L’immagine che meglio descrive ciò che la mia mente visualizza alla fine della lettura di questo testo è quella del crocevia, del nodo: esso si muove infatti in un solco di confine fra diverse regioni del sapere, e proprio nell’accostamento (che poi diventa fusione quando si fa chiave ermeneutica) trova la cifra costitutiva del proprio essere. Organizzare un’azienda secondo la flessibilità del pensiero umano filtrato dall’ironia è un’operazione coraggiosa e lodevole, gravida di senso eppure lieve come insegna Calvino sospeso sul ciglio del vecchio millennio, additando “l’agile salto del poeta-filosofo” quale simbolo e insieme augurio per le coscienze forti del nuovo millennio: liberarsi dagl’impacci di modelli gestionali rigidamente “scientifici” per approdare ad una gestione dell’impresa che si faccia più “umana”, più vicina alla mutevole impermanenza del presente, ma diremmo dell’eterno presente dell’uomo, più vicino alla singolarità che alla massificazione. L’ironia accompagna e permea il libro, sollevandolo con la sua “levità pensosa” al livello delle cose veramente grandi. E poi la sorpresa, la capacità di prendere in contropiede spiazzando piacevolmente un lettore magari avvezzo ad altri generi di scrittura: la coesistenza sulla copertina del volume delle parole “poesia” e “management” è già sorprendente per un lettore “colto”, e rischia di frantumare gli occhialini sul naso dei professori troppo pedanti. La compiacenza, alimentata dal marchio di Scheiwiller stampato in fondo alla pagina, offre garanzie che riconfortano e inducono a fidarsi. E, ironicamente appunto, stavolta “fidarsi è bene” . Aprendo le pagine, infatti, ci si trova immersi in un testo dall’andamento quasi spiraliforme, come risucchiati e attratti verso il basso dallo stesso movimento che possiede la foto di copertina. Come Alice nel pese delle meraviglie, si viene presi per mano e condotti attraverso un viaggio affascinante fra Platone e Shakespeare, in cui ogni tappa ci fa esclamare un “oh!” di meraviglia per la scoperta di un mondo non rigidamente meccanico e freddamente razionale, bensì vivo, umano, dinamico e ricco di quel raro elisir non di lunga, ma di felice vita associata che è l’empatia. Utopia e realtà si rincorrono e giocano in un testo complesso che riesce a coniugare nella tradizionale forma del libro sequenzialità e reticolarità, facendo abbracciare antico e moderno in una sintesi che, a ben vedere, è ben più che una semplice modello di organizzazione aziendale: lo humanistic management presuppone, per essere attuato, un’educazione fortemente umanistica, o non ci si saprà mai districare fra autori e concezioni che inglobano un po’ tutte le epoche della storia del mondo (di quello occidentale, perlomeno) e conoscerle a tal punto da farne un modello organizzativo per il lavoro di un gruppo allargato di persone. Ricordando i miei trascorsi di studente di lettere classiche nei primi anni novanta mi viene da sorridere: se ripenso all’incertezza che caratterizzava quel periodo per quanto riguardava la collocazione dei laureati in materie umanistiche in un mondo cha sembrava andare sempre più a grandi passi verso la robotica da un lato e verso il trionfo dell’economia globalizzata dall’altro, mi viene da pensare :”Oh, se allora qualcuno avesse parlato in questi termini delle humanae litterae!”. E mi sorge nell’animo uno spontaneo moto di gratitudine nei riguardi dei due autori che, con intelligenza e acume veramente encomiabili, hanno ricollocato le scienze umane nel mondo dell’impresa, ridando dignità ad un settore del sapere che era ormai considerato appannaggio di una ristrettissima èlite culturale, perlopiù accademica, arroccata nella sua torre d’avorio da cui guardare con disprezzo i comuni mortali che si affannano per cose da nulla, ma dal mondo considerata una strana genìa di ricercatori d’oro fra la polvere. Una disciplina come lo humanistic management, dunque, contribuisce a collocare gli studi umanistici alla base della formazione di chi voglia fare impresa, perché dimostra in modo inappuntabile come la poesia e la filosofia siano parte essenziale della formazione di dirigenti e manager, che sottraggono alla tirannia di un modello rigidamente “scientifico”, capace di fare a meno del genio, sostituendolo con la compattezza di un corpo di mediocri che schiaccia ed emargina chiunque si sollevi dal piattume dell’ordinario, e quindi il creativo. Nemmeno l’odio, che sotto forma di invidia rappresenta uno dei motori principali e più propositivi delle relazioni umane, può nulla contro questo modello – generatore, oltretutto, di tanti potenziali Fantozzi – perché la genialità non si può emulare, ma va solo lasciata agire.
Elio Distefano
http://www.eliodistefano.135.it/
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NULLA DUE VOLTE, Il management attraverso le poesie di Wislawa Szymborska
di M. Minghetti e F. Cutrano
Scheiwiller libri, Milano, 2006
euro 16,50
Ringrazio Elio Distefano per la recensione.
Aggiungo la seguente breve nota:
“Il volume è costituito da una scelta di venticinque poesie del Premio Nobel Wislawa Szymborska ordinate e suddivise per cinque temi “manageriali” di ampia portata valoriale: convivialità, motivazione individuale e sviluppo delle relazioni interpersonali, gestione della conoscenza, diversità e creatività, sensemaking. Le venticinque poesie e i venticinque commenti saranno a loro volta accompagnati da altrettanti testi firmati da illustri “testimoni” (manager, intellettuale o artista), che offriranno la propria personale interpretazione della poesia. Testimoni invitati: Giampaolo Azzoni, Enrico Bertolino, Francesco Bogliari, Massimo Canevacci, Gianni Canova, Fulvio Carmagnola, Alberto Castelvecchi, Pierluigi Celli, Diego De Silva, Gianfranco Dioguardi, Paolo Flores D’Arcais, Andrea Granelli, Andrea Guerra, Andrea Illy, Roberto Koch, Enrico Letta, Massimo Lolli, Luca Majocchi, Marialina Marcucci, Paolo Mauri, Francesco Morace, Flavio Pasotti, Walter Passerini.”
Parliamo di questo libro, vi va?
Direi che la parola chiave è una: CONTAMINAZIONE.
Cosa ne pensate?
Gli autori del volume, Marco Minghetti e Fabiana Cutrano, sono caldamente invitati a intervenire.
Prima di tutto, vorrei esprimere il mio personale e del tutto appagato piacere, or ora provato nel leggere finalmente un testo critico all’altezza di Calvino: caro Elio Di Stefano, Lei SENTE le parole che scrive, non le butta la’!
Poi mi piacerebbe leggere questo libro, anche se effettivamente il mio naso si storce in contorsioni piuchecafchiane a causa delle vicine pupille doventi associare termini come ”poesia” e ”management”.
Dunque, sinceramente, io il libro non lo comprero’, ma lo leggero’. Sono troppo diffidente nei confronti delle possibili americanate, scusatemi, scusatemi tanto per la mala-fide, la sospettosita’, la paura di vedere il solito grigio ufficio dietro (o addirittura, sacrilegio, DENTRO) a qualcosa come la poesia russa… che non sara’ quella classica ma comunque… eh… ha il suo posto originario, che non era nell’azienda e nel bisenesse.
Insomma signor Distefano: a buon intenditor…
Ci risentiamo su questa rischiosa operazione russo-italiana.
Cordialmente
Sergio Sozi
È opportuno precisare che Wislawa Szymborska non è russa!
Per chi volesse saperne di più di questa poetessa polacca legga quanto segue:
“Wisława Szymborska è una poetessa e saggista polacca, nata a Bnin (oggi Kórnik) nei pressi di Poznań il 2 luglio 1923. Premiata con il Nobel nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca vivente. In Polonia, i suoi volumi raggiungono cifre di vendita che rivaleggiano con quelle dei più notevoli autori di prosa, nonostante in un’occasione Szymborska abbia ironicamente osservato, nella poesia intitolata Ad alcuni piace la poesia (Niektorzy lubią poezje), che la poesia piace a non più di due persone su mille.
Szymborska utilizza espedienti retorici quali l’ironia, il paradosso, la contraddizione e la litote, per illustrare i temi filosofici e le ossessioni sottostanti. Szymborska è una miniaturista, le cui poesie compatte spesso evocano ampi enigmi esistenziali. Benché molte delle sue poesie siano lunghe una pagina appena, esse toccano spesso argomenti di respiro etico che riflettono sulla condizione delle persone, sia come individui che come membri della società umana. Lo stile di Szymborska si caratterizza per l’introspezione intellettuale, l’arguzia e la succinta ed elegante scelta delle parole.
BIOGRAFIA
Nel 1931 Szymborska si trasferì con la famiglia a Cracovia, città alla quale è stata sempre legata: vi ha studiato, vi ha lavorato e vi ha sempre soggiornato, da allora fino a tutt’oggi. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939, continuò gli studi liceali sotto l’occupazione tedesca, seguendo corsi clandestini e conseguendo il diploma nel 1941. A partire dal 1943, lavorò come dipendente delle ferrovie e riuscì a evitare la deportazione in Germania come lavoratrice forzata. In questo periodo cominciò la sua carriera di artista, con delle illustrazioni per un libro di testo in lingua inglese. Cominciò inoltre a scrivere storie e, occasionalmente, poesie.
Sempre a Cracovia, Szymborska cominciò nel 1945 a seguire in un primo momento i corsi di letteratura polacca, per poi passare a quelli di sociologia, presso l’Università Jagellonica, senza però riuscire a terminare gli studi: nel 1948 fu costretta ad abbandonarli a causa delle sue scarse possibilità economiche. Ben presto venne coinvolta nel locale ambiente letterario, dove incontrò Czesław Miłosz, che la influenzò profondamente.
Nel 1948 sposò Adam Włodek, dal quale divorziò nel 1954. In quel periodo, lavorava come segretaria per una rivista didattica bisettimanale e come illustratrice di libri. In seguito si sposò con lo scrittore e poeta Kornel Filipowicz, che morì nel 1990.
La sua prima poesia, Szukam słowa (Cerco una parola), fu pubblicata nel marzo 1945 sul quotidiano «Dziennik Polski». Le sue poesie furono pubblicate con continuità su vari giornali e periodici per parecchi anni; la prima raccolta Dlatego żyjemy (Per questo viviamo) venne pubblicata molto più tardi, nel 1952, quando la poetessa aveva 29 anni.
In effetti, negli anni ’40 la pubblicazione di un suo primo volume venne rifiutata per motivi ideologici: il libro, che avrebbe dovuto essere pubblicato nel 1949, non superò la censura in quanto «non possedeva i requisiti socialisti». Ciò nonostante, come molti altri intellettuali della Polonia post-bellica, nella prima fase della sua carriera Szymborska rimase fedele all’ideologia ufficiale della PRL: sottoscrisse petizioni politiche ed elogiò Stalin, Lenin e il realismo socialista. Anche la poetessa-Szymborska cercò in seguito di adattarsi al realismo socialista: il primo volume di poesie del 1952 contiene infatti testi dai titoli come Lenin oppure Młodzieży budującej Nową Hutę (For the Youth that builds Nowa Huta), che parla della costruzione di una città industriale stalinista nei pressi di Cracovia. Aderì anche al PZPR (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza, «partito operaio unito polacco»), del quale fu membro fino al 1960.
Tuttavia, in seguito la poetessa prese nettamente le distanze da questo «peccato di gioventù», come da lei stesso definito, al quale è da ascrivere anche la seguente raccolta Pytania zadawane sobie (Domande poste a me stessa) del 1954. Anche se non si distaccò dal partito fino al 1960, cominciò ben prima a instaurare contatti con dissidenti. Oggi Szymborska ha preso le distanze dai suoi primi due volumi di poesie.
Dal 1953 al 1966 fu redattrice del settimanale letterario di Cracovia «Życie Literackie» («Vita letteraria»), al quale ha collaborato come esterna fino al 1981. Sulle pagine di questa pubblicazione è apparsa la serie di saggi Lektury nadobowiązkowe (Letture facoltative), che sono state successivamente pubblicate, a più riprese, in volume.
Nel 1957 fece amicizia con Jerzy Giedroyc, editore dell’influente giornale degli emigranti polacchi «Kultura», pubblicato a Parigi, al quale contribuì anche lei.
Il successo letterario arrivò con la terza raccolta poetica, Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti), del 1957.
Dal 1981 al 1983, fu redattrice del mensile di Cracovia «Pismo». Negli anni ’80 intensificò le sue attività oppositive, collaborando al periodico samizdat «Arka» con lo pseudonimo «Stanczykówna» e a «Kultura». Si impegnò per il sindacato clandestino Solidarność.
Dal 1993 pubblica recensioni sul supplemento letterario del «Gazeta Wyborcza», importante quotidiano polacco.
Risiede tuttora a Cracovia.
Nel 1996 è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura «per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà».
Ha anche tradotto dal francese al polacco alcune opere del poeta barocco francese Théodore Agrippa d’Aubigné.
Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Pietro Marchesani ha tradotto la maggior parte delle sue raccolte poetiche in italiano; Karl Dedecius ha diffuso le sue poesie in tedesco; il Premio Nobel Czesław Miłosz ha tradotto vari testi in inglese, seguito poi da Joanna Maria Trzeciak e dalla coppia di traduttori Stanislaw Baranczak e Clare Cavanagh.
La sua più recente raccolta poetica, Dwukropek (Due punti), apparsa in Polonia il 2 novembre 2005, ha riscosso uno strepitoso successo, vendendo oltre quarantamila copie in meno di due mesi.
Szymborska preferisce usare il verso libero nelle sue poesie. Le sue opere sono contraddistinte, dal punto di vista linguistico, da una grande semplicità. Il celebre critico tedesco Marcel Reich-Ranicki ha affermato: «È la poetessa più rappresentativa della sua nazione, la cui poesia lirica, ironica e profonda, tende verso la poesia lirica filosofica».”
Fonte: Wikipedia
it.wikipedia.org/wiki/Wisława_Szymborska
“Dottore, emendator, lascia, mi disse,
I propri affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età, volta ai severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar che ti val? Materia al canto
Non cercar dentro te.”
Nessuno potrebbe sospettare che l’autore di questi versi è niente meno che Giacomo Leopardi, che con l’ironia propria di tanta sua poesia, tristemente vedeva affacciarsi nel suo secolo la predominanza e l’aridità di certi “economici studi” e l’inutilità del valore della poesia e dell’introspezione presso i contemporanei ed i posteri. Altrove, (questi versi fanno parte della Palinodia al Marchese Gino Capponi) e precisamente nel Risorgimento, dirà:
“(so) Che ignora il tristo secolo
Gl’ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L’ignuda gloria ancor.”
Ebbene, se Leopardi fosse vivo, ora, e avesse letto il libro “Nulla due volte” avrebbe trovato una compiaciuta smentita del suo pensiero.
Avrebbe letto i versi profondissimi del nobel Wislawa Szymborska e vedendo che si possono ricavare principi manageriali dai versi, e notando l’impegno degli autori del libro a riproporre anche nell’era moderna i valori intramontabili della convivialità e degli studi letterari, avrebbe solo potuto gioirne.
Per questo consiglio a Sergio Sozi non solo di leggere il libro, ma anche di comperarlo: io l’ho studiato e ne sono rimasta incredibilmente sedotta.
È un mattone prezioso per la storia del pensiero; prezioso quanto la volontà degli autori di far permeare negli ambiti più rigorosi e “scientifici” del mondo attuale e del contesto professionale e dirigenziale di oggi , quell’inesauribile bellezza e profondità che solo la letteratura ci sa dare.
Elisa Zanola
Anche a me l ‘ accoppiata poesia/ menagement fà arricciare il naso. Prima di tutto per le sorti della poesia che rischia di essere strozzata da un abbraccio così improbabile
e poi perché penso alle molte vittime che il memagement neoliberista
produce, ahimé, in quantità industriale. Una brutta parola , usata per restare in tema.
Ciao a tutti. Franca.
A me invece l’accostamento piace. Sono a favore delle contaminazioni costruttive. Tanto per fare un esempio amo il postmoderno (brutta parola, lo so).
Il progetto mi pare originale.
Per Franca Maria Bagnoli.
Forse è vero che il management neoliberista
produce vittime in quantità industriale, ma (forse) è anche vero che un “management umanistico”, dunque più vicino all’uomo che al mero capitale, può essere anche più… “umano”.
devo dire che è un libro che incuriosisce questo, o meglio: da un lato spiazza, dall’altro cattura. non saprei che altro dire. mi piacerebbe saperne di più, se possibile. ad esempio, c’è qualche obbiettivo particolare che si prefigge il libro? è un esperimento fine a se stesso?
a Cicerone 1:
grazie per la correzione. Mi scuso per l’ignoranza (l’ho fatta grossa, pero’ non ho il dono dell’onniscenza).
Sergio Sozi
Alla sig.ra Elisa Zanola:
leggerLa e’ un piacere! Seguiro’ il suo consiglio. Saluti Cari.
Sergio Sozi
Per anni incatenata, ho vissuto da prigioniera nell’illusione di un mondo lavorativo standardizzato nel quale ci si riduce a “comunicare”attraverso codici binari, in cui si ha la presunzione della razionalità completamente oggettiva e misurabile. Una realtà produttiva di sistemi intelligenti per governare la complessità. Una cultura tecnoscientista in cui persona e numero sono considerate entità indistinguibili. Un mondo diretto e dominato dallo scientific manager. Di tanti scientific manager ho intravisto le ambiguità, l’approssimazione, la presunzione, il baccano e la fretta. Incappata nell’aporia, ho assaporato la libertà dell’invisibile sabotaggio. Toltemi le catene e costretta ad uscire, dopo il dolore e il dubbio, ho iniziato a volgere lo sguardo e cercare concretezza nei sogni dell’ humanistic manager. Per queste ragioni, continuando con la metafora platonica, consiglio la lettura di “Nulla due volte” a tutti gli altri prigionieri che, come me, potranno così maturare la consapevolezza dell’ opportunità di un humanistic management e assaporare la poesia che riesce a dare senso ad ogni momento dell’esistenza, compreso il tempo trascorso in azienda. Non temete la commistione.
grazie a tutti per le risposte e per l’apprezzamento nei miei confronti. volevo spezzare una lancia a favore dell’utopia: se essa è un ideale mai realizzabile, è tuttavia l’orizzonte massimo di attese di una cultura e di una civiltà. Essa, perciò, anche nella lontananza della sua irrealizzabilità,ha la funzione di ampliare le mete e di dirigerle verso un fine che sia il migliore possibile. Pertanto non scandalizzatevi del carattere a prima vista idealizzato di questa materia, ma accogliete la proposta nel senso che sopra vi ho indicato. grazie. a presto
scusate, l’autore del post precedente sono io, Elio. ho omesso di mettere la firma. scusatemi.
Ammetto di non conoscere Wislawa Szymborska, però sono curiosa di sapere perché sono stati scelti proprio versi di questa poetessa per compiere questo accostamento tra poesia e mondo manageriale. C’è un motivo specifico?
@ Elio Distefano:
caro Elio, devo confessare (lo scrivo pubblicamente) che questa tua recensione mi ha un po’ sorpreso. Quando tempo fa ti chiesi di recensire “Nulla due volte” sarei stato pronto a scommettere sull’ipotesi di un’analisi negativa da parte tua (so bene quanto i versi siano importanti sia per l’Elio poeta, che per l’Elio docente di letteratura). Avrei scommesso su una posizione, come dire, un po’ “integralista” (parola orrenda). E invece mi hai sorpreso dando prova di grandissima apertura (mica da tutti) e confermando le mie impressioni positive su “Nulla due volte”.
P.S. Ne approfitto per i ringraziare tutti gli intervenuti per i loro preziosi commenti (e, naturalmente, attendo “segnali” da parte degli autori).
P.P.S. Qui a Catania c’è un caldo infernale.
Per Rosa Fazzi:
la scelta è caduta sulla Szymborska perchè usa l’ironia come metodo , e questo contribuisce a rendere lieve e non seriosa la materia.
Per Massimo:
non ho una concezione estetizzante o crociana dell’arte. Due anni fa, recensendo una ricerca di Tiziano Salari sul ruolo della poesia oggi, mi dichiaravo dalla parte di coloro che riconoscono a quest’arte la capacità di sostituirsi alla filosofia in un’epoca che ha perso le certezze e i punti di riferimento forti. Se la poesia può essere mezzo per spiegare l’uomo perchè non deve esserlo per aiutare ad organizzare il suo mondo di relazioni?
qualche articolo fa scrivevate che la poesia non si vende. davvero coraggioso scheiwiller a puntare su un libro di poesia applicata al management (o viceversa, non ho ben capito)
Credo che un buon modo per me di intervenire nel dibattito sia fornire ai lettori della recensione (che evidentemente non sta a me commentare) il quadro concettuale in cui si pone la realizzazione del volume Nulla due volte, ultima tappa (per il momento) di un percorso che è iniziato una quindicina di anni fa. Ecco qui la storia, che per semplicità narro in terza persona.
Nella prima metà degli anni Novanta, Marco Minghetti (laureatosi in filosofia nel 1987 con una tesi sulla Utopia politico-letteraria nell’Età della Controriforma – Le città ideali da Tommaso Moro a Tommaso Campanella) pubblica una serie di saggi che descrive l’avvento di un “nuovo dominio manageriale in cui confluiscono, connettendosi e modificandosi reciprocamente, discipline un tempo separate.” Tuttavia, scrive nel 1993 su Mondo Economico, “il determinarsi del nuovo dominio manageriale è possibile solo all’interno dell’organizzazione d’impresa che adesso si sta affermando e, allo stesso tempo, esso è necessario per il corretto funzionamento di questo nuovo modello organizzativo. La nuova organizzazione cui mi riferisco si caratterizza per essere “piatta”, rapida, interfunzionale, reticolare. In una parola, l’organizzazione comunemente definita “post-tayloristica”, basata quindi non sulla massima divisione possibile del lavoro, ma sul principio opposto, vale a dire la massima compattazione possibile del lavoro e sulla riduzione delle entità non strettamente necessarie. Per questo motivo, l’organizzazione post-tayloristica può essere definita anche “organizzazione occamista”. Al filosofo Guglielmo d’Occam (1300-1347) si fa infatti risalire la famosa frase “entia non sunt moltiplicanda sine necessitate” (le entità non devono essere moltiplicate oltre quanto è strettamente necessario). E’ il “rasoio di Occam” che gli stessi storici della filosofia chiamano “principio di economia”. E’ chiaro allora che se l’organizzazione tayloristica è caratterizzata da un moto centrifugo, che tende a distinguere e moltiplicare gli specialismi, nell’organizzazione occamista tutte le discipline manageriali sono soggette ad un processo centripeto, per il quale esse sono attratte le une verso le altre. La massima compattazione del lavoro genera quindi una tendenziale interdisciplinarietà e quello che abbiamo definito un nuovo dominio manageriale.”
Nel 1995 Marco Minghetti dà vita a Biblioteca Agip, una collana di libri che Agip realizza in coedizione con Sperling & Kupfer e Jaca Book. Con il primo editore la collana pubblica libri di carattere manageriale, con il secondo opere letterarie dei Paesi in cui Agip (oggi Divisione Exploration & Production di ENI) opera. La Biblioteca Agip vive due anni e rappresenta il primo tentativo nato in ambito imprenditoriale di rinnovare la pionieristica esperienza delle Edizioni Comunità di Olivetti, di con-fondere autori specialisti in management con poeti e romanzieri di tutto il mondo, di sperimentare quella “conversazione permanente tra passione e ragione che deve andare insieme alla ricerca di quanto vi è di buono nelle altre civiltà”, posta ancora recentissimamente da Edgar Morin come priorità etica se si vuole guardare con serenità al futuro. Una decina i titoli pubblicati, tutti di altissimo livello, fra cui la raccolta di poesie Attento, Soul Brother, che fece conoscere in Italia lo scrittore nigeriano Chinua Achebe, e il volume vincitore del Pulitzer Il premio, di Daniel Yergin. In questo quadro, Minghetti firma Le cose e le parole, libro-inchiesta su prassi e strumenti per lo sviluppo della cultura d’impresa in 20 multinazionali (coautore Giorgio Del Mare) e cura il volume miscellaneo La metamorfosi manageriale: due testi nei quali si individuano alcuni concetti (ad esempio quello di “personigramma” e di “impresa circense”) che in seguito diverranno centrali nell’elaborazione dei principi dello humanistic management.
Nel 1997, Marco Minghetti fonda Hamlet, la rivista AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) che sovverte i canoni tradizionali della letteratura manageriale, avviando concretamente il dialogo fra uomini d’azienda ed esperti delle più diverse discipline umanistiche e scientifiche. In sette anni di attività saranno moltissime le firme illustri che parteciperanno, sistematicamente od occasionalmente, all’iniziativa. Fra i “padri fondatori” di Hamlet si annoverano Giampaolo Azzoni, Enrico Bertolino, Francesco Bogliari, Franco D’Egidio, Walter Passerini, Piero Trupia, Luca Varvelli, con molti dei quali Minghetti aveva realizzato precedentemente importanti iniziative di formazione e comunicazione in Agip. Si aggiungeranno ben presto altri importanti collaboratori fissi come Paolo Costa, Corrado Ocone e Pierfranco Pellizzetti.
Così Piero Trupia ha descritto l’esperienza Hamlet, nel capitolo intitolato A beautiful network, del suo Cento Talleri di verità : “Se la malattia sociale del nostro tempo è la difficoltà di creare e mantenere relazioni stabili, produttive, conviviali, Marco Minghetti è il medico senza frontiere di questa malattia. L’ho conosciuto a metà degli anni Novanta per interposta persona, della quale ho perso poi le tracce. Marco stava mettendo insieme una community di esperti e cultori nel campo della gestione delle risorse umane e dell’organizzazione aziendale. Disponendo di potere di convocazione ante litteram, trovò il numero sufficiente di persone, una dozzina, e le costituì in comunità fattuale e virtuale allo stesso tempo. La comunità viveva in rete, senza escludere qualche contatto personale soprattutto attraverso l’animatore della community, lo stesso Marco. Il progetto era di creare una rivista bimensile dal titolo Hamlet-Bimestrale di riflessione sui paradossi del nostro tempo, editore AIDP (Associazione Italiana Direttori del Personale), campo d’intervento le problematiche del post-industriale.
Il titolo Hamlet era giustificato dall’ipotesi, formulata da Marco, che nella sua opera William Shakespeare avesse configurato una grandiosa epitome di tutte le possibili vicende degli uomini in azione. La progettualità che si scontra con lo stato delle cose, la volontà prometeica ostacolata, più che da altre volontà, dalla solida, collosa, meschina routine, un’attorialità ampia, drammaticamente ostacolata, fino alla paralisi, da una soggettività angusta. Marco, non soltanto ha creato la community, ma l’ha tenuta in vita con quattro mosse vincenti. Il referente Shakespeare; il carattere tematico di ogni numero, configurato come una alternativa, ad esempio Cloni o mutanti? (novembre 2000); non un orientamento ma una semplice ispirazione ai contributori di ogni numero, attraverso un lungo editoriale di suo pugno e fatto circolare in anticipo. Nessun intervento censorio o correttivo, né della direzione né dell’editore.
Hamlet è rimasta in vita sette anni, dal marzo 1997 al luglio 2003. Ha fatto tendenza, ha influito sull’evoluzione della cultura delle risorse umane e dell’organizzazione aziendale. Per me è stato un grande laboratorio dove ho sperimentato almeno quattro idee innovative:convocazione, personigramma; genius loci; impresa conviviale.”
Nel 2002, Etas pubblica il volume di Minghetti L’impresa shakespeariana, “romanzo manageriale a colori”, illustrato da Milo Manara (autore delle copertine originali di Hamlet), che sintetizza l’esperienza realizzata. Con traduzione inglese a fronte, l’opera è scelta come testo istituzionale del Convegno EAPM (European Association for Personnel Management) tenutosi nel giugno del 2003 e viene diffusa in 25 Paesi.
Dopo averne firmato 39 numeri, Minghetti lascia quindi la conduzione di Hamlet per creare Personae, rivista Eni di cui assume la direzione e con cui approfondisce l’applicazione di criteri editoriali ispirati da metadisciplinarietà, multiculturalità, riflessione etica abbinata a una originale ricerca estetica, ogni numero essendo realizzato graficamente da un diverso artista di fama internazionale. Sul piano dei contenuti, collaboratori fissi della rivista, fra gli altri, sono Giampaolo Azzoni, Piero Trupia, Francesco Varanini e Pino Varchetta. In questo periodo si approfondisce inoltre la collaborazione fra Minghetti e Bertolino, che porterà i due a realizzare anche negli anni successivi una serie di performance in contesti quali il seminario manageriale di Ravello, il Festival della Mente di Sarzana, gli incontri annuali dell’Associazione VeDrò.
Nel 2004, Marco Minghetti, coadiuvato da Fabiana Cutrano, invita quindici personalità rappresentative di diversi ambiti manageriali, accademici ed artistici (da Domenico De Masi ad Enzo Rullani, oltre ai principali artefici dell’esperienza Hamlet) a riflettere sulle nuove frontiere della cultura d’impresa che Hamlet ha tracciato e Personae sta in quel momento esplorando nel contesto della maggiore multinazionale italiana, l’ENI: ne scaturisce il Manifesto dello humanistic management (ETAS), fondato sulla grande tradizione dell’Umanesimo europeo. I suoi tratti essenziali possono essere rintracciati nell’accorta combinazione tra razionalità ed emotività, nell’equilibrio fra morale individuale ed etica collettiva, nella cura di ciascuno verso il proprio autosviluppo e verso gli altri e, soprattutto, nella metadisciplinarietà. Lo strumento principale di cui si avvale è infatti l’apertura verso ambiti che l’impresa ha sempre considerato a sé estranei – la filosofia, la poesia, il cinema, il teatro – ma anche alle nuove frontiere dischiuse dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dal networking multimediale, dalla business television.
Il libro suscita dibattiti e riflessioni nei settori più diversi. Ad esempio, la relazione introduttiva del Convegno APQ svoltosi a Firenze nel maggio 2005 si apre con le seguenti parole: “ Il recente libro Le nuove frontiere della cultura d’impresa che contiene il Manifesto dello Humanistic management, rileva che: >. Come abbiamo dimostrato nel progetto formativo La valutazione del capitale intellettuale esso diventa indispensabile alimentatore del valore aggiunto. Si passa alla fabbrica delle idee, che >, cosi si legge nel citato Manifesto dello Humanistic management, > E ancora troviamo il tema della creatività, così come è affrontato nel Manifesto, al centro di uno studio Nomisma sulla Cultura come fattore strategico per le imprese. “L’elemento che permette di coniugare in modo virtuoso gli aspetti culturali ed artistici con quelli imprenditoriali attraverso un percorso continuativo è la creatività.” – scrive l’autrice Barbara Da Rin – “Tale fattore può essere inteso come un processo di ristrutturazione immediata del campo conoscitivo, da cui possono scaturire nuove connessioni, nuove idee, che se utili, vengono sviluppate all’interno dei processi aziendali come innovazione delle modalità produttive. In tal modo la creatività può essere considerata un fattore fondamentale nel processo di ideazione e progettazione delle attività di impresa con la possibilità di creare un vantaggio competitivo rispetto alle altre realtà. In questo caso ci troviamo all’interno di quello “humanistic management”, descritto da Minghetti, che intende ampliare nuovi orizzonti di significati possibili rispetto agli attuali, agevolando la ricerca di una via originale alla percezione e alla conoscenza, scelta tra le molteplici vie percorribili attraverso le diverse creatività (intendendo con essa la creatività delle diverse discipline). Non si vuole però considerare la teoria “humanistic management” come un mero atteggiamento umanistico inteso in senso estetico (ad esempio l’abbellimento di ambienti con quadri d’autore), oppure un modo per umanizzare i metodi le strategie e le modalità relazionali. Piuttosto si vuole porre l’attenzione su una gestione umanistica protesa a concepire l’attività di direzione aziendale come progettualità e monitoraggio culturale continuo, attribuendo al management anche una funzione etica. Per ottenere questo obiettivo occorre allora non solo lavorare sull’interdisciplinarietà ma far interagire con i tradizionali saperi manageriali la cultura, quindi la letteratura, il teatro, la filosofia, la musica (etc) in un modo sistemico e continuo.”
Sono solo esempi: nel corso del 2005, l’approfondimento dei temi legati allo humanistic management è portato avanti attraverso una serie di iniziative articolate: rubriche e inchieste speciali realizzate per le riviste L’Impresa, diretta da Francesco Bogliari, e Persone e conoscenze di Francesco Varanini; il primo Simposio sullo humanistic management organizzato presso l’Università La Sapienza di Roma; l’apertura, grazie a Paolo Costa, di un sito dedicato (www.humanisticmanagement.it); l’inserimento nel catalogo Etas di una sezione “Humanistic Management”, in cui si raccolgono volumi che si ispirano ai suoi principi; seminari e incontri sul tema presso le Università di Milano, Bergamo e Roma.
Nel 2006, con l’uscita del volume Nulla due volte. Il management attraverso la poesia di Wisława Szymborska (edizioni Scheiwiller), compie un deciso passo in avanti la ricerca di modalità innovative ed interdisciplinari di interpretare l’impresa. Il volume è costituito da una scelta di venticinque poesie della poetessa polacca premio Nobel, suddivise in cinque capitoli, ciascuno dedicato ad un tema fondamentale per la comprensione delle aziende attuali: la definizione dell’identità individuale e di gruppo; la costruzione delle relazioni interpersonali; la selezione delle competenze necessarie a produrre innovazione; la gestione delle diversità e quindi dei talenti; il processo di produzione di significato nelle organizzazioni, per il quale Karl Weick ha coniato il termine sensemaking. Ciascuna poesia è accompagnata da una foto (di Fabiana Cutrano) e da un “percorso di senso” firmato da Marco Minghetti. Ognuno dei venticinque percorsi è arricchito dai contributi di personalità che operano con ruoli di primo piano in campi diversissimi (dalla politica alla cinematografia, dalla filosofia alla musica) alternati a quelli di dirigenti ed imprenditori.
Nello stesso anno, Minghetti cura per Etas la traduzione italiana di The Medici Effect, il bestseller americano di Frans Johansson (Università di Harvard) sulle nuove forme di creatività aziendale, le cui radici sono individuate nelle pratiche interdisciplinari della Corte rinascimentale medicea. Con Cutrano, introduce il volume ETAS Televisione e teatro in azienda di Andrea Notarnicola, che sviluppa in questo testo il capitolo, da lui firmato, contenuto nel Manifesto dello humanistic management, e pubblica per Guerini il saggio Dalla prescrizione alla narrazione, che viene inserito da Vodafone in un volume miscellaneo dedicato alle pratiche più innovative di gestione, formazione e sviluppo del personale. L’Università di Pavia, infine, per iniziativa di Giampaolo Azzoni istituisce la prima cattedra italiana formalmente intitolata “Humanistic Management”, che viene affidata a Marco Minghetti.
E questo è tutto. Altri dettagli si trovano al sito http://www.humanisticmanagement.it. Aggiungo solo che al momento la squadra dello humanistic management sta lavorando ad un progetto di scrittura collettiva ispirata alla Città Invisibilidi Calvino. Ma questa è un’altra storia…
@ prof. Marco Minghetti.
Grazie molte per l’intervento esaustivo e sinceri complimenti per le molteplici attività letterario/manageriali portate avanti nell’arco di questi quindici anni.
Per tutti:
il post è ancora aperto. Continuate a scrivere e a lasciare le vostre impressioni. Magari alla luce di quanto specificato dal prof. Minghetti.