragione, è evocativo. Anche la Non-partenza è a suo modo una partenza. Perchè ci si muove anche da fermi. A volte ancora di più. Ma non so se questo può avere un nesso con quanto trattato all’interno del libro. Un abbraccio, (oggi è anche il 25 aprile.)
Elisabetta
non ho letto il libro ma mi è venuta voglia di leggerlo. buon 25/4
Non sono mai partito… che titolo evocativo!
Rimanere, manere, restare, è resistenza. Oggi c’azzecca, direi. Troppo comoda la fuga. Dai problemi, dalla guerra, dalla giovinezza. Da se stessi.
Io sono classe 1973, quindi non ho vissuto quegli anni e non riesco a farmene una vera idea se non da libri e documentari, giustamente si commentava prima, scoloriti e plumbei.
Massi, a quando il post su D’Arrigo? Se lo merita…
Grazie a Treccagnoli per le sue considerazioni su lingua e dialetto… mi ha riportata a quando studiavo linguistica generale e ha fatto affiorare il mai sopito amore verso il mio dialetto, il siciliano, che avrebbe potuto essere la lingua italiana se solo Federico II, mannaggia!
🙂
Mi piacciono anche le riflessioni su lingua e plot. Il linguaggio, la forma, per chi narra è tutto o quasi tutto. Ci sono romanzi dai plot ingarbugliatissimi che però non ti lasciano nulla, come certi blockbuster. Invece una lingua personale, creativa, riconoscibile, si fa ricordare quando anche la memoria della trama è scomparsa.
Come per la vita umana: dopo tutto il plot è anche prevedibile, ma è il come, cioè il nostro idioletto, il nostro modo di “parlarla” che dona valore ed unicità alle nostre vicende terrene.
Ancora sul titolo.
In aggiunta a quanto ho scritto in precedenti commenti, voglio solo ricordare (ricordare a me stesso) che quando ho scelto come titolo al romanzo “non sono mai partito”, ho pensato anche a George Bailey di “La vita è meravigliosa”. Lui desidera fare l’esploratore, ma è costretto a non partire mai dalla sua piccola città americana.
@Pietro Treccagnoli
E’ la sua seconda citazione cinematografica che mi fa pensare a lei come a un grande appassionato di cinema: Kubrik e ora Frank Capra: che film splendido “”La vita è meravigliosa”.
Arieccomi: che bella giornata di sole… E vedo con piacere che intanto i post si moltiplicano. A tal proposito azzardo a chiedere a Pietro: ho sentito nel tuo romanzo il sapore autobiografico, se non altro perché tu c’eri, eri la gioventù dell’epoca. Ma mi domandavo, c’è qualche personaggio che ti incarna maggiormente?
La butto lì, una pura curiosità.
P.S. Lo so, la tua playlist è bellissima, l’ho anche detto nella recensione,e molti di quei brani gloriosi sono anche nella mia attuale… Non solo hard rock, baby, ma anche! 😉
Non posso non leggere un autore che si dichiara estimatore di D’Arrigo, che piace anche a me 🙂
ho letto l’estratto, complimenti. anche per il titolo, che effettivamente è molto evocativo.
@Simonetta
“Non sono mai partito” non è testo autobiografico. Non c’è nessuno dei personaggi in cui io possa identificarmi. Ci sono molte cose che ho vissuto, perché facevano parte di quegli anni. Molte le ha vissuto un tizio che si chiama Pietro Treccagnoli che non aveva ancora vent’anni allora, ma che non sono io.
Non sono Serafino e Serafino non è nessuno in particolare.
E non sono neanche Ascione, anche se mi piacerebbe esserlo.
Il romanzo è sempre una finzione, che può far pensare alla realtà, ma deve sfuggirgli.
@Roberta
Sì, amo il cinema. Molto.
Il mio precedente romanzo “Non lo chiamano veleno” ha tutta una filigrana cinefila. A partire dai nomi dei personaggi: Belmondò, i Blues Brothers, Denzel Washington… con citazioni da “Le iene”, “Blade runner”, “Apocalypse now”, “I predatori dell’arca perduta” e “Ultimo tango a Parigi”.
Anche lì c’era una sostanziosa playlist musicale. Ma la musica ha uno spazio maggiore in “Non sono mai partito” che ha come totem cinematografico “L’ultimo valzer” di Martin Scorsese.
Lei ha ragione, caro Pietro. La musica e il cinema hanno molto a che fare con la scrittura.
Nel suo caso sono molto belle anche le pagine dei “ricordi”, quelli dell’ospedale+ l’agosto trascorso a leggere:
“Per leggerlo tutto impiegai l’intero mese di agosto. Un mese straordinario. Non feci nessuna vacanza quell’anno. Ho avuto un’infanzia un po’ alla David Copperfield e di ferie non se ne parlava in casa mia. Steso sul divano di similpelle che il sudore mi attaccava alla t-shirt, ho fatto uno dei viaggi più straordinari della mia vita”.
Se i suoi personaggi, Serafino+ Ascione, non sono “autobiografici”, a me sembra che anche le sue “memorie”, nel caso le scrivesse un giorno, sarebbe bello leggerle.
“La vita è meravigliosa”… che bel film!
Caro Treccagnoli,
ci posterebbe la playlist? Siamo tutti curiosi…
@ Pietro Treccagnoli
Ciao Pietro. Mi chiamo Rossella. Ho oltrepassato i quarant’anni ed i miei occhi hanno visto un pò tutto :donne magre e infiorate che aspettevano i ricciuti coaetanei sui prati, disponibili, fra belle canzoni intelligenti musicate dalla chitarre e la loro voglia di cambiare le ipocrisie del passato. Sono grata ai loro referendum, al femminismo ed alla voglia di valorizzare l’intelletto femminile e, nonostante i rifiuti della mia famiglia, ho continuato a guardarla questa generazione condividendone le ansie di mettersi sempre in viaggio, quasi fosse un nomadismo dell’anima, sempre alla ricerca di qualcosa da vedere e da provare e sì qualche volta mi sono anche innamorata di qualcuno di loro, noi giovani donne con i giubbotti di pelle nera e i capelli come i maschi li trovavamo interessanti, noi reginette degli anni ottanta, eravamo già state liberate dalle leggi e dalle riforme, il confronto divenne oltre che generazionale
anche culturale.
Così quand’ero ragazzina quelli del 68 li ho visti viaggiare dentro le fiat coi vetri appannati e sempre in quattro e con i capelli lunghi, poi mi sono passati sotto il naso dentro macchine straniere tirate a lucido con i capelli tagliati e in giacca e cravatta, alla fine li vedo ancora viaggiare canuti e con occhiali da sole sulle tecnologiche auto nipponiche. Spesso da soli.
Scusa Pietro ma dove cavolo vanno? Non mi dire che vagano ancora alla ricerca della libertà! …
Grande definizione quella che evidenzia il 68 come l'”anno contro il padre”. Con la p minuscola.
E poi ce li siamo ritrovati in tutte le salse, pop coi fiori anni settanta, pop coi monitor anni ottanta, pop da leader anni novanta, pop del nuovomillennio, mai arresi, si mettono ancora i blue jeans, non si stancano mai, due, tre mogli, vai con la musica, vai col cinema, in politica non mollano e indossano sempre panni diversi, saranno pure attivi e simpatici, ma non è che prendono il viagra? Voglio dire…che palle…basta…esiste anche la pensione. SCHERZO. Ciao
Rossella baci
Ringrazio tutti per i nuovi stimolanti commenti.
@ Maria Lucia
Mari, è da tempo che medito di dedicare un post a Stefano D’Arrigo… prima o poi lo pubblicherò:-)
Ehi… “La vita è meravigliosa” di Frank Capra è il mio film preferito!
(Grande James Stewart).
@Pietro,
la tua frequentazione (?), il tuo lavoro, alla redazione “Spettacoli” ti ha sicuramente aiutato nella brillante intuizione, che narri nel libro, del reality estremo; mi è sembrata preveggenza, infatti quando il libro non era ancora in tipografia, questi ultimi tipi di proposte di reality show terrificanti non erano neanche ancora pensati.
Ce ne parli (dopo l’alba, chiaramente)?
…
@ Pietro Treccagnoli
Caro Pietro, credo sia giunta l’ora di presentare il commissario Ascione.
Che tipo è, Ascione?
Quali sono i suoi pregi?
Quali i difetti?
Saluto Didò e tutti voi…
E buona domenica!
E il “Commissario Ascione”?
Lui è scorretto, volgare, più maresciallo che commissario (un commissario dovrebbe essere laureato in giurisprudenza), gretto, protervo e coerentemente sapiente – come lo vedo e racconto nella recensione – di avere avuto una vita “blanda”, io direi di merda: non ti sembra inverosimile?
E perchè vuoi farci credere di volergli assomigliare?
Pensi ad un rovescio, come in tante personalità?
O è una provocazione, come tutto il senso del romanzo?
@Massimo!!!
Postavamo insieme: è un bene, ci capiamo capo!
@Roberta
Caspita un libro di memorie! Ma tutto quello che scrivo è memoria. Però, scherzi a parte, anche la vita più banale è grande se la sai raccontare. Grazie, Roberta, della fiducia.
@Maria Lucia
La Playlist? Eccola
1. Tom Waits, “Grapefruit moon”.
2. Giorgio Gaber, “Qualcuno era comunista”.
3. Claudio Lolli, “Ho visto anche degli zingari felici”.
4. Gianni Morandi, “Occhi di ragazza”.
5. Eagles, “Hotel California”.
6. C.S.N.&Y., “Carry on”.
7. Francesco De Gregori, “Rimmel”.
8. Bob Marley, “No woman, no cry”.
9. Francesco Guccini, “Via Paolo Fabbri 43”.
10. Peter Frampton, “Baby, I love your way”.
11. Francesco Guccini, “Canzone quasi d’amore”.
12. Bob Dylan, “Forever young”.
13. The Band, “The night they drove old Dixie down”.
14. Nuova Compagnia Canto Popolare, “Trapenarella”.
15. America, “A horse with no name”.
16. Francesco Guccini, “Incontro”.
17. Mina, “Parole, parole”.
18. Stefano Rosso, “Una storia disonesta”.
19. Vasco Rossi, “Vita spericolata”.
20. Lucio Battisti, “Ancora tu”.
21. Eugenio Finardi, “La radio”.
22. Pink Floyd, “Shine on crazy diamond”.
23. Gianfranco Manfredi, “Ma chi ha detto che non c’è?”
24. Gianni Morandi, “Se perdo anche te”.
25. Adriano Celentano, “La storia di Serafino”.
26. Lucio Battisti, “Pensieri e parole”.
27. Banco, “Non mi rompete”.
28. Banco, “Dopo… niente è più lo stesso”.
29. Genesis, “Carpet crawlers”.
30. Edoardo Bennato, “E’ stata tua la colpa”.
31. Lucio Dalla, “Il Cucciolo Alfredo”.
32. Neil Young, “Hey hey, My my”.
33. Ray Charles, “That Lucky Old Sun”.
34. Procol Harum, “Whiter Shade of Pale”.
35. Mina, “Indifferentemente”.
36. Grace Jones, “La vie en rose”.
37. Claudio Lolli, “Piazza bella piazza”.
@Rossella
E’ bello il modo in cui descrivi quegli anni, visti dalla prospettiva del decennio successivo.
Però non è andata per tutti come tu la racconti. C’era davvero tanto, in nuce, in quegli anni settanta. Soprattutto c’era la voglia di dispedere (più che cambiare) un futuro che non ci piaceva. Poi ci hanno pensato gli altri a costruircene uno peggiore di quello che temevamo nei nostri attimi di lucidità.
@Massimo
“La vita è meravigliosa” è IL film. Cmq, se ti va, nelle “Info” del mio profilo su Facebook trovi una parte dei miei film preferiti. E anche dei libri. Sono stato evasivo sulla musica.
@Massimo e Didò
Ascione è un commissario venuto fuori per caso e necessità nel mio primo roamanzo, “Non lo chiamano veleno”. Era un personaggio secondario. Poi, con “Non sono mai partito”, ha avuto un ruolo centrale per necessità e non per caso.
Ascione è il nostro lato oscuro, al di là del bene e del male. Siamo noi stessi che, come nella novella di Pirandello, quando nessuno ci vede facciamo la carriola.
Volgare, omofobo, scapolo, arrapato perenne, dedito a piaceri singolari, convito che non fare e meglio che fare, tanto in qualche modo i casi si risolvono. A lui interessa solo il sesso, il cibo e vedere. Si arroga il diritto di essere il solo a guardare, come quando si è soli davanti alla tv. Tanto la vita cos’è? Quando, sul telecomnado della nostra esistenza, sarà premuto il tasto off svanirà tutto. Chi ci garantisce che non stiamo vedendo un programma tv?
Ascione è questo e altro.
Saluto Rossella e la sua “solita” simpatia, un po’ marpioncina. (Esiste anche la pensione, vero?) Eravamo e siamo, e mi ripeto, dei prepotenti degli assoluti, un po’ per necessità e un po’ perché non abbiamo imparato altro. In seconda liceo io venni sospesa quattro giorni, perché il preside mi beccò, sul cancello della scuola, con in mano L’unità (e non era nemmeno mia) e a parte tre o quattro compagni di classe, nessun altro manifestò la sua solidarietà…anzi mi guardarono proprio come si guarda ad un colpevole….sei mesi più tardi , tutti erano diventati più “rivoluzionari” di me . Occupazioni infinite, manifestazioni, gruppi di “studio” e per il resto del liceo non studiammo più. Però, quella pratica fu pedagogica, didattica: ci abituammo alla ricerca dello slogan, all’individuazione del leader (sempre più numerosi), agli statuti e agli “ordini del giorno”, a fare e rifare partiti e movimenti…
Così mitizzammo oltre ogni pudore il sessantotto, come grande movimento liberatorio, prolungandolo quasi all’infinito. In realtà, il 68 non era un inizio, di un qualcosa di assolutamente nuovo, ma la fine degli anni sessanta; ricchi, straordinari e “ricercatori”. A differenza di tutti gli altri nostri coetanei, in Italia, noi facemmo i conti con “il Mastodonte” che virò il tutto nella politica praticata e noi ci “ufficializzammo” , cristallizati in un perpetuo moto senza tempo.
E adesso siamo qui, non più in auto a sfrecciare diretti chissà dove, ma qui, davanti al pc. Dal Partito al Portatile.
@ Pietro Treccagnoli:
ho letto i tuoi interventi , le tue riflessioni su Ascione sono le stesse che probabilmente hanno ispirato ad Houellebecq la sua trilogia. Cosa ne pensi? il suo personaggio DAVIDE 1, 2, 3… 25, ha origine proprio negli anni di NOn sono mai partito. Volevo chiederti se conosci l’autore e se hai letto Particelle elementari e La possibilità di un isola?
Ciao, Miriam
@Miriam, Miriam,
sei riuscita a far diventare il “grigio” un colore: brava!
Un giorno qualcuno formerà l’ “Associazione Reduci del Pci”, non sarà un movimento di ex-comunisti, ma un istituto della memoria antropologico, di quella abbondante mezza Italia che regalò un’etica all’altra metà, ancora oggi condivisibile se fosse stata studiata a fondo.
Interessante la visione di miriam del 68 come una chiusura di un’ epoca (gli anni 60) e non come di apertura di quel che ne è seguito. Forse è stata una cosa e l’altra. Una chiusura trionfale e un’apertura a qualcosa di altro, con le sue rose e anche le sue spine.
@Miriam
Ho letto Houellebecq. Ho trovato straordinario “Le particelle elementari” e stucchevole (con alcune parti buone) “Le possibilità di un’isola”. Però Ascione è più rabelesiano, personaggio dai sentimenti bassi ma efficaci, materiale, va subito al sodo. Ragiona dalla cintola in giù.
Didò:
evamo dei pistolini e ci diedero importanza, forse troppa e poi si pentirono perché, infatti, tutto ritornò ai padri ( Cossiga, Scalfaro, Ciampi ecc); noi riprendemmo i gruppi di studio. E ancora stiamo studiando le formule leader: a tempo breve, lungo, indeterminato…
Si potrebbe ridere e scherzare all’infinito, ma Moro è lì , monolitico e gigante.
Ciao
@Rossella,
tu sei giusto quello che è venuto dopo, la IV generazione (se diamo per assunto che le generazioni dopo gli anni ’60 cominciano a contarsi ogni 5 anni; dopo gli anni ’80 si scende a tre, dopo il 2000, le generazioni sono come il pc, annuali).
Avete cominciato a “non leggere”, a sostituire John Travolta a Marcuse, era l’idiosincrasia, il “che palle”.
Forse siete la vera misura del nostro fallimento, ecco il punto, veramente dovremo cominciare ad aprire una discussione su “dove abbiamo sbagliato” e quando abbiamo cominciato a farlo.
…
Pietro ricorderà, perchè a quei tempi c’era, nella nostra piccola città, sul mitico “Chalet”, fulcro culturale del paese, una famosa, quasi scazzottata, sulla definizione de “Il nome della Rosa”, tra chi lo considerava la rifondazione del romanzo storico e chi diceva che fosse una cagata.
Ecco, allora ci si prendeva a pugni sulla letteratura.
Treccagnoli.
grazie. Condivido la tua opinione sull’Isola, ma penso sia frutto di una scelta comunicativa da parte dell’autore. Particelle è un testo tosto e non per tutti, ha il metro narrativo di un libro anni settanta; l’Isola invece è di più facile lettura e veste con immagini da “video games” il pensiero generato in Particelle. E’ stato realizzato anche un film, l’hai visto? Io, solo qualche spezzoncino su Youtube.
Ciao, qui tutto grigio e pioggia
Didò:
io tolsi il saluto a due per via di Hermann Hesse…
Buona domenica, gente!
Vi seguirò in trasferta, pranzo dal mio papà 86enne: quante ce ne siamo date, nei pressi del ’78… Gli anni contro “il padre” erano quelli della contestazione familiare, da lì è partito tutto e non si è più fermato. Contestazione è però una sana diversità di vedute, fisiologico conflitto generazionale che c’è sempre stato ma che prima del’68 non si aveva il coraggio di manifestare.
@ Didò: che belle, quelle discussioni sulla letteratura… Ne ho fatte di splendide anche con la mia prof di italiano, una con 4 paia di palle, io l’adoravo ma poi sulla politica mi facevo certe appiccicate…
Ma è domenica, mi mancano le battue di SALVO!! ZAP, DOVE SEI? Se hai finito di punzacchiare Didò ti offro il mio, di fianco, se ti aggrada… 😉 Anche se non so ancora se quando comprasti il libro di Didò hai preso pure il mio oppure… 🙁
A dopo!
*Francesco
Io ricordo discussioni interminabili sulla musica.
Quando uscì “Il nome della rosa” non frequentavo Chalet da diversi anni.
*Miriam
Non ho visto il film, ma non me rammarico. Mi è bastato il libro.
Pietro:
lui, però è partito alla grande! E come!!!
E il suo viaggio è nel futuro; i Daniel coprono 1000 ipotetici anni a partire dal nostro presente, che la nuova tecnologia ha reso “senza tempo”. Questa operazione offre ai lettori, soprattutto giovani la possibilità di una proiezione, i suoi libri aiutano a pensare. E poi, quando parlavi di stucchevolezza, a cosa ti riferivi: al suo attacco ferocissimo al misticismo? Alla “leggerezza” che liberandoci dalle responsabilità ci pone in una assenza di gravità morale e assoluta.
E il finale? metafora straodinaria e monito. Sono queste le cose stucchevoli?
resto qui, non preoccuparti…non me ne vado
Buona domenica
Oops…bellissima querelle stimolante, vi prego di continuare.
La domenica, molti amici di “Letteratidudine”, passano e sfogliano il blog senza intervenire, ma interessandosene comunque, non vi preoccupate, non siamo soli (anche se tra poco sarò io ad andare a lavorare).
…
Forse confondo chi ci fosse a quei ragionamenti sul “Nome della Rosa”, era il 1980, ma ricordo distintamente chi spintonava chi, e mi resta il ricordo bellissimo del ragionare “anche” sui libri, oltre chè sulla musica e sulle sue motivazioni politico/letterarie, qui ne abbiamo fatto un bel post alcuni mesi fa (vero Massimo?).
@Miriam
Ho trovato “La possibilità di un’isola” troppo artificiale. Non amo i romanzi a tesi, soprattutto se la tesi è avvolta in troppe astrusità. Per saper manovrare certi materiali bisogna avere la mano perfetta di Musil o anche di Hermann Broch, persino di Milan Kundera. Non si può costruire un romanzo con materiali di scarto spacciandoli per sapienza narrativa. Spesso, leggendolo, mi sono sentito come Totò nella famosa gag di Pasquale: vediamo questo dove vuole arrivare. Secondo me non va da nessuna parte. A “La possibilità di un’isola” manca la crudele semplicità di “Le particelle elementari”.
@Simonetta. Tra il fianco di Didò e il tuo…scelgo sicuramente il tuo. Se non ricordo male il tuo libro lo comprai alla fiera di Pisa, circa dieci anni fa, mi facesti pure la dedica, poi lo passai a Mistretta per recensirlo su”La Sicilia”. Sempre se non ricordo male, allora eri una ragazzina brufolosa al suo esordio letterario. Ora, mi dice Didò, sei diventata un’affascinante signora che scrive romanzi da far accapponare la pelle. Complimenti! (Gli altri pettegolezzi di Didò meglio non riferirli, sappiamo tutti che è una malalingua).
Per P. Treccagnoli.
Una curiosità. La sua scrittura può essere assimilata a quella di Camilleri? C’è qualche attinenza tra Ascione e Montalbano?
@Enzo Resca
Qualcosa c’è. C’è un commissario, certo. Ma Ascione rispetto a Montalbano è oversize, forse somiglia più a Homer Simpson.
Circa la lingua, il discorso è più complesso. Camilleri tutto sommato scrive in italiano. Mi spiego. Gli interventi dialettali di Camilleri sono in grandissima parte solo lessicali. Se si traducesse in italiano Camilleri ne verrebbe fuori una lingua sintatticamente italiana, molto pulita e forse standard nel costrutto, quasi televisiva. Invece io con il napoletano sono andato più a fondo. La mia lingua è strutturalmente contaminata. Io uso una sintassi napoletana anche quando scrivo in italiano. E quando scrivo in napoletano, la struttura del discorso è naturalmente paratattico, senza quasi subordinate, per capirci, com’è effettivamente il napoletano. Ma per quasi tutto il libro mescolo le due lingue, ne viene fuori una costruzione lessicale molto originale. Non è né napoletano né italiano. E’ una lingua sporcata e molto poetica, alla fine naturale e necessaria per questi personaggi. Questo discorso vale soprattutto per il mio primo romanzo, “Non lo chiamano veleno”, dove narrò di rifiuti tossici. E in quel caso ne è venuta fuori una lingua tossica, avvelenata e rigenerata nello stesso tempo.
Be’, l’ho fatta troppo lunga. Leggere i libri per capire.
a dire la verita’ non ho letto il libro , lo leggero’ ,ma mi piacerebbe cosi con ironia creare il titolo di un altro libro cosi in pochi secondi che potrebbe fare da controaltare insomma da contrapposizione bonaria ; ” il passato va ricordato elaborato rivissuto, capito condannato o no! ma il presente non si fa mancare proprio niente vero ! ” insomma due momenti storici lontani eppure cosi vicini , nella violenza, nell’ abbandono mentale e culturale , nella meccanizzazione dell’ uomo di un uomo che parla parla ! ma alla fine si rinchiude nella sua tana, nel suo orticello , moglie e amante figlio a scuola ,taglia il prato la domenica e dentro si corrode , non sara’ che parlare del presente del passato e del futuro e poi la stessa cosa ?
Ricordo sempre, e con piacere, gli anni settanta, perchè era il periodo dei miei 14-24 anni.
Quel che trovo non oggettivo è il raccontare SEMPRE quegli anni come anni in cui tutti leggevano libri, tutti (tranne pochi “fasci”) erano nel “movimento”, tutti erano alternativi, tutti schifavano i soldi di papà, tutti usavano il fumo, tutti andavano andavano in vacanza in campeggio a suonare le chitarre.
In realtà, in quasi tutti i licei il “movimento” era questo: 30 attivisti rossi che trascinavano al fancazzismo i restanti 270 studenti che rossi non erano. Diciamola tutta: quando l’assemblea era alle 13,30 (cioè dopo l’ orario di lezione) chi cacchio ci andava? Anche allora, ahimè, il Corriere dello sport era molto più letto del Manifesto. Per la gran parte dei 16enni, insomma, la F.G.C.I. era la Federazione Italiana Gioco Calcio.
Grazie della playlist… per motivi generazionali da alcune canzoni sono distante, ma ci sono degli evergreen che credo abbiano ispirato o accompagnato il tuo lavoro. A proposito, come scrivi? Col sottofondo musicale, in silenzio?
Sei disciplinato e metodico o no?
Curiosità da parte di una scribacchina che cerca il proprio metodo ascoltando anche quello degli altri…
@Maria Lucia
Non ho un metodo e un’atmosfera, quando scrivo. Essendo abituato per lavoro a scrivere in tutte le situazioni possibili (in genere molto chiassose) non faccio molto caso a quello che ho attorno.
Non sono costante. Per periodi molto lunghi non scrivo, poi in una settimana vado avanti di parecchio. Deve scattare l’idea.
Cmq, quando posso preferisco scrivere di mattina presto. Sono abbastanza rapido e mi bastano un paio d’ore per tirare fuori un po’ di cartelle.
Grazie per la risposta. Il suo testo è molto interessante. Lo acquisterò con piacere, anche perché mi è piaciuto il brano che ha messe qui sopra
‘che ha messo’, chiedo scusa.
@ Maurizio: concordo. No, non eravamo mica tutti così: io per esempio leggevo sì tantissimo ma non spinellavo ché mi dava fastidio solo l’odore (e ancora non ho recuperato…) non avevo neppure soldi di papà da schifare perché ne giravano pochi e mi tenevo ai margini della politica perché non mi ha mai appassionata e poi si finiva sempre col litigare e io non avevo il gene della reazionaria-a-tutti-i-costi. Non sono mai stata un’attivista, m’informavo, elaboravo e mi formavo in modo cauto. E sì, alle assemblee delle 13,30 non ci andavo mai, e neppure alle occupazioni e ai cortei. Per scelta. Però me li ricordo, quegli anni, perché hanno rappresentato la mia crescita. Tante cose sono cambiate e molte convinzioni le ho limate ma la base è rimasta quella.
@ Salvo: grazie per la preferenza accordatami! Però il libro a cui mi riferivo non è quello di non dieci ma 4 anni fa (a proposito di passato…) ma l’ultimo romanzo 2008, anche lui della scuderia CentoAutori. Un po’ di pelle a cappone fa tanto bene, stimola l’adrenalina e la fantasia! 😉
@ Pietro: mi associo volentieri alla domanda di Maria Lucia: quando scrivi ascolti musica? E se sì, quale genere?
Vi ringrazio tutti per i nuovi commenti. Un ringraziamento particolare a Pietro Treccagnoli per la sua generosa presenza.
Sono molto contento dello sviluppo di questa discussione.
@ Pietro
Vorrei soffermarmi sulle epigrafi del romanzo.
La prima citazione è di Tom Waits. Ed è in inglese.
La seconda è di Giorgio Gaber, tratta da “Qualcuno era comunista”: Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro.
La terza è di Paolo VI, del 13 maggio 1978: “Oh Dio della vita e della morte, tu non hai esaudito la nostra supplica.
Perché hai scelto proprio queste tre citazioni?
Mi è molto piaciuta questa ricerca di sè attraverso il passato. Questo non dimenticare che l’approdo a ciò che adesso siamo non è disgiunto da quello che è accaduto non solo a noi stessi , ma a un’intera società.
Che siamo e non siamo noi, quando ricordiamo.
E mi fa pensare al rapporto tra storia e memoria,spesso considerate dal senso comune come sinonimi…
Credo che siano due voci, invece, che si rincorrono in un rapporto di distinzione e talvolta di conflitto.
Si tratta infatti di due modi distinti di porsi rispetto al tempo trascorso: la memoria tende ad unire il presente e il passato, o meglio a rendere presente il passato; la storia, pur partendo dalle domande del presente, ne ratifica e ne persegue la irreparabile separazione. Si potrebbe dire che in un certo senso la memoria rifiuta la morte e la storia la accetta.
Caro Pietro, forse chi non parte, chi non accetta di farlo, è perchè non ha memoria, non storia….
Lei che ne pensa?
Complimenti davvero.
@Simonetta Santamaria. A proposito del tuo romanzo. Mi scrivi?
salvozappulla1@virgilio.it Qui andiamo fuori post e rischiamo di disturbare.
Bella la domanda di Simona.
Salvo, del romanzo di Simonetta ne abbiamo parlato qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/
@ Pietro
Altre due domande per te… (vedi successivi commenti).
1. Hai degli orari prefissati che dedichi alla scrittura? (Mi riferisco alla narrativa).
Scrivi meglio la mattina, il pomeriggio o la sera?
Oppure non hai preferenze, in tal senso…
2. Stai lavorando a un nuovo libro? Ti va di anticiparci qualcosa
Ehm… facendo i conti le domande sono quattro, non tre…
Be’, è sempre meglio abbondare:-)
(Auguro una buona serata a tutti).
@Simonetta
Quando scrivo la musica mi aiuta. Ascolto la musica che mi piace, ma quando sono preso, concentrato, è come se non ci fosse.
Gentile Pietro, ma questo Ascione è un po’ maschilista? Ha successo con le donne?
Quella di prima ero io. Angela, per gli amici Angie. mi è scappata una o al posto della a. Tutta colpa di Ascione……….. (sorriso)
@Massimo
Le tre citazioni.
Tom Waits di fatto ispira il titolo. “Non ho mai avuto una meta, forse non sono neanche mai partito”. Il romanzo della generazione dei secondi anni settanta sta tutta in queste poche parole. Senza una meta e con tanta voglia di partire. Nomadi e sedentari.
Gaber mi sembra chiaro: molti si dicevano comunisti perché erano convinti di esserlo, ma invece erano altro, forse qualcosa di meglio. Marxisti immaginari, come scrivo nel libro.
La frase di Paolo Vi fu pronunciata durante il funerale di Stato di Moro (senza il corpo, perché la famiglia aveva già fatto il funerale privato). C’è un paragrafo del romanzo in cui parlo diffusamente del senso di questa frase. Il papa sgrida Dio perché non ha salvato Moro. Qualcosa di stupefacente che a quei tempi non capimmo.
@Simona
La partenza è anche una metafora. Si può viaggiare tanto e rimanere sempre allo stesso posto, non aprendosi al nuovo, al diverso.
Alla fine, come ho già detto, a partire è solo Serafino ‘o spustato, il folle… meglio non dire di più, per rispetto di chi non ha ancora letto il libro e vorrebbe farlo.
@Massimo
Preferisco scrivere di mattina. Mai dopo le 11, perché la ricerca del secondo caffé della giornata mi spinge a uscire.
Ho un’idea per un nuovo libro con Ascione, ma è disturbata da un altro spunto per un libro completamente diverso, un falso memoir. Sono, per entrambi, alla ricerca di un plot credibile.
Ma l’editore ha in mano un testo breve, fatto di miraggi e paesaggi.
@Angela
Ascione è molto peggio di un semplice maschilista, ma come tutti i misogini ama le donne. Una parte delle donne. Non ha molto successo con le donne, ma non ne soffre. E’ autosufficiente.
Libertà, autorità, dittatura:
Viviamo in un mondo, dove la fantasia gode piena libertà d’affermazione. Il risultato è che ognuno può vivere nel suo mondo e si rivolta, quando un altro lo sconfina o limita.
Ne risulta che l’uso eccessivo della libertà individuale è dannoso come anche il suo contrario, cioè una stretta regolazione e limitazione di pensiero ed azione.
A questa prospettiva si aggiunge il maggiore benessere che ci rende più avidi, presuntuosi ed egoisti.
Mi sembra che sia tempo, quindi, di ristabilire un po’ di ordine, controllando e limitando il lecito, quando risulti dannoso alla convivenza generale.
Ognuno dovrebbe limitarsi nelle sue azioni e affermazioni, e quindi riflettere prima di pronunciare parole, annunciare concetti, di modo che le virtù sane, garanti di una convivenza serena e armoniosa, possano rigenerarsi e influire nella nostra vita e infine assumere il ruolo loro spettante di guida.
Togliendo ai padri la loro autorità, perché diventata ipocrita e oppressiva nelle menti dei giovani, per indole naturale maggiormente aperti al nuovo in un mondo diventato più dinamico e mutante, non ne è stata creata una migliore e concordante con i tempi.
Dobbiamo ammettere, che una società non può reggersi senza di essa. Il motto del successo individuale in ogni manifestazione umana è sinonimo di decadenza di ogni forma societaria, quando le necessità comuni non trovino priorità assoluta.
Le conseguenze di questo disguido collettivo sarebbero, un ritorno di una politica dittatoriale, nella quale quasi tutto diverrebbe di nuovo proibito, fino a ristabilire le ben conosciute repressioni e discriminazioni del passato.Il passato non passa mai, al più viene sostituito da un presente, diverso per necessità energetiche, che, dimostrandosi anche lui immaturo, viene sostituito da uno stato autoritario molto simile a quello del passato. Ogni manifestazione umana nasce da una forma d’energia che ha il compito di sostituire la precedente diventata vuota.
I corsi della storia si alternano e ci danno ogni volta l’illusione di doverli sostenere, nel credo che altrimenti non potremmo sopravvivere, anzi sorgono dal credo di poter migliorare le nostre condizioni di vita.
Un credo che agisce come motore e senza il quale non avremmo notizia di noi.
Saluti
Lorenzo
Padri-Figli: questa degli attuali giovani è una generazione, forse la prima, in cui i figli vedono prospettive di vita e di lavoro peggiori di quelle in cui sono cresciuti. Quando ti guardano negli occhi, capisci che ne sono consapevoli. E in cuor tuo ti senti in qualche modo colpevole: non sei tu che hai inventato i mutui subprime, la Cina, il dispregio per l’ambiente, condizioni e mercato del lavoro assurdi, etc., però in qualche modo senti di non aver fatto o lottato abbastanza, di aver lasciato che le cose scorressero da sole verso il baratro…
Forse liberarsi dai fantasmi del passato significa liberarsi da categorie troppe rigide e grossolane. Giudicare un decennio per comparti stagni mi appare sembre una debolezza più che una soluzione.
@ Maurizio: sono d’accordo ma non credo che npoi avremmo potuto fare molto di più. E’ come lottare contro i mulini a vento, noi siamo troppo piccoli, direi insignificanti in un contesto così grande e così potente. Tutti noi, nel nostro microuniverso, facciamo qualcosa ogni giorno: il problema è che siamo ancora troppo, troppo pochi. E la nostra Napoli ne è un chiaro esempio, governata da gentaglia e abitata da gentaglia ancora peggiore. Noi non la spunteremo mai, i nostri esempi quotidiani di civiltà resteranno appannaggio dei nostri figli e basta. Fuori, continueremo a vedere bastardi che scaricano la loro munnezza per le strade, dalle automobili, che non hanno rispetto per la cosa comune, e politici magnafranchi che di Napoli se ne fottono altamente, quello che conta è dove e quanto poter mangiare.
E siccome questa piaga io l’affronterei da estremista, con metodi da KGB, è meglio non approfondire.
Passo e chiudo.
@ Pietro: anch’io ascolto musica quando scrivo ma non canzoni perché sennò i testi mi distraggono. Quando penso sì: quando costruisco, elaboro e parlo con lo schermo allora è musica a tutto tondo. Non scrivo quasi mai di mattina, invece: io sono un animale notturno e i miei bioritmi vanno in crescendo dalle 16 in poi. Di notte ho scritto le mie cose migliori!
@Simonetta: non disperare. è previsto un netto rinnovamento e miglioramento al governo della Campania. con il PDL sono scesi in campo:
1) De Mita Ciriaco.
2) Cirino Pomicino Paolo.
3) L’Udeur.
4) De Gregorio.
Forze, tra l’altro, provenienti dal centro-sinistra.
trovo la canzone di Gaber “Qualcuno era comunista” molto realistica: un quadro preciso di un aspetto di quegli anni. mai come in quegli anni il “grande sorpasso” fu più sperato e più temuto.
ma avete fatto caso che il Gaber della seconda ora è stato più presente in tv da scomparso che da vivo? strano, no?
@De Angelis. Che nomi candidi. C’è da scialare. Vi dò un’altra bella notizia che mi ha spedito ieri un amico. Mi ha riferito che la ditta che gestiva la monnezza a Napoli è la stessa che ha costruito quell’ospedale in Abruzzo crollato come fosse di carta pesta; la stessa ditta che ha costruito altri enti pubblici al nord e a cui hanno affidato la costruzione del ponte di Messina. Ed altre ancora ne ha combinate. Saviano queste cose le ha denunciate nel suo libro.
@ Maurizio e Salvo: allora ho ragione io ad ambire azioni radicali da KGB…
Anch’io scrivo di mattina. Per scrivere comico, occorre che la mente sia ben sgombra e non ancora bombardata dall’alluvione di tg-gr-spot-piazzaffari-previsionimeteo-grandiconcorsi-cambioeurodollaro che ci ottenebra quotidianamente.
Grazie…
Il post ci ha fatto fare un utile esercizio di memoria. Simona ha ragione: storia e memoria sono due cose diverse. Fare memoria vuol dire rendere presente, vivo qualcosa o qualcuno. Riconoscerne la presenza. Fate questo in memoria di me… Vi ricorda qualcosa?
Paolo VI mi fa venire in mente Benedetto XVI ad Auschwitz che si interroga sul silenzio di Dio… silenzio riempito, violato, dilaniato dalle forze del male, un male quasi assoluto, metafisico, primigenio. Grazie a Treccagnoli e alla Santamaria di avercelo ricordato.
Ma forse Dio urlava e chi avrebbe potuto udirlo non l’ha ascoltato.
Anche se ho pubblicato un nuovo post, spero che il dibattito qui possa continuare…
In ogni caso ne approfitto per ringraziare tutti voi…
E in particolare: Francesco Di Domenico e Nicoletta Santamaria per le recensioni e la presenza.
E Pietro Treccagnoli per la generosa partecipazione.
–
Nel corso di questi giorni… non sono mai partito… ma sono stato ugualmente con voi.
Grazie:-)
Grazie a te, Massimo.
E grazie a tutti.
I migliori auguri a Pietro Treccagnoli e al suo libro “NON SONO MAI PARTITO”, un bacio a Didò e a Massimo e grazie a tutti voi che avete voluto partecipare.
Alla prossima!:)
@ Massimo: io però mi chiamo Simonetta ! Ma perché tutti mi chiamano Nicoletta?????????????????????
Consolati, Simonetta. Da una vita mi chiamano Maria Luisa, Maria Antonietta, Maria Grazia… Mi sono ribellata solo quando mi hanno chiamata Mariangela come la figlia di Fantozzi…
🙂
Ahahah, bella questa!! 🙂 Be’, mal comune mezzo gaudio, allora!
Cara Simonetta, perdono. Lapsus ci fu.
Per consolarti ti dico che spesso mi chiamano Maurizio anziché Massimo (credo per assonanza con il cognome: Maugeri).
Però Nicoletta è un bel nome… 😉
…pensate a quando non ci chiama più nessuno 🙂
Pensierino della sera :anche se sbagliano nome l’importante è che cerchino proprio te!
baci
tranne se è l’Ag. delle Entrate.
O la Morte… 🙁
@Simonetta! “Regina del brivido”, sei sempre più nera del noir!
Vorrei rispondere a Francesco Di Domenico, stringere man forte con Miriam, appellarmi a Pietro.
Quando vedevo i capelloni viaggiare sempre in quattro mi veniva voglia di sbirciare dentro l’abitacolo dell’autovettura, una bambina curiosità che manteneva comunque una certa repulsione per quei vetri appannati, le facce barbute e losche con sigaretta in mano, parcheggiati ai bordi delle grandi piazze ed impegnati in grandi discussioni: fu proprio questo che fece grande il sessantotto: l’aggregazione.
Le individualità raggruppate fecero “il movimento”, straordinaria fu la compattezza con cui questo fenomeno ebbe luogo nel mondo, mentre Bologna manifestava lo faceva in contemporanea anche Barcellona, Parigi, Londra, Woodstock riuniva e l’America cantava a squarcia gola, una specie di coordinamento planetario che non avuto precedenti né successori.
Ho citato una frase “il 68 fu l’anno contro il padre” che, secondo me, contiene l’essenza di questo periodo storico, la crescente esigenza di un rapporto più vero ed autentico da parte delle nuove generazioni con il proprio padre, nel quale fu identificata non soltanto la figura del genitore ma lo stato, la politica, le leggi, la società così come era strutturata.
L’ impulso al cambiamento ha smistato la ricerca di ognuno verso svariate direzioni, alla ricerca della realizzazione dei propri desideri, naturalmente l’elenco delle libertà è infinito, ma aver combattuto un sistema che imprigionava l’essere umano nei “valori formali” lo ha staccato realmente dall’edonismo?
Non mi dilungo su quanto sia giusto dare ai sensi dell’uomo e quanto pretenda lo spirito di un essere umano, ma, caro Francesco che rimproveri noi quarantenni ed innalzi la tua generazione a grandi lettori, a cultura maxima (sono comunque d’accordo con te per quanto riguarda il fermento culturale del periodo), gli ultimi quarant’anni chiudono il secolo all’insegna di un cultura di massa, per certi aspetti svilente che, nel suo estendersi in orizzontale, porta il rischio dell’accozzaglia delle idee, di una mancanza di distinzione e che, insensatamente, pretende di attribuire significati sublimi e profondi a quel che sublime e profondo non è.
Ma Pietro mi piace perchè la sua ricerca è conflittuale e percorre i binari dell’autenticità. Ciao.
@Rossella
Grazie.
Sì, era la ribellione ai padri che “si turavano il naso votando DC”. Oggi, forse, molti di quei figli si turano il naso votando SB. Allora, al di là delle idee politiche che ognuno di noi 16enni potessimo avere, ci sembrava incomprensibile che i nostri padri votassero per un partito-balena nel quale, nel migliore di casi, non nutrivano fiducia alcuna. Ora, a distanza di anni, e con l’immancabile ricorso storico, quel quadro ci appare più comprensibile.