Nell’ambito delle rubrica di Letteratitudine “Poesia” ospitiamo il primo di due saggi dedicati a ricordare la poetessa Elena Salibra, firmati dalla professoressa e saggista letteraria Emma Di Rao.
Questo primo saggio è incentrato sull’opera Nordiche la quinta raccolta poetica di Elena Salibra
* * *
L’Io di Nordiche: né Ulisse né Tiresia
di Emma Di Rao
L’inscindibile legame che intercorre tra vita e letteratura si rinviene anche in Nordiche[1], la quinta raccolta poetica di Elena Salibra, e ne costituisce il tratto più significativo. Dissimulata, o persino assunta come materia su cui viene esercitata un’ironia sottile ed elegante, la dolorosa contingenza della malattia si configura, infatti, come la prospettiva da cui l’io poetante rappresenta i molteplici aspetti del reale – finanche elementi riconducibili alla quotidianità o dettagli apparentemente insignificanti -, sui quali interviene quella “doppia visione” che consente di rinvenire in essi un significato ulteriore.
L’ambito del vissuto individuale è oltrepassato mediante il dar voce alla ricerca del significato da attribuire alla nostra esistenza, soprattutto quando essa è minacciata dal sopravvenire di circostanze drammatiche. È tuttavia innegabile che l’esperienza del dolore produce una sorta di potenziamento della capacità di vedere e di conoscere il reale, coniugandosi con una straordinaria lucidità. Come nelle raccolte precedenti[2], il discorso lirico non accoglie, però, toni che non siano pacati e sobri, dando luogo a una cifra stilistica che coincide con una scrittura elegante e armoniosa, acquisita dall’italianista siracusana anche in margine ad uno studio rigoroso del patrimonio letterario classico e moderno. Alla resa letteraria e alla creazione di un dettato sempre ricercato -anche quando si fa ricorso a toni volutamente dimessi e colloquiali – contribuisce indubbiamente la memoria poetica che, nell’itinerario lirico salibriano, si manifesta nella fitta trama di reminiscenze mutuate da poeti quali Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Montale. Si tratta di echi o citazioni che, come è stato a ragione affermato[3], “non fanno macchia” e non sono di ostacolo alla creazione di un linguaggio poetico autonomo. Basti pensare al tema ricorrente del varco, che, pur rimandando innegabilmente a Montale, rappresenta anche un’innovazione rispetto al modello di riferimento. E’ fin troppo noto, infatti, che per il poeta ligure tale immagine si configura come una non comune e imprevedibile possibilità di sfuggire alla prigione della realtà fenomenica[4], come la rivelazione improvvisa di un segreto profondo, celato nella natura[5], da cui l’io lirico rimane escluso e a cui può accedere soltanto la figura femminile[6], quell’interlocutrice che, nelle Occasioni, al pari della Beatrice dantesca, assumerà il ruolo di visiting angel. Nella scrittura poetica di Elena Salibra, il termine varco si connota di una diversa sfumatura: non allude a una casuale ed improvvisa apertura che consenta di sfuggire al non senso della temporalità, ma si correla strettamente alla ricerca costante di un aldilà[7]. Si tratta di una tensione che caratterizza l’intero percorso salibriano[8], ma che in Nordiche assume uno spessore più profondo in virtù della dolorosa vicenda biografica, configurandosi come desiderio di trascendere la dimensione contingente, seppure in una prospettiva del tutto laica.
In alcuni casi, tuttavia, il soggetto lirico non appare deciso nella ricerca di un tunnel di passaggio e finisce per confessare la propria esitazione, come si evince dalla chiusa di Giorno 3, in cui si allude al dissolversi dell’oscurità e a quel sottile, ambiguo confine che separa il sonno dalla veglia:
[…]oggi nel disfarsi
delle tenebre si desta il sonno
alla mia voce…
non sono pronta al varco
Se il mistero indecifrabile dell’oltre produce nell’io una sorta di timorosa perplessità[9], è pur vero che non vengono invalidate le possibilità di conoscenza del reale. Dalla quinta raccolta di Elena Salibra si evince infatti la salda fiducia dell’autrice nel mondo sensibile, non ritenuto mai vuota e illusoria parvenza[10], ma realtà oggettiva cui si intende aderire con le forze residue e la cui pienezza si desidera ricomporre, pur in una situazione di estrema precarietà, con la medesima fermezza con cui ci si era prefissi di riparare pazientemente una conchiglia spezzata[11].
A nostro avviso, le reminiscenze montaliane non sono ascrivibili all’intervento di una memoria involontaria: preferiamo ipotizzare che l’autrice ricorra a tale presenza letteraria[12] non tanto perché si prefigge di caratterizzare come colta la propria poesia quanto perché, con una strategia compositiva riconducibile alla ben nota arte allusiva[13], si propone di inserire riprese e citazioni proprio affinché queste siano riconosciute dal lettore, ma si configurino poi come elementi di uno sviluppo diverso e originale.
Alla memoria letteraria si fa appello anche quando sembra che la pena seguita a un verdetto non generoso debba far prevalere l’esigenza di un’espressione immediata. Al fine di esprimere la dolorosa rinuncia al viaggio – tema al quale si riconduce, nel discorso lirico salibriano, ogni esperienza interiore -, l’io ricorre, infatti, alla figura di Ulisse, in quanto paradigma di una condizione irrimediabilmente perduta. Archetipo dell’uomo perennemente teso alla ricerca di una meta, Ulisse è dunque presente in Nordiche, nell’itinerario estremo di un io che aveva già espresso nelle raccolte precedenti una costante propensione al viaggio, intrapreso in direzione di luoghi che, reali o mitici, si configuravano come l’approdo in cui potesse risolversi ora una perenne sete di conoscenza, ora un mero desiderio di evasione, ora una profonda inquietudine esistenziale.
In una cornice fatalmente mutata, qual è la realtà presente, è lecito solo protendersi verso il passato, come recita l’ultimo verso, scevro però da ogni autocommiserazione, di Mp3:
[…]penso ai miei viaggi…
Relegato in una condizione nella quale non si intravvede alcun orizzonte e in cui il tempo è
da riprogrammare ogni giorno.[14]
e consapevole dell’irrilevanza del prefiggersi una meta nella situazione presente[15], il soggetto lirico non può che accogliere una disposizione d’animo opposta a quella che, in altre circostanze, si traduceva in un desiderio inestinguibile del viaggio. E’ quanto si coglie nel componimento Lo steccato, il cui incipit
al di qua dello steccato
che ci divideva dal mare
esprime già la difficoltà di aderire alla pienezza vitale che l’immagine del mare suggerisce. Ed ancora si legge:
nuotavo a rana nell’insenatura
se mi perdevi di vista oltre
il limite delle acque
sicure su di me
cadeva la tua scure.
ma non ero ulisse…
quando riprendevo fiato
tornavo nel tuo raggio
A causa di un male che non corrode soltanto il corpo, ma si insinua più profondamente, indebolendo consolidate certezze, l’io si riscopre, in talune situazioni, privo della temerarietà consueta, come quando, temendo di imbattersi in acque non tranquille, preferisce un approdo diverso: far ritorno nel raggio protettivo di chi attende amorevolmente sulla riva.
E’ lecito osservare che la presenza dell’enjambement in oltre/il limite conferisce rilevanza semantica a una dimensione che, sebbene non più accessibile al soggetto lirico, esercita ancora una profonda attrazione[16]. Su di essa, comunque, a causa della situazione dolorosa in cui versa l’io, finisce col prevalere la scelta di un rassicurante limite. Significativo appare, inoltre, lo spazio bianco che, creando una suggestiva pausa di silenzio, contribuisce ad accrescere il potenziale evocativo di oltre, in direzione di un senso ulteriore, veicolato proprio dal non detto.
Nella lapidaria e malinconica affermazione:
ma non ero ulisse…
si esprime, mediante l’antonomasia, l’impossibilità di identificarsi con l’eroe omerico e di aderire agli aspetti sottesi alla sua figura- come il desiderio dell’avventura e l’inarrestabile andare-, ma si esprime soprattutto la rinuncia a varcare i confini abituali dell’esistenza. Risulta dunque evidente che tale personaggio assolve la funzione di porre in risalto una condizione interiore dell’io, ovvero un’opprimente stasi e un arresto improvviso, imposti dal dramma personale.
Un’ulteriore menzione di Ulisse si rinviene ne Il cacciucco :
di fronte al tuo atelier
accanto all’accademia un insolito
ulisse progettava il suo viaggio
prima del naufragio. il mio è
per mare o in aereo- non importa-
purché mi guidi la stella del fondale
Nei versi citati si rinviene non la mancata identificazione del soggetto lirico con l’eroe di Itaca, ma una dimensione inusitata di quest’ultimo. Anche in questo caso è presente l’antonomasia, che viene, però, attenuata dall’aggettivo insolito, poiché esso lascia intravvedere una corrispondenza al modello non così perfetta da giustificare l’assunzione del nome. L’insolito ulisse è collocato in un contesto che vari elementi, quali, ad esempio, la menzione dell’accademia e della buca di oscar- quest’ultima offre il pretesto per un ulteriore elenco dei consueti sapori da contrapporre a ben diverse ricette-, inducono a identificare con la città di Livorno, che può aver suggerito l’immagine del viaggio per mare, così come, in passato, aveva suggerito quella del ritorno con un attracco dolce[17]. La figura che viene rappresentata nell’atto di progettare il suo viaggio prima della catastrofe finale allude, verosimilmente, all’Ulisse dantesco, exemplum della sete di conoscenza punita con la morte, o all’Ulisse pascoliano, travolto nella fallimentare ricerca di una risposta ai propri interrogativi esistenziali[18]. Risulta comunque evidente la contrapposizione fra chi è in grado di collocarsi sulla linea dello spazio e del tempo, nonostante il possibile esito fallimentare, e l’impossibilità, da parte del soggetto lirico, di fare altrettanto. Per orientare il percorso che si compie nelle strutture profonde della memoria viene evocato un elemento del tutto immateriale: quella stella marina, attaccata al fondale, di cui si scrive, nel componimento In vena, che essa ha trovato la giusta posizione.
L’amara consapevolezza di non poter ormai disporre del tempo sembra attenuarsi nei versi conclusivi:
[…]ma a crocino a volte
i girasoli si volteranno
verso il sole
L’immagine dei girasoli, in cui si ravvisano tratti umani- come si evince dall’espressione si volteranno-, esprime infatti uno slancio vitale che, pur attenuato dall’occasionalità dell’evento, configura comunque una promessa di felicità,[19] soprattutto in relazione a quanto recitavano i versi del martirio[20]:
[…] a crocino
i girasoli non ruotano
mai nel sole […]
Si osservi, tuttavia, che il carattere corsivo, con cui tale immagine è resa nel testo, introduce una sorta di voce fuori campo – rifrazione o sdoppiamento dell’io – che, divergendo dal tono desolato di chi constata di non poter più sostare a fes, induce a ipotizzare che l’io riservi ad altri la speranza o che riponga quest’ultima nella mera capacità di ricreare, grazie alla guida infallibile della stella del fondale, la dimensione luminosa del passato.
Ancora una volta, in Off label , viene menzionata la figura di Ulisse:
tra le cartelle spuntava una foto
di te a trent’anni su una spiaggia
del Peloponneso durante
un workshop di logica formale.
leggevo ulysses al sole meridiano
dall’altro capo troia e un vento
di maestrale[…]
E’ una foto casualmente rinvenuta tra le cartelle ospedaliere a restituire l’immagine di una spiaggia del Peloponneso in cui il soggetto lirico appare intento a seguire, durante un’ assorta lettura, il viaggio del moderno Ulisse nel labirinto della coscienza. Tale nome, unitamente all’atmosfera che avvolge il paesaggio egeo, è sufficiente a richiamare l’immagine della città che fu sconfitta dall’astuzia dell’eroe greco. La menzione di Troia, suggestivamente connessa con l’immagine del vento di maestrale[21] e collocata in una prospettiva spaziale indeterminata, fa indubbiamente da contraltare alla realtà vissuta.
Lungi dall’assumere i toni di una sterile nostalgia, la memoria si configura dunque come una facoltà in grado di conferire al passato non solo ciò che esso autenticamente conteneva, ma anche quanto una visione dai contorni sfumati lascia affiorare, permettendo così una sorta di ricreazione del passato stesso[22].
E’ quanto si evince dai versi sopra citati, in cui al contesto angusto e desolato di un interno si sovrappone uno spazio dalle linee ampie e luminose, proiezione simbolica di una pacificata condizione interiore dell’io, ma anche della trascorsa età giovanile.
Il dilatarsi dello spazio si coniuga, infatti, con l’indicazione di un tempo ben preciso – una foto di te a trent’anni – e di un elemento concreto – durante un workshop di logica formale –, che finiscono, però, con l’assumere i caratteri di una dimensione mitica.
Infine, ancora un mutamento nello spazio in cui si colloca il soggetto lirico: dissoltasi la visione del passato, quando una piena adesione alla vita induceva a lambire con il corpo le alghe del fondale, si profila di nuovo l’orizzonte breve e limitato dell’oggi, in cui l’unica prospettiva concessa all’io sembra essere quella di rinvenire il senso della propria vicenda personale fra le numerose ricette mediche.
Se il viaggio è negato, è preclusa anche la dimensione temporale entro cui il viaggio si snoda: se non si è più Ulisse, non si è più nemmeno Tiresia. Così , infatti, recita l’incipit di Sapori da evitare:
ma non ero tiresia
quando ti ragguagliai sul mio destino
neanche sibilla che leggeva
tra le foglie[…].
Anche in tali versi si riscontra la figura dell’antonomasia, che esprime il significato fondamentale del testo: svanita quella tregua che sembrava fosse stata concessa dal destino, ci si scopre privi della capacità di formulare qualsiasi ipotesi sul futuro, proprio mentre si tenta di ragguagliare su di esso il proprio interlocutore. L’impossibilità di identificarsi con il celebre indovino dai poteri divinatori è rafforzata dalla seconda antonomasia: neanche sibilla. Proiettato inutilmente verso una nuova estate, il soggetto lirico prende le distanze dalla profetessa che, affidando al vento benevolo i propri responsi non sempre graditi, lasciava spazio alle illusioni degli uomini. Ed ancora, si legge:
ora tiresia non parla più
anzi dopo un po’ si addormenta
e insegue l’acqua del canale che scorre
lieve. dalle chiaviche guizza
un topo poi un altro e un altro ancora.
sono guariti da quel male e aspettano
la stagione propizia
E’ innegabile che l’immagine introdotta nei versi citati assume una valenza allusiva: gli animali che, guariti dal male, guizzano dalle acque putride esemplificano l’insensata casualità che riserva ad essi il privilegio di attendere quella stagione futura da cui l’io è invece escluso. Vi si potrebbe inoltre ravvisare un destino di sofferenza che accomuna leopardianamente tutti gli esseri viventi e che concede solo qualche pausa.
Se non risulta possibile identificarsi con l’eroe di Itaca o con l’indovino tebano, in quale nuovo contesto spaziale e temporale si muoverà allora il soggetto lirico?
E’ noto che nell’undicesimo libro dell’Odissea è rappresentato il colloquio di Ulisse con le anime dell’oltretomba e, in particolare, con Tiresia, cui l’eroe chiede ragguagli sul proprio ritorno in patria e sugli ostacoli da superare. Crediamo – in virtù di un’ ipotesi suggestiva- che anche in Nordiche i due personaggi omerici interagiscano e riacquistino il significato connesso con la loro figura. Svanita l’euforia ulissidea di nuovi orizzonti, l’io ingloba, infatti, la memoria dei viaggi passati – fossero stati reali o mentali non importa – e, con rinnovata audacia, si rimette in cammino verso un confine sconosciuto, in direzione di un approdo che ora si ha fretta di raggiungere, forse per concludere una ricerca avviata molto tempo prima. E’ quanto affiora dai versi:
[…]ora
c’ho voglia di andar via… nelle terre
del nord. […] .[23]
Allo stesso modo, è verosimile che, spentasi la voce malinconica di Tiresia, l’io, di nuovo fiducioso nel proprio canto, ponga fine al silenzio, proiettandosi ancora una volta verso il futuro, se è vero che vivere significa dare senso nell’unico modo possibile alla partita già persa in avvio contro la morte affidandosi alla letteratura, che è ricovero dell’unica realtà di cui può farsi artefice l’essere umano, ovvero la memoria…[24].
E’ innegabile infatti che, rispetto alla mutevolezza e alla caducità dell’esistenza, la parola poetica, scelta con rigore e con sapienza, permette di cogliere il reale e di fissarne definitivamente i contorni sfuggenti, esaudendo quell’esigenza di assoluto che avverte chi, come Elena, è in procinto di andar via, oltre le acque malsicure del vivere terreno.
Parola poetica, dunque, come possibilità d’infuturarsi, ma anche come risarcimento dei mali dell’esistenza. E’ forse in essa quel passepartout per l’aldilà di cui fa menzione l’autrice di Nordiche ? A noi che siamo qui finché ci saremo piace immaginarlo.
* * *
NOTE
[1] Nordiche, Stampa 2009, 2014.
[2] Vers.es, Diabasis 2004; sulla via di Genoard, Manni 2007; il martirio di Ortigia, Manni 2010; la svista, A&B Editrice, 2011.
[3] Cfr. M. Santagata, Introduzione a sulla via di Genoard, pag.5.
[4] Cfr. :[…] una maglia rotta nella rete/che ci stringe […] ( In limine, vv.15-16, da Ossi di seppia).
[5] Cfr. : il punto morto del mondo, l’anello che non tiene ( I limoni, v.28, da Ossi di seppia).
[6] Cfr. :[…]tu balza fuori, fuggi!/va, per te l’ho pregato, ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…(In limine,vv.16-18, da Ossi di seppia).
[7] Al riguardo, cfr. le considerazioni espresse da M. Minutelli in Introduzione a Nordiche di Elena Salibra, Soglie, aprile 2014, pp.52-53.
[8]Cfr. i versi: che cosa a mente avevamo studiato/per l’aldilà (Per via, da sulla via di Genoard, pag.23), che suonano quasi come una citazione del verso montaliano Avevamo studiato per l’aldilà (Xenia,I,4). Si veda inoltre: c’è un aldilà per i matematici ( ipotesi ,da il martirio di Ortigia,pag.25), ipotesi che la grafia in corsivo consente di attribuire a un altro da sé, mentre il soggetto lirico preferisce declinare l’aldilà come un inferno o un limbo. Malinconiche riflessioni sul mistero di chi nasce/ e muore… inducono l’io, nella chiusa de Il fiume sotterraneo, ad estendere la prospettiva di un aldilà al proprio cane (e penso a un aldilà/per lui…), il cui respiro affannoso, nell’incipit de I sapori, non poteva non alludere al crudele destino che accomuna uomini e animali.
[9] E’ quanto affiora anche dai vv.16-18 de Il fiume sotterraneo ([…] ma non ero/pronta[…] a rispecchiarmi/nell’acqua scura), in cui il soggetto lirico riflette sulla propria riluttanza a specchiarsi nelle acque del fiume Amenano, perché ancora pervaso da la luce di su.
[10] Tale concezione si riscontra nel montaliano Forse un mattino (Ossi di seppia), in cui il poeta esprime il dubbio che il mondo fisico non sia altro che un inganno, un’illusione dei sensi, ma afferma anche di non voler divulgare il suo doloroso segreto agli uomini che non si voltano. Una reminiscenza di tale immagine si coglie nei versi salibriani: non sempre/negli arenili d’alghe le ombre vanno/alla deriva senza voltarsi. (L’appartamento), in cui le ombre non indicano, come nel poeta ligure, gli esseri inconsapevoli di quel nulla che una realtà ingannevole nasconde, ma figure che non si collocano dalla parte dei vivi.
[11] Cfr. i vv. 1-4 de la conchiglia: mi si è spezzata tre le dita oggi /la conchiglia/che portavo al collo./mi ci provo/ a ricomporla (la svista)
[12] Sulla presenza di citazioni nella poesia salibriana, vedi M. Cristina Cabani, Salibra. Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio, Il Portolano, n.51-52, p.47.
[13] Sull’espressione arte allusiva, cfr. Giorgio Pasquali, in Pagine stravaganti, 2° ediz., Firenze 1968, pp.275-282.
[14] La condanna ( Nordiche).
[15] Lo si evince dai versi di Tragitti: oggi dopo vent’anni/ la meta non importa più.( Nordiche).
[16] Si noti che l’espressione oltre il limite appariva già, assumendo una connotazione di carattere non spaziale, ma temporale, nel verso iniziale di Oggi (Vers.es): Oggi il tramonto s’allunga oltre i limiti/del giorno[…] . In questo caso, nonostante il frequente ripetersi dell’enjambement nel testo, esso non è presente fra oltre e i limiti, quasi si volesse evidenziare che tra la dimensione contingente e l’oltre non è avvertita dall’io alcuna scissione, come si evince anche dall’atmosfera di quiete e dal desiderio di oblio che caratterizzano il componimento.
[17] Cfr. : Livorno o uno storno di tempo/ ancora da computare (Per via, da sulla via di Genoard, p.42).
[18] In relazione a L’ultimo viaggio, Poemi Conviviali ( canto XXIII) di G.Pascoli, cfr. E.Salibra, Voci in fuga, Liguori pp.32-33.
[19] Evidente risulta la reminiscenza dei versi montaliani: e mostri tutto il giorno agli ameni specchianti/del cielo l’ansietà del suo volto giallino. (Portami il girasole). E’noto che il girasole si configura, nella poetica montaliana, come simbolo dell’aspirazione a sradicarsi dalla condizione terrena, ma si ritiene anche che la luce illimitata provochi in esso un delirare, come si evince dall’espressione impazzito di luce. Al riguardo, cfr. Angiola Ferraris, Montale e gli Ossi di seppia. Una lettura, Donzelli, 1995,pag.25.
[20] Cfr. : a crocino,vv.2-4.
[21] Non riteniamo superfluo evidenziare il frequente ricorrere, nella scrittura salibriana, dell’immagine del vento: a volte è il caldo vento di scirocco (ora il vento /di scirocco accresce la calura…[L’appartamento]), a volte è un vento ostile al soggetto lirico (ma un vento contrario mi spingeva/ fuori…[I piatti del giorno]) o, ancora , è il vento di maestrale (tra le foglie portate sulla soglia dal vento di maestrale…[Sapori da evitare]). Elemento dinamico, il vento sortisce l’effetto di produrre un mutamento e di rendere imprevedibile la vita, fosse anche in senso negativo ( la vita la stessa di un mattino/ d’inverno- imprevedibile/ al vento di maestrale-… [Se imprigioniamo il mare da Vers.es]). Anche nei versi: sentivo/un tempo nuovo che increspava il mare (il secondo lavoro, da la svista) si alludeva al subentrare di un elemento non propizio che sconvolgeva la superficie del mare, metafora dell’esistenza, rendendo non sicura la navigazione. Si osservi che nella poetica montaliana, invece, il vento, anche quando si configuri come soffio vitale e liberatorio, non riesce ad attenuare la condizione di stasi e immobilità del soggetto, imprigionato nel mondo fenomenico. E’ quanto si coglie nel testo liminare degli Ossi di seppia (Godi se il vento ch’entra nel pomario/vi rimena l’ondata della vita, vv.1-2) e in Notizie dall’Amiata (Ritorna più forte/vento di settentrione che rendi care/le catene e suggelli le spore del possibile!,vv. 37-39, dalle Occasioni).
[22] Sull’efficacia della memoria in Nordiche ci limitiamo a citare alcuni esempi: forse riesumando i sudori/nell’afa cittadina qualcosa rimarrà/d’un martirio d’ortigia non goduto/ a pieno (-Alla Matalotta-); […] e incidi la mia ombra/sulla vetrata a piombo con la lima/della memoria […] (L’orchidea); […] lì un tempo-ricordi-ha trovato/la giusta posizione[…] ( In vena). Al riguardo, non si può non rilevare che la memoria, nella scrittura poetica montaliana è, invece, sempre destinata a fallire, configurandosi come morto viluppo (In limine) o riducendosi a poca nebbia (Casa sul mare), cosicchè, nonostante ogni tentativo di far emergere il ricordo, si deforma il passato, si fa vecchio,/appartiene ad un altro…(Cigola la carrucola nel pozzo).
[23] In vena ( Nordiche).
[24] Cfr. Essere o riessere . Conversazione con Gesualdo Bufalino, a cura di Paola Gaglianone e Luciano Tas, Omicron Roma 1996, pag.48.
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